18
Gabriel conosceva la planimetria di quella casa. Era già stata la scena di un omicidio, in cui, davanti al cadavere, lui si era lasciato sfuggire una battuta ed era stato fulminato dai gelidi occhi grigi di Theresa Beale. E, adesso, tre anni dopo, Gabriel Giuliani si trovava di nuovo in quella casa e la vittima era proprio la Beale. Sperava solo di non trovarla con il cranio sfondato come la Creston.
Cercando di non fare il minimo rumore, Gabriel e gli altri percorsero la cucina verso la porta della cantina. La aprirono con cautela e, con altrettanta attenzione e circospezione, iniziarono a scendere i primi gradini.
Gabriel guidava il gruppo e, quando lentamente girò l’angolo verso il muro abbattuto, ringraziò mentalmente qualsiasi divinità fosse intervenuta ad aiutarlo a convincere Alex a restare indietro. Nascosti dietro il muro, la squadra studiava la situazione. L’odore del disinfettante non riusciva a coprire quello del vomito e del sangue e Gabriel sentiva lo stomaco in fiamme all’idea di quello che poteva essere successo. O che stava ancora succedendo.
«Oh, andiamo, non mi concedi nemmeno un urlo, dottoressa?»
A quella voce, Gabriel si immobilizzò.
«Questo vuol dire che devo insistere…» e il rumore di un colpo, troppo forte per essere solo uno schiaffo. Era stato uno scrocchio, quello? Un osso che si spezzava? E potevano sentirlo da lì?
L’unica risposta, dei singhiozzi strozzati. Gabriel non si era nemmeno reso conto di aver trattenuto il fiato finché non aveva espirato. Si affacciò lentamente dal muro, sperando di avere fortuna e di essere alle spalle dello stronzo. Sì!
«Evans! Getta quel martello!» Giuliani uscì da dietro il muro con la pistola spianata e puntata verso il medico legale. Alle sue spalle, il resto della squadra bloccava quella che sembrava essere l’unica uscita.
Lentamente e con una risata che nulla aveva di buono, Evans lasciò cadere il martello, mancando di poco il ginocchio di Tessa, stesa sul tavolo davanti a lui. Gabriel non rischiò di guardarla, scegliendo invece di restare concentrato sul suo obiettivo. Non se lo sarebbe mai perdonato se, per via di una breve distrazione, Evans fosse scappato. Mai e poi mai si sarebbe aspettato che quello stronzo potesse arrivare a tanto. Non gli era stato simpatico, gli aveva dato i brividi fin dal loro primo incontro, ma mai avrebbe potuto sospettato tanto.
«Hai visto? Sono venuti i tuoi amici a salvarti. Dovevo mettere le mani sulla loro cagna perché si decidessero a muoversi». Evans si voltò verso Tessa, allungando una mano verso di lei.
«Non toccarla», scandì Gabriel, il dito che quasi gli tremava sul grilletto dal desiderio di sparare e fanculo i protocolli e la possibilità di arrestare l’assassino; fanculo l’interrogatorio. Fanculo tutto. Quello si meritava solo una pallottola in mezzo agli occhi.
«Altrimenti, detective? Mi spari?» lo prese in giro Evans, facendo un passo verso il tavolo d’acciaio. «Non mi è sembrato di vedere il tuo collega, però. Che c’è, la sua dottoressa non valeva la pena di venirmi a stanare?» continuò, abbassando la mano sulla caviglia di Tessa e stringendo. Dal canto suo, Tessa non emise un fiato. Da quella distanza, Gabriel non sapeva nemmeno se fosse cosciente o svenuta.
Giuliani fece un passo avanti, facendo cenno alla squadra di restare in posizione. Non gli era sfuggito il tavolino ben attrezzato accanto a Evans. E nemmeno la pistola alla cintura. Loro avevano l’attrezzatura, i giubbotti, ma Tessa no. Chi poteva dire se il medico legale non avrebbe sparato alla collega prigioniera?
«Il gatto ti ha mangiato la lingua, detective?» continuò Evans.
«Se hai tutta questa voglia di parlare, perché non mi dici perché l’hai fatto?» ribatté Gabriel, indicando la Beale con un cenno della testa. «Perché lei? Perché tutte le altre?»
«Oh, ma è semplice. Non sono degne di vivere. L’unica cosa che una donna dovrebbe fare è essere madre. Queste cagne prima aprono le gambe e poi vogliono liberarsi dei frutti dei loro peccati. Meritano di morire».
«Se uccidi loro, uccidi i loro bambini» ribatté Gabriel, trovando il difetto nella logica.
«Indegni figli del peccato».
«Allontanati da lei e fatti mettere le manette, Evans», gli intimò Gabriel, stanco di quel siparietto. Prima si liberavano di lui, prima potevano occuparsi di Tessa.
