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Autore: Dorabella27    21/07/2023    12 recensioni
Un tentativo di song-fic, a partire da una canzone, che amo molto, di uno dei più noti artisti del panorama italiano.
Ancora, sempre, protagonista, l'innamorato respinto più elegante di RoV, e più malinconico.
L'esperimento è coronato da successo? Non saprei; so però che la stupenda fan art di Alessandra DF3 merita l'applauso.
(E lo so che c'è ancora un paio di ospiti che attende, a Palazzo Jarjayes, una uscita serale, e Oscar che si domanda se l'America sia poi tanto lontana, e una locanda di Lille da raggiungere: abbiate fede, chiedo venia per il ritardo, ma racconterò tutto, tutto, tutto). E ora, immergiamoci nei vicoli di Parigi in una serata del giugno che precede lo scoppio della Rivoluzione... Buona lettura!
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victor Clemente Girodelle
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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PER AVERTI
 
26 giugno 1789
 
Eccomi qui, inaspettatamente incamminato per questi vicoli squallidi, dove mai avrei pensato di avventurarmi.
 
Mi morde la consapevolezza, improvvisa, che, però, queste strade strette, chiuse fra caseggiati alti e semi-pericolanti, dove nemmeno in pieno giorno probabilmente passa la luce del sole, sono stati forse percorsi in altre sere, in altre notti, da altri passi, dai passi di lei... e che non è mai stata da sola, mai, ma i suoi passi sono stati sempre seguiti, ma che dico, affiancati, da quelli di un altro, di quel Grandier che l'ha seguita ovunque per vent'anni, sino a degradarsi arruolandosi come soldato semplice nella Compagnia B della Guardia Metropolitana, solo per starle vicino.
Versailles, nonostante appaia, a un primo sguardo, immensa nel suo fasto, e labirintica, è in realtà esattamente alla stregua di un piccolo villaggio, in cui tutti sanno tutto di tutti, e le notizie filtrano fra le camere e gli appartamenti privati della Reggia, galoppano fra i corridoi, volano dalla corte agli hotels particuliers, rimbalzano da Versailles a Parigi e da Parigi a Versailles, coprendo con sorprendente velocità quelle poche leghe che separano la capitale dalla città sede della Corte. Fama crescit eundo, diceva il poeta, ed è proprio vero: già la mattina del 24 giugno, due giorni fa, a Versailles circolava la voce che, dopo l'opposizione di Madamigella Oscar al Colonnello Laborde che voleva far entrare da un ingresso secondario nella sala dell’Assemblea dai rappresentanti del Terzo Stato, e dopo che ella aveva difeso quei plebei, fronteggiandomi quando avevo ricevuto l’ordine di sgombrare la sala e disperdere l’assemblea, il padre, il Generale Jarjayes, avrebbe addirittura voluto lavare con il sangue, della figlia e poi con il suo, l'onta che la famiglia avrebbe ricevuto da questo atto proditorio; ma ne sarebbe stato distolto, giusto un attimo prima, dall'arrivo di un messaggero di Sua Maestà la Regina Maria Antonietta, che, nella sua magnifica clemenza, ha perdonato Madamigella Oscar, auspicando tuttavia per il futuro una maggiore fedeltà della famiglia alla Corona.
Mi si stringe il cuore al pensiero non del terrore, ma del coraggio che deve avere dimostrato in quel momento estremo, e già immagino la lama della spada del Generale pronta a calare su di lei ....
E quel servo, quel Grandier, che cosa avrà fatto in quel momento? Non so immaginarlo: vorrei che qualcuno me lo descrivesse rintanato in qualche angolo, impaurito e vile; ma temo che abbia dato prova di quel coraggio che, mi duole ammetterlo, non gli è mai mancato, e che lo ha portato a perdere un occhio per Madamigella Oscar. Naturalmente, nessuno me l'ha mai detto in modo esplicito, ma ho compreso che la vicenda della mancata cattura del Cavaliere Nero deve avere visto implicato quel Grandier, e in quell'occasione deve avere perso l'occhio sinistro; e poi, il coraggio non gli deve essere mancato nel momento in cui Madamigella ha abbandonato il suo incarico di Comandante delle Guardie Reali, e quel Grandier l'ha seguita arruolandosi in una compagnia che non brilla per prestigio, e i cui soldati sono anzi noti per la loro irruenza e la loro indisciplina, oltre che per la rozzezza che sempre caratterizza i popolani.
E io, io che cosa ho fatto, in quel frangente, nonostante il mio così grande amore per Madamigella Oscar? Non ho saputo fare altro che pregarla di desistere dal suo proposito di lasciare la Guardia Reale, mentre quel Grandier ha saputo fare di meglio.
 
