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Autore: Marghe    26/05/2005    0 recensioni
è storico perchè in fondo è ambientato in un'epoca diversa dalla nostra, ma penso che avrei potuto metterlo più introspettivo che altro. Ma in fin dei conti "introspettivo" non è cinebrivido come "storico". u_u
NdAmministrazione: secondo il regolamento, l'introduzione deve contenere un accenno alla trama o una citazione significativa ripresa dalla storia. L'autore deve perciò provvedere a modificare questa introduzione (può contemporaneamente cancellare in autonomia questo messaggio)
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nell’acqua scura nella grandissima bocca profonda c’erano fili di sangue simili a stracci di seta

MASTICA.

 

 

Nell’acqua scura nella grandissima bocca profonda c’erano fili di sangue simili a stracci di seta. Il sangue sporcava anche la fiancata della Black Betty e si raggrumava fra le incrostazioni di salsedine sul legno ben levigato. Avevo un centinaio di bestie nere come l’inferno nella pancia liscia della Black Betty. Non potevo preoccuparmi di osservare cose simili, pensavo.

Avevamo appena buttato in mare una di quelle bestie da soma – perché nient’altro erano tutti loro. Con quelle facce tutte uguali e tutte mostruosamente brutte. Tutte con il naso grosso e schiacciato e gli occhi piccoli e assatanati e la bocca enorme che mi dava la sensazione che avrebbero potuto spalancarla e fagocitare tutto quanto, masticandola fra quei denti così bianchi.

Era un’epoca in cui sembravano già cose d’altri tempi e si continuava a fare il giro per il commercio delle bestie soltanto perché le piantagioni ne avevano ancora bisogno – e pagavano bene – ma io non mi stupivo per niente della reazione che avevano avuto i bianchi quando avevano incontrato i neri. Orrore, o magari terrore, come prima cosa. Era impossibile non capirli.

Quello che la grande bocca piena d’acqua blu e viola s’era mangiato era uno di quelli particolarmente scuri. Dico proprio di una sfumatura di marrone che rasenta il nero. Nero nerissimo. Aveva un bastone a dividergli il setto nasale, proprio un grosso spiedino. E un sacco di altri grossi pezzi di legno conficcati un po’ da tutti le parti, di quelli spiedini che si vedevano al Thanksgiving day con tanti pezzi di carne conficcati. Gli occhi praticamente non si vedevano, niente più che una fessura che mi pareva liquida. Nemmeno bianco puro, perché c’erano tanti di quei capillari ramificati intorno all’iride scura che mi sembrava un demonio assetato di sangue. Respirava a bocca aperta, o perché gli stenti lo avevano già sistemato o perché quella specie di spiedo nel naso gli bloccava la respirazione normale. Camminava con un’andatura felpata, che a me pareva storta. Un po’ come se una pantera – nera – si fosse messa a camminare a due zampe. Del resto non era niente di diverso da una pantera: era scuro, era un grande cacciatore, era un animale; non sapeva leggere né scrivere. Contava mettendo in fila i sassolini, suppongo, e il suo modo di esprimersi con le altre pantere non doveva essere migliore. Non so nemmeno dove lo avessero preso. Anche sapendo il nome del villaggio, presumendo che ne avesse uno, non che anche studiando tutta la geografia di tutto il mondo uno avrebbe potuto saperne qualcosa. Era solo un africano dall’Africa, o per meglio dire un negro dall’Africa; un po’ come dire, un rinoceronte dall’Africa, avorio dall’Africa, pelli di leopardo e di tigre dall’Africa.

Per tutto il tempo che i marinai facevano razzie in giro per il cosiddetto Continente Nero, io me ne stavo sulla nave a leggere libri e a guardare la costa bianca. La sabbia infatti era bianchissima, tanto per fare contrasto. Bianca come cioccolato al latte, con un po’ di nocciole. Dietro la costa i fiumi galoppavano sugli altipiani, fra le foreste gigantesche color dello smeraldo. E il cielo, era veramente un cielo purissimo. Un caldo pazzesco, naturalmente. E già pensavo che quella era proprio una bella colonia vacanze per gli occidentali.

