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Autore: Pat9015    18/08/2023    1 recensioni
Quattro mesi dopo gli eventi raccontati in Life is Strange: Kairos, Max e Chloe sono tornate nella rinata Arcadia Bay e cercano di andare avanti con la loro vita, riprendendo finalmente una apparente normalità. Dal giorno del tribunale, ultima volta in cui aveva usato i suoi poteri, Max soffre continuamente di emicranie che le causano anche visioni e sbalzi d'umore, che peggiorano fino a un esito tremendo: sta morendo. Questa crisi sembra risolversi con l'arrivo di uno sconosciuto in città che pare conoscere molto bene le ragazze e il potere di Max e le persuade a seguirlo in una ultima, finale avventura: per salvare la vita di Max è necessario che lei ripari ai danni involontari che ha causato manipolando il tempo. Danni che sono molto più profondi e complessi di quello che sembra, che potrebbero cambiarla come donna o distruggerla definitivamente e cancellare la sua esistenza.
In un modo o nell'altro, tutto quello che era iniziato con una visione un anno prima dovrà finire.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Chloe Price, Kate Marsh, Mark Jefferson, Max Caulfield, Nuovo personaggio
Note: Otherverse | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Parte Prima
 
Nosce Te Ipsum
 
 
 
 
 
 
 
 
1 – La forma delle cose
 
Il cielo era di un grigio perla e gli alberi erano ormai completamente spogli. Le loro foglie, ormai quasi tutte marcite, giacevano a terra inerti e scure, amalgamate in un pantano vegetale di residui di pioggia. Solo una foglia solitaria svettava da una delle betulle bianche del giardino antistante l’ingresso della Accademia Blackwell.
Stava là, svettando sopra tutti, sventolando come una piccola bandiera rossastra mossa dal vento debole. Chissà quando avrebbe mollato e si sarebbe lasciata morire, cadendo al suolo e raggiungendo le sue compagne, ormai decomposte in gran parte.
Al momento però, non sembrava intenzionata a mollare la vita così facilmente, benché fosse a un passo dalla fine. Aggraziata e fiera, la foglia si crogiolava sopra tutto e tutti, dominando le teste degli studenti che uscivano lentamente dal portone, affrontando l’aria fredda di inizio Dicembre.
Max si soffermò a vedere come stava la sua improbabile amica vegetale. Era una settimana circa che aveva notato quell’ultima superstite della grande famiglia di foglie di tutti gli alberi, vecchi e trapiantati, che adornavano il giardino d’ingresso della Blackwell. Ogni giorno, appena terminava le lezioni, usciva e alzava gli occhi al cielo per vedere se fosse ancora aggrappata al suo ramo.
 
 
Ciao, mia caparbia amica pensò, abbozzando un sorrisetto.
 
Premiò quella feroce resistenza estraendo la sua macchina fotografica (o meglio, la macchina fotografica di William Price, donatale da Chloe circa un anno fa) e immortalò la foglia più resistente della Storia, pronta a consegnarla ai posteri.
Prese tra le dita la polaroid appena partorita dalla macchina fotografica, la estrasse delicatamente e iniziò a scuoterla con energia. Qualche secondo dopo, apparve il risultato del suo scatto, con la sua amica vegetale che svettava al centro, contro il cielo plumbeo. Stava ancora osservando soddisfatta il suo risultato quando una voce maschile e profonda alle sue spalle attirò la sua attenzione
“Vedo che non perde occasione per mantenere viva la sua vena artistica, Miss Caulfield.”
Il Preside Wells era comparso alle sue spalle, uscendo dall’ingresso principale come lei, e appoggiandosi al bastone, ancora convalescente per la gamba.
Il fatto che fosse ancora, incredibilmente, al comando della scuola era dovuto da un fatto molto semplice: nessuno voleva assumersi quell’onere. Dopo gli scandali dell’ultimo anno, il consiglio scolastico aveva formalmente rimosso Wells dal suo ruolo ma, nel frattempo, nessun potenziale candidato ha voluto assumersi l’incarico. Il motivo era, appunto, dovuto dalla grossa pressione che convergeva sulla scuola per via dei suoi scandali (ancora non del tutto scomparsi dalla cronaca nazionale, anche se ora occupavano pochi trafiletti) e anche per il disastro naturale di circa un anno prima. Arcadia, da un paio di mesi, era ancora una delle città più note d’America e l’Accademia Blackwell era parte di quel mondo, nominata quasi quanto la cittadina appena ricostruita.
La pressione mediatica e il grosso lavoro da fare per ripulire l’immagine dell’istituto era stato giudicato da tutti i potenziali nuovi presidi come ‘impossibile da sostenere’, perciò il consiglio scolastico aveva proceduto a riconfermare il vecchio preside. Ovviamente, la riconferma di Wells aveva suscitato una notevole mole di chiacchiere e i giornali gridavano allo scandalo ma, ripetendo più volte le motivazioni, alla fine sembrava che tutti stessero digerendo la riconferma del preside colpevole di non aver fatto nulla per contrastare i Prescott e non aver visto cosa stesse combinando l’ormai ex professore e fotografo internazionale, Mark Jefferson.
Si potrebbe pensare (e non a torto) che il Preside Wells possa definirsi ancora tale proprio a causa della sua lacunosa gestione precedente.
Ora, però, era un uomo profondamente cambiato: non beveva più, era più propenso ad ascoltare gli studenti, cercava in ogni modo di fornire supporto psicologico di prim’ordine all’interno dell’istituto e, giusto per non farsi mancare nulla, era divenuto molto più rigido verso gli insegnanti ma sempre in maniera corretta e il corpo insegnanti accettava questo clima con buonsenso e comprensione.
Max aveva iniziato ad apprezzare questo nuovo ‘Preside Wells’ e, memore anche della recente avventura estiva, il rapporto tra loro era molto più disteso e amichevole rispetto a un anno prima. Wells era entusiasta che Max avesse accettato di tornare alla Blackwell poiché era certo che fosse una ottima pubblicità per la scuola, non solo per Arcadia Bay e, in parte, anche per la sua stessa figura di Preside riconfermato per abbandono degli altri candidati e attualmente, i fatti parevano dargli ragione.
Se in apparenza poteva sembrare una sorta di manipolazione verso di lei, Max non percepì mai un sentimento così meschino: Wells voleva davvero che lei potesse tornare per completare i suoi studi, senza secondi fini. Le conseguenze positive che vi erano seguite erano calcolate ma non pesate. Non si era mai permesso di esibirla come un trofeo e aveva imposto con veemenza che nessun giornalista attorniasse la scuola e pedinasse la ragazza, con la speranza di sbatterla in prima pagina con qualche esclusiva. Altro segnale a conferma che la volontà di avere Max alla Blackwell non era una orribile manovra commerciale fu la totale mancanza di celebrazioni di sorta sui fatti e le vittime della coppia Jefferson/Prescott. Certo vi era un monumento per le vittime del tornado e si, avevano cambiato i nomi dei dormitori (ora dedicati a Kate Marsh) e di un paio di aule e della biblioteca, ma nulla che potesse ricordare i fatti orribili in cui era finita coinvolta anche lei era stato fatto. Agli occhi esterni poteva sembrare una damnatio memoriae ma, in realtà, era soltanto la volontà del Preside Wells di creare un ambiente pacifico da cui ripartire e pulirsi dell’onta subita.
Max sorrise discretamente e annuì
“Beh, ora che mi sono ricongiunta con la mia macchina fotografica, mi sembra corretto recuperare il tempo perduto.” spiegò, omettendo però che si era ricongiunta principalmente con una quiete da eventi caotici che la perseguitavano da mesi.
“Sono certo che, molte di quelle foto, saranno già di pregevole fattura. Anzi, potremmo farne pubblicare qualcuna sul sito o sull’opuscolo per il prossimo anno.” propose il Preside.
“Sarebbe un onore. Cercherò di fornire alcuni scatti nel suo ufficio.” rispose in tutta onestà la ragazza.
Una delle cose positive che erano venute fuori da quella faccenda è che si sentiva più sicura della sua arte e non tendeva più a nasconderla come faceva un tempo, sentendosi troppo insicura e inetta rispetto ad altri. Sentiva ancora una punta di resistenza in alcuni angoli della sua testa ma cercava di vincerli ogniqualvolta si presentassero.
Wells sorrise e annuì con entusiasmo. Un silente affare fatto. Dopo un breve saluto formale, si congedarono e Max si avviò alla banchina per prendere l’autobus che l’avrebbe riportata a casa. La nuova pensilina degli autobus era decisamente più bella e moderna della precedente, distrutta dal tornado di un anno prima. Disegnata con un design moderno, base di cemento, pilastri di acciaio intrecciati, come a ricordare dei rami, il tutto contornato da del plexiglass trasparente e senza traccia di graffiti o vecchie locandine del Vortex Club che rovinassero la struttura. Per quelle, era stata predisposta una bacheca apposita sul palo laterale sinistra della banchina. Non possedeva protezioni frontali ma era abbastanza coperta ai lati per permettere ai fragili fogli di carta appesi di resistere qualche giorno alle intemperie. Al momento, non ve ne erano molti: un paio di avvisi in cui si annunciava una vendita di libri usati la domenica successiva, una che preannunciava la riapertura del cinema locale per l’inizio di Dicembre e, infine, una un po’ più grande che invitava tutti gli studenti a partecipare al ballo di Natale, che si sarebbe svolto il week end precedente alla chiusura dell’Accademia per le feste natalizie. Max sapeva, grazie ai bisbigli trai corridoi, che non avrebbe riscosso molto successo: non erano molti a voler parteciparvi. Il Vortex Club era stato cancellato, sciolto e svanito nel retaggio della vecchia Blackwell. Nessuno lo menzionava nemmeno più, forse per timore o forse per non rievocare dolorosi ricordi anche se, della ‘vecchia guardia’ se si esclude buona parte del personale dell’istituto, non vi era rimasto praticamente nessuno. Ora era nato il gruppo ‘OpenB.’ (in cui la B. stava per Blackwell) che mirava ad accogliere tutti gli studenti che volessero unirsi al club per creare familiarità e coesione nella scuola, spendendosi in attività di ogni genere, dai gruppi di ripasso pomeridiani fino alle feste a tema. A dirigerlo erano alcuni vecchi studenti dell’ultimo anno, quindi nessuno che Max potesse conoscere poiché estranei al percorso pre-universitario da lei intrapreso e che, un anno prima, erano ancora al penultimo anno perciò troppo giovani e troppo distanti dalle sue già scarse conoscenze e frequentazioni, benché un paio di loro avesse tentato più volte di fermarla per i corridoi e parlarle come se fossero vecchi amici o coinvolgerla insistentemente nelle loro attività. Uno su tutti, un certo Daniel Milton, era il suo ‘cacciatore’ di fiducia: si spacciava per amico di vecchia data di Warren, che era sicuro che lei lo avesse già conosciuto (cosa impossibile dato che la sua avventura era durata poco dentro la Blackwell e non aveva avuto molti contatti oltre a Warren e Kate Marsh, salvo sporadiche chiacchierate con Alyssa e qualche altro del suo stesso corso) e insisteva moltissimo per convincerla ad unirsi a qualche loro attività e, se possibile, sponsorizzarla.
Il sentore che aveva Max era (e forse a ragione) che volessero usarla come mascotte pubblicitaria per rilanciare la scuola e, soprattutto, il gruppo ‘OpenB.’ dato che le loro attività, per l’appunto, erano ancora accolte con tiepido entusiasmo e scarsa partecipazione. Portare l’eroina della scuola, colei che aveva smantellato la rete di inganni e crimini, in seno al gruppo sarebbe stato un ottimo affare e subito molti studenti si sarebbero uniti.
Max non aveva nessuna intenzione di diventare la mascotte ufficiosa di nessuno. Se il consiglio di amministrazione dell’Accademia aveva avuto (almeno per ora) il buon senso di lasciarla in pace anziché sfruttare il suo inaspettato ritorno nel posto peggiore per lei, senza sfruttarla nemmeno per una campagna promozionale, non vedeva perché dovesse accettare le lusinghe di un gruppo studentesco per quanto fosse armato di buone intenzioni.
Inoltre, odiava mettersi in mostra e già aveva dovuto subire gli sguardi ben poco celati e discreti di tutti, perfino dei professori, per le prime due settimane.
 
Ecco che ritorna il figliol prodigo!!! Uccidete il vitello grasso e fate festa!
 
No, grazie.
Nessuna figlioletta prodiga: solo convenienza.
Una folata di vento freddo la colpì in faccia all’improvviso e la fece sbuffare: il bus non era ancora arrivato. Si, era in mostruoso anticipo, però di solito il bus si faceva trovare già parcheggiato e con il motore avviato. Si sentiva allegra, nonostante la giornata non fosse per niente bella e il grigiume del cielo, spesso, le abbassava l’umore. Molte volte le fu chiesto se fosse, per caso, dovuto al fatto che il brutto tempo le ricordava la tempesta ma si sentiva di negare con forza questa ipotesi e ci credeva davvero. A lungo aveva riflettuto e mai e poi mai sentiva una connessione.
Certo, i sensi di colpa permanevano dentro di lei a distanza di oltre un anno, gli incubi andavano decisamente meglio (ne aveva avuto solo uno negli ultimi due mesi!), ma era certa in cuor suo che mai e poi mai il suo umore era influenzato dagli eventi.
Semplicemente, il cielo plumbeo la faceva sentire più svogliata: pensava solo a infilarsi il prima possibile sotto le coperte e dormire.
Ma la tempesta l’aveva superata.
Non avrebbe mai più permesso che modificasse troppo la sua vita, non ora che stava prendendo una direzione sana e sembrava aprirsi verso un futuro pacifico.
Un rombo sommesso annunciò l’arrivo dell’autobus e le permise di tirare un sospiro di sollievo: non si sarebbe congelata il naso e non avrebbe perduto per sempre una delle poche cose del suo viso che le piaceva. Inoltre, le nuvole parvero aprirsi un poco e un bel sole autunnale fece capolino, spedendole un raggio proprio sul viso, trovando tutto questo alquanto beneaugurante e le fece scappare un piccolo sorriso e chiudere gli occhi.
“Maxine Caulfield! Proprio te cercavo!”
Voce nasale, tono tronfio e, soprattutto, mancanza della regola base riguardante il suo nome. Questa triade fastidiosa poteva appartenere solo ad una persona della Blackwell.
Riaprì poco gli occhi e si voltò verso destra, in direzione del ragazzo appena arrivato silenziosamente come un ninja
“Ciao Milton.” rispose senza calore nella voce.
“Puoi chiamarmi Dan!” rispose automatico Milton.
Alto oltre un metro e ottanta, allampanato, sguardo sicuro in quei fastidiosi occhi marrone scuro, taglio a spazzola dei capelli mori su pelle ambrata. Una star del basket mancata, un nerd di facciata che non sapeva nemmeno cosa fosse un dado da venti (con sommo disprezzo di Steph Gingrich) o come si giocasse a una qualsiasi console. Ambiti lunghi e larghi per coprire l’eccessiva magrezza, felpona grigia usurata della Blackwell degli anni Ottanta, forse regalo dei suoi genitori e sorriso bianco e falso.
Signori, vi presento Daniel Milton. Ma potete chiamarlo Dan.
Non rispose, ma si limitò a digrignare i denti e guardare fissa davanti a sé.
“Bella giornata, vero?” insisté con falso ottimismo Dan.
“Oh, se lo dici tu.”
Milton fece un passo avanti e le si mise accanto, fissando dritto davanti a lui, la medesima direzione su cui Max si ostinava a tenere puntati i suoi occhi blu.
“Sai, in attesa del ballo di Natale qui alla Blackwell, volevo organizzare un paio di serate cinematografiche. Sai, non solo roba per geek ma film d’autore, che possano coinvolgere più studenti e aiutarli a socializzare.”
“A me sembrano molto coesi già così. Milton.” rispose sempre senza entusiasmo.
“Oh, a gruppi ma non vogliamo che qualcuno si senta emarginato. In passato questo non ha aiutato, vero? Sarebbe bello se si sentissero aiutati a far parte di qualcosa!”
‘Sarebbe bello che aiutassero ad aumentare gli iscritti al tuo club, vero?’ pensò, ma non lo disse e si limitò a non dire nulla.
Milton, dal canto suo, prese quel silenzio come un incoraggiamento e riprese
“Perciò, ti andrebbe di aiutarmi ad organizzare queste serate? Magari poi potresti anche entrare nell’organizzazione del ballo di Nata…”
“No, grazie.”
“Max sai che…”
Si voltò di scatto e lo fulminò con lo sguardo
“So che vuoi usarmi per farti pubblicità? Si. Non ci credi nemmeno tu in questo club, Milton. Speri solo di riempire il vuoto prestigioso del Vortex e diventare la nuova celebrità dopo il regno di Prescott, ma non sta andando bene, vero? Speravi che qui tutti avessero la memoria corta e fossero di nuovo pronti a aderire a un club dopo quello che è successo? Inoltre, da dove arrivi tu? Non hai manco un vero legame con Arcadia e vuoi rappresentarne i migliori studenti? Su, Milton, scendi da questo piedistallo che ti sei costruito da solo e fa come tutti: indossa una maschera mediocre e punta ad avere buoni voti a fine anno.”
Il rombo del motore dell’autobus in lontananza che si avvicinava ruppe quell’imbarazzante scena. Max non si capacitò di perché fosse sbottata con così tanta cattiveria: si, Milton l’aveva importunata ma, ad onor del vero, molto meno di quanto non abbiano fatto Warren o Victoria.
Si, loro non volevano usarla come Milton, ma tutta quella rabbia era….sua?
Non fece in tempo a darsi una risposta che una fitta alla tempia destra la sorprese e le fece strizzare gli occhi, proprio mentre l’autobus frenava dolcemente e si appropinquava alla fermata.
Milton, ancora pietrificato, tentò una risposta diplomatica
“N….No Maxine…. Io voglio…. Io davvero vorrei solo che il club… cioè che la scuola e i suoi nuovi alunni possano sentirsi a proprio agio, avere un ritrovo….”
La porta dell’automezzo si aprì e Max fece per salire ma prima rispose
“Forse dovresti proporre ‘Il Pianeta delle scimmie’ come primo film.”
Milton rimase inebetito
“Il pianeta di… cosa?”
Questo le strappò un sorriso malefico. Si voltò a fissarlo mentre metteva piede sul primo gradino
“Sicuro di essere mai stato amico di Warren?”
Poi, quando ebbe raggiunto la fine della breve rampa d’accesso sul mezzo, si voltò di nuovo e fissò Milton negli occhi, gelidamente
“Comunque, è Max, mai Maxine. Ficcatelo in testa.”
Le porte si chiusero meccanicamente e il mezzo si mise in moto, virando verso il centro della carreggiata, lasciando un perplesso Milton e la sua faccia straniata in un lontano angolo sfocato del vetro, mentre lei sceglieva un poso a sedere a metà del mezzo, sulla sinistra.
Era sola, nessuno a bordo.
Meglio così.
Si adagiò al vetro e osservò il paesaggio fuori, mentre il bus prendeva velocità, mutando il paesaggio come un quadro, passando da un caratteristico realismo a un puntinismo e concludendo in un surrealismo di grigio e verde, confusi in un tornado in orizzontale. Infilò le cuffie e mise ‘Promise´ di Ben Howard
 
