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Autore: aurora giacomini    19/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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31 agosto 2o22 - 18 luglio 2o23 

 

 

 

 

 

Spazio d’Autore: Prima che mi linciate - scherzo - premetto che il testo, nella sua quasi totalità, è volutamente gergale: trattasi dell’esperimento di ‘‘impersonare’’ un’altra persona, un’altra ‘‘scrittrice’’ che non aspira, né pretende di esserlo - almeno per un bel po’. E’ stata maltrattata quasi qualunque cosa, dall’italiano alla struttura, ma - quando non si tratta della mia personale ignoranza (speriamo in pochi punti) - è completamente voluto. Tuttavia, penso possa risultare comunque leggibile e godibile - soprattutto dopo l'introduzione dei personaggi, che ho messo proprio all'inizio - come esperimento; se ne avrete piacere, me lo farete sapere.

Nonostante le incertezze e la paura di presentare un progetto fallimentare, non mi sono arresa e mi sono trattenuta dal pubblicare l’ennesimo lavoro incompleto - brutto vizio, chiedo sinceramente scusa. 
E’ soprattutto grazie alla mia amicizia, al mio compagno d’avventura e di vita, al mio affetto più longevo, che ha letto e riletto pazientemente ogni capitolo, che mi ha consigliata e che ha messo da parte tutto, per essere il più oggettivo possibile, che oggi presento questo testo. 
Eventuali refusi sfuggiti alle revisioni, sono da imputare a me soltanto.

 


 

A te, Piciul, dedico questo lavoro e ti ringrazio ancora, infinitamente, per tutta la pazienza e la solerzia.

 

 

 

 





                                                            Nevrè

 

 

 

 

 

 

      Presentazione

 

 

Andrea non è piccola, ma non è nemmeno grande.
Andrea non ha un'identità ben precisa: il suo essere si identifica con le emozioni che prova in un determinato momento.
Andrea non ha un linguaggio che sia davvero suo o non suo. 

Andrea è confusa.
Andrea è un'adolescente.
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.

 

 

 


        Prologo

 

 

 

«Andrea, aspettami!», urlò Lilla, con la sua voce giallo chiaro, chiarissimo, appena dietro di me. «Va' più piano, Andrea!»

Pedalai più lentamente, mi voltai e incontrai un visino imbronciato, arrossato e pronto ad accogliere nuove lacrime. E la piccola bicicletta lillà.

Liliana - detta Lilla - aveva cinque anni, dieci meno di me. I capelli biondi e gli occhi azzurri del papà; non per nulla era il suo “angioletto prediletto”. E’ figlia della nuova moglie di mio padre. La Patrizia è una donna dai modi gioviali e delicati; mi è sempre andata a genio. Devo ammettere, però, che all'inizio pensavo volesse prendere il posto della mia vera madre. Mia mamma - la Lucrezia - era invece una donna dai modi decisi, che spesso dimenticava di manifestare amore o sentimenti vari. Ho preso da lei, come ci teneva a farmi presente mio padre ogni volta che poteva; forse voleva sgridarmi, ma io lo prendevo come un complimento: la mamma era una tipa tosta - lasciando perdere i suoi drammi - che non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno, e anch'io sarei stata così, da adulta. Inoltre, lei e io condividevamo i duri tratti del volto, i capelli e gli occhi scuri, come la carnagione olivastra.

Il papà e la Patrizia si erano conosciuti relativamente tardi. Entrambi uscivano da un divorzio lungo e stressante - anche se quello di mio padre è stato il più semplice: pure la mamma era d'accordo sulla separazione - con persone che, a detta loro, non capivano come avessero finito per sposare; ‘‘Se non lo sapete voi’’, commentavo, quando si prendevano la briga di affrontare l'argomento con un'adolescente.

«Sto andando piano! Sei te che sei lenta!», replicai, scocciata per non essere riuscita a lasciarla a casa o seminarla dopo la prima curva. Ci avevo provato, per inciso, ci avevo provato eccome! Ma si vedeva che, persa com'ero nelle mie fantasie, avevo inconsciamente rallentato, dandole tutto il tempo di prendermi. «Perché non te ne sei rimasta con tua madre? Ho da fare, non combino di badare a te! Devo andare in paese», mentii, per scoraggiarla.

