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Autore: Ghostro    31/07/2023    4 recensioni
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Era accaduto in una notte di luna piena.
L’universo non aveva mai conosciuto un simile prodigio. Non era naturale.
Se solo all’epoca avessimo compreso che dietro quell’incontro c’era il disegno del male...
Un male estraneo, un male sconosciuto.
Un male che ha plasmato in fascino l’aura di mistero che aleggia su questa creatura.
Uno sguardo impossibile.
Perché in natura non è mai esistito, e adesso spero che mai più esisterà un tale raccapriccio.
Una malia che porta il nome di “Violetto”.
Quel giorno, l’uomo aveva scoperto con orrore quanto fosse fragile davanti al suo potere mellifluo.
- Tratto da “I sei colori dell’arcobaleno” di Barnhas Tahl
Genere: Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Era accaduto in una notte di luna piena.
L’universo non aveva mai conosciuto un simile prodigio. Non era naturale.
Se solo all’epoca avessimo compreso che dietro quell’incontro c’era il disegno del male...
Un male estraneo, un male sconosciuto.
Un male che ha plasmato in fascino l’aura di mistero che aleggia su questa creatura.
Uno sguardo impossibile.
Perché in natura non è mai esistito, e adesso spero che mai più esisterà un tale raccapriccio.
Una malia che porta il nome di “Violetto”.
Quel giorno, l’uomo aveva scoperto con orrore quanto fosse fragile davanti al suo potere mellifluo.
 
- Tratto da “I sei colori dell’arcobaleno” di Barnhas Tahl
 
 
La palla da biliardo colpiva la sponda del tavolo ogni due secondi. C’era un’insolita perfezione nel modo in cui la sua mano l’afferrava e poi la faceva slittare di nuovo verso l’angolo, facendole percorrere la medesima traiettoria. Ancora, e ancora. Con una costanza che rasentava la perfezione.
Tunk, tunk, tunk, tunk.
Ogni ticchettio dell’orologio a muro sembrava echeggiare un’insignificante frazione di secondo più in ritardo della precedente, mentre il suo ritmo proseguiva regolare. Concentrazione, la chiamavano. Ma chi aveva coniato questo termine, molto probabilmente, non aveva mai provato ciò che lui provava; non vedeva ciò che lui vedeva, non sentiva ciò che lui sentiva.
Tunk, tunk, tunk, tunk. Tunk, tunk, tunk, tunk.
Soprattutto, non si era ritrovato da un giorno all’altro a dover combattere, ogni istante della sua misera esistenza, contro una forza inesorabile che cercava di corrodere i suoi ricordi felici e di spazzarli via. Maligna e ineluttabile. Quegli occhi, quel maledetto colore. Erano impressi nella sua testa come un marchio sull’anima e bruciavano più del fuoco! Ogni volta che i suoi pensieri cadevano nella loro trappola e lui ne ricordava la brillantezza, una parte di se stesso svaniva. Si scioglieva, come cera.
Tunk, tunk, tunk, tunk. Tunk, tunk.
E più intensamente quegli occhi lo inseguivano tra sogno, incubo e realtà, più il suo corpo sembrava come risvegliarsi. Plasmato da una volontà che non era la propria: un bisogno ossessivo e impellente. Doveva tenere le mani impegnate, doveva sempre restare in movimento! In una remota regione del suo istinto si era insediata una consapevolezza che aveva messo radici profonde e non ammetteva alcun compromesso: doveva scappare, il più lontano possibile. Perché alla sue spalle quel colore continuava ad avanzare come un fiume che, goccia dopo goccia, erodeva la roccia. Perché quel bagliore, mischiato al ricordo della dolcezza della sua voce, del suo profumo, riuscivano a stordire i suoi sensi fino a privarlo del senno.
Tunk, t-tunk, tunk. Tunk, tunk... tunk!
Lei era sempre in agguato.
Tunk! Tunk!
Il solo pensiero di restare immobile, di lasciarsi raggiungere, lo terrorizzava a morte!
Tunk, tunk, tunk, tunk… Sbam!
Finn sgranò gli occhi! Ogni muscolo del suo corpo si trasformò in pura roccia e rimase paralizzato. Come il suo respiro, come le lacrime, che pungevano gli occhi pronte per uscire, ma che si ostinavano di rimanere dentro le cavità scavate delle orbite. Osservò impotente la palla scavalcare il bordo e rotolare giù, provando la vertiginosa sensazione che il mondo stesse precipitando insieme ad essa. Un’ombra pesante ghermì il suo corpo e trascinò di peso la sua mente lontano dalla carne.