Quando prese la pistola dalla cintura, Evans scoppiò a ridere.
Quando sentì lo sparo dall’auricolare, Alex fece l’unica cosa che poteva fare: si liberò di chi lo tratteneva e corse in casa. Come Gabriel, conosceva la planimetria e non ci mise molto ad arrivare in cantina. Non si aspettava quello che vide: Gabriel e il resto della squadra immobili al centro dello spazio, Tessa legata su un tavolo d’acciaio e John Evans a terra, un foro di proiettile su una tempia e ancora la pistola in mano.
Quando Alex fece per avvicinarsi a Tessa, Gabriel lo fermò con un cenno della mano. Era meglio che non la vedesse così. Ferita. Coperta di lividi. Ossa rotte. Gabriel non fiatò: se Alex aveva sentito lo sparo, non doveva essergli sfuggito nemmeno il resto della conversazione.
«Dobbiamo portarla fuori» cercò di intervenire Alex, quando Gabriel non diede cenno di lasciarlo avvicinare.
«Non possiamo muoverla, Alex» fu l’unica risposta del detective. Alex impallidì. Gabriel sollevò l’angolo delle labbra. «È viva, ma conciata male. Aspettiamo l’ambulanza. Se la spostiamo noi, rischiamo di fare più danni».
Solo in quel momento Alex si rese conto che Tessa teneva Gabriel per un polso, come se fosse l’unica cosa sicura rimasta a cui aggrapparsi. Sentì solo una punta di… rabbia? Gelosia? Gli sembrò di poter vedere solo quella mano pallida, le unghie spezzate, stretta intorno al polso del suo collega. Si accorse dell’arrivo del personale medico solo quando lo spinsero via per farsi strada. Li guardò valutare le condizioni di Tessa, occuparsi delle cure più urgenti e poi caricarla con cautela in barella e portarla via. Solo allora si concesse di guardare Evans a terra, il cranio sfondato dal colpo con cui aveva deciso di uccidersi, l’ultimo smacco nei loro confronti.
«Alex, andiamo» la voce di Roxy lo riportò alla realtà. «Qui ci pensano loro. Tu vieni in ospedale con me». Quando lui la guardò perplesso, Roxy gli sorrise. «È un ordine, Hasler».
A/N: Ve l'aspettavate? Comunque, abbiamo quasi finito: solo un altro capitolo e poi l'epilogo. Commenti e opinioni sono sempre ben accetti!
Gabriel conosceva la planimetria di quella casa. Era già stata la scena di un omicidio, in cui, davanti al cadavere, lui si era lasciato sfuggire una battuta ed era stato fulminato dai gelidi occhi grigi di Theresa Beale. E, adesso, tre anni dopo, Gabriel Giuliani si trovava di nuovo in quella casa e la vittima era proprio la Beale. Sperava solo di non trovarla con il cranio sfondato come la Creston.
Cercando di non fare il minimo rumore, Gabriel e gli altri percorsero la cucina verso la porta della cantina. La aprirono con cautela e, con altrettanta attenzione e circospezione, iniziarono a scendere i primi gradini.
Gabriel guidava il gruppo e, quando lentamente girò l’angolo verso il muro abbattuto, ringraziò mentalmente qualsiasi divinità fosse intervenuta ad aiutarlo a convincere Alex a restare indietro. Nascosti dietro il muro, la squadra studiava la situazione. L’odore del disinfettante non riusciva a coprire quello del vomito e del sangue e Gabriel sentiva lo stomaco in fiamme all’idea di quello che poteva essere successo. O che stava ancora succedendo.
«Oh, andiamo, non mi concedi nemmeno un urlo, dottoressa?»
A quella voce, Gabriel si immobilizzò.
«Questo vuol dire che devo insistere…» e il rumore di un colpo, troppo forte per essere solo uno schiaffo. Era stato uno scrocchio, quello? Un osso che si spezzava? E potevano sentirlo da lì?
L’unica risposta, dei singhiozzi strozzati. Gabriel non si era nemmeno reso conto di aver trattenuto il fiato finché non aveva espirato. Si affacciò lentamente dal muro, sperando di avere fortuna e di essere alle spalle dello stronzo. Sì!
«Evans! Getta quel martello!» Giuliani uscì da dietro il muro con la pistola spianata e puntata verso il medico legale. Alle sue spalle, il resto della squadra bloccava quella che sembrava essere l’unica uscita.
Lentamente e con una risata che nulla aveva di buono, Evans lasciò cadere il martello, mancando di poco il ginocchio di Tessa, stesa sul tavolo davanti a lui. Gabriel non rischiò di guardarla, scegliendo invece di restare concentrato sul suo obiettivo. Non se lo sarebbe mai perdonato se, per via di una breve distrazione, Evans fosse scappato. Mai e poi mai si sarebbe aspettato che quello stronzo potesse arrivare a tanto. Non gli era stato simpatico, gli aveva dato i brividi fin dal loro primo incontro, ma mai avrebbe potuto sospettato tanto.