And meet me there, bundles of flowers
We wait through the hours of cold
Winter shall howl at the walls,
Tearing down doors of time
 
Shleter as we go
 
And promise me this:
You’ll wait for me only
Scared of the lonley arms
 
 
 
La baia si stagliava all’orizzonte, unica immagine nitida in quel momento. Uno spaccato tra gli alberi smorti e i sempreverdi fieramente rigogliosi.
 
 
Surface, far below these words
 
And maybe, just maybe I’ll come home
 
Who am I, Darling for you?
Who am I?
Gonna be a burden in time, lonley
Who am I, to you?
 
 
Mentre fissava questo paesaggio confuso, dovette strizzare gli occhi per colpa del sole.
Un sole caldo e forte, che le illuminò il viso di colpo.
Un raggio tra le nuvole?
No, quello non era un raggio, era un sole estivo al tramonto. Forte, caldo e luminoso. Le infastidiva gli occhi e…
Non può esserci il sole! Le nuvole sono compatte e grigie!”
Strizzò gli occhi e li riaprì.
Le nuvole erano compatte e grigie come prima, la luce era flebile e stava svanendo in un tramonto nascosto da qualche parte.
Non ebbe tempo di capire che la testa tornò a dolerle, stavolta più forte di prima.
Erano mesi che non le faceva male, da almeno Agosto. Si, un paio di fitte tollerabili a Settembre, ma nulla a che vedere con quello che aveva provato in estate quando…..
Scosse la testa e si tolse dalla memoria l’episodio del tribunale. L’ultima volta che aveva riavvolto aveva pagato caro il prezzo ma era ancora convinta che sia stata la scelta giusta.
Peccato che la sua testa le abbia fatto male per settimane.
Si massaggiò le tempie cercando di non pensare. Era stanca, tutto qui: carico di compiti, studio, pensieri vari su Joyce e la sua riabilitazione…
Il dolore alla testa sembrò addolcirsi. Prese un bel respiro ed espirò con calma.
Lo ripeté tre volte e il dolore sembrò svanire o, perlomeno, farsi meno acuto.
Ormai, il bus viaggiava spedito dentro la nuova Arcadia Bay. Max non si era ancora abituata al nuovo look, così rispettoso della vecchia forma ma al tempo stesso così innovativo e moderno, con il design degli edifici tra i più accattivanti di tutta la costa dell’Oregon. Odiava ammetterlo ma le piaceva molto e i turisti, sia che fossero diretti proprio ad Arcadia o che semplicemente erano di passaggio, si fermavano a passeggiare ed ammirare estasiati la ricostruzione, consacrando il nuovo corso come la scelta migliore che quella città in decadenza aveva così disperatamente bisogno.
Avrebbe solo voluto che non fosse stato necessario scagliarle contro un tornado.
Già che c’era, decise di non fermarsi a casa direttamente e prenotò per la fermata successiva, a pochi passi dal Two Whales.
Superò una nuova zona residenziale, piena di appartamenti nuovi di lusso e altri più modesti e in affitto in stile motel per i viaggiatori o per chi si fermava per brevi periodi per motivi di lavoro. Già, perché ora Arcadia non era più solo una cittadina di porto, ma possedeva due grosse industrie internazionali, un centro commerciale moderno poco fuori i confini cittadini, un terzo polo industriale in costruzione, un porto nuovo e ampliato e un nuovo cinema multisala. Non era tutto, in progetto vi era un potenziamento della rete stradale, un hotel a tre stelle e un rinnovamento della spiaggia per la prossima estate. Altri luoghi di interesse sorti vi erano il nuovo municipio e la piazza antistante di forma quadrata su cui, per tre lati, vi erano piccole botteghe nuove e locali, gestite da ex cittadini di Arcadia Bay emigrati prima del disastro e tornati a ripopolare la città grazie al sostengo statale che permetteva loro di spostare o aprire le attività in cambio di un notevole sgravo fiscale per tre anni. Al centro della piazza vi era un piccolo parco, anch’egli quadrato, circondato da siepi e alberi e prato nel mezzo. Nel centro esatto vi era un piedistallo in marmo ancora vuoto: era stato indetto un concorso per una statua da realizzare e per partecipare bastava inviare il progetto o il disegno. Il soggetto doveva essere un memoriale della tragedia che aveva spazzato via città e vite umane e aveva permesso la rinascita.
Max aveva incoraggiato Chloe a partecipare e le aveva rotto le scatole per giorni ma, anche se lei alla fine aveva detto che avrebbe partecipato, era certa che non lo avrebbe mai fatto. Dopotutto bastava un disegno poi, se non poteva realizzarla materialmente, il comune avrebbe fatto realizzare l’opera ad un artista su commissione. Anziché pagare l’opera direttamente al vincitore, avrebbe solo pagato l’artista e al vincitore sarebbe andata gloria eterna con la sua firma alla base della statua.
Il municipio, che si ergeva a nord della piazza quadrata, era in stile coloniale. Il che era strano dato il design moderno voluto e realizzato per tutta la città ma, si diceva, che era stato volutamente realizzato così per ricordare le radici di Arcadia Bay, dato che era quasi tutto stato spazzato via dalla tragedia. Nel modernismo più sfrenato, il simbolo della città voleva rimanere ancorato al suo passato e non dimenticare. Stile coloniale che si ergeva alle spalle della futura statua del memoriale. Un messaggio chiaro anche per i più stolti.
Tutto ciò si ergeva a due isolati dietro il nuovo Two Whales.
Max scese alla fermata e si trovò a venti metri dal locale ora di proprietà dei Price.
Sorrise nel vedere la vecchia insegna ripristinata ma con un tocco di nuovo: Chloe aveva fatto dipingere in rosa una un cerchio intorno alla ‘a’ di Whales come il simbolo dell’anarchia. Un avvertimento sulla nuova gestione.
Proseguì a passo spedito verso le nuove porte blu scuro. Il modello era similare al precedente, con un oblò solitario in alto, ma il contorno ad esso era giallo e il colore, come già detto, era blu. Attraversata quella porta, Max s’immerse nel locale: odorava ancora di nuovo, insieme a un aroma di torta alle mele e caffè. Inspirò ad occhi chiusi per un istante: le dava pace quel mix di odori!
Il locale, invece, non era cambiato granché…
Certo, era tutto nuovo di zecca e lucido, i colori erano diversi, ma in sostanza era stato tutto risistemato per rassomigliare il più possibile all’originale: le panche, una sinistra e altre quattro a destra, erano foderate di spugna e color blu notte e tavolini in legno e acciaio di colore giallo canarino. I divisori sempre in plexiglass trasparente, ma decorati a mano con motivi che ricordavano il fondale marino. L’autrice di quelle decorazioni fu, manco a dirlo, Chloe.
Ovviamente Max aveva dovuto sollecitarla per giorni ma il lato creativo di Chloe, alla fine, era sbucato di nuovo fuori. Aveva pensato, e non a torto e di ciò se ne compiaceva ancora, che era giusto che mettesse un tocco personale al locale, soprattutto ora che era di sua proprietà. Inoltre, Chloe era una artista dannatamente brava. Lo era fin da quando erano piccole: sapeva disegnare abilmente a mano libera, aveva un occhio per i colori e l’abilità di saper trasmettere qualcosa anche nei disegni più semplici. Max credeva che fosse anche quello a legarle: due anime artistiche unite dalla sensibilità.
Tentò di convincerla ad accettare l’offerta del preside Wells, quella di riprendere gli studi e, magari, in futuro tentare un percorso accademico per affinare le sue abilità nel disegno ma, ovviamente, Chloe non ne volle sapere: voleva dare la priorità a sua madre, lasciarle il tempo necessario per la riabilitazione e, quindi, gestire per lei il Two Whales.
Max non volle insistere oltre su questo argomento sia perché lo trovava comprensibile e ragionevole, sia perché aveva già ottenuto un piccolo successo nel farle decorare gli interni del locale.
Le piastrelle erano bianche e blu, le pareti di un bianco tenue e il bancone di un grigio acciaio con una striscia blu al centro e il piano d’appoggio giallo canarino. Gli sgabelli in finta pelle di fronte al bancone erano, invece, color rosso sangue. Non si capacitò di quella scelta di colorazione così fuori tono con il resto, ma sembrava che desse fastidio solo a lei, perciò, eccetto il giorno dell’inaugurazione, Max non proferì più parola a riguardo.
In alto a sinistra vi era di nuovo un televisore, ma nuovo di zecca: piatto a ventiquattro pollici. Trasmetteva un documentario sull’Oregon ma non seppe dire che canale fosse.
Notò che non vi era molta gente ma era normale, visto che era pomeriggio inoltrato di Giovedì!
“Ma guarda chi si presenta al mio cospetto di sorpresa…”
Chloe era comparsa dalla porta della cucina, da dietro il bancone. La fissava e le sorrideva: era carina nella divisa bianca e blu del Diner, ma lo tenne per sé: ancora non poteva farle troppi complimenti espliciti. Si limitò a sorriderle di rimando
“Che fai qui? Non dovresti essere su in collina, in mezzo ai ricconi?” chiese con scherno, mentre faceva il giro del bancone e le veniva incontro, regalandole un abbraccio tanto affettuoso quanto raro. Max si limitò a un bacio sulla guancia e prenderla per mano
“Sai che il Giovedì e il Venerdì finisco prima: al secondo anno si fanno meno ore. Il corso pre-universitario della Blackwell si articola in…”
“Bla bla bla… vuoi un caffè?”
“Lo dici per cortesia o per farmi stare zitta?”
Chloe le sorrise
“Entrambe le cose. Dolcino, magari?”
 
Quanto la conosceva bene, che nervi!
 
 Annuì, sconfitta: ovvio che voleva un dolce!
Chloe le sorrise in risposta e si avviò verso il bancone, per prelevarle una fetta di cheesecake alle fragole dalla teca predisposta. Nel frattempo, Max preferì accomodarsi nell’ultimo tavolino sulla destra, mettendosi a sedere con il viso rivolto all’ingresso. Alle sue spalle, dove un tempo vi era un juke box, ora c’era una piccola console da dj con un portatile che riproduceva delle playlist online scelte e create da Chloe stessa. Stranamente, nulla di troppo rock o punk, ma dell’ottimo folk, indie e altri generi adatti agli avventori locali e non. In quel momento stava uscendo dalle casse una canzone di Conway Twitty, di cui non seppe dire il titolo. Forse era nuova?
Non ebbe tempo di pensare alle modifiche della playlist che già la sua ordinazione planò davanti a lei, usando le mani di Chloe come mezzo.
“Eeeeeeee buon appetito a lei, madame.” commentò la ragazza dai capelli blu, mentre si lasciava scivolare sulla panca davanti a lei e si rilassò un istante.
“Molte grazie per il servizio celere.” replicò Max gioviale, muovendo il cucchiaio con decisione verso la torta.
“Prima o poi mi guarderai con lo stesso sguardo con cui guardi i dolci?” chiese, sospirando, Chloe, mentre adagiava il mento sulla mano destra e osservava Max con finta noia ed esagerata tristezza e rassegnazione. Quella battuta l’aveva ripetuta almeno un centinaio di volte ed era diventata per Max una sorta di rito per ogni dolce che ordinava e mangiava.
Per tutta risposta, ella fece le spallucce e ingoiò il primo pezzo di cheesecake.
Chloe rimase impassibile e riprese
“In ogni caso, sappi che prima o poi i dolci finiranno….. o ti faranno venire il diabete. Io no.”
“Me lo annoto subito.”
Chloe sorrise nel guardarla
“Per stasera ti porterò degli avanzi: purtroppo devo fermarmi a coprire il turno di chiusura.”
Stavolta, Max alzò lo sguardo e fissò sbalordita
“Ma oggi iniziavi al mattino! Non puoi farti dodici ore qui!”
“Si che posso e devo. Max ascolta: c’è solo Clem e non posso certo lasciarla senza nessuno di sera. Pamela ha già fatto le sue otto ore e mi ha concesso un’ora di straordinario, ma non posso tenerla qui più del dovuto. Purtroppo, Alexandra s’è presa una brutta influenza stanotte e non può venire.”
“Ok, ma tra influenze e permessi vari, è la terza volta in dieci giorni che fai il doppio turno!” protestò Max
“Hai ragione ma…. Sono la titolare qui. In realtà è mia madre ma, finché non sarà operativa, devo reggere io i fili della baracca. Devo essere d’esempio e devo far ripartire questo posto.”
“I clienti non mancano, mi pare.”
“Lo so, ma non parlo di clientela. Parlo di nomea, di prestigio. Vorrei che il Whales tornasse ad essere amato quanto prima e non solo perché l’unica dipendente sopravissuta è rimasta qui, per quanto mi faccia piacere che la gente voglia ancora bene a mia madre e alla sua cucina, ma vorrei anche che si adeguassero alla mia gestione e non mi vedano come una che ha avuto il culo di prendersi un locale. Voglio dimostrare che sono abile.”
Max annuì
“Comprendo. Davvero Chloe, lo capisco e ti ammiro. Posso darti una mano io se vuoi.”
“No, grazie. Preferisco che tu vada a casa.”
“Ma perché”
“Mi aiuti già spesso durante i week end e mi sta bene così. Devi finire il tuo corso alla Blackwell e rimanere concentrata. Fai già tanto, dato che quasi tutta la tua paga la versi in casa nostra anche se io e mia madre te lo abbiamo espressamente vietato e tu, ostinatamente, infili i soldi di nascosto nel vasetto dei risparmi credendo di fregarci.”
Max arrossì
“Non posso certo vivere a scrocco in casa vostra.”
“Non vivi a scrocco, Max. Ci dai una mano e anche io ho approfittato della tua casa a Seattle per parecchi mesi, quindi direi che ti sto restituendo il favore.”
Max sbuffò
“Non hai scroccato nulla, la situazione era…”
“Identica.” la bloccò Chloe “Non ricominciare con la storia che non avevamo alternative mentre ora si, perché non mi interessa: io ho vissuto praticamente a spese dei tuoi ai tempi, tu ora puoi fare lo stesso. Inoltre, hai sempre una stanza in dormitorio alla Blackwell, se davvero volessi stare per conto tuo e non disturbare, ma so che stai troppo bene con me per abbandonarmi.”
Max ridacchiò ma pensò anche che parzialmente fosse vero. In parte, perché la vera motivazione era che aveva realizzato in maniera brutale che non sarebbe mai più stata serena nel dormitorio. Il preside Wells le aveva (gratuitamente) offerto la stessa camera che aveva avuto durante il suo primo soggiorno ma non poté accettare. Il preside, tuttavia, decise comunque di assegnarla a Max, anche se lei non l’aveva praticamente mai usata se non come ripostiglio per i libri e per studiare in pace un paio di volte quando non aveva avuto alternative. Sta di fatto che, tornare nella stanza permanentemente, era fuori discussione: troppa inquietudine e troppi brutti ricordi. Già varcare la soglia della Blackwell le era costato uno sforzo sovrumano, ma fermarsi a dormire….
A pochi metri avevano trovato il cadavere di Nathan, dal tetto si era gettata Kate, dalla camera di fronte poteva sbucare il fantasma di Victoria a ricordarle come era malamente deceduta e i ricordi degli avvisi di scomparsa di Rachel erano ancora freschi tanto quanto quello della visione del suo cadavere.
Per non parlare dell’aula di fotografia….
No, il dormitorio era off limits.
“Si, dormo meglio sul tuo materasso.”
“Per forza: alla Blackwell non lo avresti nemmeno un materasso!”
Max preferì non correggerla e concentrarsi sul pasto. Ingollò l’ultimo pezzo di torta e il caffè e si disse soddisfatta.
“Davvero non vuoi che io stia qui ad aiutarti? Non sono stanca, posso lavorare con te.”
Ma Chloe fu irremovibile e non le fece pagare nemmeno il conto. Mentre discutevano ancora, con Max che insisteva per pagare almeno il caffè, una dipendente di Chloe, una ragazza giovane di nome Clementine, fece capolino sul bancone
“Chloe? Scusa ma io andrei in pausa dieci minuti se non è un problema. Oh, ciao Max!”
“Figurati. A qui penso io.” replicò Chloe, mentre Max ricambiava il saluto con un cenno della mano e un sorriso. Svanita Clementine, Max tentò di tornare alla carica e insistere per convincere Chloe a farla lavorare quella sera ma la sua ragazza fu irremovibile:
“No, voglio che tu vada a casa e ti riposi un po’. Preferisco averti in forze per il week end qui. Sai che il pienone sarà il Sabato sera e dovremo sacrificarlo di nuovo anziché divertirci insieme a Portland come ormai speriamo da oltre un mese ma…”
“Lo so, lo so. Non devi sentirti in colpa: stai gestendo un locale! Ovvio che non puoi avere molto tempo per te.”
“Si ma per noi…”
“Lascia stare, io non scappo mica. Ci rifaremo.”
“Devo assumere un ragazzo part - time per dare respiro alle ragazze e anche a me, senza sacrificarti.”
“Verrei anche se assumesi dieci ragazzi part – time: devo fare la mia parte per la causa dei Price.”
Chloe ridacchiò e scosse la testa
“Pensa solo a studiare e finire ‘sto corso con calma. Ti sfrutto per i week end e, credimi, lo apprezzo moltissimo. Anche mia madre, se serve sottolinearlo.”
Max chinò il capo e accettò la sconfitta.
“D’accordo: me ne torno a casa.”
Si alzò lentamente ma Chloe ne approfittò per prenderla ai lati della testa con delicatezza e darle un bacio sul capo, tra i capelli.
Max arrossì dolcemente per quell’inaspettato gesto di tenerezza (Chloe non era ragazza da gesti così plateali e sdolcinati, men che meno in pubblico) e chiuse gli occhi.
Per un istante fu tutto inebriante; l’odore del locale, composto da caffè e torta, con il profumo della divisa di Chloe, lavata il giorno prima e già pregna di fumo, odore di bacon e una sottile nota di ammorbidente delicato… ma poi tutto fu interrotto da una leggera fitta alla testa, seguita da una visione bizzarra, che durò meno di un secondo: deserto e caldo.
Poi nulla.
“Ci sei? Max?”
Chloe si era già separata da lei e stava andando verso il bancone ma si era voltata e l’aveva sorpresa ancora in trance, ferma, come l’aveva lasciata.
Max si sforzò di reprimere la smorfia di dolore che le aveva lasciato quella orrenda fitta alla testa e le sorrise.
“Certo. Ne stavo approfittando per memorizzare un tuo raro momento di dolcezza.”
Chloe fece una smorfia
“Per memorizzare fatti bastare la macchina fotografica.”
 