La stanza cominciò a vorticare all’impazzata!
«No» sussurrò con un filo di fiato. «No, no. No, no, no, no, no!!»
E d’incanto il suo corpo si mosse più veloce che mai. La palla, doveva raggiungerla! Era bastato fermarsi per un misero istante, perdere il ritmo, perché quella cosiddetta “concentrazione” fosse lacerata, come la pelle si apriva sotto il filo di una spada d’acciaio.
Lei era più che una semplice spada. Lei era… tutto: la fonte del suo dolore, il suo incubo peggiore, un formicaio di artigli voraci che a furia di scavare, di graffiare e cavare sangue, lo stavano riducendo a un guscio vuoto.
Doveva raggiungere quella palla. Doveva, o la convinzione che si era scolpita nel suo cuore in quei mesi – che altrimenti il mondo avrebbe cessato di esistere, che lui avrebbe cessato di nuovo di esistere – avrebbe strappato anche l’ultimo brandello di senno che disperatamente cercava di restare aggrappato alla sua volontà straziata. Ma i suoi piedi vacillavano. La distanza sembrava moltiplicarsi visibilmente con ogni respiro, mentre il peso di una montagna lo tirava giù.
Due mani forti gli afferrarono le spalle. Una voce lo chiamò. Finn cedette al panico e se ne divincolò con un gesto violento. Strisciò in avanti, quando le gambe non lo ressero più. Tutto ciò che lo circondava iniziò a perdere quel poco di forma che ancora manteneva, riducendosi a quell’unico oggetto lontano, sferico, che appariva nitido in mezzo all’oscurità. Mentre quel dannato bagliore lo inseguiva e si faceva sempre più pressante, gli premeva sul collo, sulle spalle, gli faceva formicolare le dita.
«No!!» Gridò con più forza, quando qualcosa provò a tirarlo indietro.
Il panico s’irradiò in ogni lembo della sua pelle sotto forma di calore. Il suo corpo si caricò di una tale pressione che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro!! Lei era dietro di lui, la sentiva. Quegli occhi!! Finn non aveva mai pregato alcun Dio prima d’ora, ma le parole, quei mezzi mormorii privi di significato, si scoprì a ripeterli come un flusso di suoni pietosi disconnesso dalla realtà: un disperato ronzio di formule e scongiuri e piagnistei e lacrime salate, mentre il semplice pensiero di esserne sfiorato lo spingeva inesorabilmente alla follia.
Perché se avesse osato girarsi, sarebbe caduto di nuovo nella sua tela. Perché nulla sarebbe stato più doloroso che posare ancora una volta gli occhi su di lei; le sue mani tremavano al solo pensiero.
«Mio lord! La scongiuro, si calmi!!»
«No!!» Stavolta la sua voce raschiò il fondo della sua umanità, divenne stridente, bestiale. «Lasciami! Lasciami!!»
Ma quella forza era diventata troppo potente per essere contrastata. Nonostante i suoi sforzi disperati, alla fine fu vinto e trascinato via. A nulla valsero le sue grida di paura, di rabbia, i calci, i pugni. Presto fu privato anche della più basilare forma di libertà.
Fu allora che sentì l’ago penetrare nella sua carne, e il tempo rallentò. Ogni millimetro di ferro lo sentì scivolare con la forza di cento stilettate. Era freddo, era dannatamente sbagliato.
Voci e figure demoniache imperversavano ogni giorno intorno a lui. Lo chiamavano per nome. Lo chiamavano Lord. Ma di cosa era Lord: di angosce, di paure, di rimorsi? Dove mai poteva estendersi la mano della sua signoria, se persino il suo corpo si ribellava alla sua autorità?
Erano soltanto la frenesia e l’ossessione a dominare la sua volontà. Il passato si fondeva al presente e al futuro, diventando un unico momento di sofferenza che si dilungava verso l’infinito: un inferno senza via di fuga, riempito dal senso di colpa, dall’impotenza, da una carica emotiva che aveva profanato la sua mente fino a guastare ogni cosa. Un abisso sconfinato dove sentiva di stare sprofondando giorno dopo giorno e dove gli occhi di lei erano una presenza costante, immutabile, inesorabile.
Intorno a lui, quasi che fosse un banco di pesci carnivori con le fauci acuminate, pronto a mordere le carni, solo l’illogica convinzione che muoversi, fuggire, spezzare con ogni mezzo possibile il flusso di quell’infinito ripetersi di ricordi e sensazioni, fosse l’unica àncora alla quale afferrarsi per non cedere e perdere se stesso.
