Serie TV > Chicago Fire
Ricorda la storia  |      
Autore: Rowena Ollivander    13/07/2023    0 recensioni
Era tutto sbagliato. Lei non avrebbe dovuto trovarsi lì e allo stesso tempo avrebbe voluto essere da sola su quel prato. Per poter piangere liberamente, gettarsi in ginocchio sulla sua tomba e gridare tutto il dolore che le stava esplodendo nel petto.
Una Hawkami per chi li ha amati e li ama ancora.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
TheCentreOfTheUniverse Era molto tempo che questa storia pretendeva di venire fuori in qualche modo. E io mi sono rifiutata per molto tempo di lasciarla uscire. Poi una sera, guardando l’episodio 19x13 di NCIS, il discorso che Jimmy Palmer fa a sua figlia, che è tendenzialmente quello che trovate in corsivo all’inizio, mi ha colpito. Mi ha fatto pensare a Evan subito, senza che me ne accorgessi veramente. E mi ha costretto in qualche modo a dar voce a quello che avevo dentro.
Non so come reagirete voi. Io stavo così male scrivendo che ho pianto in continuazione.

Questa volta non vi posso dire con quale canzone ho scritto principalmente, è un segreto che custodisco.
Però posso dirvi che mi hanno aiutato molto musiche di Tow’rs (soprattutto “December” e “Vanilla Pines”) e Thomas Day (in particolare “Not my job anymore” e “Softly”) fra gli altri.