 
 
 
 
Casa Price era deserta.
Il sole era quasi tramontato e nell’abitazione aleggiava una luce bluastra. Max allungò il braccio e adagiò le chiavi nella ciotola in ceramica rossa ove le altre sostavano in attesa. Il tonfo sordo confermò i sospetti: era la sola in casa, al momento.
Si tolse le scarpe, adagiandole accanto alla porta che dava sul garage, s’infilò le sue ciabatte pelose rosa e si diresse in cucina. Qui, sul nuovo ripiano (dono della ricostruzione cittadina, come molta parte della casa) trovò un biglietto giallo scritto con inchiostro blu e da una pesante calligrafia maschile:
 
Max
Ho portato Joyce a fare riabilitazione a Portland oggi pomeriggio anziché al mattino.
I dottori le hanno spostato l’appuntamento.
Le farò una sorpresa e la porterò fuori a cena.
Non aspettateci
 
David
 
p.s.: ho già avvisato Chloe!
 
 
Sorrise.
Era felice che Joyce si stesse riprendendo, anche se aveva ancora grossi vuoti di memoria e faticava a usare correttamente gli arti, ma David era davvero premuroso con lei e la aiutava in ogni istante, nonostante il nuovo lavoro da poliziotto di Arcadia. Vederli così uniti e innamorati la rasserenava, anche se a volte le causava un senso di colpa verso William, il defunto marito di Joyce e padre di Chloe.
Per quanto riguardava quest’ultima, sembrava ormai in grado di sostenere questa novità e non provava più astio verso David. Aveva lavorato molto sulla sua rabbia nell’ultimo anno e Chloe sembrava ormai una persona nuova.
O meglio, sembrava la vecchia Chloe, quella che lei aveva abbandonato prima di andarsene a Seattle.
Prese un bicchiere di latte e si diresse verso la sala. Indossava ancora la borsa con i libri e la adagiò su una sedia della cucina, ricordandosi di non scordarla e portarla in camera: David si era calmato ma non tollerava molto il disordine.
Si sedette sul divano e accese il nuovo televisore gigantesco a schermo piatto: no, stavolta nessuna donazione caritatevole per la ricostruzione ma solo un sano sfizio machista di David.
Decisamente molto meglio questo che le auto!
Appena pigiò il telecomando, il televisore s’aprì su un talk show pomeridiano molto popolare sulla costa ovest e, a quanto si diceva, stava prendendo piede anche a livello nazionale: addirittura, secondo il conduttore, iniziavano a trasmettere in differita con New York.
Non era mai stata nella Grande Mela ma, ogniqualvolta la sentiva menzionare, provava un grande desiderio di andare e, buffo a dirsi, una sorta di sensazione simile alla nostalgia.
Nostalgia di un posto mai visto: bizzarrie di Caulfield!
Il conduttore, tal Jerry Lawrence, conduceva il talk show in questione dal nome bizzarro di ‘Friendly talks!’, un classico programma adatto per fare compagnia in case sole per persone sole.
 
“Come me ora!” pensò e sorrise della propria battuta orribile.
 
Jerry sorrideva affabile alla telecamera e stava concludendo il suo monologo introduttivo e, in pompa magna, andava a introdurre i due ospiti di quel pomeriggio.
La scaletta era semplice: lui introduceva due persone che avevano punti di vista opposti e lui faceva da mediatore. Una chiacchierata tra amici un po’ pompata.
Una ‘friendly talk’, appunto.
 
“Signore e signori, diamo il benvenuto al nostro primo ospite: Oswald Green!” annunciò Jerry.
Musica allegra, trombe spianate, tendine luccicanti che si aprono e Oswald Green compare, scendendo i tre gradini rosso lucente e avviandosi a passo spedito verso la sua poltrona designata, al centro, bella ampia e comoda.
“Per chi non lo conoscesse, il signor Green insegna Diritto all’Università di Portland ed è qui con noi oggi per discutere di un argomento moooooolto scottante! Dico bene, Oswald?”
“Assolutamente, Jerry.” rispose con voce morbida il professor Green.
Jerry tornò fisso sulla telecamera e sorrise
“Bene e ora un uomo che non ha bisogno di molte presentazioni, il giornalista più chiacchierato degli ultimi mesi, il più discusso sulla costa ovest e forse di tutti gli Stati Uniti. Ha seguito da vicino il caso Jefferson e i suoi recenti articoli hanno smosso moooooolte pance e teste!”
 
 
Max si immobilizzò sulla sedia. Un brivido le percorse la schiena….
“No! Non lui! NON LUI!”
 
“Diamo il benvenuto a Andrew McKenzie!”
Merda! Fanculo Jerry, ti credevo un amico!”
 
Andrew McKenzie fece il suo ingresso dal medesimo punto del professor Green ma con tutt’altra prestanza fisica: slanciato, capelli corti leggermente stempiati ma comunque eleganti, penetranti occhi verdi, completo in antracite e un sorriso perfetto per amor di telecamere. Si diresse a passo spedito verso la sua poltrona e si adagiò con rapidità ma elegantemente. Sorrise prima al professor Green e poi a Jerry.
“Buonasera a tutti voi.” disse con il solito tono caldo e rassicurante.
Sentì in fondo al suo stomaco la grandiosa voglia di lanciare il telecomando contro lo schermo piatto della televisione ma si contenne per timore di dover poi incombere nelle ire di David.
Pensò, logicamente, che la cosa migliore da fare fosse spegnere il televisore e andarsene in camera a riposare.
Ma non lo fece.
Rimase seduta a godersi lo scempio mediatico. McKenzie era salito alla ribalta nelle ultime settimane con uno stratagemma molto semplice: la attaccava.
Non direttamente, certo, ma insinuava dubbi su di lei e Chloe in tutto ‘l’affaire Blackwell´ come amava definirlo quel borioso idiota.
Non le accusava di essere complici ma nemmeno provava a negare che fosse impossibile che non lo fossero. Per McKenzie, due adolescenti al posto giusto, al momento giusto era troppo sospetto. Soprattutto per ben tre volte in meno di un anno.
La prima domanda era per il professor Green (per fortuna) così la chiacchierata poté partire almeno serenamente.
“Professore, lei sostiene ciecamente che le due ragazze di Arcadia Bay, Maxine Caulfield e Chloe Price, siano dei fulgidi esempi di giustizia, integrità e spirito americano. Nonostante gli articoli del qui presente signor McKenzie, lei sostiene fortemente questa sua affermazione, dico bene?”
“Assolutamente sì.”
“Nessun dubbio?”
“Perché mai dovrei averne?”
“Quindi lei non si muove dalla sua posizione di sostenitore delle due ragazze, dico bene?”
“Le due eroine…” (a Max non sfuggì come ebbe sottolineato quella parola e sorrise) “… sono ciò che di meglio la società americana ha da offrire. Io prego Dio che esse siano un esempio, un fuoco in cui le nostre generazioni novelle possano rispecchiarsi e ispirarsi. Non hanno voltato lo sguardo dall’altra parte verso il perverso sistema di abusi e bullismo della Blackwell e lo hanno combattuto dall’interno e…”
S’interruppe. McKenzie aveva tradito un sorrisetto beffardo che Green colse e non sembrò gradire
“La diverto, signor McKenzie?”
“No, no. Anzi le chiedo scusa è stato involontario io…”
“Mi dica allora.”
Jerry incalzò “Parli pure, signor McKenzie”
Il giornalista alzò le braccia
“Vorrei scusarmi. Davvero, non volevo mancarle di rispetto, professor Green: ho letto alcuni dei suoi lavori e sono eccezionali e davvero mi ha ispirato. Però non riesco a concordare con queste sue affermazioni iniziali. Chloe Price ha abbandonato la Blackwell ed era una tossica ribelle segnalata alle autorità: lei ERA parte di quel sistema malato. Pare, ma non ci sono conferme a riguardo, che fosse vicina alla rete di spaccio gestita dal giovane Prescott dentro la scuola e anche fuori, dato che bazzicava il signor Bowers, attualmente in prigione. È risaputo che la sua amica Rachel Amber fosse coinvolta TOTALMENTE nei traffici interni della scuola. Inoltre, la stessa Amber era legata sentimentalmente a Bowers. Direi che non mi sembra proprio una anima candida….”
“Non sono risultate prove sufficienti per indagare la signorina Price per traffico di stupefacenti, mi sembra che sia stato ampiamente chiarito questo. Lo stesso signor Bowers ha scagionato in tribunale sia la Price che la Amber.” replicò secco Green
“Più che scagionate, mi sembra che le abbia solo difese per amor personale. Ovviamente non si può condannare la Amber, oltre che per il triste epilogo che la riguarda ma anche perché nota fiamma di Bowers e della quale il detenuto stesso si dichiara ancora infatuato; quindi, la difesa della signorina in questione è fuori luogo. Per quanto riguarda la Price beh…. Vincolo di amicizia, di supporto reciproco? Bowers ha dichiarato che la Price era solo una cliente ma ci crediamo poco, dato che è stata vista vicino a Prescott nella ‘fatidica’ settimana dello scorso anno. Siamo così sicuri che siano delle innocenti vittime?”
“La signorina Price ha riconosciuto di aver avuto atteggiamenti sbagliati sia nel pubblico che nel privato. Tutti sanno che, dopo la prematura dipartita del padre, ha passato un periodo difficile. Ma credo sia stata la sola a combattere per la verità nel caso Rachel Amber! L’unica che si prodigasse con il volantinaggio e la ricerca di informazioni quando persino i genitori della vittima e la polizia di Arcadia Bay hanno preferito lasciare perdere.”
“Certo, questo è stato onorevole, non posso non ammetterlo. Sicuramente i Prescott avranno avuto il loro ascendente sulla polizia, cosa che non li mette in buona luce sulla faccenda anche se continuano a dichiararsi estranei alle faccende del figlio; quindi, è difficile determinare quanto e se sapessero della faccenda Amber. Riprovevole è anche l’atteggiamento dei coniugi Amber nella scomparsa della figlia, con zero sforzi e disinteresse totale. Dunque, l’atteggiamento di Chloe verso questa faccenda è, senza ombra di dubbio, meritevole di lode. Ma non possiamo dire che l’ingresso in scena della signorina Caulfield le abbia migliorato le posizioni nel traffico di droga: Maxine ha ripulito la sua immagine ma non la scagiona. Già che ci siamo: avete detto che si sono opposte al bullismo della Blackwell? Anche qui mi spiace non dover concordare: la signorina Marsh ne è testimone, dato che ha preferito il suicidio.”
“Ma la signorina Caulfield era sul tetto per farla ragionare, non le sembra n atteggiamento di interesse questo? Come può dire che non si sono voltate dalla parte opposta?”
McKenzie non si fece sorprendere
“Dimentichi un dettaglio non da poco: pare che Maxine fosse in conflitto con il responsabile della sicurezza dell’istituto, nonché patrigno di Chloe, David Madsen. Opporsi all’unico che poteva aiutarle? Andiamo! Il Vortex Club era un covo di male, bullismo e orrori adolescenziali, ma oltre al gesto plateale di andare sul tetto, le ragazze non hanno fatto nulla di concreto. A mettere fine a tutto ci ha pensato il tornado.”