Per rimanere sospeso, soltanto e nulla più che questo, e non cadere definitivamente nel nulla...
I suoi occhi si chiusero lentamente, mentre un liquido freddo si diramava sottopelle. Tuttavia il sonno non gli avrebbe donato alcuna pace. Erano mesi ormai che i suoi sogni lo tradivano, riempiendosi dei ricordi e del sangue che, pervaso da quell’innaturale bagliore violetto, assumeva sfumature tanto raccapriccianti quanto seducenti. Come lei.
Come Violet.
 
A centinaia erano accorsi per vedere la meraviglia che si era mostrata su Mundus.
I bardi avevano iniziato a cantare in ogni angolo del continente di una donna venuta dal nulla, le cui virtù appassivano di fronte alla vera meraviglia delle meraviglie: i suoi occhi. Di un colore intenso e mai visto prima d’allora. Non erano di questo mondo, era chiaro. Chiunque li avesse incrociati, si raccontava, avrebbe vissuto un “risveglio” dei sensi: un’ esperienza sensoriale che neanche l’oppio poteva pareggiare.
Più trascinante dell’ambizione.
Più suadente del piacere.
Più appagante della speranza.
Lord e curiosi, studiosi e persino uomini di fede, si riversavano a centinaia ogni giorno nella signoria di Lord Byron pur di vederla, anche solo per un momento, di sfuggita; e adesso, ironia della sorte, ogni volta che Finn chiudeva gli occhi, era come se lei prendesse forma solo per lui.
Così fragile, eppure letale.
Pura nelle apparenze quanto viscida era la sua anima.
Protetta al fianco del lord che l’aveva ospitata… ma in tutto e per tutto burattinaia di qualunque volontà fosse caduta nelle trappola del suo sguardo.
Era un angelo? Si era chiesto la prima volta che l’aveva ammirata.
È un demone? Si chiedeva adesso, giorno dopo giorno, mentre sentiva fisicamente la pressione dei suoi artigli sulla nuca.
Gli anziani ripetevano fino allo sfinimento che il tempo cancellava ogni cosa e che nulla poteva sfuggire al suo inesorabile scorrere. Se ciò era vero, allora quella donna aveva in seno anche il potere di fermarlo. Perché di lei, Finn, ricordava ogni fine dettaglio più del viso della sua stessa madre, o del proprio, ormai irriconoscibile, riflesso allo specchio.
Una chioma rigogliosa, fluente, candida come la neve. Una bocca carnosa che tradiva l’innocenza di una fanciulla non ancora sbocciata, e un visino distinto che prometteva di maturare in quello di una donna attraente. Dettagli che Finn ricordava con la precisione di uno strumento che dalla mano dell’uomo, probabilmente, non era stato ancora inventato. Non si trattava della percezione “astratta” di un artista o del riflesso bugiardo di uno specchio, no: era come se il suo “io” l’avesse ricalcata su tela con una fedeltà impareggiabile per qualsiasi forma di arte; ogni piccolo difetto, ogni amabile curva degli zigomi, il rossore delle gote, che la luce che riflettendosi sulla pelle evidenziava le unicità della sua forma, ogni più lieve increspatura irregolare delle labbra.
Non era più bella del reame, forse non lo sarebbe mai stata. Finn aveva avuto decine di lady e donne del volgo nel suo letto ed era certo delle sue affermazioni, come lo era che il Sole sarebbe sorto e poi tramontato ogni giorno, e che la luna avrebbe completato il suo ciclo fino alla fine del mondo. Ma c’era una cosa, una sola, che la faceva risplendere di luce, cancellando ogni difetto, scalfendo la memoria di ogni altra donna fino a trascinarlo sul punto di dubitare che fossero mai esistite.
Gli occhi di una divinità.
Gli occhi di un demone.
La brillantezza del Sole, l’intensità della pioggia. Iridi piene di quel colore senza precedenti, in cui sembravano incastonati e compressi saldamente, fino a fondersi come roccia e lava, piccolissimi frammenti di cristallo che mutavano di colore in base al riflesso della luce. Una visione impareggiabile, mistica. Aveva travolto i suoi sensi donandogli un piacere senza eguali, l’aveva liberato dagli affanni della vita quotidiana; il veleno, provocato dalla fuorviante sensazione di pericolo che causavano istintivamente, era stato null’altro che il perfetto condimento per un’estasi che non aveva pari nell’universo.
Aveva sentito storie di stregoni ed altre entità maligne in grado piegare il senno dell’uomo più indomito, di torture capaci di stremare il fisico e la mente finanche a spezzarli. Ma nulla, nulla di tutto questo, era soltanto lontanamente paragonabile all’esperienza che aveva vissuto.