The center of the universe




Evan diceva sempre che tutti muoiono, perciò non è importante come si muore, ma come si vive.
Ci sono persone che vivono la loro vita aiutando gli altri. Queste persone sono dappertutto e lottano per il bene. Alcune le conosciamo già, altre le dobbiamo ancora incontrare, ma hanno in comune una cosa: fanno sempre del loro meglio per migliorare questo mondo. Evan era uno di loro. Aiutare gli altri richiede grande impegno, ma ne vale la pena. Aiutare le persone è complicato, comporta anche delle scelte difficili e lui lo sapeva. Ma è grazie alle difficoltà che capiamo cos’è importante. È questo quello che conta, non come moriamo, ma come viviamo.
Sapeva che molti si aspettavano che anche lei dicesse qualcosa, ma sembrava aver dimenticato persino come respirare.
L’immagine del fratello di Evan che riusciva a stento a finire il discorso che si era preparato, prima di scoppiare a piangere fra le braccia della fidanzata, le aveva tolto ogni forza che le era rimasta. Tutto intorno a lei era sfuocato, i suoni giungevano ovattati alle sue orecchie. Per quanto si rendesse a stento conto della sua presenza accanto a lei, avrebbe potuto giurare che se Sylvie l’avesse lasciata andare, si sarebbe accasciata al suolo senza opporre resistenza.
Era tutto sbagliato. Lei non avrebbe dovuto trovarsi lì e allo stesso tempo avrebbe voluto essere da sola su quel prato. Per poter piangere liberamente, gettarsi in ginocchio sulla sua tomba e gridare tutto il dolore che le stava esplodendo nel petto. Ma così non poteva farlo. Non aveva nessun diritto di soffrire così tanto. Non per una persona che conosceva da meno di un anno, non con tutta la sua famiglia di fronte a lei. Non davanti ai suoi genitori, che avevano perso un figlio a soli trent’anni, non davanti a un fratello minore che aveva appena perso il punto di riferimento che aveva avuto per tutta la vita.
No.
Si sentiva una ladra. Stava usurpando un dolore che non aveva nessun diritto di provare.
Quando in ospedale l’avevano avvicinata per chiedere se avrebbe pensato lei ad avvisare la famiglia, non aveva saputo cosa rispondere. Non sapeva nemmeno di essere diventata il suo contatto d’emergenza. Ma non aveva mai incontrato la famiglia di Evan, non sapeva neppure dove vivessero; sapeva solo che aveva un fratello minore.
Ancora non sapeva chi fosse stato a dar loro il suo numero di cellulare e quando il pomeriggio successivo aveva ricevuto la telefonata di sua madre, la prima reazione era stata di paura. Cosa avrebbe mai potuto dire? Lui aveva mai parlato di lei nelle loro telefonate settimanali? O era ancora troppo presto per renderlo pubblico in famiglia? Non lo sapeva. Un’altra cosa di cui non avevano mai parlato e di cui non avrebbero mai parlato.
E ora? Le avrebbero detto che doveva andarsene?
Era stato surreale.
Non c’erano state parole di cordoglio o consolazione, solo respiri pesanti e singhiozzi strozzati, inframmezzati da una semplice frase. - Resta tutto il tempo di cui hai bisogno. -
Era riuscita appena a riagganciare prima di abbandonare il telefono sul letto e scoppiare in lacrime
Perché Violet non era mai tornata a casa propria dopo quella notte al Pickwick.
Quando si erano rimessi insieme lui aveva insistito perché lei avesse le chiavi del suo appartamento, perché era lì che passavano la maggior parte del tempo. E lì lei era tornata. Subito.
Dopo che l’avevano tirato fuori da sotto le macerie. Dopo che aveva provato a rianimarlo quando tutti intorno a lei avevano già capito. Dopo tutte le grida e la rabbia perché nessuno stava facendo nulla, non la stavano aiutando.
Perché la stavano abbandonando.
Perché lui l’aveva già abbandonata.
Perché non avevano avuto neanche uno sguardo per dirsi addio.
Perché l’ultima volta che si erano parlati era stato poco meno di dieci ore prima.
E lui le aveva detto ti amo, anche se non erano soli.
Ed era stata la prima volta.
Era tornata nell’appartamento di Evan e si era abbandonata sul letto. Dopo che l’avevano costretta ad andare via dall’ospedale. Dopo aver passato quelle che erano sembrate delle ore a piangere stringendo le sue mani che si facevano sempre più terribilmente fredde ogni istante che passava.
Aveva trovato la maglietta con cui aveva dormito quella notte ancora accanto a lei, l’aveva infilata e non l’aveva più tolta. Fino a quella mattina, quando Sylvie, Blake e Darren erano andati a prenderla, quasi di peso, per andare al cimitero. Nemmeno lei sapeva dove aveva trovato la forza di alzarsi e vestirsi. Nei giorni precedenti aveva mangiato solo quando Brett o Stella si erano presentate e avevano preteso di vederle ingerire qualcosa.
Non voleva andare avanti e non capiva come il mondo intorno a lei potesse.
Aveva passato ore intere fra le lenzuola, circondata dal suo profumo, terrorizzata all’idea che anche quello sarebbe sparito presto e non lo avrebbe sentito mai più.
Lo cercava in ogni più piccola cosa che le stava intorno e cercava di imprimersi nell’anima tutto ciò che di lui non aveva ancora scoperto. Fu così che si era ritrovata a esplorare il suo appartamento con delicatezza, poco alla volta, in quei momenti in cui riusciva a stare in piedi. Era così che aveva aperto il cassetto del suo comodino.
Fu così che fra il caricabatterie, gli auricolari e ciò che già conosceva, perché lei stessa aveva aperto quel cassetto decine di volte, aveva visto qualcosa di nuovo. Era così che l’aveva trovata.
Aveva capito subito che non avrebbe dovuto farlo, non avrebbe dovuto aprire la piccola scatola che si stava rigirando fra le mani e che appena quattro giorni prima non era lì.
Ma lo fece lo stesso.
E qualcosa dentro di lei morì. L’ultima parte di lei che era rimasta.
Il fiato le si bloccò in gola, quasi strozzandola. Non riusciva più a respirare, solo a fissare l’anello davanti a sé.
Pensò a tutto ciò che si erano detti, a cosa non si sarebbero mai detti, a tutto quello che sarebbe potuto e non sarebbe mai stato. A quanta vita avevano perso.
Tutto per colpa sua.
Era stato troppo altruista, aveva deciso di mettere gli altri davanti a sé.
Tutto per colpa sua.
Che rispettava sempre le regole, ma quella volta non lo aveva fatto.
Colpa sua. Perché se ne era andato e l’aveva lasciata sola con tutto quel peso.
Perché lui la amava per come era. E lei lo amava per come era.
E ora era tutto finito.
Violet era tanto concentrata sul soffocare il proprio dolore, che non si rese nemmeno conto quando la madre di Evan si avvicinò a lei, una volta finita la funzione. Le aveva accarezzato il viso, sorretta dal marito, e le aveva parlato, ma lei non era riuscita a reagire, lo sguardo vuoto di fronte a sé, ancora sulla bara e sulla rosa che aveva lasciato per lui a spiccare sui fiori bianchi.
Doveva fuggire da lì, scappare lontano miliardi di miglia oppure sarebbe scoppiata. E non poteva. Non doveva. Non spettava a lei soffrire.
Ma allora perché faceva così male? Perché quel buco nel petto sembrava non volersi rimarginare mai, ma non voleva nemmeno ucciderla, una volta per tutte? Il respiro si fece sempre più affannoso. Si accorse solo dalle voci intorno a sé che probabilmente c’era qualcosa che non andava. Che ironia, non sapeva mai riconoscere i sintomi di niente su sé stessa. Nemmeno ora che stava avendo un attacco di panico. Ma si sentiva così intorpidita dal dolore, che per un momento pensò che fosse di qualcun altro quella voce che gridava. Si accorse che era la sua solo quando il suo viso toccò l’erba bagnata, un istante prima di svenire.