Perfino il mare sembrava sudato. La solita bocca, che ora mi sembrava dormiente: stavo galleggiando su di essa insieme alla Black Betty, sul legno che mi avrebbe, forse, portato in America. La bocca era capace di mangiarsi qualsiasi cosa e quando eravamo in mare aperto era molto diversa da ora, quando eravamo ormeggiati vicino alla costa.

Naturalmente c’era sempre il rischio di incagliarsi da qualche parte. Ma quando eravamo in mare aperto, lì sapevi che galleggiavi su una costruzione di legno solida come cemento, ma che la bocca avrebbe potuto masticare quando voleva, e sotto magari avevi una fossa oceanica, profonda come l’intestino di Dio, con chissà che specie di mostri.

C’erano mostri sopra e sotto il mare, ma quelli sotto mi facevano particolarmente paura.

La bocca dell’oceano era sempre a masticare. Se ne stava ben dilatata e tranquilla, qualche volta, ma in realtà non smetteva mai di muoversi, in quei momenti sbadigliava soltanto. In verità stava sempre ad aprirsi e poi a richiudersi, e finora non ci aveva mai inghiottito per chissà quale miracolo mandatoci giù dal cielo. Ma se per caso i denti avessero dovuto chiudersi su di noi e noi fossimo affondati lì, i nostri corpi, vivi o morti o via di mezzo che fossero, sarebbero sprofondati nella gola di quel mostro, con tutte le creature spaventose che vivevano lì come avevano sempre fatto. Loro conoscevano il mare, noi no. Loro aspettavano che noi commettessimo un errore o che fossimo puniti per la nostra presunzione, e poi ci avrebbero divorato.

Guardavo dunque il sangue che ormai non era più distinguibile dall’acqua di mare, sotto di me. Molti metri sotto di me; e mi domandavo se sarebbero arrivati gli squali. Non che gli squali potessero fare qualcosa a Black Betty, neanche fossero stati tanti, ma non si poteva restare indifferenti di fronte a quei mostri. E ti veniva sempre il pensiero di essere tu lì, fra le loro fauci così potenti, incapace di difenderti mentre quelli ti si buttavano addosso con le tagliole pronte a scattare. E in un attimo, clang, tu eri spezzato in due, e poco tempo dopo eri macellato come un bovino.

Dunque mi immaginai le membra morte o magari ancora un po’ vive di quel negro nero nerissimo che sprofondava già nella fossa. Mi immaginai che forse in quel momento gli squali gli erano già addosso, o altri pesci, o altri animali che fossero desiderosi di un po’ di cibo. Chissà se avrebbero trovati indigesti tutti quei bastoni e campanelli che aveva attaccati alla carne, come campanacci al collo delle vacche.

Rabbrividii dentro, ma leggermente, al pensiero di quella sorte orribile. Magari, comunque, lui non avrebbe notato la differenza. Quando lo buttammo in mare era sfinito dalle frustate e dalle botte, era tutto un gomitolo di carne sanguinante, con quell’andatura da pantera su due zampe che faceva sempre più ridere, adatta alle sue praterie, forse, alle sue foreste, forse, ma non al ponte di legno liscio della Black Betty; quando lo buttammo in mare con un ultimo pugno in faccia tiratogli da ognuno di noi, perchè non era giusto lasciarlo andare in bocca al mostro senza prima essersi sfogati un po’ – per la stupida paga dei marinai, per lo stupido destino infame di ognuno di noi, per le corna enormi che le nostre mogli magari ci avevano messo – dicevo, quando lo buttammo in mare in quelle condizioni, non sentiva già più niente. Pregai che avesse avuto paura, almeno un po’, ma c’era come un presentimento che di paura non ne avesse avuta affatto. E dunque l’avevamo lasciato andare, cadere nella bocca, la nostra stupida paga non era aumentata, il nostro destino infame non era cambiato e le nostre mogli erano ancora puttane, e oltretutto costui non aveva neanche avuto paura. Niente insomma che mi convincesse che in fondo gli ero comunque superiore.