Nessuna magia, nessuna pressione. Era bastato uno sguardo e centinaia, anzi migliaia di curiosi, si erano trasformati in un gregge di pecore smarrite che si era raccolto intorno a lei.
Il pastore attorno al quale si erano riuniti in adorazione.
La sua voce, mentre raccontava loro la sua storia, come erba che li nutriva.
Il suo profumo, l’essenza artificiosa di un paesaggio bucolico.
Per lei, ciascuno di loro, all’unisono, si era alzato in piedi e aveva estratto la propria arma con un sorriso di pura gioia sulle labbra. Sempre per lei. Solo per lei.
Avrebbero fatto di tutto.
Era bastata una semplice inflessione gelida nell’amabile tono della sua voce e il sangue nelle vene di Finn si era infiammato. L’ombra folle dell’ira era apparsa sui volti di tutti e il sangue aveva cominciato a scorrere a fiumi per le strade, nelle case, in ogni sala del palazzo.
Quanto a lungo era durata quella follia? Finn non sapeva dirlo. Aveva gridato, aveva combattuto e mietuto vite. Che fossero demoni, uomini o angeli non aveva importanza. Le urla di dolore e morte si erano mischiate all’eco della sua voce, distorcendosi nelle note della melodia trascinante di un usignolo.
E quando tutto finalmente era taciuto, Finn si era ritrovato solo. In ginocchio, le mani e il viso fradici di sangue. Respirava in affanno, ma la sua mente era vuota. Era vacua. Priva di qualunque stimolo potesse provocare una reazione. Giaceva inerme e in attesa.
Poi, Violet era giunta al suo cospetto. Bellissima, potente. Si era inginocchiata senza curarsi delle vesti che s’imbrattavano di scarlatto; su di lei, persino il sangue prendeva vita iniziando a pulsare come un cuore di luce. Il rosso era come una madre che le stava insegnando come evidenziare le forme del suo corpo ancora acerbo. L’oscurità della notte, un padre che proteggeva i suoi primi passi.
«Come ti chiami?» Persino il suo fiato sembrava possedere un’essenza estranea a questo mondo.
Una parte di lui, l’unica che avrebbe voluto lottare, era diventata così effimera da dissolversi come polvere. Era vuoto e la sua voce era l’unica cosa che potesse riempirlo. L’unica ragione per cui non aveva risposto, non subito, erano le sue labbra secche.
«F-Finn…» aveva confessato in un sussurro.
L’ultima cosa che ricordava, prima di chiudere gli occhi, era il suo sorriso perfido distendersi amabilmente.
Il violetto era diventato tutto il suo mondo e lui… aveva cessato di essere.
«Finn… Mi piace.»
 
Si svegliò di soprassalto nella tempesta!
Come se fosse tornato al punto di partenza e il sonno non avesse fatto altro che peggiorare il disagio fisico. Intorno a lui, solo ombre e bisbiglii senza significato. Finn cercò con tutto se stesso di resistere all’impulso di vomitare e si coprì le orecchie. La testa pulsava. La voce di lei echeggiava intorno e dentro di lui.
Quei sussurri distorti invocavano il suo nome, ma il ricordo della voce di Violet era più potente. I suoi occhi erano dappertutto! Rivide il suo sorriso sadico nelle ombre che lo circondavano, mentre una viscida sensazione liquida si faceva largo dalle tempie fino alla base del collo.
Quando guardò le sue mani, scoprì che erano ricoperte di sangue!
Urlò di puro orrore. Qualcosa provò ad afferrarlo, la scacciò via. Prima che potesse anche solo realizzare cosa stesse succedendo, nelle sue mani fu posato qualcosa. Finn lo strinse con una violenza tale da sentirne il materiale scricchiolare. Il pollice sondò involontariamente l’estremità dell’oggetto e fu immediatamente colto dall’impulso di premere.
Click…
Come una goccia che cadeva nello stagno.
Un respiro profondo, dopo essere stato così a lungo in apnea da dimenticare come respirare. Tutta la tensione, tutta la pressione, il malessere, rallentarono.
Click, click, click, click, click, click, click, click, click!
Le ombre iniziarono a svanire e i volti di chi lo circondava iniziarono a definirsi.
Click, click, click, click.
Presto anche i sussurri cominciarono a prendere la forma e il suono consueto delle parole.
Click-click. Click-Click... Click. Click. Click.