 
Max strinse i pugni dalla rabbia. Lo stomaco le si contorse per il nervoso, ma non spense il televisore e nemmeno volle abbandonare la visione. Rimase sul divano, immobile e glaciale, ad assistere a quella gogna mediatica.
Persino il professor Green sembrava in procinto di arrabbiarsi.
“Ora le incolpiamo pure del tornado, magari! Si rende conto che sta attaccando due ragazze innocenti che hanno dato prova di enorme coraggio e altruismo?”
McKenzie sorrise
“Non potrei mai accusare le ragazze per il tornado, professor Green! Anzi, tutt’altro: le debbo ringraziare. Aver avuto la prontezza di avvisare quante più persone possibili dell’imminente disastro è senza alcun dubbio meritevole di lode. Però, qui mi perdonerete, la mia domanda è: come è possibile che fossero sveglie e presenti per assistere all’imminente disastro. Perché erano in sveglie e per Arcadia? La risposta la sappiamo già in realtà: erano a spiare Jefferson e hanno contattato David Madsen. Ma la mia vera domanda è questa: come facevano a sapere che Madsen avrebbe rapito Victoria Chase? Come facevano a sapere che sarebbe andato alla fattoria Prescott?”
Il professor Green sembrava spazientito, come se stesse parlando a un alunno presuntuoso e stupido
“Forse perché, come hanno già dichiarato alle autorità, stavano indagando su Nathan Prescott da giorni e avevano scovato il nascondiglio da un pezzo. Hanno solo dedotto che il covo delle malefatte di Jefferson poteva essere solo quello.”
McKenzie lo incalzò
“E perché sapevano che sarebbe andato lì Jefferson quella sera? O meglio, come hai giustamente appena affermato, loro indagavano su Prescott ma sembra che non avessero dubbi nell’incolpare Jefferson. Non si sono accorte dell’assenza di Nathan e hanno subito indicato che vi era un reato in corso nella fattoria? Come potevano sapere che era proprio Chase la vittima? Infine: perché Victoria Chase è stata rimandata indietro, all’Accademia Blackwell, invece di essere portata in ospedale o in caserma? No, viene riaccompagnata proprio nel nido del male? Andiamo, c’è qualcosa che non va!”
Il professor Green non contenne l’esasperazione e roteò gli occhi verso l’alto, con palese insofferenza
“Il signor Madsen ha già dichiarato che ha ricevuto le indicazioni dalla signorina Caulfield che erano basate sulle indagini svolte già dallo stesso Madsen, ma non risulta che abbia mai indicato Jefferson. Sull’aver riportato la signorina Chase, il signor Madsen ha dichiarato che è stata la stessa Victoria a richiedere di essere riportata al suo dormitorio, in attesa di essere interrogata il mattino dopo. Aveva lasciato completa disponibilità, ma non poteva sapere nessuno del tornado.”
“Le due ragazze, a quanto pare, si.”
“Certo, ma come purtroppo sappiamo, non tutti hanno ricevuto l’avvertimento.”
“Ma allora, se avevano avvisato già il signor Madsen, perché non andare a letto? Perché aggirarsi per Arcadia? Questo non ha senso!”
“Perché sarebbe sbagliato?”
“Concorda con me quindi? Lo trova strano anche lei, professor Green?”
“No: non vedo nulla di sbagliato. Sono due adolescenti che si sono trovate in qualcosa di oscuro e complesso e credo sia comprensibile che non avessero voglia di dormire.”
“Benissimo, ma perché non stare in casa? Da casa Price non si poteva vedere il tornado che all’ultimo istante. Pare che per poterlo vedere e comprendere la gravità, fosse necessario essere come minimo in periferia….”


 
Max spense il televisore, lanciò il telecomando sul divano e si bevve un sorso di succo d’arancia dal frigo, prima di dirigersi al piano di sopra, senza accendere alcuna luce.
Era distrutta. Da quel giorno, uscita dal tribunale, lei e Chloe erano finite nell’occhio del ciclone: otto fottuti mesi a schivare ogni attenzione mediatica e ora c’erano dentro fino al collo.
Non solo: le donazioni eccessive di Kristine Prescott avevano alimentato strane voci. Voci che si erano ingigantite e trovato sfogo sul web, prima, e nei salotti mediatici poi.
McKenzie era il più furbo e strenuo sostenitore del fronte avverso alle ‘Due di Arcadia’. Non le aveva mai accusate direttamente, era troppo scaltro e sapeva che questo l’avrebbe (almeno per il momento) danneggiato davanti all’opinione pubblica, ma era sempre pronto a delle velate e presunte accuse e illazioni sulla loro estraneità. Non credeva che avessero fatto tutto da sole, che fossero estranee ai fatti.
In parte poteva capirlo: il modo perfetto per scagionarle era dire a tutti che lei riavvolgeva il tempo a comando.
Si, così l’avrebbero definitivamente rinchiusa in un ospedale psichiatrico.
La mente le regalò una istantanea oscena: il sorriso ghignante e tronfio di Jefferson.
Certo, lui.
Quel maledetto bastardo aveva e continuava a rovinare la loro vita. Se solo non fosse mai venuto ad Arcadia!
Scosse la testa cercando di cancellarla dalla sua mente e riprese a salire i gradini di casa Price, per dirigersi in camera.
Sentiva una punta di odio incontenibile: McKenzie, Jefferson. Jefferson, McKenzie. Figli di puttana!
Strinse la mano sul corrimano in legno fino a farla sbiancare.
 
Perché? Perché devono vederci come le nemiche? McKenzie è un povero idiota!
 
I suoi pensieri erano sempre rabbiosi quando si trattava di accuse inesistenti e Jefferson. Non aveva più voluto parlare con avvocati o andare in tribunale. Non voleva parlare con la stampa, con studenti, con scrittori. Non voleva più parlare di quello che era successo da quel maledetto Ottobre 2013 fino all’estate scorsa.
Aveva seppellito tutto quanto uscendo dal tribunale di Portland per la terza volta.
Non intendeva più partecipare, pensare, immaginare e dare peso a tutto questo.
Ma per quanto si sforzasse, era letteralmente braccata.
Lei non parlava? Benissimo: altri lo avrebbero fatto per lei.
Altri tipo McKenzie….
Aprì la porta della stanza, lasciò cadere lo zaino poco oltre l’ingresso e si gettò sul letto di faccia, esausta.
La camera non era cambiata granché dalla ristrutturazione. Semplicemente, ora era ‘viva’: metà delle cose che erano nella sua camera di Seattle e tutte le poche cose di Chloe erano presenti. La sveglia a forma di rana, tanto detestata, appoggiava sulla scrivania, scarica da qualche giorno (Chloe ‘accidentalmente’ continuava a dimenticarsi di comprare le batterie), proprio alla sinistra del computer nuovo, dotato di webcam e casse: gentile donativo del comune di Arcadia per le loro beniamine.
Poster nuovi, di band rock e punk, adornavano la parete accanto all’ingresso, come prima che tutto andasse a puttane, mentre il resto delle decorazioni della camera raccontava di entrambe: dalla pianta presa apposta per donare un po’ di colore agli inizi, fino a delle luci bianche appese al soffitto come se fossero dentro una festa country, passando per un paio di peluche tra i preferiti di Max, una cassettiera ridipinta da entrambe con tonalità varie e sgargianti, dal rosa al giallo passando per l’azzurro, che le donava un risultato osceno ma che entrambe trovavano divertente e ‘ diverso’.
Un piccolo tappeto morbido stava dinanzi al letto, mentre due comodini si adagiavano contro la parete. Nessuna bandiera americana: solo una tenda anonima e blu.
Rimase un paio di minuti, respirando a fatica tra le lenzuola e il materasso. Il nervoso le aveva regalato un piccolo accenno di mal di testa e cercò di non cedere al dolore. Nonostante non fosse esagerato, quell’ennesima emicrania le dava più fastidio del solito.
Strinse di nuovo gli occhi, rimase immersa nel morbido mondo del letto e si perse per alcuni istanti tra gli odori misti di bucato e bagnoschiuma (Chloe si lavava spesso prima di dormire).
Per qualche secondo che parve una piccola eternità, il peso delle coperte svanì, facendosi leggero come aria estiva. Come nebbia, il velo delle coperte le avvolse viso e il buio dei suoi occhi chiusi scomparve, lasciandole uno squarcio bizzarro e inaspettato:
stelle.
 
Cielo infinito e stelle.
Una flebile luce lontano da lei…. Un falò? Forse….
Adorava i falò! Ne aveva fatto uno durante le vacanze con Chloe, con Steph che le aveva raggiunte e…
Steph!
Falò? Stelle?
STEPH!
Si alzò di scatto, respirando affannosamente. Il mal di testa era aumento ma ora era certa di due cose: aveva visto delle stelle dentro la sua coperta e doveva chiamare Steph.
Fece per accendere il pc ma una fitta alla testa, forte quasi quanto la prima della giornata, le fece girare la testa e le fece venire un conato di vomito. Corse verso il bagno e gettò la testa nel wc, dove rimetté il misero pasto della giornata. Sospirò e scosse la testa, prima di lavarsi i denti.
 
Si, devo proprio chiamare Steph…
 
Prese due pastiglie per il mal di testa e le buttò giù di colpo, senza acqua. Tornò in camera e stavolta mise mano al pc, avviandolo e sedendosi di fronte allo schermo e massaggiandosi le tempie nell’attesa che il computer prendesse vita.
Mentre attendeva, si ricordò dell’estate appena conclusa, di quella vacanza con Chloe e di quando Steph le aveva raggiunte al confine con la California, prima che prendessero la via del Nevada.
E di quella sera in cui aveva rivelato a Steph il suo potere.
Ecco perché ora aveva bisogno di lei: la loro nuova amica sapeva tutto.
 
Il caldo era insostenibile, ma avevano scelto di fare una deviazione per visitare il deserto, dato che nessuna di loro lo aveva mai visitato. Steph era arrivata in autobus, munita solo di un borsone e una tenda e un sacco a pelo. Ora che erano tutte e tre a bordo, lo spazio si era ridotto e l’aria era più soffocante, tanto che i finestrini abbassati, oramai, non davano più refrigerio.
La vera tregua arrivava alla sera.
L’aria fresca permetteva di respirare, di riposare, di godersi realmente il deserto.
Inoltre, l’assenza di luci artificiali regalava una vista mozzafiato del cielo stellato.
Quella sera, attorno al falò, mentre arrostivano delle pannocchie prese in un market in una piccola città lungo il tragitto, decisero che volevano dare il benvenuto a Steph nel modo migliore.
Ne avevano parlato durante la loro prima parte del viaggio ed entrambe avevano convenuto che era corretto confessare il loro ‘segreto’ a Steph. La ragazza aveva passato con loro le fasi più difficili del loro ritorno ad Arcadia e sapevano di poter contare su di lei anche per il futuro.
Steph era tutta intenta ad arrostire la sua pannocchia e parlare di come stesse progettando di creare un club di GDR per coinvolgere i ragazzi più emarginati.
“A volte penso a Mickey e mi manca un sacco. Lui è troppo preso al momento, ma spero di rivederlo. Quindi penso che rilanciare i GDR possa aiutare a fare gruppo tra i tanti Mickey che mi è capitato di incontrare. Ovviamente, se avete voglia di farvi qualche chilometro in auto, ogni tanto potreste venire. Sareste le benvenute! Inoltre, Max, devi vederla dal vivo la tua Chloe in azione: è una giocatrice pro!”
Le due ragazze si scambiarono una occhiata di intesa con un mezzo sorriso d’accompagnamento, seguito da un breve accenno del capo di Chloe, in senso di assenso.
“Senti, Steph…. Dovrei dirti una cosa.”
La Gingrich alzò il sopracciglio con fare dubbioso
“Sembra roba seria: ho fatto qualcosa di male?”
Max sorrise ma non riuscì a trasmettere una vera e sincera serenità e allegria. Era preoccupata e temeva la reazione.
“No, riguarda me. Qualcosa che non sai, che solo Chloe sa, a dire il vero, ma che ho tenuto nascosto a chiunque.”
“Ok, sono curiosa. Prosegui.”

Max fece una pausa e prese un bel respiro. Si contorse le mani e fissò la sabbia ai suoi piedi.
“Immagino che tu ti sia chiesta come fosse possibile che io e Chloe fossimo sempre al centro di tutto. Forse avrai creduto anche alle nostre parole, alle storie che ti abbiamo detto.”
Steph mise da parte la sua pannocchia e il suo sguardo si focalizzò su Max, facendosi più dubbioso e interrogativo. Brevemente, lanciò una occhiata a Chloe, seduta alla sinistra di Max, che rimase silenziosa e anche lei concentrata a fissare la sua compagna, ma senza dubbi negli occhi: solo un profondo affetto.
“E immagino che Chloe sappia già tutto e sia d’accordo.” chiese, notando l’atteggiamento della ragazza dai capelli blu. Max si limitò ad annuire.
“E’ la prima persona a cui ho confessato ciò che sto per dire a te. Tu sarai la seconda in assoluto. Questo ti aiuterà a capire la serietà della cosa.”
Steph si finse colpita, disegnando una ‘o’ con la bocca e mettendosi le mani sul petto ma quel debole tentativo di sdrammatizzare non fece presa: comprese che doveva trattarsi di qualcosa di molto serio.
“Non ci girerò molto intorno, perciò sarò diretta: posso manipolare il tempo.”
Silenzio.
Steph fissò impassibile Max. Poi Chloe. Infine, di nuovo Max.
E scoppiò a ridere.
“Caaaaazzzzzoooo ci stavo per cascare! Tutto qui? Vi siete impegnate a recitare ma la trama è debole: come scherzo non è granché, non trovate? Uh, e tu Chloe? Manipoli il metallo?”
Sghignazzò e riprese la sua pannocchia e ricominciò ad arrostirla. Stava per aggiungere altro ma si accorse che le ragazze non reagivano. Rialzò lo sguardo e vide che erano ancora immobili.
Serie.
Dannatamente serie e impassibili.
“Immaginavamo una reazione simile.” disse Chloe “ma decisamente migliore della mia. Ricordi cosa ti dissi?”
Max accennò a un sorriso
“Si, ma credo che stavolta non occorra farle vuotare le tasche al diner”
Steph alzò di nuovo il sopracciglio
“Pronto? Lo scherzo è finito, no? Oppure devo stare al gioco?”
Max sorrise

“Perdonami, ma è necessario.”
Poi mosse lievemente la mano destra verso l’alto…..
 
“Non ci girerò molto intorno, perciò sarò diretta: posso manipolare il tempo.”
Silenzio.
Steph fissò impassibile Max. Poi Chloe. Infine, di nuovo Max.
E scoppiò a ridere.
“Caaaaaa…” cominciò a dire Steph ma Max la interruppe
“Ora dirai che è tutto uno scherzo e chiederai a Chloe se per caso lei manipola il metallo. Dopodiché dirai che abbiamo recitato bene ma che la trama è debole per uno scherzo.”
Steph si congelò. Era esattamente quello che stava per dire.

“Come cazzo…”
“Te l’ho detto: posso riavvolgere il tempo per qualche minuto al massimo, posso congelarlo per brevi periodi di tempo ma poi perdo temporaneamente il potere e posso usare le fotografie come portali per tornare indietro a maggiori distanze temporali, ma muovendomi solo nel contesto della fotografia. Scusa, forse è un modo un po’ brutale per dirtelo, ma non ho davvero trovato altro modo.”
Steph si alzò di scatto, la sua pannocchia cadde a terra e rimase imbambolata con la bocca spalancata a fissare Max negli occhi: non mentiva. Non mentiva affatto!

Cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro, nel suo metro di spazio di fronte al falò.
“Quindi…. Quindi tu hai….”
“Salvato la vita a Jefferson qualche settimana fa? Si. Ho sbagliato? Penso di si.”

“Per quello sapevi della madre di quella ragazza che aveva la pistola!”
Max annuì
“L’ho visto morire davanti a me. Ho visto il suo sangue e la sua vita abbandonare il suo corpo e ho deciso che non era così che doveva cavarsela. Ho deciso io, ok? Sono egoista, molto probabilmente, ma credo che sia la punizione migliore: la morte era troppo sbrigativa per uno come lui.”
“Oh, no. No, no, no sono d’accordo. Anzi, meno male che tu…. MIO DIO TI STO CREDENDO?”
Steph si era alzata in piedi di scatto e fissava confusa e terrorizzata Max che, in tutta risposta, la ricambiava con occhi colmi di tristezza. Solo Chloe sembrava divertirsi.
“Non c’è stato nemmeno bisogno di fare come con me: nessun indovinello su cosa ho in tasca.” commentò la ragazza in blu.
Max sospirò
“Avrei preferito. Forse mi crederebbe meno pazza.”
Steph era sempre più confusa
“Non ti credo pazza. Non ti credo eppure ti credo. Non so cosa stia succedendo ma non puoi, ripeto, NON PUOI dirmi che controlli il tempo!”
Max sembrava seriamente addolorata e dispiaciuta

“Vorrei non fosse così. Non ho più usato il mio potere per quasi un anno, prima del giorno al tribunale. Era dal tornado che non utilizzavo il mio potere e non mi ha fatto bene per niente. Ho giurato che mai e poi mai avrei riutilizzato queste capacità e invece….”
“Il tornado? Woo, woo alt…. Hai visto il tornado è vero! Ecco come hai allertato la gente! Hai riavvolto e…”
“Non è andata proprio così.” disse amaramente Chloe, interrompendola “Diciamo che Max sapeva del tornado con qualche giorno di anticipo ma..”
“Lo sapeva! Ma avete avvertito la popolazione! Lei ha detto che ha usato…”
“Per fermare Jefferson.” spiegò Max “Non per evitare il tornado. Come ha detto Chloe: lo sapevo già. Ho usato il potere per manipolare il tempo e far arrestare Jefferson, mentre rapiva Victoria al posto mio.”
Steph era sempre più scioccata

“Come facevi a sapere che voleva prenderti?”
“Te l’ho detto: ho riavvolto. Ha ucciso Chloe e preso me. Avevamo trovato il corpo di Rachel ma era una trappola: ci attendeva alla discarica per eliminarci. Fortunatamente ho potuto tornare abbastanza indietro nel tempo per uscire viva, salvare Chloe e farlo beccare con le mani nel sacco, ma non abbastanza per salvare tutti quanti. Non starò a spiegarti tutto ora: troppo complicato. Prima devi accettare questa cosa che mi è molto difficile e dura da confessarti.”
Steph tornò a sedersi

“Però sapevi del tornado.”
Max la fissò con le lacrime agli occhi

“Non ho il dono della preveggenza, solo di tornare nel passato. Il tornado l’ho causato io.”
Steph si aggrappò alle ginocchia, affondando le mani
“Tu.. cosa? Impossibile…”
“Le mie azioni… le mie scelte…. Ho scelto di salvare la vita di Chloe in cambio di…. Perdonami Steph: ho distrutto anche la tua città natale. Mi dispiace terribilmente.”

