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Autore: arashinosora5927    25/07/2023    1 recensioni
Io prima di te, o più nel dettaglio il passato di Gokudera dalla nascita con particolare focus sul giorno in cui abbandona il castello, passando per il canon di Bakudan Bambino, esplorando i cinque anni che ha trascorso a vivere per strada prima che incontrasse Tsuna.
[accenni5927] [59 centric]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Bianchi, Hayato Gokudera, Tsunayoshi Sawada
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Bianchi Hayato, età 8, si rese presto conto che la sua realtà stava per cambiare drasticamente. C'erano una serie di problemi di carattere pratico che doveva preoccuparsi di risolvere. Innanzitutto non poteva continuare a dormire su un marciapiede, si sarebbe ammalato prima o poi tra il freddo e lo sporco. In secondo luogo le monete che tintinnavano in tasca non sarebbero durate per sempre. Presto avrebbe iniziato a soffrire la fame, per non parlare della sete. Si era potuto permettere una bottiglietta d'acqua, ma aveva di fatto bevuto pochissimo in quella giornata. E aveva bisogno di nuovi vestiti, anche quello era importante. Sospirò, si appoggiò al muro dietro le sue spalle sentendosi perso. Avrebbe dovuto mendicare, chiedere la carità?

Quasi quasi ci sperava che stessero per venirlo a prendere, che vedessero quel gesto come un capriccio. Gli serviva una casa o meglio un riparo, un posto dove stare che non lo esponesse in maniera eccessiva ai pericoli, al rischio di un rapimento o peggio.

"E tu? Che fai qui?"

Chissà perché erano sempre più le femmine ad avere piu cuore per la sua situazione.

Hayato era esausto, spaventato e voleva solo sentirsi protetto, anche per un istante, sentire che qualcuno potesse accoglierlo, che esistesse un mondo anche per lui, per questo con freddezza rispose "Sono scappato di casa, i miei genitori mi maltrattavano e non sapevo a chi rivolgermi. Non voglio tornare lì..."

Ebbe a malapena il tempo di finire la frase che sentì chiaramente una voce maschile che chiamava "Caterina! Caterina, non avvicinarti! Potrebbe attaccarti qualcosa addosso." La ragazzina fu poi presa da quello che doveva essere il padre o il tutore, per un braccio e trascinata via in tutta fretta. Nei suoi occhi Hayato lesse tristezza e gli parve quasi di sentire delle scuse per averlo illuso.

Quella sensazione di abbandono lo spense. Era così che stavano le cose? Si stava lentamente trasformando nel ritratto della peste? Come lo vedevano? Come una blatta?

Rimase seduto contro il muro, catatonico, apatico, neanche più la forza di arrabbiarsi. In un angolo della sua mente la vaga consapevolezza che se nessuno lo aveva ancora aggredito era stata per pura fortuna.

Se solo fossero stati puliti avrebbe potuto vendere i suoi vestiti, era certo che gli avrebbero permesso di fare qualcosa di simile a una vita agiata, ma non aveva voglia di cercare delle lavanderie solo per scoprire che tanto per cambiare non c'era posto per uno come lui.

Il silenzio fu spezzato dalle ruote di una macchina che percorrevano la strada in prossimità di dove si trovava lui. Gli sovvennero ricordi del suo sesto compleanno e li scacciò, non era proprio il momento di diventare melanconici.

Si era trovato un vicoletto, piccolo, apparentemente riparato dal sole e silenzioso, impossibile entrarci con la macchina o col motorino tanto che era stretto e lì sarebbe rimasto da solo a pensare che nonostante tutto ora voleva sopravvivere, fosse anche solo per vendicarsi di suo padre.


Con i raggi cocenti del sole di mezzogiorno vennero anche molte consapevolezze che era difficile guardare in faccia, seppur necessario.
Innanzitutto aveva bisogno di spostarsi all'ombra, sotto un portico, un ponte, anche il tetto di una casa, qualunque cosa che lo potesse riparare. Hayato si trascinò a fatica in un nuovo vicolo stretto e ombroso, rintronato dal sole. A questo punto la sua pelle era, non esattamente al sicuro, ma di certo in una condizione migliore della precedente. Era ancora molto sensibile anche se non più come un tempo e l'esposizione prolungata già mostrava i segni di scottature.