Non trasse alcun respiro profondo. Quella non era una vittoria né una liberazione: era un punto, di equilibrio, tra la forza nervosa che cercava di resistere e quella che cercava di trascinarlo verso il fondale. Stava ancora annegando: annegava costantemente. Il misero amo a cui si era afferrato non l’avrebbe reso di certo più libero dai suoi demoni, né in pace. Persino il modo distorto e innaturale con cui, a scatti, tremando, iniziò a guardarsi intorno, tradiva un disagio evidente. A destra, a sinistra, davanti; mai alle spalle, dove sentiva il peso dei suoi occhi, della sua luce, di…
Click, click, click, click!!
Una figura entrò nel suo campo visivo. Per quanto cautamente e con delicatezza chiuse le mani intorno alle proprie, Finn ebbe uno spasmo di ribrezzo. Le sue mani fremettero e gli occhi si sgranarono lentamente. L’istinto urlava di fuggire con ogni più lieve tic nervoso, ma la presa dell’altro, dell’altra, per quanto gentile, fu salda come il ferro.
Con l’altra mano costei gli afferrò il mento.
Click, click, click, click!! Click, click, click, click!!
Provò a divincolarsi, ma ancora una volta glielo impedì e iniziò a ruotare il suo viso. Voleva catturare il suo sguardo!
Click, click, click, click, click, click, click, click, click!
Il panico tornò a irradiarsi dentro di lui e tutto ciò che lo circondava ricominciò a sfocarsi.
La sua voce era quella di un demone e quella di una donna, e si sovrapponevano.
Click, click, click, click, click, click, click, click, click!
«Lord Fineas, riuscite a sentirmi?»
Click…
E di nuovo, in un attimo tornò ad essere in bilico sul precipizio.
Davanti a lui adesso si stagliavano due profondi occhi azzurri che lo fissavano con attenzione. Quella era definitivamente una donna, non c’erano dubbi. Una maga della vecchia scuola. Indossava una lunga mantella da viaggio grigia e un vestito consunto che le arrivava fino ai piedi.
«Mia signora, la prego! Non lo guardi negli occhi. Lord Finn è diventato estremamente suscettibile allo sguardo delle persone» disse qualcuno, da qualche parte in quel mare color pece che li circondava.
«No» rispose lei. «Lui… sta reagendo. Si concentri, Lord Fineas. Mi guardi.»
Dovette incoraggiarlo ancora un paio di volte, prima Finn si decidesse a fare uno sforzo.
Click. Click. Click.
Più a lungo si soffermava su di lei, più la sua figura iniziava ad arricchirsi di particolari. Le ciocche rosse che fuoriuscivano dal grande cappello a punta. Il volto leggermente paffuto, lentigginoso. Due occhi intensi, ma che al confronto di Violet apparivano, sbiaditi, anonimi. Era come se in essi fossero incastonate lastre di ghiaccio perenne. Sulle sue labbra pallide c’era un malcelato ghigno di soddisfazione.
Finn le afferrò la gola e cominciò a stringere forte.
«Ora basta!!» Uno stuolo di ombre iniziò a correre verso di loro. «Che cessi questa follia! Non era sufficiente un uomo tocco?! Anche tu sei stata contagiata dalla sua follia, maga?»
Eppure, per quanto lui stringesse forte, lo sguardo quella donna non vacillò. Né le ombre osarono fare un altro passo. Tutto rimase fermo, in un equilibrio precario mantenuto insieme da… Da cosa?
Paura? Odio? Rimorso?
Solo allora realizzò davvero cosa stava facendo e fece per togliere la mano. La maga fu più rapida e la trasse a sé, spingendosela contro il petto. «Siete o non siete Lord Fineas di Casa Ambohrs?»
«I-Io…» Finn stritolò la veste grigia nel pugno. «Sono n-nulla. Un’assassino... Loro. T-Tutti loro. È colpa mia...» Le lacrime scesero a inumidire le guance, e le labbra tremanti. «Violet!!»
«Adesso basta! Abbiamo atteso anche troppo. La sua mente non sta guarendo. Nessuno guarisce dopo che quella donna ti guarda negli occhi, nessuno lo farà mai. Un pazzo deve stare rinchiuso con i suoi pari. Per la nostra sicurezza e quella dei nostri figli!»
La maga si girò alle sue spalle. «E su che basi state fondando la vostra asserzione, di grazia?»
L’ombra si limitò a distendere un braccio informe verso di lui. «Su che basi? Ma l’avete visto? Qualunque cosa fosse prima quest’uomo, adesso è meno di una larva. Guardate come si muove, cosa fa. Guardate come vi ha afferrato la gola! Non è normale. È solo un folle.»