Di più e di meglio di me: è il mio destino.
 
"Certo, io ho chiesto la sua mano. Comodo, e senza rischi, il mio gesto: lo capisco solo adesso.
 
Potevo fare di più. Di meglio e di più.
 
Soltanto adesso comprendo quanto devo averla fatta sentire importunata e imbarazzata dal mio gesto che credevo così poetico e cavalleresco, quando l'ho attesa fuori dalla caserma per scortarla, nella luce morbida del tramonto che baciava i suoi capelli e li faceva simili all'oro rosso, verso Palazzo Jarjayes.
Sono stato importuno? Certo. Ma, soprattutto, incapace di capire. Incapace di comprendere che un matrimonio aristocratico, con un marito che, pur devoto e adorante come sarei stato io, ma che esercitasse su di voi quel diritto di proprietà, benevolo, mite, addolcito, cui, nel profondo del mio spirito, avrei anelato io, per sentirvi mia, mia davvero, non era quello che voi cercavate, Oscar, e non era nemmeno quello per cui siete nata.
 
Che cosa ho notato, tre giorni fa, mentre mi fronteggiava, le braccia aperte, bella e marziale come mai l'avevo vista prima, sotto la pioggia di questa  estate umida e cupa?
 
Ho notato, dietro di lei, a cavallo fra gli altri soldati semplici, devoto senza mai voler incombere, quel Grandier. Lui, sì, che ha sempre capito come starvi vicino, Oscar.
Lui sì, non io.
         A dispetto degli anni trascorsi a disprezzarlo, e a invidiare la vicinanza di cui ha sempre potuto godere con la donna che amo silenziosamnete e senza speranza da vent’anni.
        Ora posso dirlo, ora posso essere sincero con me stesso, ora che non ho più nessuna speranza, e nulla da perdere: la mia era invidia. Io, Victor Clément de Girodelle, con la mia posizione invidiabile e in effetti da tutti invidiata a Corte, con il mio albero genealogico che risale ai tempi di Carlo Magno, con i miei castelli e i miei vigneti, oggetto di invidia per gli altri nobili che affogano fra i debiti, io, l’uomo cui non manca nulla, sono invidioso di un servo. Di un servo, che però ha saputo stare meglio di me accanto alla donna che ho amato.
   E io?
Che cosa ho potuto fare tre giorni fa?
Che cosa ho saputo dire?
Nulla, se non ritirarmi.
Nulla, se non la verità: "Madamigella Oscar, avete vinto: faccio come volete voi. In definitiva per me è una cosa abituale obbedirvi: siete stata per molti anni il mio comandante". Non ero certo molto fiero dell’incarico che mi era stato affidato e, tutto sommato, sono contento che voi mi abbiate impedito di portarlo a termine”.
 
         E me ne sono andato.
 