La seconda consapevolezza che Hayato dovette prendere era che forse aveva rischiato un'insolazione, la sua testa andava a fuoco e probabilmente era il caso di rinfrescarsi. Per sua fortuna Palermo era gremita di fontanelle a ogni angolo della strada e trovarne una fu particolarmente facile. Dopo i primi tentativi con le mani a coppa, Hayato si arrese mettendo direttamente la testa sotto il getto parsimonioso della fontanella. L'acqua era sufficientemente fredda da dargli il sollievo di cui era alla ricerca. Quando gli sembrò di essere un po' più lucido e sveglio si passò quella stessa acqua anche sulle braccia e sulle gambe nei punti in cui la pelle si era maggiormente arrossata. Sospirò poi perché si era bagnato tutto il completo, ma faceva talmente caldo che pensò non fosse un problema, di lì a breve si sarebbe asciugato.

Ebbe a malapena il tempo di registrare il sollievo che iniziò a provare un nuovo fastidio, stavolta comunicato come protesta da parte del suo stomaco. Come biasimarlo? Visto quanto il sole picchiava doveva essere ormai la mezza, questo significava che aveva saltato la colazione, la merenda ed era prossimo a saltare il pranzo. Mentre era impegnato a rifletterci lo colpì la terza consapevolezza della giornata: non ci sarebbero stati più pasti completi per un po' e gli conveniva farci l'abitudine.

Per quanto avesse ancora l'aspetto di un signorino rispettabile, stando al riflesso nella pozzanghera, Hayato era perfettamente consapevole che tempo pochi giorni e quei vestiti con cui era scappato avrebbero iniziato a puzzare troppo e sarebbero divenuti lerci e allora non sarebbe sembrato più accattivante e sempre più difficilmente gli sarebbe stata fatta la carità. E quella fu forse la più dura verità da accettare: sarebbe divenuto un mendicante.

No, si corresse Hayato, non era affatto questa la cosa peggiore, mendicare era solo una conseguenza, conseguenza del fatto che non sapeva fare niente, che volente o nolente tra gioie e tantissimi dolori aveva vissuto per otto anni nella bambagia, con servitori pronti a prostrarsi alle sue richieste e soddisfare ogni suo capriccio e questo significava che da solo a stento sapeva allacciarsi le scarpe.

Se l'era cavata bene, si disse, del resto aveva spillato una banconota a una signora, aveva provveduto a mangiare e bere abbastanza per sopravvivere e si era trovato un posto dove addormentarsi, ma quello che aveva fatto era in virtù del piano iniziale, a quest'ora pensava già di essere stato accolto in un'altra casa, di stare seduto a tavola a degustare un cabaret di pasticcini, a dare nuovi ordini ai suoi nuovi servitori, invece poteva contare solo su se stesso e su qualcuno se avesse avuto pietà di lui.

Mise una mano in tasca per controllare quanto gli rimanesse e si rese conto che quei soldi non sarebbero durati per sempre, né si sarebbero moltiplicati. Doveva iniziare a centellinare, a mettere da parte la sua indole viziata e risparmiare anche il pezzo più piccolo per tirare avanti.

Così fece, si avvicinò a un bar e prese la cosa che costava di meno, ma che gli permettesse comunque di nutrirsi.

Nel pomeriggio vagò come l'anima in pena, che effettivamente era, alla ricerca di non sapeva neanche dire lui cosa, forse una famiglia.

Si sedette sulla scalinata di una chiesa tenendosi a distanza dall'ingresso e concluse che suo padre non sarebbe tornato a riprenderlo. Questo fu forse ciò che lo sorprese  maggiormente perché Hayato non aveva idea che riponesse ancora speranze in suo padre, che il suo cuore si fosse attaccato all'idea di qualcuno che tornava a prenderlo, lo riportava a casa e lo supplicava in ginocchio persino di essere perdonato.