La maga si limitò a scuotere la testa con disappunto e tornò a guardare Finn dritto negli occhi. «La normalità è un concetto assai astratto, mio signore. Muta come la marea. L’unico modo per sopravvivere alla furia del mare è imparare ad adattarsi. Anche se sospetto che per voi, imparare, sia una parola vuota.» L’ombra disse qualcosa che la maga semplicemente ignorò. «Lord Fineas…» Lui non reagì. «Finn» disse lei, piano e con più energia. «Io non sono Violet. Il mio nome è Vivienne.»
«Vi…vienne» ripeté lentamente, e lei annuì.
Gli prese la mano. Insieme premettero il tasto del giocattolino di legno che stringeva tra le dita finché il ritmo non si stabilizzò.
Click. Click. Click.
Chiese se potesse fargli delle domande e a malincuore Finn annuì.
«Li ho uccisi» confessò tra le lacrime. «Tutti. Lei ci chiedeva di fare delle cose. Doveva solo chiedere ed io… Lei è dappertutto! Non riesco a smettere di pensarci, non r-riesco a…» La sua voce si strozzò. «Se io… S-Se io…»
Lentamente, Vivienne lo tirò a sé e lo strinse al petto. La mano che gli infilò tra i capelli fu il gesto più terribile, e al tempo stesso il più calmante, che potesse fare. Il suo profumo era così ordinario, di sali da bagno e fiori, eppure respirarlo lo aiutò a concentrarsi.
Ad esalare, tra i singhiozzi: «Ho ucciso uomini, mogli, f-figli.»
Non se lo sarebbe mai perdonato. Perché in fondo al cuore Finn lo sapeva: se lei l’avesse raggiunto, se Violet lo avesse guardato negli occhi un’altra volta, sarebbe tornato ad essere quel mostro capace di spezzare centinaia di vite innocenti.
«Credete ancora che Lord Fineas sia pazzo, mio signore?»
Nessuno rispose. Finn continuò respirare il suo profumo, a singhiozzare, a stringerla forte. Il contatto di Vivienne era sbagliato, lo faceva rabbrividire. Eppure sentire il suo corpo morbido contro il proprio, il suo calore, il battito del suo cuore, lo aiutò ricordare le sensazioni che ormai non provava da mesi. Un contatto che non l’avrebbe protetto in alcun modo dagli occhi di Violet, che non gli avrebbe riconsegnato le vite che aveva preso, ma tracciò una linea di demarcazione tra illusione e realtà e a poco a poco, nel suo abbraccio, iniziò a sentire le palpebre farsi pesanti.
«Grazie, Finn» gli sembrò di udire, mentre scivolava nel sonno. «Grazie per avermi donato la speranza.»
Finn si addormentò circondato dalle ombre e dal bagliore violetto degli occhi di Violet.
E l’incubo ricominciò esattamente da dove l’aveva lasciato.
 
La palla da biliardo colpiva la sponda del tavolo ogni due secondi. C’era un’insolita perfezione nel modo in cui la sua mano l’afferrava e poi la faceva slittare di nuovo verso l’angolo, facendole percorrere la medesima traiettoria. Ancora, e ancora. Con una costanza che rasentava la perfezione.
Tunk, tunk, tunk, tunk.
Ogni ticchettio dell’orologio a muro sembrava echeggiare un’insignificante frazione di secondo più in ritardo della precedente, mentre il suo ritmo proseguiva regolare. Concentrazione, la chiamavano. Ma chi aveva coniato questo termine, molto probabilmente, non aveva mai provato ciò che lui provava; non vedeva ciò che lui vedeva, non sentiva ciò che lui sentiva.
Tunk, tunk, tunk, tunk. Tunk, tunk, tunk, tunk.
Soprattutto, non stava lottando giorno per riconquistare la sua libertà da una forza inesorabile che cercava di corrodere ogni suo ricordo felice e di spazzarlo via. Maligna e ineluttabile. Quegli occhi, quel maledetto colore. Erano impressi nella sua testa come un marchio sull’anima e bruciavano più del fuoco stesso! Ogni volta che i suoi pensieri cadevano nella loro trappola, Finn cercava di restare ancorato alla realtà e impedire che un’altra parte di se stesso svanisse. Che si sciogliesse, come cera.
Tunk, tunk, tunk, tunk. Tunk, tunk.