Chloe si alzò e cinse in un abbraccio Max, poi continuò al posto della sua ragazza
“Mi ha salvato, è vero. Sarei morta nel cesso della Blackwell, con una pallottola in pancia firmata da Nathan Prescott. Ora lascia che ti spieghi.”
Chloe parlò per una ventina di minuti. Max taceva, fissava il suolo, come se Chloe fosse il suo avvocato che confessava, a nome suo, orrendi crimini a una giuria incredula, interpretata da Steph, orribilmente sbalordita e confusa. Al termine del racconto, Steph scosse il capo

“Tutto ciò è oltre l’assurdo.” Mormorò amaramente “Non può essere vero…. Ora capisco come siate riuscite a fare tutto….”
“Ma questa estate no! Sei venuta tu in nostro aiuto, noi non abbiamo usato poteri sovrannaturali!” esclamò Chloe, come per giustificare tutto quanto.
“Si, immaginavo. Ma…Max….. hai distrutto Arcadia…”
Max sollevò il capo, mostrando il viso sconvolto dalla colpa e dal dolore

“Perdonami. Ti capirò se non vorrai più essermi amica….”
Seguirono due minuti di silenzio, scandito solo dallo scoppiettio del fuoco e la brezza silenziosa del deserto, che sollevava ben poca polvere, mentre le avvolgeva in quel momento di riflessione condivisa. Ognuna delle tre aveva i suoi solitari pensieri: Max credeva di aver rovinato il bel rapporto con Steph, Chloe fingeva serenità ma dentro era in lotta perché non voleva rinunciare all’affetto di una delle sue poche vere amiche ma non poteva non difendere la sua Max mentre Steph…
Steph era confusa, triste e sconvolta. Mai nella sua vita si era sentita così. Si era sempre definita razionale, credeva in qualcosa oltre la comprensione umana ma nel giusto, non eccessivamente. Per quanto adorasse il fantasy, era la solida realtà a darle conforto. Senza la realtà, come poteva esistere la fantasia, ultimo reame e rifugio di persone come lei, a lungo ostracizzate e rese impopolari solo per essere sia diverse che uniche e spontanee in una società di grigi idioti che si copiavano tra loro? La Blackwell! Fulgido esempio di una feroce competizione basata su un finto merito ma dove spadroneggiavano i più grandi cliché made in U.S.A., con padri ricchi che riempono le tasche di donazioni per nascondere la polvere sotto il tappeto o avere vantaggi enormi, mentre i loro figli si classizzano in una competizione farlocca in cui vince chi si amalgama nel grigiume della ripetitività e della assonanza e non della discordanza.
Per questo adorava Rachel e per questo si era felicemente legata a Chloe.
Rachel Amber! Quanto le piaceva… quanto amava i suoi profondi occhi nocciola, le sue forme così perfette e femminili ma, soprattutto, quanto ama il suo essere così fottutamente ambigua: perfetta per i canoni della società, ottimamente identica a qualsiasi altra divinità da collage, ma anche così tremendamente diversa, unica, ribelle. Una ribellione silenziosa, fatta di piccoli pezzi di pane lasciati come scia verso la sua ambigua natura. Popolare, ottimi voti, spacciatrice di droghe, consumatrice di alcool, sorridente e rabbiosa, creatrice di legami sociali, distruttrice di rapporti. Amata da tutti dentro la Blackwell eppure, uscita da quelle porte, solo Chloe Price aveva avuto il privilegio della sua vera, unica, onesta compagnia. Girava voce che tra loro ci fosse stata una rapida relazione, forse del sano sesso in amicizia, forse solo qualche bacio. Forse erano semplicemente amiche.
Qualunque cosa ci fosse stata non ha mai voluto indagare: era gelosa. Non la conosceva, avrebbe voluto ma dio mio se ne era innamorata. Desiderava Rachel con tutta se stessa e adorava Chloe per averla introdotta nella sua misera cerchia composta da lei e Mickey ma, al tempo stesso, detestava Chloe perché lei aveva ciò che nessuno aveva potuto avere.
O almeno così credeva… perché pere che anche Chloe, si dicesse, non fosse stata altro che una pedina negli ultimi tempi di Rachel Amber su questa terra. Chissà cosa era cambiato…. La storia con Frank? Non aveva mai saputo di quella storia ma Chloe le aveva raccontato di recente e ne era rimasta colpita. Ma poteva uno come Frank Bowers cambiare una come Rachel Amber?
No, impossibile.
Rachel rimaneva e sarebbe sempre rimasta una misteriosa figura.
Sorrise e poi parlò
“Sai Max…. non so perché ma tutto ciò mi ha rimandato a Rachel Amber. No, davvero, non so spiegarmi il motivo di questo. Semplicemente, ho pensato a quanto sia bizzarro tutto quanto e che io non voglia crederti eppure lo sto facendo. Alla fine abbiamo tutti creduto in Rachel eppure lei era il più grande mistero vivente. Non è così, Chloe? Quindi perché non dovrei credere in te? No, non fraintendere: so benissimo che sono due cose opposte su ogni aspetto. La cosa che mi ha fatto pensare e che mi aiuta ad accettare questa assurdità e che non potevi salvare Rachel. Non tanto perché non potevi tornare indietro nel tempo, o forse si se avessi fissato una sua foto, ma non sarebbe comunque stato un vero salvataggio: Rachel non poteva essere salvata. Nessuno avrebbe potuto farlo. Era su una strada che nessuno poteva percorrere. Il destino è immutabile, il tempo no. O almeno, sentendo le tue parole, nemmeno il tempo lo è, salvo a un prezzo atroce. Chloe doveva morire ma tu non hai potuto accettare questo e hai scelto un sacrificio. Arcadia e molte vite per lei, per la persona che ami. E questo, a differenza del tuo potere, lo capisco.”
Max alzò lo sguardo sorpresa ma non proferì parola, lasciando che proseguisse Steph
“Anche io avrei fatto lo stesso. Shakespeare sosteneva che nessuno può padroneggiare un dolore, eccetto chi lo ha. Come avresti potuto vivere se avessi deliberatamente lasciato morire la ragazza che amavi, la tua migliore amica di una vita? Possiamo perdere migliaia di vite e continuare ma non sapremmo resistere alla perdita di una sola persona amata. Una contraddizione assurda dell’animo umano. Ma la capisco. Non hai generato il tornado, non hai generato nulla: hai scelto. Ogni scelta porta conseguenze e le tue erano solo più grandi perché hai scomodato qualcosa che non è solito essere scomodato. Ma hai tutta la mia comprensione e il mio appoggio. Ti ringrazio di avermene parlato: ora so che mi vuoi davvero bene e che sono una vera amica per te e credimi : muoio dal bisogno di avere delle amiche.”
Max sorrise e il suo nervosismo parve sciogliersi ma chi era cambiata era Chloe, che aveva assunto uno sguardo serio e preoccupato allo stesso tempo

“Tu amavi Rachel…” mormorò
Steph sorrise
“Non è mica un mistero: la amavano tutti…”
“No. Tu amavi davvero Rachel…”
“Chloe non è..”
“Dimmelo e basta. Amavi Rachel, vero? Non me ne sono resa conto, anche se mi hai sempre detto che volevi provarci, non mi ero resa conto di quanto fossi presa da lei. Tu eri folle per lei…”
Steph fissò le punte delle sue scarpe

“Quindi domani ripartiamo! Prossima meta?”
 
 
 
Il suono della webcam che si attivava la destò dai ricordi di quella notte in  cui, più che la loro indagine congiunta, aveva cementificato la loro amicizia. Tempo una manciata di secondi e il viso di Steph comparve sullo schermo
“Salute a te, dama di Arcadia. Come procede la vita nella fredda baia?”
Max esplose in un sorriso sincero e sereno: era così felice di poterle parlare di nuovo dopo settimane! Steph era passata poco prima del Ringraziamento e si era fermata solo per tre giorni. Le era mancata: portava leggerezza.
Non che con Chloe non ci fosse, ma Steph era la ‘straniera’, quella che le riportava fuori da Arcadia.
A volte, malamente, doveva ammettere che le mancava Seattle a volte. Voleva una immagine nuova, fresca….
Eppure…
Eppure sentiva anche della feroce malinconia quando pensava a Seattle, come se fosse madre di tristezza e dolore. Ma perché? Non per i cinque anni di lontananza e silenzio da Chloe, ma una tristezza maggiore, una mancanza…. Una perdita….
“Va tutto bene, ragazza delle nevi. Come stai tu? Sempre più accademica e impegnata?”
Steph fece le spallucce
“Come ben sai, qui nessuno vive senza di me. Muovo il mondo, baby.”
Max ridacchiò
“Lo immagino, Steph. Novità? Hai chiesto di uscire a quella ragazza… come si chiamava? Emma?”
“Eva. Emma era un mese fa ma, sfortunatamente, non amava il cinema. Comunque si, sono già alla seconda uscita con Eva e mi piace. Non so se per lei è lo stesso ma finché mi fissa con quegli occhioni da cerbiatta dolce posso sperare bene per il futuro. Chloe come sta?”
“Oh, lavora troppo. Tiene troppo al Two Whales. Comprendo che voglia far trovare a Joyce un ambiente che funziona da solo ma…”
“Ma la comprendi e la supporti e già la aiuti. Non crucciarti, Max. Va bene così e a una come Chloe serve tenersi impegnata. Lo sai meglio tu di me, no?”
Max annuì.
“Volevo chiederti un parere, Steph. Qualcosa che gradirei che rimanga tra di noi…”
“Un modo carino per dire: non diciamolo a Chloe.”
Max arrossì e annuì
“Male male Max. Non dovresti dire le bugie, anche se sei diventata dannatamente brava.”
“Non sono mai stata brava.”
“Hai nascosto al mondo intero che riavvolgi il temp…”
“SSSSH!” esclamò Max allarmata “Non dire…”
“Tranquilla! Sono completamente sola e dubito che la CIA spii una come me. Allora, cosa sarebbe questo oscuro segreto? Cosa mai devi narrarmi che Chloe non può e non deve sapere?”
Max abbassò di un poco la voce e si avvicinò allo schermo, come per nascondersi e non farsi sentire dai muri di casa Price
“La testa. Ha ricominciato a dolermi.”
Steph inclinò la testa di lato
“Ancora? Avevi detto che andava molto meglio…”
“Ed era vero! Ma oggi ha ricominciato a fare male. Molto male. Anzi, gli attacchi di emicrania hanno ricominciato ad aumentare lievemente, ma mai così forte. Oggi mi sentivo con la testa rotta a metà.”
Steph scosse la testa e fu in quel momento che Max notò la collana nuova che indossava. Un piccolo anello dorato ondeggiava sul maglione blu notte che la ragazza indossava. Citazione a Il signore degli anelli?
“Non va bene, Max. Devi parlarne con Chloe e andare a farti vedere in ospedale…”
“Non posso! Chloe è troppo presa con il lavoro e in pensiero per sua madre che sta ancora facendo un sacco di fisioterapia. Ho bisogno di…”
“Hai bisogno di andare in ospedale.”
“No. Meglio di no.”
“Non dirmi che hai paura degli aghi…”
“Ho paura che possano trovare qualcosa di strano nel mio cervello. Forse il segreto del mio potere è lì e potrebbe essere un problema.”
Steph strinse le labbra e incrociò le braccia. Era pensierosa
“Forse hai ragione. Potresti diventare una cavia da laboratorio o pensare che tu abbia un tumore o altro e ritrovarti con la testa spaccata in due dai bisturi e medicine sgradevoli in vena per niente. Questo, in effetti, posso comprenderlo. Ma non puoi nemmeno ignorare questo malessere.”
“Il problema non è solo il dolore, Steph.”
Max si fece più cupa, Steph più interessata
“Vedo cose che non esistono. Oggi ho visto il sole.”
“Beh non è che sia una cosa così strana Max…”
“Qui è nuvolo da giorni, Steph. Nuvolo per chilometri, da pioggia. Le nuvole sono compatte e non si sono aperte di un centimetro. Ma non solo: ne percepivo il calore, la temperatura, il clima… Steph la mia testa sta andando in frantumi.”
Concluse la frase passandosi le mani tra i capelli, portando scompiglio nella sua bruna chioma
“Ok lady tempo, rilassati. Non stai impazzendo: analizziamo la situazione. Primo: non hai usato le tue abilità per mesi e, come hai anche detto tu correttamente, magari si è accumulato dentro di te e ora ti fa pagare il conto. Oppure il tuo corpo non è più abituato a questo stress temporale oppure è come una droga e ora che hai ricominciato a usarlo, sta andando in crisi di astinenza. Hai usato mai il tuo potere dopo il tribunale?”
“No. Lo giuro, no!” esclamò Max inorridita
Steph mugugnò un ‘buffo’
“Steph non so che mi succede e se ne parlassi con Chloe…”
“Andrebbe in crisi, ho capito. Si, in effetti si agiterebbe non poco ma non puoi pretendere che ne rimanga all’oscuro per sempre. Devi parlarle.”
Max chiuse gli occhi e sospirò
“Odio doverle tenere nascosto qualcosa ma ho la fottuta paura che possa andare in crisi. Per cosa poi? Delle emicranie? Magari tutto si risolverà a breve….”
Steph le sorrise con fare materno
“Stai mentendo a te stessa: sono quasi cinque mesi che hai dolori. Ok, per qualche settimana erano piccoli fastidiosi attacchi momentanei ma ora stanno peggiorando. Inoltre, sostieni di ‘vedere cose ‘ … Max non puoi credere davvero di gestirla nell’ombra. Infatti, sei corsa da me oggi, no? Hai paura e tutto questo ti terrorizza molto più di quello che credi. Non stai bene e vuoi una soluzione e sai benissimo che è a portata di mano: vai all’ospedale e confidati con Chloe.”
Max sbuffò
“Ok, ok… hai ragione. Facciamo così: se entro una settimana non miglioro, giuro solennemente di parlarne a Chloe.”
Steph batté allegramente le mani.
“Finalmente! Ora: hai necessità di altri consigli medici?”
Max scosse il capo e passò un’altra ora buona a parlare con Steph di un po' di tutto, dagli ultimi film in sala al GDR che stava progettando (Max ne era incuriosita). Fu una piacevole chiacchierata tra ragazze geek che si concluse con un po' di fastidio agli occhi per la permanenza davanti al pc con una luce non ottimale, una pastiglia di ibuprofene (per sicurezza) mandata giù con un po' di acqua prima di coricarsi ma nessun mal di testa infernale.
Si addormentò sola, mentre attendeva Chloe che, a qualche centinaio di metri di distanza, si affaccendava per tenere alto il nome del nuovo Two Whales.
 