Potevo fare di più.
Di meglio.
Di meglio e di più.
 Ma davvero? Oppure sarebbe stato lo stesso?
Ecco, io temo che, per quanto avessi potuto fare, per quanto avessi potuto impegnarmi, quegli occhi incredibilmente azzurri non si sarebbero mai posati su di me con qualcosa di diverso da una professionale, gentile, in fondo distratta benevolenza.
Ora tutti pensano alla fine terribile che Madamigella Oscar avrebbe fatto, se non fosse intervenuta la clemenza di Sua Maestà la Regina; ma nessuno pensa al disonore che ha rischiato di rovinare anche su di me, e da cui sono stato salvato, al pari di Madamigella Oscar, dalla magnanimità della nostra Sovrana. Del resto, è il mio destino: passare inosservato, una figura sullo sfondo, un elegante comprimario, di cui si ricorda il garbo nell’entrare, e soprattutto, nell’uscire di scena.
E così eccomi qui, in questa osteria malmessa, con le panche scabre e i tavoli traballanti.
Sono venuto qui, con addosso un abito da piccolo borghese chiesto al mio attendente, un soprabituccio liso, i capelli coperti da un tricorno da poco ... per quale motivo, esattamente?
Non so, forse dimenticare, in un posto tanto diverso da quelli che sono abituato a frequentare, popolato da personaggi e figuri così diversi da quel che sono e che sono avvezzo a incontrare ogni giorno, chi sia io, e come, nonostante tutto quel che io sia e che possieda, e nonostante tutto auel che avrei potuto offrirle, Madamigella Oscar non mi ha voluto.
 
Oppure, ancora, il mio pensiero è tenacemente avvinto a lei, e mi illudo di esserle vicino, in qualche modo, frequentando quella suburra in cui, io lo so, Madamigella era solita calarsi, col favore delle tenebre, con quel Grandier, quel villano ripulito che ha saputo però esserle vicino come e meglio di quanto non avrei mai fatto io. E così vagolo in questa umanità brulicante e sogno, quanto invano lo so già, di vedere  dardeggiare, nel grigio e nel lerciume di queste vie e di questi ambienti fumosi, l’oro dei suoi capelli.
E, insieme, sogno di sentire risuonare la sua risata, argentina e fresca, suscitata, certo, dalle battute di quel villano non privo d’ingegno, che doveva farla sapere divertire, e conoscerne l’animo, come e meglio di come io avrei potuto fare in mille anni. Questo mi basterebbe: sentirla ridere, come poche volte è successo nella mia vita – poche volte, che serbo nel cuore, e il cui merito non va a me. Ma, se anche ridesse in grazia di un motto di spirito altrui, oggi so che mi contenterei di saperla felice. Questo solo mi basterebbe ormai.
Io l’ho amata, e la amo.
Si può decidere chi amare? No, no di certo.
Non l’ho amata come avrebbe voluto, non l’ho amata con i gesti, le parole, le attenzioni che davvero avrebbero potuto conquistare il mio cuore.
Devo tormentarmi?
 Incolparmi?
Rimpiangere qualcosa che non ho fatto, o che non ho fatto sufficientemente bene?
 
Oh, no. Ognuno ama come sa e come riesce, a modo suo.
 
Non è una colpa se non ho saputo amare Madamigella Oscar come avrebbe voluto.
Non è una colpa se lei non ha mai corrisposto al mio amore.
 
Ma quanta fatica per ammetterlo a me stesso, di fronte al tribunale della mia coscienza, davanti al quale sono innocente, ma col cuore spezzato; né la confortante consapevolezza della mia coscienza può nulla per consolare il mio cuore e per impedirgli di sanguinare.
 
Siedo al bancone, e volgo le spalle allo squallore dell’ampia sala dal pavimento dalla pulizia non propriamente “dubbia”, giacché è chiaro come, a quest’ora della notte, sia coperto ormai da uno strato di lerciume la cui composizione non voglio sapere, né, tantomeno, immaginare.
L’oste ha intuito la mia cupezza, e mi parla il meno possibile. “Vino?”, mi chiede, e io annuisco, accettando l’offerta. Non voglio parlare, non ne ho la forza, non ne ho più la voglia.
 
Mi sento un guscio vuoto.
 