E più intensamente quegli occhi lo inseguivano tra sogno, incubo e realtà, più il suo corpo sembrava come risvegliarsi. Plasmato da una volontà che non era la propria: un bisogno ossessivo e impellente. Doveva tenere le mani impegnate, doveva sempre restare in movimento! In una remota regione del suo istinto si era insediata una consapevolezza che aveva messo radici profonde e non ammetteva alcun compromesso: doveva scappare, il più lontano possibile. Perché alla sue spalle quel colore continuava ad avanzare come un fiume che, goccia dopo goccia, erodeva la roccia. Perché quel bagliore, mischiato al ricordo della dolcezza della sua voce, del suo profumo, riuscivano a stordire i suoi sensi fino a privarlo del senno.
Tunk, t-tunk, tunk. Tunk, tunk... tunk!
Perché lei era sempre in agguato, e doveva aggrapparsi costantemente alla realtà per impedire che lo trascinasse a fondo.
Tunk! Tunk!
Il solo pensiero di restare immobile, di lasciarsi raggiungere, lo terrorizzava a morte!
Tunk, tunk, tunk, tunk… Sbam!
Finn sgranò gli occhi! Ogni muscolo del suo corpo si trasformò in pura roccia e rimase paralizzato. Come il suo respiro, come le lacrime, che pungevano gli occhi pronte per sgorgare, ma che si ostinavano di rimanere dentro le cavità delle orbite. Osservò impotente la palla scavalcare il bordo e rotolare giù, provando la vertiginosa sensazione che il mondo stesse precipitando insieme ad essa. Un’ombra pesante ghermì il suo corpo e trascinò di peso la sua mente lontano dalla carne.
La stanza cominciò a vorticare all’impazzata!
Tunk.
E d’incanto la palla fu posata sul tavolo.
Finn guardò per una frazione di secondo il suo servitore che sorrideva incoraggiante e lo ringraziò con un impercettibile cenno del capo. Era bastato fermarsi un misero istante, perdere il ritmo, perché quella cosiddetta “concentrazione” fosse lacerata, come la pelle si apriva sotto il filo di una spada d’acciaio.
Lei che era più che una semplice spada. Lei era… tutto: la fonte del suo dolore, il suo incubo peggiore, un formicaio di artigli voraci che a furia di scavare, di graffiare e cavare sangue, lo stavano riducendo a un guscio vuoto.
La palla da biliardo, tuttavia, ricominciò a poco a poco a colpire la sponda del tavolo ogni due secondi. Con l’insolita perfezione che aveva nell’afferrarla e poi farla slittare di nuovo verso l’angolo, facendole percorrere la medesima traiettoria. Ancora, e ancora.
Con una costanza che, presto, tornò a rasentare la perfezione.
Tunk, tunk, tunk, tunk.
«Loc. Faust verrà a farle visita nel pomeriggio, mio signore. Secondo lady Vivienne, è il miglior erudito del Sud.»
Vivienne.
Udendo il suo nome, per un attimo Finn alzò la testa. Poi tornò a muovere la palla.
Per un momento era tornato ad essere completamente lucido e odiò la maga per questo. La odiò profondamente. Lei e Violet erano arpie che cercavano di ghermirlo con i loro artigli e trascinarlo dalla propria parte. L’una prometteva l’abisso, piaceri inebrianti e albergava nei suoi incubi peggiori, l’altra lo visitava spesso nella realtà e gli donava solo e soltanto il gelo della vetta, e la cruda consapevolezza dei suoi peccati.
Fuggire all’una e respingere l’altra sembravano diventate le sue uniche ragioni di vita. E questo non faceva altro che confonderlo. Perché, ora che i cieli si erano aperti sopra la sua testa, era in bilico e allo stesso tempo resisteva alla mano che l’aveva afferrato per salvarlo? Gridava, si disperava, ma cosa voleva lui davvero?
«Lei non sarà presente questa volta, ma le manda i suoi saluti e le promette che tornerà a visitarla in Estate. Da quando ha scoperto che per qualcuno di noi è possibile resistere alla malia di quella strega, il continente sembra essere attraversato da un entusiasmo contagioso. E anche noi. Dicono che ci vorrà del tempo, ma… Noi la aiuteremo a superare questo momento, milord.»
La sua ira si accese in un lampo. Strinse la palla da biliardo e la tirò con violenza contro il vetro della credenza.
«L-Lasciami…» esalò.
Il suo servitore non commentò, ormai doveva essersi abituato a quegli scatti. Chinò rispettosamente il capo e se ne andò in religioso silenzio.
Lei non sarebbe venuta. Era questo il pensiero che aveva lacerato la sua concentrazione, stavolta. La stanza non era mai stata più soffocante come in quel momento. Niente, da tempo, gli era sembrato così reale. Dalla tappezzeria ai frammenti di vetro che brillavano sotto la luce del grande candelabro a grappolo che dominava la sala. Finn raggiunse in un attimo la palla, e in un ritornò al tavolo.