Era ormai mezzanotte inoltrata. Max dormiva già da un pezzo e Chloe si affrettava a finire di pulire a terra.
Aveva congedato tutto lo staff, ringraziando uno ad uno tutti quelli che erano passati a chiederle se le servisse una mano per la chiusura ma la ragazza aveva declinato con un sorriso e un oh no, figurati, me la cavo io. Va’ pure.
Chiuse a chiave tutte le porte e uscì dal retro, si fermò sul marciapiede e si accese una sigaretta. Dopo la prima boccata, lasciò uscire dalle sue labbra uno sbuffo di fumo acre e lo fissò dissolversi nella notte fredda e limpida.
Arcadia sonnecchiava. Le luci per strada erano vive e interrompevano con precisione il buio che avvolgeva l’asfalto. Prima di andare verso il parcheggio e montare in auto, scelse di chiamare una certa persona.
Era tremendamente preoccupata, anche se era riuscita a mascherare tutto perfettamente (cosa che fino a un anno prima le sarebbe stato impossibile, vista la sua natura focosa e diretta): Max le mentiva.
Max non stava bene. Non stava per un cazzo bene.
Lo sapeva, lo sentiva…. Allora perché non glielo confidava semplicemente?
Non riusciva a capire…. O forse si…. Quella testona starà pensando che è una cosa da nulla e non vuole aggiungere preoccupazioni a nessuno.
Piccola, adorabile, testa di cazzo.
Finì la sigaretta ben prima di quanto avesse voluto e dovuto. Si mise sotto la luce del lampione più vicino e chiamò al telefono un numero ormai noto.
Nell’attesa che il ricevente rispondesse, si strinse nel suo cappotto nuovo e caldo, berretto di lana calato fin oltre le orecchie e sciarpa di lana di un colore terribile (viola prugna!) ad avvolgerle il collo: la notte dicembrina del Pacifico era pungente.
Dopo cinque squilli, la cornetta si sollevò e una voce divertita s’intromise nell’orecchio sinistro di Chloe
“Dio mio una chiamata da parte tua, quale onore. Inizio a credere di essere diventata la tua migliore amica, Price.”
Chloe sorrise
“Non esaltarti troppo Kristine. Come va in Europa? Nota bene: ho detto Europa perché non ho la minima idea in quale paese tu sia finita oggi: ha troppi stati quel contiente!”
Kristine Prescott ridacchiò
“Non sono così tanti, in fondo. In ogni caso, sono in Spagna, chica mala. E giusto per infierire, qui sono le nove di mattina, sto facendo colazione con un.. come diamine si chiama questo coso….ensaimada credo. Boh, una roba tipica catalana. In ogni caso sto facendo colazione e la temperatura, per essere Dicembre, è fottutamente gradevole.”
Chloe sbuffò
“Non sei simpatica. Ma cosa fai in Spagna? La settimana scorsa non eri in Grecia? TI stai facendo un tour?”
Kristine finse una risatina
“Tutto lavoro, Chloe. Tutto lavoro. Ho molti accordi da stringere qui, nel vecchio Continente e, sarò brava, mi potrebbero fruttare parecchio nell’immediato.”
“Il sangue Prescott scorre potente in te. Almeno non hai più il naso in questo buco di Bay.”
“Chi lo ha detto che non ho più affari in Arcadia?”
Chloe si fece dubbiosa
“Beh…. Tu….?”
“Oh si, io. Ma io ho anche prestanome e un paio di società satelliti farlocche. Tutto legale, tranquilla, ma bisogna ammettere che investire in immobili è più sicuro e conveniente: meglio lasciare uno spiraglio aperto anche in una cittadina in ricostruzione.”
Chloe roteò gli occhi
“Ok, sei decisamente una Prescott. Immobili, donazioni, fondazioni benefiche, giro di affari di ancora non ho capito cosa…”
“Cosmesi, Price. Prodotti per noi signorine. Dovrei regalarti un nostro kit di benvenuto. Ne abbiamo venduti circa ottoc..”
“Si ok, ok. Prodotti per donne, chiaro. Hai diversificato il mercato, molto bene. Ora, quando la smetterai di fare soldi e tornerai a trovarci?”
“Credevo fossi ancora fidanzata con Max, Chloe. Inoltre sai che ho gusti diversi ma ammetto che mi lusinghi. Forse con due o tre bicchierini di tequila potrei anche trasformare un no in un si per una sola volta.”
“Ah- ah che ridere. Non intendevo quello e lo sai. Semplicemente credo che dovresti fare un salto dalle tue uniche vere amiche migliori.”
“Uh, ora siamo migliori amiche? Mi commuovi! Comunque ti ricordo che sarete voi due a venire tra poche settimane qui da me, a Parigi”
Chloe si rabbuiò
“Si, lo so… solo che….”
“Che…?” la incalzò Kristine
“Credo che Max non stia affatto bene e che me lo stia nascondendo.” confessò di getto
Seguì una pausa di alcuni secondi in cui si udì il respiro regolare di Kristine. Poi, la Prescott chiese
“Cosa te lo fa pensare?”
“Non sta bene. Ha ancora emicranie e credo siano peggiori di quello che vuole farmi credere. Non so cosa pensare: perché non me lo vuole dire? Sarà ancora convinta che io vada in crisi e non vuole darmi pensiero?”
“E’ esattamente quello che stai facendo, però.”
“Sono in crisi perché non mi parla, non perché sta male.”
Kristine rise
“Sei in crisi per quello E perché sta male. La cosa, comunque, non mi piace. Non credo che lei voglia darti pensieri dato che hai un locale da gestire e una madre in riabilitazione… a tal proposito: come prosegue?”
Chloe sorrise
“E’ una cazzo di roccia. Una forza: hanno detto che fa passi da gigante se si tiene conto di quello che ha passato. Ha anche trovato la voglia e il tempo per cazziare me e Max per i fatti di questa estate: ha aspettato Settembre per tirarci le orecchie.”
Kristine ridacchiò
“E con David?”
Chloe fece le spallucce
“Direi bene. E’ bravo con mamma e se ne prende cura ogni giorno nonostante il suo nuovo lavoro da poliziotto. E’ instancabile ma credo che si meriti una vacanza anche lui, alla fine di tutta sta storia.”
“Alla fine, la guerra è conclusa allora.”
Chloe sorrise
“Si. E’ il mio patrigno.”
Anche se non la poteva vedere, Chloe avvertì che Kristine le sorrideva dall’altro capo del telefono
“Ne sono felice, Chloe. Davvero. Tu e Max ne avete passate troppe e avere di nuovo una famiglia, una noiosa meravigliosa routine è essenziale per la vostra salute.”
“Sempre se Max stia davvero bene…”
“Se non sarà così, allora, portala a forza da un medico. Tanto è mingherlina, quasi quanto te.”
“Si come no. Quella è testarda. A parte gli scherzi, che dovrei fare?”
“Lasciarla tranquilla. Non ti sta tradendo, Chloe. Vuole fare la sua parte. Ti ha sempre raccontato tutto e ora, forse, non crede di doverti dare preoccupazioni aggiuntive per qualcosa che lei crede essere gestibile. E’ adulta e avete affrontato molte cose insieme: fidati di lei.”
“Lo faccio da sempre. Ho solo una brutta sensazione: ho paura di perderla.”
“Non abbiamo tutti paura di perdere qualcuno che amiamo e vivere senza? Non è una sensazione comune ma penso che sia familiare a tutti quando si presenta.”
Chloe, istintivamente, alzò gli occhi in direzione del faro ricostruito, che proiettava la sua luce sull’oceano.
“Oh si. Tremendamente familiare.”
 
 
 
 
Rientrando a casa, facendo attenzione a non svegliare nessuno, Chloe si attardò in cucina. Prese un bicchiere d’acqua al buio (tanto poteva muoversi alla cieca in casa sua: mai avrebbe sbagliato!) e si appoggiò al pianale, osservando fuori dalla finestra. Il giardino si vedeva poco, ma la staccionata e la casa dei vicini erano debolmente illuminati dalla luna.
La chiacchierata con Kristine non l’aveva tranquillizzata quanto avrebbe voluto e un po' si sentiva in colpa per aver parlato di Max alle sue spalle.
Ma in fin dei conti, era preoccupata!
Pensò che, in fondo, fosse vero: Max sicuramente non le diceva tutto per non darle preoccupazioni, ma lei non si sentiva così sotto pressione. Lavorava molto, è vero, era felice per sua madre ma le faceva ancora effetto vederla così in difficoltà a muoversi (era tornata a dormire in camera sua solo da due settimane, e comunque con un supporto per salire le scale!) ma tutto sommato non era turbata come un anno fa. O anche più.
Dopo la morte di suo padre, l’abbandono (momentaneo) di Max, la scomparsa e la morte di Rachel, le pistole e i coltelli puntati contro e un tornado, davvero si sarebbe travagliata per un mal di testa?
 Si. Certo che si, cazzo. Perché è di Max che si parla….
No. Kristine aveva ragione: Max meritava di gestire la cosa da sola: se lei credeva che non fosse necessario confidarle tutto e anche se lo avesse fatto per timore di farla preoccupare, avrebbe rispettato la sua scelta e lasciato Max in pace. Se e quando l’avesse ritenuto opportuno, sarebbe sicuramente corsa a dirle tutto e chiederle una mano. Come sempre.
Erano loro due da sempre e per sempre. Non esisteva problema impossibile da risolvere se avessero continuato a contare l’una sull’altra.
Adagiò il bicchiere nel lavandino, con delicatezza e salì le scale, attenta a non fare rumore.
Avevano messo anche la moquette per rendere il legno meno scivoloso per sua madre! Dio che benedizione tardiva: questa le sarebbe tornata utile fino a un paio di anni fa, quando rientrava di nascosto a notte fonda! Avrebbe attenuato di molto i suoi passi.
Ridacchiò a quel pensiero: ogni tanto doveva ammettere che le mancava la Chloe folle e ribelle. Non era così male come vita da randagia…. Forse se la sarebbe potuta godere di più se fosse stata meno arrabbiata ai tempi…
Entrò in camera e tutto quel pensiero svanì alla vista di Max addormentata.
Vita da randagia? No.
Questa era la vita che voleva ora: con lei. Noiosa, piena di ripetitività ma fottutamente serena e con accanto la ragazza che amava da impazzire.
Si avvicinò lentamente e le accarezzò il viso, scostandole una ciocca bruna. Notò che stringeva gli occhi e pensò dentro di sé che stesse scattando una foto ai suoi stessi sogni.
O che quella forse una smorfia di dolore….
Una fitta al petto l’attraversò per un istante, poi si tranquillizzò.
Stava solo sognando.
Si svestì e si buttò nel letto, stringendo le spalle di Max. Era troppo stanca per accorgersi che la ragazza bruna che amava così tanto stringeva in una morsa di nevrosi anche le spalle. Non poteva accedere ai sogni di Max che, in quel preciso istante, mentre Chloe abbandonava la lucidità e la veglia per riposare, erano fatti di ira.
Mostruosa ira.
La sveglia del cellulare squillò con il solito tono acuto e fastidioso.
Max si svegliò con un dolore ai denti fortissimo, come se li avesse stretti per ore: bruxismo? Per favore non anche questo!
Si voltò e vide Chloe profondamente addormentata, esausta da tutte quelle ore extra al diner. Le dispiacque molto non averle detto nulla di quello che le stava accadendo e anche che non le lasciasse dare una mano al lavoro, giusto per farla stancare un poco di meno.
In silenzio, come una kunoichi provetta, scivolò fuori dalle lenzuola, si svestì dal suo pigiama invernale giallo canarino, prese il paio di jeans del giorno prima ma cambiò la maglietta, scegliendone una abbastanza anonima per il suo stile, una felpa pesante (il cielo era ancora plumbeo e freddo) e si diresse in cucina.
Fortunatamente, David era già uscito e le aveva lasciato del bacon e un paio di uova (capitava spesso che preparasse qualcosa in più per la prima che si  fosse svegliata, mentre per Joyce preparava una colazione apposta che riponeva con cura da parte, a volte sui fornelli (se era una colazione salata) o in frigo ( se era a base di zuccheri).
Non mangiò tutto perché le venne una leggerissima nausea e non capì perché. Non poteva essere per il ciclo, dato che era finito da poco. Sicuramente non era incinta.
La nausea mattutina era una assoluta novità.
Come anche l’assenza di emicrania.
Se ne accorse mentre tornava di sopra per lavarsi i denti e per la prima volta dopo oltre una settimana, non aveva avuto fitte alle tempie appena sveglia. Inizialmente erano leggere, poi insistenti ma sempre quotidiane. Oggi nulla.
Questo la rese più serena.
Detto ciò, uscì in silenzio e si incamminò fino alla fermata designata per l’autobus della Blackwell. Tutto sommato, tempo a parte, poteva essere una bella giornata.
Decise di infilarsi nelle orecchie una canzone di buonumore e scelse  Raindrops keep fallin’ on my head  di B. J. Thomas. Le appariva appropriata anche se, per ora, non pioveva.
Salita sull’autobus si godette il paesaggio di Arcadia Bay nella fase di timido risveglio: gente che passeggiava, che faceva jogging, lavoratori assonnati, un tizio con un lungo cappotto nero fermo sul marciapiede dall’aria tremendamente familiare (dove lo aveva visto?) cacciatori di colazioni, studenti svogliati.  Una fauna locale che non si differenziava molto dal resto del mondo, al mattino.
L’autovettura scivolò con grazia verso la scalinata d’ingresso dell’Accademia Blackwell e con rinnovata fiducia e leggerezza, Max si sentì di poter affrontare quella giornata in pace. Si, sarebbe stata una bella giornata!
Appena superò la statua di ‘Mister – Fondatore – Supremo – Blackwell’ , sentì l’odiosa voce
“Hey Caulfield!”
Milton le correva incontro, proveniente dai dormitori, sbracciandosi
Max alzò gli occhi al cielo, con esasperazione e disperazione. Finse di non aver visto e sentito (molto improbabile che passasse come veritiera) e s’incamminò verso la porta a vetri dell’ingresso
“Caulfield! Max! Aspetta per favore!”
Si bloccò con la mano sulla fredda maniglia in metallo
“Dimmi Milton.”
“Riguardo a ieri…” cominciò il ragazzo
“Non ho più nulla da dire riguardo a ieri e tutto ciò che ti serve sentire da me lo hai già sentito ieri, chiaro?” lo interruppe Max “Non intendo ripetermi.”
Milton, però, non si arrese
“Lo so, lo so e volevo solo scusarmi con te se sono stato inopportuno e invasivo.”
“E falso.” Sottolineò Max
“Non sono falso. Ok, forse non ero così amico di Warren…”
“Diciamo proprio che non lo sei mai stato…”
“Il punto è che non voglio usarti come attrazione pubblicitaria….”
“Credevo ti fossi scusato per essere stato falso…. “
“Max tu hai talento… sarebbe brutto non esibirlo..”
In quel momento, si congelò.
“Cosa hai detto?” sibilò a denti stretti Max, senza voltarsi a fissare Milton
Il ragazzo non parve notare nulla di strano e riprese
“Che le tue foto sono davvero belle e sarebbe magnifico che tu collaborassi con il mio club. Ti metteremmo in mostra, saremmo noi a sponsorizzare te e non viceversa. Hai un dono.”
Il freddo, in Max, si fece acuto e penetrante.
La voce di Milton cambiò in una diversa, più oscura e più nota
 
Max, tu hai un dono…..
Un dono……
“Non osare…” sibilò di nuovo Max, ma ancora nulla da parte di Milton, che andò avanti imperterrito.
“Non dovresti tenerlo nascosto.”


Le stesse parol..
Le STESSE FOTTUTE PAROLE
 
Max esplose. Dentro di se, un mostro di impazienza, stanchezza e frustrazione urlò di rabbia.
“Milton MI HAI ROTTO, CHIARO? NON INTENDO PARTECIPARE A NULLA DELLE TUE FOTTUTE INIZIATIVE DI MERDA DEL TUO FOTTUTO CLUB!” gridò con ferocia. Quella sana rabbia che presto divenne una ferocia cieca che non le apparteneva
“Maxine, hey calmat…”
“NON DEVI MAI CHIAMARMI MAXINE, SCHIFOSO IDIOTA DEL CAZZO!” gridò ancora più forte, prima di rifilare un pugno in pancia a Milton, che incassò malamente, sorpreso da quel gesto.
Poi, la rabbia svanì di colpo e fu il gelo. Attorno a sé, vide che si era raccolto un capannello di studenti curiosi che fissavo golosi la scena
“Dagliene un altro, Caulfield!” strillò qualcuno di loro.
No!
No, no, no ,no no no no no….
No cazzo NO
 
 Senza pensarci due volte Max  sollevò il braccio destro e riavvolse. Non poteva permettere di rendere la sua vita alla Blackwell un nuovo inferno. O peggio, essere sospesa o espulsa per quel gesto.
 
Perché l’ho fatto? Che cazzo mi succede!?!?
 