Un guscio vuoto nella cui gola scende un liquido che solo convenzionalmente si può definire “vino”: se soltanto penso alle preziose annate di vendemmie remote che giacciono ammonticchiate nella cantina del mio palazzo, agli champagne sopraffini che conservo nella mia riserva speciale, e che –un anno fa- sognavo di poter consumare, bottiglia dopo bottiglia, nel talamo con mia moglie, fra un bacio e un abbraccio, lo scoramento mi fa stringere il cuore, e vorrei battere il pugno sul bancone, così forte da spezzarmi le ossa della mano, o da farmi conficcare le schegge del legno scabro sotto le dita.
E invece, eccomi qui, a ingollare bicchiere dopo bicchiere di un pessimo vino, solo, come sempre sarò, e in silenzio.
Vile anche nel dolore.
Improvvisamente, una voce con un insolito accompagnamento musicale attira la mia attenzione. Giro la testa, lentamente, come a dissimulare l’interesse suscitato da quella musica.
Non è insolito che nelle taverne e osterie si canti, e che qualche musicante offra la sua voce, come modesto intrattenimento, ai clienti. Di solito, però, si tratta di belle ragazze, giovani e procaci, mentre questo è un musico di mezza età, con una voce più simile a un belato e un volto strano, con un che di vagamente scimmiesco, la figura dinoccolata, i pantaloni lunghi indossati dagli uomini del popolo, addirittura mi pare di fustagno di un color azzurro stinto, e ai piedi degli strani stivaletti di pelle chiara, ormai avvizzita e impolverati, con un tacchetto che dovrebbe rialzarlo un poco.
Fra le mani tiene una chitarra, con cui accompagna le parole della sua canzone, alla maniera dei musicanti spagnoli che a volte allietavano i pomeriggi si sua Maestà al Petit Trianon con quelle melodie dolciastre e insieme dissonanti composte in terra di Spagna da Boccherini, e che io non ho mai sopportato.
Questa canzone, invece, si libra su un tono più energico e vivace. Appena ne intendo le parole, mi viene spontaneo volgermi, e ascoltarla con attenzione, la schiena rivolta verso l’oste e i gomiti appoggiati sul bancone. Le parole danno voce a un uomo disperato, tetro e avvilito, che sospira per una donna, che non potrà avere:
 
Girasoli a testa in giù
Avviliti come me
Come posso immaginare
Tutta la vita senza te

 
I girasoli: che fiori plebei!
Nelle mie aiuole, e nelle mie serre, non hanno mai trovato spazio quegli imbarazzanti mostri vegetali. Eppure, sì, istintivamente mi rendo conto di quanto sia azzeccata l’immagine di un girasole che non può più volgersi verso il suo sole. Anche io, anche io l’ho perso, il mio personalissimo sole.
Ma, nonostante il dolore del suo cuore, quell’uomo respinto e avvilito riesce a trovare un argine al suo strazio: il senso profondo della dignità del suo essere, da preservare come un tesoro geloso:
 
Per averti
Farei di tutto
Tranne perdere la stima di me stesso
E se è questo
Che tu mi chiedi
Io ti perdo ma stavolta resto in piedi
Anche se qui dentro me qualcosa muore

 
Anche io avrei fatto di tutto per averti, Oscar, di tutto: ma senza fare nulla che mi facesse perdere la stima di me. Quello no. Posso sentire il mio cuore spezzato, il mio spirito morto, abbattuto, ma continuare a sorridere, impeccabile, ai miei sottoposti, ai miei valletti, preservando nel segreto del mio animo la pena che mi divora pian piano.
Sì, per averti, per averti
Farei di tutto
Ma rinuncio con dolore
Sì, per averti, farei di tutto
Ma non ti voglio, non ti voglio
Senza amore.