Erano solo fantasie, fantasie che non avevano alcun riscontro con la realtà. Hayato si mise a piangere senza neanche rendersene conto, nascondendo il viso tra le mani, conscio che non aveva visto neanche l'ombra degli uomini di suo padre e pensare che non si era neanche allontanato chissà quanto, era rimasto in prossimità del centro di Palermo, era tornato in tutti i luoghi che conosceva, quasi stesse urlando di essere recuperato e ricondotto a casa, ma evidentemente suo padre non si era sprecato neanche a ordinare che lo ritrovassero, quindi di certo non sarebbe venuto a cercarlo. Se gli fosse importato lo avrebbe già fatto.

Quindi dopotutto era vero che nessuno lo voleva, che sarebbe stato meglio per conto proprio, dove nessuno lo avrebbe amato, ma almeno nessuno che si presuppone dovesse amarlo, lo avrebbe odiato.

Mentre singhiozzava qualcuno si avvicinò e gli lasciò poche lire, aveva ricevuto la carità senza nemmeno iniziare a chiederla. Rabbrividì: la sua vita dipendeva dalla compassione altrui.

Quando il sole iniziò a tramontare alcune giovani coppie sembrarono interessarsi a lui. Una donna gli chiese "che fai qui tutto solo?", quello che evidentemente doveva essere il marito della donna domandò invece "dove sono i tuoi genitori?"

Hayato li guardò a malapena, i loro volti divennero sfocati nella sua testa, sovrapponendosi a quelli di altre persone che gli avevano fatto la stessa domanda senza poi però offrire una soluzione concreta.

"Sono orfano" la risposta venne spontaneamente perché Lavinia era effettivamente morta e per quanto lo riguardava suo padre poteva anche crepare.

La donna della giovane coppia si mise le mani sulla bocca e sospirò profondamente. "Oh cielo, povero caro" disse. Un'altra donna poco distante gli chiese se ci fosse una struttura che lo ospitasse e solo in quel momento Hayato si rese conto che avrebbe potuto effettivamente farsi accogliere in orfanotrofio e sperare che qualcuno lo adottasse.

Nonostante fosse tanto piccolo aveva sentito parlare dei servizi sociali e si era fatto l'idea che fossero delle persone orribili che fingendo di salvare in realtà portavano il malcapitato dalla padella alla brace. Il punto sostanziale è che lo prelevavano dal suo ambiente, come un fiore strappato da un prato, lo stelo spezzato perché avesse i minuti contati. Senza saperlo nella sua testa le due immagini si erano sempre sovrapposte, ma l'orfanotrofio era lì, a Palermo, la sua città e da quello che gli stava dicendo la donna era un bel posto, accogliente, sicuro. Hayato se ne convinse e si lasciò portare, era la cosa giusta da fare.


La direttrice dell'orfanotrofio sembrava gentile, una persona affidabile insomma, a pelle. Hayato fu introdotto nella struttura e presentato agli altri bambini e uno dei più grandi lo prese immediatamente sotto la sua ala.

Gli vennero dati dei vestiti puliti appartenuti a chissà chi, vestiti di scarsa qualità -Hayato lo poteva percepire- e un pasto caldo, un letto in cui dormire e la possibilità di fare una doccia, il tutto gratuitamente.

Dopotutto forse scappare era stata la scelta giusta e sempre dopotutto forse quel posto sarebbe divenuto la sua casa. Non c'era bisogno di diventare un assassino, di farsi un nome nel mondo della mafia. Poteva vivere così, felice con qualche libro, la compagnia di quelli che erano stati forse più sfortunati di lui e un po' di amore gratuito e disinteressato.

Gli sembrava un buon piano, più o meno. Forse un giorno avrebbe varcato quella porta per l'ultima volta solo per raggiungere la sua nuova casa in compagnia dei suoi nuovi genitori.
   
 
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