«Mamma dice che ogni tanto mi devi portare con te, Andrea!», mi urlò di rimando, impegnandosi al massimo per far lavorare i pedali e affiancarmi. «Lo devi fare, perché se no le dico che mi hai lasciata di nuovo da sola!», minacciò.

«Che mocciosa...» borbottai tra me e me. «Ho da fare le cose dei grandi. Torna a casa, fila!», le urlai invece.

«No!», strillò, riuscendo a portarsi sulla mia destra. «Anch'io sono grande e posso fare le cose da grandi!»

«No, che non sei grande! E poi sta per piovere!», rimbeccai. «Torna a casa, altrimenti Fede e Mario si arrabbieranno, perché quando ci sei te non possiamo fare le nostre robe! Non posso sempre trascinarmi dietro la sorellina! Per colpa tua non possiamo andare più dalla Cascata, perché, anche se avevi promesso di no, lo hai detto alla Patrizia!» Ce l'avevano proprio proibito, i nostri genitori, soprattutto dopo che c'era annegata una ragazza, all'inizio dell'estate; ed era quasi impossibile riunirsi lì in gruppo: c'era il ‘‘buon cittadino’’ pronto a fare la spia.

«Ma Mario si è fatto male e io ho avuto paura!»

«E bon? Hai infranto la promessa... sorellastra!» 

Avevo usato la parola spudoratamente, ben conscia che non la sopportasse. Tirandole una sberla, probabilmente, l'avrei ferita meno. Il risultato infatti non tardò a manifestarsi: si fermò bruscamente - rischiando di cadere - per portarsi le mani al viso e cominciare a singhiozzare e lagnarsi teatralmente.

Ecco la mia occasione! 

Accelerai, sentendo i muscoli delle cosce e dei polpacci tirare. Casa era a non più di qualche centinaio di metri: praticamente, si poteva dire che la stessi lasciando nel cortile.

Affiancando i muretti ad ambo i lati della stradina di terra battuta, mi piegai sul manubrio, per incontrare meno resistenza; quel trucco me l'aveva insegnato il Pietro: il più grande di noi fratelli. Era figo il Pietro. Aveva da poco preso la patente e ora aveva persino trovato la tipa - Francesca. A me non piaceva: era la classica cittadina con la puzza sotto il naso; ma Pietro le voleva bene e io ne volevo a lui, quindi mi sforzavo di tollerarla e di essere perfino civile. Era bella la Francesca, con quei suoi lunghi capelli rosa; ‘‘bella quanto stronza’’, mi piaceva dire a Pietro, che mi metteva un finto broncio, per poi ritrovare subito il sorriso. Non era davvero capace di arrabbiarsi, secondo me.

Sì, lui le voleva bene, ma mi aveva confidato di non amarla, non come aveva amato la Sharon - la prima morosa, che io non ho davvero conosciuto. ‘‘Suo padre mi ha trovato un lavoro’’, soleva rammentarmi, riferendosi al genitore della chioma rosa. ‘‘Papà potrà finalmente andare in pensione e vedere di quella schiena’’. Mi risultava indigesta l'idea di stare con qualcuno senza esserne innamorati; ma quell'estate l'amore era ancora una faccenda che poco o nulla mi riguardava. E poi Pietro aveva ragione: bisognava fare smettere papà di lavorare. Antonio Ghirrì aveva lavorato fin da quando aveva la mia età - cosa che non mancava mai di ricordarmi - e ora, che aveva da poco passato i cinquanta, pagava il prezzo di quella vita di sacrifici. Bell'affare, pensavo ma non dicevo.

 

Avevo appena raggiunto la Collina dei Salti - Mario, Fede e io l'avevamo ribattezzata così per il dosso che ci permetteva salti incredibilmente alti - quando il cellulare prese a vibrare nella tasca dei jeans, maciullati e sbiaditi.