 
Sì, Oscar, avrei fatto di tutto per averti, di tutto: ma solo se tu mi avessi amato.
È orgoglio questo?  Forse, ma soprattutto è rispetto della tua volontà  e dei tuoi sentimenti. Q    uesto te lo devo.
Avrei fatto di tutto per poterti tenere fra le mie braccia, nel mio letto, ma solo se tu mi avessi voluto, solo se tu mi avessi amato.
Per questo, dopo aver assistito al tuo ingresso nel salone del ballo organizzato da Bouillet in tuo onore, con tutti i pretendenti alla tua mano, dopo averti vista bella e marziale nella tua nuova divisa blu che tanto ti dona, con quella tua battuta ironica, con cui hai gelato gli astanti, non ho potuto fare altro che levare il calice in tuo onore, e apprezzare il tuo coraggio e la tua franchezza.
E poi, la sera stessa, di fronte a tuo padre, l’ho informato dell’accaduto, e gli ho comunicato la mia intenzione di ritirarmi in buon ordine, di non insistere più; e, insieme, gli ho dichiarato la mia ammirazione per te, per le tue scelte indomite.
 
Tu due cuori non li hai
E a me non basta la metà
Se tu scegliere non sai
Scelgo io che male fa

Ma senza voglia
E senza futuro
Vado incontro tutto solo a un cielo nero

 
Il musico continua a cantare, e sembra davvero che parli di me: tu, Oscar – e ti do del “tu”, rivolgendomi a te così confidenzialmente solo nei miei pensieri, come mai ho potuto fare nella realtà – non hai due cuori, uno per me e uno per l’uomo che ami davvero, da sempre – io l’ho capito, ormai, e vorrei tanto che ne fossi consapevole anche tu, ormai. Nemmeno a me basterebbe la metà del tuo cuore, nemmeno se tu fossi incerta fra me e Grandier: ma questo sarebbe impossibile, perché a me tu non hai mai accordato nemmeno un briciolo del tuo cuore, nemmeno un minuscolo spazio.
 
Io non mi vendo
Ma sto morendo
Morsicato da un serpente e senza siero
.
 
Avrei potuto provare non a vendermi, ma a comprare il tuo affetto, il tuo amore?  Avrei potuto, sì, ma so bene che sarebbe stato tempo perso: non sono stato per quasi vent’anni ai tuoi ordini senza imparare a conoscerti. E se ho sperato, pazzamente, che una proposta di matrimonio presentata all’improvviso, in un momento critico della tua vita, e quando io avvertivo bruciantemente la tua assenza, potesse avere qualche speranza, un gentiluomo, quale io sono, si sa ritirare, anche se con la morte nel cuore e la sensazione di sentirsi avvelenare lentamente da un male che mi consuma da dentro.
           
Disperato ma però un uomo vero

Sì, per averti, farei di tutto
Ma non voglio avere un animo più brutto

 
Se sono disperato?
Certo che sì. Chi non lo sarebbe, sapendo di non avere nessuna speranza di poter essere ricambiato dalla donna che ama?
Ma non voglio avvelenarmi, e diventare meschino, come non ho voluto turbare più la tua pace con insistenze fuori luogo, sgradevoli per tem e poco dignitose per me .

Sì, per averti, farei di tutto
Tranne perdere la stima di me stesso

Per averti
Farei di tutto
Tranne perdere la stima di me stesso
E se è questo
Che tu mi chiedi
Io ti perdo ma stavolta resto in piedi
Anche se qui dentro me qualcosa muore.

 
Sì, per averti accanto a me, Oscar, avrei fatto di tutto. Ma non avrei mai potuto, non posso perdere la stima di me stesso: è la sola cosa che mi resta, e che, credo, potrà e dovrà restarmi in questi tempi difficili che si prospettano ai nobili come me.
Non mi faccio abbattere, resto in piedi, come sarebbe piaciuto a te, anche se dentro di me il mio spirito è spezzato, e qualcosa si è incrinato definitivamente.
 
Sì, per averti, per averti
Farei di tutto
Ma rinuncio con dolore
Sì, per averti, farei di tutto
Ma non ti voglio, non ti voglio
Senza amore.

 
Rinuncio a te, Oscar, con dolore, ma augurandoti di godere con il tuo vero amore quella felicità che non avrei saputo darti io.
E tu, oste, versa un altro bicchiere.
 
Si ringrazia per la fan art AlessandraDF3 (guardate bene, non è un fotogramma dell’anime, anche se è talmente perfetto che può sembrarlo!)
   
 
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