Ma quello è l’effetto che fanno tutti gli arroganti, gente che vuole farti credere di non temerti. Ma, ah!, se ti teme. Ma non ti teme nel senso che è pronta a riverirti per rispettosa timorosità, ti teme nel senso che ti detesta e detesta il modo in cui tu da un momento all’altro puoi far fuori chiunque.

Accoppiamo gli elefanti, ragazzi. Accoppiamo qualsiasi cosa.  

Questo lo aveva detto il dottorino di bordo, in uno di quei momenti in cui si trovava particolarmente in forma. Facevamo spesso lunghe conversazioni, io e lui. Si concludevano sempre nello stesso modo, come me inferiore, con i problemi del mondo tali e quali e lui che sarebbe morto di lì a poco, in fin dei conti, portandosi nella tomba nient’altro che sé stesso e la sua ridicola vena filosofica.

Ancora quella sensazione, che non solo il negro non aveva provato rispettosa timorosità nei miei confronti, ma oltretutto che neanche a quel Charles io ero mai riuscito a imprimere qualcosa di mio e permanente. Inutile, certi animi non si possono piegare. Sono tanto caproni che si ostinano a negarti, e ti negano tanto che infine sono convintissimi che tu non esista e che sia giusto così. D’altro canto Charles non è nella mia testa. Altrimenti non riderebbe delle mie paure.

- Il tuo problema, posso dirtelo io qual è? - mi aveva chiesto un giorno Charles mentre guardavamo la bocca che sbadigliava. Stavo per tentare di imporgli un no, come per dirgli che ero insensibile ai suoi discorsi. Ma non lo ero, e lui lo sapeva, così parlò senza aspettare che gli rispondessi. - Quando avevi sei anni tuo padre non ti insegnò niente a proposito delle storie di paura, lo sai, come riuscire a dormire da solo senza luce accesa e via dicendo… e così tu ti lasciavi spaventare e andavi a dormire nel lettone di mamma, che del resto lo sapevi ti aspettava. Le mamme occidentali in questo secolo si vestono come delle leonesse ma sono più delle gattone. I mariti danno loro talmente poco amore o ne danno loro tanto che hanno bisogno di coccolarsi bene i figli. Ma quella è un’educazione che si dovrebbe dare alle femmine. -

- Sicchè io secondo te avrei ricevuto un’educazione da femmina? - gli avevo risposto in modo violento.

- Penso di averla ricevuta anch’io, debbo dirti la verità. Tutti e due l’abbiamo ricevuta, se posso essere sincero, e anche se non conoscevo quella miciona di tua madre, posso bene aspettarmi come fosse; si dice che gli uomini scelgano mogli che somiglino alla mamma, così da poterci dormire nel lettone quanto vogliono, non ti pare? E tua moglie la conosco, però, amico mio, ed è molto capricciosa e molto coccolosa e non se ne starà volentieri sola a lungo. -

Fui lì per replicare, ma lui mi chiuse la bocca con qualche altra fesseria.

- Con questo non pensare che io voglia offenderti tutto il parentado femminile, amico mio, no. Sto solo cercando di dirti che siccome tuo padre… -

- Quando io avevo sei anni mio padre non c’era già più, - lo avevo interrotto.