Valutai che nel frattempo Lilla dovesse essere tornata a casa... e ora la Patrizia mi cercasse, per farmi la ramanzina - una roba pacata, per carità, ma pur sempre una gran rottura di balle - primo per averla mollata là, e secondo per averla chiamata nel ‘‘modo brutto’’.

Pedalai più lentamente e infine posai un piede a terra.

Il cellulare - un Nokia indistruttibile, che aveva però visto tempi migliori - continuava a suonare ‘‘Blessed & Possessed’’ dei Powerwolf. 

Lo presi e guardai lo schermo, scoprendo di non essermi sbagliata: era lei, la Patrizia.

«Sono gli ultimi colpi d'estate», mugugnai. «Lasciami in pace!» 

Forte della convinzione d'essere nel giusto, aspettai che finisse e spensi il cellulare: così avrebbe pensato fossi in un posto che non aveva campo e il resto del pomeriggio sarebbe stato mio. Usavo raramente quello stratagemma: meglio non abusare delle cose, se vuoi che continuino a funzionare.

Mi voltai indietro, meditando se rifare la Collina dei Salti - onorandola - ma poi decisi che avevo già perso troppo tempo dietro a Lilla, e Federico avrebbe brontolato per il ritardo.

«Sempre che brontola, quello», brontolai io, rimettendomi in marcia.

L'appuntamento, come ogni giorno d'estate dopo ‘‘aver fatto i compiti e le faccende’’, era al vecchio mulino. Un tempo ci lavorava il nonno di Mario, quand'era poco più grande di noi; e, poi, prima che la tecnologia avanzasse così tanto, anche il figlio, ovvero il padre di Mario. Ormai era poco meno di un rudere, ma le possenti mura di pietra reggevano ancora e ci fornivano riparo dalla calura estiva; quel giorno, dato che il cielo era piuttosto plumbeo, ci avrebbe protetti dalla pioggia. Sempre un rifugio era, alla fine della fiera. Il nostro rifugio.

Toccava a Mario portare le birre, e già sapevo che ci avrebbe rifilato quelle da trenta centesimi del Discount; pazienza, sempre meglio del limoncello che aveva portato Fede due estati prima! La mia anima dev'essere ancora sul pavimento, vicino la vecchia macina, dove la vomitai insieme a quella degli altri due. No, niente superalcolici; il Peppino me lo diceva ogni volta che passavo vicino al bar e mi fermavo a vedere se qualcuno mi regalava qualcosa - un bonbon, una gazzosa o un sacchetto di patatine - : ‘‘Non sta a ubriacarti con quella roba! Se hai da dimenticare i dispiaceri, bevi vino, bevi birra, ma molla quella roba, che ti trovano stecchito dopo neanche tre anni’’. Pensandoci, rifilava l'insegnamento a tutti, dai zero ai cento anni: bastava ti fermassi nel suo raggio visivo per più di tre secondi. Saggio lui.

 

Una goccia mi prese in pieno l'occhio sinistro, che chiusi istintivamente. Poi un'altra e un'altra ancora. 

In breve ci fu il diluvio. 

Mi piegai, per proteggere il cellulare col busto - in realtà avevo un sacchetto di plastica, di quelli che ti lasciano le farmacie anche se prendi solo una confezione di aspirine (poco ambientalisti, quelli) ma avevo dimenticato di inserirci il telefono - e accelerai ancor di più.

L'avevo detto che stava per piovere, alla Lilla. Poi si sarebbe lamentata che aveva freddo e mi avrebbe costretta a riportarla a casa, facendomi perdere quasi un'ora. Mi convinsi ancor di più di aver fatto bene a seminarla, anche se il modo non era stato dei più dolci... Che stava succedendo? Oh no: la maturità e la conseguente empatia alle porte! Ci misi solo qualche secondo a scacciarla: ero ancora troppo immatura ed egoista, per fare la persona matura ed empatica. Troppo adolescente. Avrei avuto tempo di dannarmi degli altrui dispiaceri, ne avevo il sentore, guardando gli adulti. C'era tempo, poco, ma ce n'era ancora, per essere l'adolescente che ero.