 
La palla da biliardo ricominciò a colpire la sponda del tavolo, ma stavolta a intervalli rabbiosi, irregolari. Slittava verso l’angolo colpendo ogni volta un punto diverso, con un margine di errore così vistoso da fargli stringere i denti e ringhiare di pura frustrazione.
Tunk. T-Tunk, tunk, tunk. Tunk-tunk!
Ogni ticchettio dell’orologio a muro scandiva i secondi passati senza di lei. Come si poteva non detestare una donna simile? Come poteva provare una stretta al cuore ogni volta che non sentiva il suo profumo così ordinario pervadergli le narici?
Lei non sarebbe venuta e per un momento, un solo momento, il passato e il futuro cessarono di avere significato. Per un momento, persino Violet e i suoi occhi malefici furono soppressi, cancellati.
Per un momento, un solo istante liberatorio, la rabbia accese dentro di lui una scintilla di vita che dominò ogni altro pensiero.
Poi i suoi incubi peggiori ritornarono assillarlo. Le sue mani ricominciarono a tremare e la sensazione del sangue tra le dita fu più intensa che mai.
 
La palla da biliardo ricominciò a colpire la sponda del tavolo ogni due secondi.
C’era un’insolita perfezione nel modo in cui la sua mano l’afferrava e poi la faceva slittare di nuovo verso l’angolo, facendole percorrere la medesima traiettoria. Ancora, e ancora. Con una costanza che rasentava la perfezione.
Tunk, tunk, tunk, tunk.
Ogni ticchettio dell’orologio a muro sembrava echeggiare un’insignificante frazione di secondo più in ritardo del precedente, mentre il suo ritmo proseguiva regolare. Concentrazione, la chiamavano. Ma chi aveva coniato questo termine, molto probabilmente, non aveva mai provato ciò che lui provava; non vedeva ciò che lui vedeva, non sentiva ciò che lui sentiva.
Tunk, tunk, tunk, tunk. Tunk, tunk, tunk, tunk.
Soprattutto, non si era ritrovato da un giorno all’altro a dover combattere, ogni istante della sua misera esistenza, contro una forza inesorabile che cercava di corrodere ogni suo ricordo felice e di spazzarlo via…



Angolo autore:

Salve a tutti!
È un bel po' che non pubblico qualcosa di nuovo, e per questo ringrazio la nuova giudice Spoocky per l'opportunità e soprattutto per aver indetto un contest che ha catturato il mio interesse.
Come avete potuto notare nel corso della lettura, la tematica riguarda il disturbo post traumatico da stress, che la giudice ci chiedeva di descrivere partendo, come base, da un punteggio di diagnosi utilizzato per separare quelli che davvero soffrono di questo disturbo da chi non è qualificabile sotto tale voce; in soldoni, chi lo è da chi non lo è.
Non sono sicuro di aver centrato tutti i punti focali. Mi sono concentrato di più su come il paziente vive il trauma, o almeno come concettualmente ritengo che sia vissuto un trauma del genere: una ripetizione, continua, snervante, di una situazione che non può migliorare dall'oggi al domani. Anzi, talvolta i miglioramenti sono così impercettibili che, per chi sta vicino al paziente, sembra quasi che non sia cambiato assolutamente niente; nel racconto, la scena di Finn che muove la palla da biliardo sul tavolo.
Invece potrebbe essere cambiato tutto, oppure si è intrapresa semplicemente la direzione giusta e sta al paziente - alla fine tutto si riduce a questo - decidere se afferrare la mano tesa o sprofondare nell'abisso. Il paziente potrebbe arrivare ad odiare questa figura positiva che gli ha sconvolto questo fragilissimo "equlibrio", o meglio che cerca di forzarlo uscire da dallo schema autodistruttivo che si è creato. 
C'era bisogno di un racconto fantasy per impostare l'argomento in questo modo? Assolutamente no xD Ma l'idea che esista in natura un colore diverso da quelli che conosciamo, e le loro derivazioni, mi stuzzicava da un po'. E considerando che dovrebbe sulla carta essere impossibile immaginare un colore ex-novo, ho creato un mondo fantasy che li ha tutti... tranne uno. 

E niente. Spero che leggere questa piccola OS vi sia piaciuto, o almeno che non sia stata uno spreco del vostro tempo *incrocia le dita.
Alla prossima e grazie mille se avete letto delirio fin qui ^^
Ghostro
   
 
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