«Hai visto? Sono venuti i tuoi amici a salvarti. Dovevo mettere le mani sulla loro cagna perché si decidessero a muoversi». Evans si voltò verso Tessa, allungando una mano verso di lei.
«Non toccarla», scandì Gabriel, il dito che quasi gli tremava sul grilletto dal desiderio di sparare e fanculo i protocolli e la possibilità di arrestare l’assassino; fanculo l’interrogatorio. Fanculo tutto. Quello si meritava solo una pallottola in mezzo agli occhi.
«Altrimenti, detective? Mi spari?» lo prese in giro Evans, facendo un passo verso il tavolo d’acciaio. «Non mi è sembrato di vedere il tuo collega, però. Che c’è, la sua dottoressa non valeva la pena di venirmi a stanare?» continuò, abbassando la mano sulla caviglia di Tessa e stringendo. Dal canto suo, Tessa non emise un fiato. Da quella distanza, Gabriel non sapeva nemmeno se fosse cosciente o svenuta.
Giuliani fece un passo avanti, facendo cenno alla squadra di restare in posizione. Non gli era sfuggito il tavolino ben attrezzato accanto a Evans. E nemmeno la pistola alla cintura. Loro avevano l’attrezzatura, i giubbotti, ma Tessa no. Chi poteva dire se il medico legale non avrebbe sparato alla collega prigioniera?
«Il gatto ti ha mangiato la lingua, detective?» continuò Evans.
«Se hai tutta questa voglia di parlare, perché non mi dici perché l’hai fatto?» ribatté Gabriel, indicando la Beale con un cenno della testa. «Perché lei? Perché tutte le altre?»
«Oh, ma è semplice. Non sono degne di vivere. L’unica cosa che una donna dovrebbe fare è essere madre. Queste cagne prima aprono le gambe e poi vogliono liberarsi dei frutti dei loro peccati. Meritano di morire».
«Se uccidi loro, uccidi i loro bambini» ribatté Gabriel, trovando il difetto nella logica.
«Indegni figli del peccato».
«Allontanati da lei e fatti mettere le manette, Evans», gli intimò Gabriel, stanco di quel siparietto. Prima si liberavano di lui, prima potevano occuparsi di Tessa.
Quando prese la pistola dalla cintura, Evans scoppiò a ridere.
Quando sentì lo sparo dall’auricolare, Alex fece l’unica cosa che poteva fare: si liberò di chi lo tratteneva e corse in casa. Come Gabriel, conosceva la planimetria e non ci mise molto ad arrivare in cantina. Non si aspettava quello che vide: Gabriel e il resto della squadra immobili al centro dello spazio, Tessa legata su un tavolo d’acciaio e John Evans a terra, un foro di proiettile su una tempia e ancora la pistola in mano.
Quando Alex fece per avvicinarsi a Tessa, Gabriel lo fermò con un cenno della mano. Era meglio che non la vedesse così. Ferita. Coperta di lividi. Ossa rotte. Gabriel non fiatò: se Alex aveva sentito lo sparo, non doveva essergli sfuggito nemmeno il resto della conversazione.
«Dobbiamo portarla fuori» cercò di intervenire Alex, quando Gabriel non diede cenno di lasciarlo avvicinare.
«Non possiamo muoverla, Alex» fu l’unica risposta del detective. Alex impallidì. Gabriel sollevò l’angolo delle labbra. «È viva, ma conciata male. Aspettiamo l’ambulanza. Se la spostiamo noi, rischiamo di fare più danni».
Solo in quel momento Alex si rese conto che Tessa teneva Gabriel per un polso, come se fosse l’unica cosa sicura rimasta a cui aggrapparsi. Sentì solo una punta di… rabbia? Gelosia? Gli sembrò di poter vedere solo quella mano pallida, le unghie spezzate, stretta intorno al polso del suo collega. Si accorse dell’arrivo del personale medico solo quando lo spinsero via per farsi strada. Li guardò valutare le condizioni di Tessa, occuparsi delle cure più urgenti e poi caricarla con cautela in barella e portarla via. Solo allora si concesse di guardare Evans a terra, il cranio sfondato dal colpo con cui aveva deciso di uccidersi, l’ultimo smacco nei loro confronti.
«Alex, andiamo» la voce di Roxy lo riportò alla realtà. «Qui ci pensano loro. Tu vieni in ospedale con me». Quando lui la guardò perplesso, Roxy gli sorrise. «È un ordine, Hasler».
A/N: Ve l'aspettavate? Comunque, abbiamo quasi finito: solo un altro capitolo e poi l'epilogo. Commenti e opinioni sono sempre ben accetti!