Fortunatamente il mulino era a poche decine di metri da me. Mi ricordava una torre degli scacchi, un pezzo nero, dal momento che si era annerito con l'incendio scoppiato nei pressi qualche anno prima; lo stesso fuoco aveva divorato la vecchia, gigantesca ruota che ormai non riuscivo più a ricordare con chiarezza. Non che ci volesse chissà quale sforzo di memoria o immaginazione: era una ruota! Ma, da qualche parte nel mio cervello, comparve il ricordo di una gara fra paesi: non solo a chi faceva il campanile più alto, forse c'entravano anche i mulini e le loro ruote. Non lo ricordavo e, francamente, non m'importava davvero.

Il fatto di non vedere la bici nera di Fede e quella verde di Mario, appoggiate al muro esterno, non mi preoccupò: probabilmente le avevano portate dentro, per evitare che la catena facesse di nuovo la ruggine e, conseguentemente, sentirle, perché avremmo nuovamente svuotato lo Svitol del genitore di turno.

Scesi dalla bici e corsi dentro, piegandomi per non sbattere la testa sull'arco d'ingresso; ero piuttosto alta, come quella serie di pietre non mancava di rammentarmi quando dimenticavo le precauzioni. La porta era andata perduta nell'incendio; a terra rimanevano i cardini e le cerniere in ferro battuto, ora carbonizzate, ora divorate dalla ruggine, o entrambe le cose.

«Eccomi!», annunciai. 

Sì, alla circolare stanza vuota, però, che ovviamente non mi rispose, se non come un'eco sconsolata che, nel tragitto di ritorno, aveva perso tutto il buon umore e rifletteva perfettamente lo stato d'animo in evoluzione.

Rimasi un momento impalata a riprendere fiato e ad assicurarmi che non fossero nascosti dietro la grossa, piatta pietra su cui una volta si faceva la farina. Ma no, non c'era proprio nessuno.

«Poi sono io quella che è sempre in ritardo, no?!», sbottai, preda dalla stizza acida che parte nel petto degli adolescenti quando viene fatto loro il minimo sgarro. Ogni gesto di mancanza viene interpretato come la più grande delle offese. E' come se ci fosse un mostriciattolo, ingabbiato nello sterno: una creatura permalosa e frustrata che, negli anni, si assopisce e muore. A volte, però, sopravvive... e lì sono uccelli per diabetici. Visualizzavo la creatura come una sorta di Muppet verde-acqua; ne esisteva uno così?

«In mona», brontolai, lasciando che la bicicletta incontrasse bruscamente il suolo di pietra, col classico suono tintinnante e oltraggiato di ferro e alluminio maltrattati. Probabilmente era anche scappata fuori la catena dalla corona; cosa che non fece che intensificare la bianca acidità nel mio petto. «'fanculo anche a te!»

Gli occhi si erano ormai abituati alla semioscurità, quindi mi mossi a passi sicuri verso la parete dove una pietra mancante era diventata la mensola delle candele e delle sigarette; entrambe le cose protette dall'umidità da un sacchetto dell'Eurospin o del Discount: il logo era così sbiadito, ormai, che non era più possibile saperlo.

Presi su una candela, il pacchetto delle MS e il decrepito accendino nero della Bic, la cui testa di ferro ospitava delle tracce marroncino-ramate, laddove la ruggine aveva cominciato a mangiarselo.

«Bon bon», mugugnai, rassegnandomi all'attesa e tentando di zittire il mostriciattolo, che mi diceva che mi avevano dimenticata, perché tanto non ero importante.

Provai ad accendere la candela - che avevo momentaneamente piazzato sulle sorelle sciolte - ma l'accendino non sembrava intenzionato a collaborare: si limitava a scintille poco convinte, che mi illuminavano d'arancio la mano e a del fumo grigio scuro, maleodorante.