Violet aprì di scatto gli occhi.
Ci mise qualche istante per capire dove si trovava, le mani ancora aggrappate al materasso, quasi avesse rischiato di precipitare se avesse mollato la presa. Poi la vista si abituò e lentamente iniziò a riconoscere i lineamenti della camera da letto e riprese a respirare.
Sentì il bisogno impellente di assicurarsi che era stato tutto solo un sogno, perciò si voltò lentamente verso sinistra per cercare la sagoma di Evan addormentato accanto a lei. Ma quel lato del letto era vuoto. Le lenzuola solo leggermente smosse e il cuscino leggermente infossato.
Non c’era segno che lui avesse dormito accanto a lei. Non quella notte.
Il cuore prese a batterle furiosamente nel petto, il respiro accelerò e lei si tirò a sedere di scatto. Tese le orecchie, in ascolto di un qualsiasi rumore che potesse rassicurarla sul fatto che in casa ci fosse effettivamente qualcun altro, ma nulla. Violet prese a respirare con la bocca aperta, in cerca di quell’aria che sentiva di non riuscire a inalare.
Non era possibile. Era stato solo un incubo, uno stupido, orribile, tremendamente reale e lungo incubo.
Poi si rese conto che stava indossando la sua maglietta dell’università, quella con cui lui dormiva di solito. E questo non sarebbe mai successo se...
- Evan?! - gridò senza pensarci un attimo.
Un giorno lo aveva preso in giro chiedendogli se l’aveva mai lavata quella maglietta, perché non c’era stata una volta che lei avesse dormito da lui senza che lui la indossasse. E quando una sera lei l’aveva messa al posto suo, lui gliel’aveva tolta. Certo non per rabbia e quello che era seguito era stato bellissimo, ma alla fine l’aveva indossata lui per dormire e a lei ne aveva data un’altra.
Nessuna risposta. Nessun rumore.
Il panico iniziò a serrarle la gola, una mano stretta al petto a stringere disperatamente quella maglietta come ad aggrapparsi, come se ne fosse dipesa la propria vita.
Era ancora seduta sul letto, il respiro faticoso e corto, a fissare un punto qualsiasi sulle lenzuola nel vano tentativo di recuperare un po’ di lucidità, la mente persa in un labirinto spaventoso di pensieri che le dicevano che lui era...
- EVAN!! -
I singhiozzi che avevano iniziato a scuoterla avevano preso il sopravvento su tutti gli altri sensi, perciò non si accorse dei passi nudi che correvano verso la camera da letto finché lui non comparì sulla soglia, le mani ai lati dell’ingresso, lo sguardo spaventato; indosso solo i pantaloni lunghi del pijama.
- Violet! -
Le si mozzò letteralmente il fiato quando lo vide. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma il pianto le strozzò le parole in gola e riuscì solo a fissarlo, continuando a piangere.
Evan, preoccupato, si sedette sul letto davanti a lei e la prese per le spalle.
- Ehi, ehi. Va tutto bene. Sono qui, sono qui. -
- Dov’eri?! - gli disse quasi rimproverandolo. - Perché... perché ho la tua maglietta? - riuscì a fatica a chiedergli fra un singhiozzo e l’altro.
Evan la guardò senza capire, ma il bisogno di risposte che leggeva nei suoi occhi terrorizzati lo convinse che era seria. - Mi sono alzato per bere. Eri... eri tutta sudata e ti stava venendo freddo... e io... -
Si era tolto la maglietta e l’aveva data a lei. Ora ricordava.
Ma comunque non riusciva a smettere di piangere.
- Vi, cosa... cos’è successo? - le disse accarezzandole i capelli; la spalla sinistra ancora limitata dalla fasciatura, che gli copriva anche la parte superiore del petto, fatta in ospedale.
Violet lo fissò per un istante, la bocca ancora aperta per respirare, nella mente una pioggia di ricordi di ciò che era realmente successo.
Perché il Pickwick era davvero andato a fuoco ed Evan si era precipitato a prestare soccorso a quell’uomo.
E il muro gli era crollato addosso.
Ma in qualche modo le macerie non li avevano schiacciati, non completamente. Le urla di Evan quando lo avevano tirato fuori, con la spalla distorta in modo innaturale e alcune costole rotte, le rimbombavano ancora nelle orecchie. Ricordava la corsa in ospedale, lui incosciente per l’antidolorifico, la prepotenza nei propri modi quando aveva preteso di restare con lui anche quando non avrebbe potuto e i gesti comprensivi ma fermi di Maggie quando l’aveva accompagnata fuori dalla stanza mentre i medici si accertavano che non ci fossero danni irreparabili ai polmoni o al cuore.