Ma mentre riavvolgeva, si accorse che qualcosa non andava: non era come al solito, non c’erano solo le figure  che si muovevano come fantasmi sulla scena, ripetendo a ritroso gesti e espressioni. C’era troppo…. Caos…
Tutto sembrava pregno di figure estranee, sconosciute…. Riflessi e fantasmi di momenti e gente che non doveva essere li… le parve perfino di scorgere Kate Marsh sullo sfondo…
Interruppe il riavvolgimento e, fortunatamente, era nel preciso momento che avrebbe voluto. Milton era appena arrivato di corsa e le stava per parlare. Max alò istintivamente le mani per bloccarlo ma quel gesto le costò una fatica immensa, come se ogni arto le pesasse centinaia e centinaia di chili…
“Milton, ti prego no… lasciami in pace per favore… io ti prego di…”
Non finì la frase.
Si sentì debole, sfinita e la testa cominciò a pulsarle terribilmente. Il dolore era insopportabile, ingestibile. Si sentì gridare ma solo nella sua testa: la bocca era cucita eppure gridava di dolore, di stanchezza, di rabbia, di rassegnazione amara.
Tutto vorticò, le cose e le persone attorno a lei persero la loro forma e fu solo nero, mentre scivolava a terra, cadendo di fronte alla fredda porta d’ingresso della prestigiosa Accademia Blackwell.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 2 – Cura
 
Chloe Price si teneva la testa tra le mani, china a terra, in preda allo sconforto più nero mentre stava seduta nella sala d’aspetto dell’ospedale di Arcadia Bay.
La struttura era una delle poche che si era preservata quasi totalmente dal tornado che, miracolosamente, non l’aveva investito, grazie alla sua posizione decentrata rispetto alla città. Essendo situato fuori dai confini cittadini, solo qualche detrito aveva colpito i piani alti della struttura ospedaliera che, perciò, aveva fornito una immediata e quasi totale efficiente cura dei primi feriti e degli sfollati.
Nonostante ciò, si era provveduto a restaurarlo quasi totalmente, rendendolo uno degli ospedali più moderni e attrezzati della costa Ovest, tra i primi dell’Oregon.
Gli interni, nonostante tutto, erano quasi simili.
La sala in cui Chloe sostava era la stessa in cui era rimasta tempo addietro, in attesa di scoprire se Rachel sarebbe morta o sarebbe sopravvissuta a quella famigerata coltellata nel braccio, piena di orrore e spavento.
Anni dopo, era ancora lì, con orrore e spavento.
Stessa scomoda sedia, anche se più nuova, stessa paura, impotenza e angoscia.
Cambiava solo la persona, Max, e la modalità: niente coltelli ma, forse, qualcosa di peggio.
L’avevano avvertita in tarda mattinata: Max era svenuta davanti a scuola, cadendo come un sacco di patate mentre parlava con quel coglione di Milton che, per l’ennesima volta, la stava importunando. Le era stato detto che l’avevano portata incosciente all’infermeria della scuola e, sempre incosciente, era stata prelevata dall’ambulanza venticinque minuti più tardi. Infine, una volta giunta in ospedale, aveva avuto un paio di minuti di risveglio, sufficienti per dichiarare che andava contattata solamente una persona: Chloe Price. Nessun altro al mondo, solo lei, Chloe Price. Era stata la sua unica, imperante richiesta. I medici, ovviamente, tentarono di protestare ma si era opposta con caparbietà e, solo quando appurò che avrebbero mantenuto davvero la parola data, crollò di nuovo svenuta.
Emicrania.
Tutto qui. Una forte emicrania. Così forte da farla svenire e, da un paio di ore, addirittura tenerla sedata per farla riposare senza sentire dolore, mentre le facevano tutti gli esami di rito per escludere lesioni alla testa dovute alla caduta davanti alla scuola e, ovviamente, per capire se ci fosse altro che le avesse provocato tanto malessere. Un po' illogico che una ragazza giovane e nel pieno delle sue forze svenisse per delle emicranie, anche se molto forti.
Chloe se ne stava seduta lì, in silenzio, con la testa fra le mani, le ciocche blu a cascata, tra le dita, come strette in una morsa per non farle fuggire.
Era tutto folle.
Sapeva che le nascondeva qualcosa, ma addirittura tutto questo….
Aveva mandato un messaggio a Steph, l’unica persona che ha voluto avvisare per non contravvenire agli ordini di Max: se lei aveva preteso che solo Chloe doveva essere avvisata non era solo di amore che si trattava, ma di un chiaro intento ‘ nessuno deve sapere’.
Non voleva che Joyce si preoccupasse, non voleva che i suoi genitori, sereni e ignari a Seattle, si preoccupassero.
Nessuno doveva sapere.
 
Altruista fino all’ultimo, eh? Che cogliona!
 
Ma Steph? No, lei poteva andare bene, lei poteva e doveva sapere.
Fu così che scoprì che meno di dodici ore prima si erano sentite e che le aveva confidato tutto. Ovviamente Steph aveva insistito affinché si confidasse con Chloe ma le disse che era irremovibile: non voleva darle pensieri.
 
Se non volevi darmi pensieri non l’hai proprio gestita bene, eh? Cazzo dammi pensieri piuttosto che il terrore di perderti, sottospecie di idiota con un rullino!
 
Appena si fosse svegliata l’avrebbe mandata in coma lei a suon di schiaffi, quella odiosa e assolutamente altruista brunetta.
Il terrore si faceva via via un compagno più acuto e penetrante nel suo stomaco e nella sua testa, soffocandole altri pensieri. Nemmeno si accorse del telefono che vibrava insistentemente da un paio di minuti, agitandosi nella sua tasca. Non si accorse nemmeno di tutte le persone, infermieri, dottori, semplici visitatori, che le passavano accanto in quegli interminabili minuti  e che la fissavano con un misto di stupore, curiosità e apprensione: chissà quanta angoscia provava quella ragazza dai capelli tinti! E chissà per cosa!
A malapena si accorse del rumore sordo che fece il sedile accanto a lei, segnalando la presenza di qualcuno che si era seduto. Incuriosita, dopo quasi due ore di attesa e lasciata a sé stessa mosse leggermente il viso a destra, liberando la testa dalla morsa delle mani.
Accanto a lei si era seduto un uomo sulla quarantina, viso pulito e con pochi segni dell’età, capelli radi, barba assente, viso tondo e labbra sottili. Aveva gli occhi scuri e fissava davanti a sé in maniera imperscrutabile e vestiva un lungo cappotto nero e scarpe lucide nere. Sembrava uscito da Matrix, pensò Chloe appena lo vide ma questo non le provocò né divertimento ne gioia. Tornò a concentrarsi su i suoi pensieri e si accorse solo allora del telefono che vibrava e lo tirò fuori: era Kristine.
Non ebbe tempo a dire ‘pronto’ che la voce della Prescott si infilò con energia nelle sue orecchie
“Era ora! Saranno almeno quindici volte che ti chiamo! Che è successo a Max?”
Chloe rimase sbalordita: non aveva detto a nessuno, eccetto Steph, che Max era ricoverata
“Ma come fai a… ci spii?”
“No, sciocchina: l’ospedale è stato pesantemente finanziato dalla mia famiglia in passato e il direttore se lo ricorda. Ha pensato bene che fosse il caso di avvisarmi.”
“Bene, ma perché?”
“Oh beh perché gli dissi qualche settimana fa che qualsiasi spesa medica avreste affrontato tu o Max l’avrei interamente pagata io.”
“Sei impazzita?” esclamò sorpresa Chloe che, accortasi si aver alzato la voce e che aveva un vicino nuovo, preferì alzarsi e camminare fino ai distributori automatici sulla sinistra “Ci hai già fatto enormi favori e ora siamo pure mantenute da te? Kristine per favore questo no…”
“Senti le assicurazioni costano, non pensare che non lo sappia. Inoltre so benissimo che non andate ogni giorno in ospedale, siete giovani e in ottima salute. Concludiamo ricordandoti che io sarò in eterno debito con voi due per quello che avete fatto per me. Perciò non rompere le palle e stai tranquilla che non andrò in bancarotta per questo.”
Chloe si sentì imbarazzata e sbuffò
“Beh gra..”
“Non ringraziarmi, Price. Dimmi che ha Max.”
Chloe si appoggiò sconsolata al distributore di merendine
“Vorrei saperlo anche io. Lamentava forti dolori di testa e stamane è svenuta. Non so molto altro nemmeno io.” rispose, astenendosi dal menzionare altro che potesse coinvolgere il potere di Max e, al tempo stesso, si sentì in colpa per averla tenuta all’oscuro, a differenza di Steph.

Kristine rimase in silenzio qualche istante. Poi concluse la chiamata raccomandandole di tenerla aggiornata.
Chloe era di nuovo sola. Il suo vicino in nero non si era scomposto, sembrava non essersi interessato a quella conversazione. Decise di prendersi un caffè e una merendina per ricaricarsi di zuccheri e rimanere magari vigile. Mentre si apprestava a finire il suo miserabile pasto, vide un dottore giovane, poco più che trentenne, affacciarsi dal corridoio e fissarla. Ebbe la certezza che mirava a lei quando le fece un discreto cenno con la mano. Chloe gettò ciò che rimaneva del suo spuntino e si avvicinò al dottore quasi correndo
“Lei è la signorina Price? Lo chiedo ma so che è lei, l’ho riconosciuta dalle foto sui giornali e sul web.”
Chloe sfoderò un amaro sorriso ma non rispose. Il dottore colse e proseguì senza indugiare oltre
“Devo mostrarle una cosa. Mi segua.”
Fece dietro front nel corridoio e proseguì oltre, superando le camere dei pazienti. Chloe le corse dietro ed ebbe un piccolo tuffo al cuore: Max era dietro una di quelle porte.
Superarono le stanze, andarono oltre la doppia porta e proseguirono ancora per una decina di metri, andando oltre ad un’altra doppia porta, trovandosi in un corridoio ad angolo ma il dottore giovane si infilò nella porta di fronte, senza svoltare l’angolo a destra.
L’accolse una stanza spoglia, quadrata, con tre scrivanie, una per muro, non decisamente addobbate se non per un computer, una stampante, decine di fogli e raccoglitori ad anelli vari. Sulle pareti, però, campeggiavano due pannelli illuminati e bianchi. Il dottore dal passo spedito la invitò ad avvicinarsi. Poi, prese una cartella dalla scrivania accanto e tirò fuori quelle che sembravano delle lastre e le appese ai pannelli: Chloe le parve di essere dentro la scena di quei film o telefilm stile Dr.House
“Inanzitutto, permetta che mi presenti: sono il dottor Paul Hollander e sono io che mi occupo della signorina Caulfield. Preferisco essere subito chiaro e diretto: la richiesta di non contattare nessuno al di fuori di lei avanzata dalla signorina Caulfield non è ammissibile e sto contravvenendo a molte regole ma, se non fosse stato per voi, oggi non avrei una figlia. Grazie al vostro passaparola il giorno del tornado, ho potuto avvertire mia moglie e dirle di mettersi in salvo con la nostra bimba appena nata. Per tanto, vi ringrazio e accetto di prendermi la responsabilità per questo caso speciale, oltre che promettervi le migliori cure e di fare tutto il possibile affinché Max possa tornare a casa.”
Chloe non seppe che dire e balbettò un sincerò ‘grazie’ ma parve bastare poiché il dottor Hollander sorrise, prima di tornare serio e professionale e riprendere
“Dunque, quello che può vedere qui sono delle radiografie al cranio della signorina Caulfield. Nota nulla di strano?”
Chloe si avvicinò ed esaminò prima quella di destra e poi quella di sinistra, che pareva identica. Tentò di esaminarle da vicino con minuziosità ma nulla: non capiva nulla. Era un fottuto cervello.
 
Il cervello della mia Max…
 
“Mi spiace dottore Paul, ma no. Non capisco nulla. E’ di sicuro un cervello ma altro non so dirle.”
Il dottor Hollander sorrise comprensivo e cominciò a spiegarle
“Abbiamo eseguito dei controlli al cranio perché la signorina Caulfield è svenuta, battendo la testa. Questo, unito ai dolori persistenti nei giorni scorsi, secondo quanto detto da Max stessa, ci hanno indotto a indagare immediatamente a livello cerebrale. Per caso, la signorina Caulfield aveva già battuto la testa in qualche altra occasione?”
Chloe scosse il capo
“Ne è sicura? Anche a distanza di anni, intendo.”
Chloe scosse il capo e disse
“No. Ci siamo perse per… beh qualche tempo ma non mi ha mai detto nulla. Credo sia andata in ospedale due volte in tutta la sua vita. Sapevo che da un paio di mesi soffriva di emicrania ma nulla di più. Non era mai svenuta.”
Il giovane dottore annuì ed estrasse una biro dal taschino e indicò diversi punti sulla radiografia di sinistra
“Questa è quella che abbiamo eseguito non appena è arrivata in ospedale la signorina Caulfield: come può notare dove le sto indicando, queste microlesioni all’interno dell’area cerebrale ci hanno allarmati notevolmente. La cosa sorprendente è che non c’è traccia di nessun trauma cranico: cadendo, ha battuto il capo ma non in maniera grave, forse non avrà nemmeno un bernoccolo. Ma queste lesioni microscopiche non si spiegano.”
Ora che le indicava, Chloe parve intravedere delle minuscole irregolarità. Il dottor Hollander si spostò sulla radiografia di destra e cominciò a indicare più o meno gli stessi punti
“Max è sedata perché aveva ripreso a lamentare forti dolori al cranio. Stiamo monitorando e il suo corpo risulta sotto stress per colpa di questi attacchi ma, al tempo stesso, abbiamo voluto fare una seconda radiografia mezz’ora fa per accertarci che non ci fosse qualcosa che ci è sfuggito e ho notato che le lesioni sono leggermente più grandi e ve ne sono almeno altre due nuove, che due ore fa non c’erano.”
Chloe si avvicinò e stavolta poté notare quasi subito le famigerate lesioni: negli stessi punti della prima radiografia, ma più grandi. Sembravano striature, non tagli.
“Cosa sono?” chiese con un filo di voce
Il dottor Hollander si rabbuiò e scosse la testa
“Non lo sappiamo. Non c’è versamento di sangue, non sembrano metastasi e non troviamo alcun segno di tumore cerebrale. A mio modesto avviso, sono lesioni insolite: è come se il cervello fosse stato tirato, strappato e ricucito in una frazione di secondi. Sembra tutto questo ma non ci sono tracce all’esterno e nemmeno altrove se non nelle zone più interne del cranio, soprattutto nel lobo temporale.”
 
‘Temporale’? o cazzo, il suo potere la sta uccidendo!
 
Chloe si fece pallida e ingoiò le parole che aveva pensato, tossendo per aver ingerito anche della saliva. Il dottor Hollander se ne accorse e le chiese se era tutto a posto, osservandola con sguardo indagatore. Chloe poté solo annuire
“Sono solo spaventata dalla parte che riguarda l’origine e che non riusciate a capirlo.”
Il giovane medico le appoggiò una mano sulla spalla con fare comprensivo
“Le prometto che indagheremo. A breve, Max potrebbe svegliarsi ma non le deve dire nulla, per cortesia. Voglio consultarmi con dei colleghi ma sarà meglio che si prepari: non possiamo escludere nessuna attività cancerogena nel cervello della signorina Cualfield. Non possiamo escludere una operazione a cranio scoperto per indagare la natura di quelle lesioni ed escludere l’ipotesi del cancro. Mi spiace, signorina Price.”