- E questo spiega tante cose! E’ evidente che senza tuo padre sia stata tua madre ad educarti, e d’altra parte lei voleva tenerti sotto l’ala il più a lungo possibile. Vedi, se tuo padre ci fosse stato ti avrebbe obbligato a dormire nel tuo letto perché magari con la mamma voleva pensare ad altre cose, e così tu avresti affrontato i tuoi mostri e gli abissi non sarebbero troppo popolati, così come li vedi tu. -

- Tu hai un sacco di libri imbecilli sui pesci degli abissi. -

- Oh ma non c’era ragione di preoccuparti di come siano biologicamente fatti gli abissi se hai tanti di quegli affari qui su. Pensa per esempio a tutta quella carne nera compressa nella stiva, sudata e rovente, fra le catene e i morbi e tutte le altre schifezze. E come si fa a non dormire sonni tranquilli a causa dei pesci che stanno migliaia di metri sotto di te? Sotto il pelo dell’acqua, comunque, tu non dovrai mai andarci se tutto va bene. -

- E se qualcosa va male? -

- Ero sicuro che l’avresti detto. Sentimi dunque. Hai molti soldi che ti aspettano da barattare con tutta quella carne nera. Hai cadaveri da rimuovere, insubordinazioni da punire, fetenti da sopprimere, e tutte queste cose qui. In fondo tu sei un eroe, capisci no, sei un misero ridicolo negriero ma sei un eroe sul tuo pezzo di legno, e la tua vita è questa, e i pesci degli abissi non ti dovrebbero riguardare. Ma siccome che hai ricevuto un’educazione tutta al femminile, non puoi fare a meno di perdere tanto tempo a pensare a un sacco di fandonie, guardare dentro di te e fare tutte queste cose qui. Perciò i tuoi pesci degli abissi esisteranno sempre, e anche gli squali, e tutti gli altri. -

- Se io fossi un uomo dovrei non pensare? -

- Dovresti solo avere una mente un po’ più collettiva, ecco. Questo culto della personalità è tipico delle donne. Pensa un po’ fra quanta repressione hanno vissuto, del resto. Si è sempre saputo che le donne sono molto civettuole quando si tratta di sé stesse. Il mare è un uomo, ecco, penso così. Il mare, - e mi aveva lasciato con quella frase improvvisa e un grande sentore di vino abbastanza scadente, che riusciva a sovrapporsi anche al vento di mare, tanto era il tempo che la bocca di Charles era rimasta aperta dando via d’uscita a tutte le sue storie.

Ed ero rimasto a guardare il mare per tanto di quel tempo che avevo cominciato a dimenticarmi di tutto il resto. Una parte del mio cervello comunque si manteneva attaccata alla nave con forza, per impedire che evaporassi completamente nella brezza marina. Mi ero passato la lingua sulle labbra salate. Avevo ammirato il mare, avevo pensato di essermene innamorato. E stava scendendo la sera, spargendo ovunque una pioggia d’ombra, fin quando non era diventato tutto molto scuro nella notte. I marinai stavano gridando, e molte erano grida di dolore. Forse erano più i latrati delle bestie che le grida degli aguzzini.

Il mare in quel momento era nero esattamente come quella pantera su due zampe che in seguito si sarebbe mangiato.

La gigantesca bocca di negro con le sue gigantesche labbra carnose. La bava alla bocca, la schiuma marina, come quando venivano frustati, il muggito della tempesta, il muggito bestiale, come quando gridavano dal dolore. La sua sagoma nera indiavolata, che era ormai stanca e pativa come un cane bastonato, e continuava a biasciare per ripulirsi di tutte quelle croste. Una di quelle croste eravamo noi sulla Black Betty. Sarebbe arrivata in America, ormai mancava poco e io me lo sentivo. Ma nelle notti seguenti non avrei mai dimenticato l’incubo che quella notte avevo fatto, ovvero una bocca spalancata grande quanto tutto il Nuovo Mondo, che biascicava e biascicava tutto, e due occhi di negro spalancati ed esterrefatti che mi guardavano da sotto il pelo vitreo dell’acqua marina.

 

 

 

 

 

 

 

  
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