«Ora ti ci metti pure te a rompere le balle? Sei inutile!», urlai all'oggetto inanimato, scuotendolo e soffiando dentro il minuscolo foro del gas. Ripetei il processo una decina di volte; infine, i miei sforzi ebbero l'esito sperato.

Mi affrettai ad accendere lo stoppino, poi, con calma, lasciai cadere qualche goccia di cera e ci bloccai così lo stelo bianco.

«Bon, domani ne porto uno nuovo io, che se aspetto Fede sto fresca», decisi.

Presi una MS, constatando che ne mancavano un paio: quei due dovevano aver fumato senza di me; poco male, dal momento che mi sentii meno criminale a farlo per conto mio, quella volta. L'accesi, sfruttando la piccola fiamma della candela.

Avevo cominciato l'estate prima, quando il fratello di Fede aveva dovuto trovare il modo di comprare il silenzio del fratellino riguardo a delle canne e alcune bottiglie di Vodka alla pesca, nel garage; aveva ritenuto che cinque euro alla settimana potesse anche spenderli, pur di farci stare buoni. All'inizio di questa, di estate, la Patrizia mi si era avvicinata e, dopo aver socchiuso gli occhi, mi aveva detto, con i suoi modi zen: ‘‘Te ne pentirai, te lo garantisco’’. Le avevo chiesto se avesse intenzione di dirlo a mio padre, e lei, per tutta risposta, mi aveva detto che se glielo chiedevo sapevo che era sbagliato, per ciò avrei agito di conseguenza. ‘‘C'è un tempo per sbagliare e un tempo per pagare’’, aveva concluso. Mi andava proprio a genio, la Patrizia.

Sulla pietra circolare, accanto a dove avevo messo la candela, c'era il sacchetto con i manga. Scelsi il numero 3 di Fullmetal Alchemist Brotherhood, anche se l'avevo letto talmente tante di quelle volte che potevo recitarlo e ridisegnarlo a memoria; inoltre, avevo preferito l'anime. Ma in qualche modo dovevo pur ingannare il tempo, no?

Avevo recentemente scoperto che il mangaka era una donna e la cosa mi era suonata ragionevole, visto il modus operandi: le donne hanno un diverso modo di scegliere, descrivere e farti sentire il dolore; affrontano le tematiche in modo diverso, celando lo stridere delle unghie con toni più dolci... ma in realtà sono artigli, non unghie. C'è qualcosa, nella fragilità del cosiddetto sesso debole che, se infranto, si trasforma in schegge aguzze e taglienti. Insomma, se le colpisci si rompono, ma ti fai male. Maneggiare con cura.

Avevo - e ho - la tendenza a riferirmi a loro come se non fossi parte della categoria; ma mi sta bene così: mi dà l'idea di essere un elemento esterno, che può ammirare in pace l'opera, che può coglierne le diverse sfumature, da quelle pastello a quelle violentemente acide. Perché è questo che sono le donne: violento, seppur armonioso contrasto.

Dopo la decima pagina cominciai a rompermi. Ebbi la tentazione di riaccendere il cellulare, per vedere se quei due mona mi avessero scritto qualcosa. Scelsi di non farlo: non avevo voglia di sentirmi dire che dovevo tornare a casa e scusarmi con la Lilla. Le avrei pagate la sera, le conseguenze della mia scelta. Ora erano appena le due e qualcosa del pomeriggio, un lunghissimo pomeriggio, fra le altre cose, dal momento che non avrebbe fatto buio prima delle nove o giù di lì.

«Bon, mi son proprio rotta di aspettare!», informai le pareti di pietra; e chiesi loro: «Che siano andati dalla Cascata?» 

Invero, se così fosse stato, avrebbero lasciato le bici lì, al sicuro, ma magari se le erano portate dietro per lo stesso motivo per cui mi avevano dato buca, ovvero: ignoto.

Guardai la mia, di bici, constatando che la catena era effettivamente saltata fuori. Decisi me ne sarei occupata al ritorno: in quel momento la priorità era scoprire se quei due pirla fossero effettivamente là, con le birre che dovevamo condividere.

  
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