- Io... io... tu... - provò a spiegarsi lei, gli occhi pieni di lacrime.
Lui la tirò a sé e lei si aggrappò con tutta sé stessa. - Vi, son qui. È tutto a posto. Respira. -
Violet appoggiò l’orecchio sul suo petto, iniziando automaticamente a modellare il proprio respiro su quello di lui e lentamente riuscì a parlare.
- Ho sognato che eri morto, al Pickwick. Che nessuno mi aiutava a rianimarti, - cominciò, la voce ancora strozzata dai singhiozzi. - Non importava a nessuno. Ho sognato il tuo funerale, i tuoi genitori, tuo fratello. Io... era tutto così reale... -
Evan la strinse di più a sé e le appoggiò un bacio sulla testa. - Era solo un incubo, uno stupido incubo, - le sussurrò accarezzandole la schiena.
- E ho sognato che tenevi una scatola, nel cassetto del comodino, e dentro c’era un anello e io... -
- Uh-hu, - fece lui e Violet sentì i suoi muscoli tendersi leggermente.
Si staccò da lui per guardarlo negli occhi, asciugandosi le lacrime e tirando su col naso.
- Che c’è? - gli chiese confusa.
Lui si schiarì leggermente la gola. - Niente, niente, - le disse prendendole le mani. - Tu non... non hai controllato, giusto? - Il tono speranzoso, ma preoccupato.
Violet lo guardò confusa, sulle prime, senza capire. - No, no, io... - Poi un pensiero la colpì come una scarica. D’istinto si girò verso il comodino.
Lui la afferrò per un braccio.
- Ti prego, no. -
Non aveva la minima idea di come avrebbe reagito lei e ora temeva solo che sarebbe scappata a gambe levate. Era sempre stato chiaro che lei aveva bisogno di andarci piano, ma dopo il Pickwick lui aveva troppa paura. Paura di perdere tempo, di perdere lei senza prima averle detto tutto ciò che provava.
Violet incrociò il suo sguardo. - Tu stai..? -
- No. Sì, insomma, - arrendendosi all’evidenza, - perché devi essere sempre così intelligente? - sospirò.
Lei gli sorrise, ma lui la bloccò prima che potesse parlare.
- Possiamo aspettare un paio di giorni, per favore? - la supplicò, un sorriso imbarazzato sul viso.
- Evan Hawkins, tu... -
Lui le prese il viso fra le mani e la baciò. - Torniamo a dormire adesso? - le chiese.
Lei lo baciò a sua volta. - Certo. -
Con il sorriso sulle labbra, si rimisero entrambi sotto le coperte. Ma Violet si rialzò quasi subito.
- Dove vai? - le disse, mentre la osservava andare a scostare le tende che coprivano la grande finestra davanti al letto. Una Chicago ancora addormentata si aprì su di loro.
- Voglio vedere l’alba quando arriva, - gli rispose lei, tornando ad accoccolarsi contro il suo petto.
Poi alzò gli occhi per incrociare il suo sguardo.
- Ti amo. -
Lui si abbassò per baciarla ancora una volta. - Anch’io. -
Violet voleva vedere il sole sorgere. Perché anche quella sarebbe stata una splendida giornata.
Perché anche quella sarebbe stata una giornata accanto a Evan.

So many things that I'm afraid of
But right now I ain't scared of nothin'
('Cause all I know is)
(All I know is, all I-, all I-)
'Cause all I know it's 10:35
And I can feel your arms around me
Let 'em drown me
All I know it's 10:35
And I'm thanking, thanking God you found me
That you found me
10:35 - Tiesto & TateMcRae


The rightful end


Sapete qual è il guaio più grosso?
Io ho visto questa puntata a ottobre (poi ho smesso di guardare la serie) e non l’ho ancora superata.
E dentro di me c’è qualcosa che vuole uscire, qualcosa di terribile fino in fondo, qualcosa che porterebbe fuori tutte le mie emozioni. E ho paura che un giorno dovrò scrivere tutto questo.
Ma non voglio.
Non voglio.
Farlo, per me, vorrebbe dire accettare di andare avanti senza Evan e, francamente, non voglio. Nella serie tv possono pensare di fare quello che vogliono, rovinare personaggi e creare situazioni che non stanno né in cielo né in terra. Ma nel mio universo letterario, Evan deve essere vivo. Perché è giusto. Perché era perfetto.

E se non condividete, ignoratemi. Anche questo è giusto.
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Chicago Fire / Vai alla pagina dell'autore: Rowena Ollivander