 
Chloe si adagiò sulla ringhiera fredda della scalinata antincendio all’esterno dell’ospedale. Dopo le notizie ricevute dal dottore giovane e loro fan, aveva mantenuto calma e compostezza il più possibile ma aveva sentito soffocarsi. Aveva ringraziato, salutato e poi era uscita con calma apparente dalla stanza delle radiografie, salvo poi accelerare il passo e andare in un posto isolato da tutti. Cercò e trovò l’uscita non allarmata per le scale in acciaio esterne e si tuffò fuori.
Il cielo era grigio come il suo umore, freddo e distante. Il panorama dipingeva ai suoi occhi la foresta dell’Oregon, dato che il mare si trovava alle loro spalle ma la vista non le importava al momento. Pensava a Max, al fatto che le avrebbero aperto il cranio e che avrebbero giocato il suo cervello.
Si sentì male e dovette aggrapparsi al freddo metallo esterno perché le gambe si fecero deboli all’improvviso.
Voleva calmarsi ma non riuscì perciò cercò urgentemente le sigarette nella tasca del suo giubbotto largo color ocra, ereditato da suo padre William. Non ci mise molto a trovarle, aprire il pacchetto ed estrarne una. Il problema fu l’accendino, che non si trovava da nessuna parte.
“Merda.” disse a denti stretti “Devo averlo lasciato al diner…”
Prima che potesse anche solo pensare in che punto del diner poteva aver abbandonato per sbaglio il suo accendino ricaricabile che le era costato quasi cinque dollari, sbucò alla sua sinistra una mano che reggeva un accendino a scatto metallico.
“Prendi pure il mio.” disse una calma voce maschile
Chloe allungò la sua mano destra per prenderlo e ruotò su sé stessa per capire chi fosse quell’uomo e rimase parzialmente sorpresa nel constatare che si trattava dello stesso sconosciuto che le si era seduto accanto. Afferrò l’oggetto, accese la sigaretta e lo porse di nuovo al proprietario, ringraziandolo. Quello, invece, scosse il capo e fece un gesto distratto con la mano
“Tienilo pure, a me non serve: non fumo.”
Chloe lo fissò dubbiosa, con la sigaretta a penzoloni dalle labbra
“E che ci fai con un accendino allora? Sei un piromane?”
Lo sconosciuto ridacchiò
“Una specie. Solo che c’è troppa umidità per incendiare qualcosa qui, anche se Arcadia è già stata bruciata qualche tempo fa. Comunque, dico davvero: tienilo pure. Sono a posto così, non è nemmeno un gran ricordo.”
Chloe fece le spallucce e lo ringraziò di nuovo. Era un bell’accendino, pensò mentre lo fece scivolare nella tasca sinistra del cappotto.
Per circa un minuto vi fu silenzio, poi Chloe chiese
“Sei qui per trovare un parente?”
“Non proprio. Tu?”
“Stessa cosa, diciamo.” Rispose lei
L’uomo annuì e rimase in silenzio a fissare l’orizzonte. Chloe si chiedeva cosa ci facesse qui un uomo che non conosceva, non aveva mai visto, eppure le trasmetteva inquietudine
“Sei di Arcadia?” chiese, cercando di indagare
“Lo ero.”
“E sei tornato perché sta male qualcuno che conoscevi?”
“Anche. Diciamo che ho del lavoro da svolgere qui.”
“Interessante.” Rispose lei, senza trasparire interesse nella voce
“Sembri molto preoccupata. Mi dispiace.”
Chloe capì il perché di quella domanda: oltre a fumare nervosamente, stava facendo dondolare la gamba destra come se fosse in preda a un raptus danzante
“Si, non sono molto brava a nascondere le emozioni.”
“Diciamo che me lo hanno detto ma fossi in te starei serena. Starà bene, Chloe.”
Inizialmente non ci badò ma poi le parve che quello l’avesse chiamata con il suo nome…
Si voltò di scatto e lo fissò con occhi sgranati
“Come mi hai chiamato?”
Anche l’uomo si era voltato a guardarla. Le sorrideva ed era sereno. Notò che era un po' più basso di lei, forse alto quanto Max
“Chloe. Sei Chloe Price giusto?”
La ragazza rimase sbalordita per un paio di istanti ma poi comprese: giornalisti!
Alzò un dito con fare minaccioso e, digrignando i denti, lo minacciò
“Non abbiamo buoni rapporti con la stampa e non intendo migliorarli. Max sta male e invadere anche questo momento, la sua privacy, è disgus…”
“Non sono un giornalista, Chloe. Non ho registratori né penne con me. Posso dimostrartelo se vuoi.” rispose lui serenamente, per nulla intimorito
“Non mi importa un cazzo. Non osare…”
“Cosa? La vostra privacy è al sicuro e non sono un giornalista, come ti ho detto. Sono qui con altre vesti.”
Chloe gettò malamente mezza sigaretta nel posacenere improvvisato da qualche infermiere e borbottò un vaffanculo a mezza bocca. Poi, fece per andarsene ma mentre metteva la mano sulla maniglia, l’uomo disse
“Sono qui per aiutarla, Chloe. Io posso salvare Max.”
Sentì freddo. Non per l’umidità dell’oceano o per le raffiche invernali. Gelo nelle ossa.
“Che hai detto?” mormorò senza voltarsi a guardarlo
“Mi hai sentito benissimo: posso salvare Max. I medici sono molto bravi qui ma non potranno sistemare qualcosa che non capiscono: il suo potere la sta distruggendo e lo hai intuito anche tu, Chloe.”
La ragazza si voltò lentamente, come se fosse un film horror in cui la vittima si voltava con calma, solo per scoprire che il suo mostro assassino era giusto dietro di lei, pronto a eliminarla. Ma non era un mostro: solo un uomo come tanti altri, con un sorriso sulle labbra ma una tenace serietà nello sguardo.
“Tu…. Come cazzo fai a…. chi cazzo sei tu?” balbettò a bassa voce
In tutta risposta, l’uomo allungò la mano destra
“Sono Robert King, ma puoi chiamarti Rob o Robbie o Bob o Testa di Cazzo se preferisci. Lieto di fare la tua conoscenza.”
Chloe osservò la mano ma non la prese
“Chi sei tu?” chiese di nuovo
L’uomo, Robert, ridacchiò
“Mi pareva di averlo detto. Scherzi a parte, so che tutto quello che ho detto ti ha sorpresa e credimi non era così che volevo dirtelo ma so che sei una ragazza con la quale occorre essere diretti e ho preferito farlo. Anche perché, ad essere sinceri, il tempo stringe. Curioso come per te ora il problema sia il tempo.”
Chloe scosse il capo e tornò indietro sui suoi passi
“No, ferma tutto: come puoi sapere di Max e del suo…. Beh hai capito.”
Robert fece le spallucce
“Potrei spiegartelo ma non ora. Quando e se vorrai, lo farò. So anche che se una che non si fida molto e subito, perciò prenditi del tempo per riflettere sulle mie parole. Max si sta per svegliare e avrà bisogno di te accanto. Stalle vicino finché non torna a casa poi, se vorrai, contattami. Ti spiegherò ogni cosa.”
E le porse un biglietto da vista anonimo: bianco, senza nulla scritto, solo un numero di telefono cellulare in inchiostro blu scritto a mano. Chloe, titubante, lo prese e lo osservò come se fosse un oggetto alieno. Robert fece un cenno con il capo e rientrò dentro l’edificio, mentre Chloe ancora ammirava il bigliettino anonimo, reggendolo delicatamente tra le dita. Alzò lo sguardo per fare ancora una domanda ma la porta si era già richiusa perciò scattò come un gatto e la riaprì di colpo: non c’era nessuno. Osservò in ogni direzione e non vide nessuno.
“Merda.” disse “Ci mancavano pure i ninja in sta faccenda?”
E mise via il biglietto, dentro il suo portafogli.
 
 
 
 
L’aria era forte e ruggiva intorno a lei. Roteava oscura, trasportando frammenti di case.
Non ancora il tornado! No, per favore, NO!
Tremava di paura, non voleva di nuovo che….
Ma poi si accorse che il tornado non era di fronte a lei ma era attorno a lei.
 
Io sono il tornado? Non è possibile anche se forse è logico…
 
Tra i frammenti di edifici e alberi vide anche qualcosa di familiare: il tetto di casa Price, il tetto dello Space Needle di Seattle, il suo letto nella stanza della sua prima esperienza alla Blackwell, il divano rosso della Dark Room…..
 
Che cazzo sta succedendo?
 
Poi, il muro di aria grigia s’imbatté in qualcosa e si aprirono ampi spazi, facendo entrare luce e immagini come se fossero un collage di vita: lei che cerca un tesoro con Chloe da bambine, lei che guida una Prius blu a Seattle, Chloe che sembra passeggiare con un cane, Rachel Amber e Nathan Prescott che danzano insieme, Kate Marsh viva e adulta in abito da sposa…. Tutto questo lo vedeva come se fosse presente, dal suo stesso punto di vista.
Poi il muro nero di aria assassina si richiuse e muggì d’odio, stringendola, soffocandola, distruggendo ogni cosa in lei e fuori.
 
NO!
 
Si alzò di scatto, ansimando.
Non era a casa sua. Non era a Seattle.
Non era in camera di Chloe. Non era nella Dark Room.
Non era a terra, davanti alla Blackwell.
Era in una stanza asettica, spoglia, con lenzuola pacchiane e industriali: sembrava una camera d’ospedale.
Era una camera d’ospedale.
“Fai con comodo, brutta stronzetta. Collassa e poi rimani a riposare mentre io mi dispero per te.”
La voce di Chloe, inconfondibile, arrivava da destra e non esitò a guardare in quella direzione: la ragazza dai capelli blu la fissava con aria stanca ma sorridente ed era seduta su una poltrona bluastra dall’aria non molto comoda. Subito, il senso di colpa l’invase
“Oh Chloe… scusami davvero io..”
La ragazza alzò le mani
“Avrai tempo per scusarti e io per vendicarmi non appena uscirai di qui. Dico solo che sei stata stupida a non parlare con me: perché non dirmi che stavi male? Per non farmi preoccupare come hai detto a Steph? Beh sei una cretina! Io….. io ero in ansia”
Max percepì che la voce di lei si stava rompendo per le lacrime e vide una sola lacrima solcare le guance di Chloe e il senso di colpa la uccise
“Oddio Chloe ti prego no… io no… Si ho parlato con Steph è vero ma io volevo solo..”
“Non disturbare? Non farmi preoccupare? Si, come al solito. Beh direi che non ha funzionato, piratessa.”
Max tentò di allungarsi verso di Chloe ma la sua compagna fu più veloce e le prese la mano destra con ambedue le sue, sporgendosi dalla sedia
“Senti Max…. lo capiremo quello che ti sta accadendo. Solo, smettila di pensare che io non possa reggere o che tu debba affrontare le tue battaglie sempre da sola. Non sono qui part – time per te, ok?”
Max annuì ma il senso di colpa permeava in lei. La cosa che la fece distrarre, però era una sola e se ne accorse quasi per caso
“Hey non mi fa male per nulla la testa!” esclamò sorpresa
Chloe si morse il labbro
“Ti credo: sei dopata di ibuprofene. Comunque, spero tu ti sia ripresa perché ti aspetta un bel camion su quel bel visino.”
Max non capì subito ma osservò Chloe sporgersi e pigiare il tasto per chiamare l’infermiera. In breve tempo, la porta si spalancò sulla sinistra e comparve una ragazza giovane in divisa da infermiera e un dottore, altrettanto giovane, con corti capelli castano scuro, una cravatta azzurra su camicia blu che risaltavano il doppio col camice bianco. Aveva denti perfetti nella bocca, aperta in un sorriso di circostanza.
“Ben svegliata, signorina Caulfield. Lascia Clara, me ne occupo solo io.” disse sbrigativamente alla giovane infermiera, che si dileguò e chiuse la porta mentre il dottore entrava, posizionandosi davanti a Max, ed estrasse una biro dal taschino che includeva una piccola luce  e le chiese di fissarla e seguire la luce con lo sguardo. Max eseguì senza problemi.
“Uh che figata, la voglio anche io una biro così” esclamò entusiasta Chloe
Il dottore rise
“Ne ho quante ne vuoi nello studio. Posso anche lasciarti questa più tardi. Bene Max, sembra tutto in ordine. Hai dolori al capo o da altre parti?”
Max scosse la testa in segno di diniego.
“Secchezza delle fauci? Sonnolenza?”
“Nulla. Mi sento bene. Anche risposata direi.”
“Magnifico.” Rispose lui e poi si spostò ai piedi del letto. In mano aveva una piccola cartellina grigio perla.
“Sono il dottor Hollander e mi sto occupando di te, Max. La signorina Prescott si è gentilmente offerta di pagare tutte le spese attuali e future della sua degenza: tenevo a dirlo per correttezza e non farla preoccupare.”
Max lo interruppe due volte, la prima rivolgendosi a Chloe
“Chiama quella squinternata e dille di non farlo mai più.”
“Già fatto: ti saluta e ti fa sapere che io e te abbiamo le vacanze pagate a vita qui dentro.”
Poi la seconda, rivolta al dottore
“Future? No grazie, mi angosciano troppo gli ospedali e spero di andarmene anche subito da qui.”
Il dottore perse il suo sorriso e si fece più preoccupato
“Temo non sarà possibile: Max, il tuo cervello è malato.”
La ragazza si congelò nel letto e fissò il dottore con ansia. Poi si rivolse  a Chloe e notò la stessa preoccupazione che poteva avere lei stessa e comprese però che Chloe già sapeva e glielo aveva preannunciato. Infine, tornò a concentrarsi sul giovane dottore
"Malato? Che ho?”
 
 Cazzo! Non dirmi che hanno trovato qualcosa che possa far risalire al mio potere….
“Non lo sappiamo ancora….”


Si! Ottimo
 
“….ma non possiamo escludere nulla. Nemmeno un cancro al cervello….”
 
Cosa? Oh, merda!
 
“…. Ma serviaranno esami più approfonditi il prima possibile.”
Max aveva il respiro corto, gli occhi sbarrati e il poco colorito sulla sua pelle era svanito.
“Non potete farmi analisi per una cosa così grave se non avete rilevato nulla finora.” Balbettò lei, in tenue speranza che non avessero fatto sul serio esami, ma sapeva che non era così. Infatti, il dottor Hollander la smentì subito
“Abbiamo fatto due radiografie al cervello e abbiamo notato qualcosa di strano. Molto strano.”
Max inclinò la testa con fare dubbioso
“Mi può dire esattamente cosa sarebbe questo ‘strano, molto strano’?”
Prima che potesse rispondere, intervenne Chloe
“Hai talmente una carenza di attività fisica che anziché strapparti le fibre muscolari ti sei strappata il cervello, secchiona.”
Il dottor Hollander ridacchiò brevemente e annuì
“In maniera molto semplicistica ma si: le tue lesioni sono minuscole, come se fossero strappi nel cervello e curati immediatamente, senza una corretta degenza. Non ho mai visto nulla di simile, francamente. Chiederò un parere al primario appena sarà libero ma dubito che anche lui sia sicuro della risposta. Sono lesioni molto bizzarre, ma pur sempre lesioni cerebrali e non va affatto bene. Dobbiamo indagare, Max.”
Max alzò le mani, come a stoppare una palla invisibile diretta sul suo volto
“Alt. Non avete prove di nulla, solo supposizioni. Non intendo dare il consenso per farmi aprire il cranio.”
Il dottor Hollander cercò di essere comprensivo
“E’ orribile solo da pensare, lo so, ma cerca di capire: stai male e non è normale che una ragazza di non ancora vent’anni svenga e abbia forti emicranie continue, con tracce di lesioni cerebrali senza nessun precedente di traumi alla testa.”
Max lanciò una occhiata a Chloe che, visibilmente preoccupata, la fissava: era già al corrente di tutto ma non interveniva.
“No.” Replicò secca Max “Non intendo dare il consenso. Sono adulta e posso decidere per me stessa: rifiuto ogni operazione.”
“Max, cerca di capire… lo dico da medico e anche da essere umano…”
“Capisco ma non cambio idea. Ora se vuole scusarmi, vorrei tornare a casa…”
Il dottor Hollander chinò il capo sconfitto
“Ok, ma ti avverto: se avrai altri attacchi dovrai essere onesta con te stessa e venire. Se sverrai di nuovo e sarai ricoverata, io ordinerò quella operazione. Non intendo rischiare la tua salute e nemmeno che si dica che siamo stati negligenti. Inoltre, non andrai a casa prima di domattina: dobbiamo monitorarti almeno per stanotte: è la prassi.”
Max fece per protestare ma stavolta Chloe intervenne e non a suo favore
“Max è solo per stanotte: per favore. Resta qui sotto osservazione e… no, non provare a ribattere, so che stai per aprire la bocca. Tu resti qui. Me lo devi, ok?”
Ora fu il turno di Max a chinare il capo in segno di resa e annuì.
Il dottor Hollander si piegò in un sorriso e in un ringraziamento. Prima di lasciarle sole promise che le avrebbe preparato le carte per le dimissioni per la mattinata successiva.
Non appena varcò la soglia, Chloe esclamò
“Sei impazzita? Capisco essere stufa di stare qui, ma si tratta di una notte! Sei svenuta malamente e vuoi tornare a casa? Col cazzo, tu resti qui e non protesti più!”
Max alzò un braccio e fece segno di calmarsi
“Ho inteso e va bene: odio gli ospedali. Mi agitano ma rimarrò qui se ti fa stare più serena. Ma sulla operazione non transigo: non mi farò aprire il cervello in due per rischiare che….”
Chloe la fissò dubbiosa
“Che possano darti brutte notizie?” chiese
“No.. che possano trovare qualcosa…. Qualcosa che non si trova di solito in cervello… qualcosa che possa ricondurli a…. hai capito.”
Intendeva il suo potere. L’origine non era mai stata chiarita ma Max aveva sempre sospettato una malformazione o altro. Se le avessero aperto il cranio e scoperto che era effettivamente provvisto di qualcosa di ‘estraneo’? Se avessero voluto approfondire?
“Non voglio diventare una schifosa cavia da laboratorio, Chloe…” concluse sconsolata
Chloe, che aveva abbassato il tono polemico, si fece conciliante e le prese la mano destra con affetto
“Non permetterò mai che accada.  Nemmeno se dovessero legarti. Però Max, dobbiamo risolvere tutto questo e mi aspetto che tu sia onesta con me sempre.”
Max annuì e le baciò teneramente le mani
“Promesso.”
Chloe sorrise. Si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza
“Se tutto questo è legato al tuo potere, dobbiamo limitarne il tuo uso..”
Max si  morse il labbro
“L’ho usato poche ore fa… di nuovo..”
Chloe spalancò gli occhi e sbottò
“Sei fuori?”
“Milton… mi ha fatto impazzire Chloe… ero furibonda e l’ho aggredito con un pugno… ho dovuto riavvolgere!”
Chloe passò tre fasi: stupore, sorpresa e ilarità. Mentre rideva, disse che avrebbe pagato per vedere un pugno a Milton da parte di Max, ma poi si ricompose
“Non farlo mai più. Riavvolgere, dico. Per i pugni ci penso io finché dovrai salvaguardare la tua immagine scolastica.”
Max  non riuscì ad essere allegra e decise di essere onesta con Chloe fino in fondo
“Non era la mia rabbia, Chloe. Non ero io. Cioè ero io, so che ero arrabbiata ma era una rabbia senza fondamento.”
“Max sei stressata, sotto pressione e chissà cos’altro in quella testolina: non spaventarti se sei arrabbiata ogni tanto e te lo dico da regina dell’incazzatura facile.”
“Non è solo quello Chloe: a volte vedo cose che non dovrebbero esserci. Sento cose mie che non esistono. Mi sento di aver incasinato il mio potere e che mi stia ferendo dall’interno.” mormorò sconsolata
Chloe non prese bene quella notizia. Riprese a passeggiare avanti e indietro e rifletteva, con una mano appoggiata sul gomito e l’altra sul mento. Rifletteva e per un istante Max notò che spostò la mano dal mento alla tasca posteriore, sfiorando il portafogli, per poi rimetterla sul viso.
“Il tuo potere c’entra sicuramente, lo sappiamo. Non sappiamo come ma, hey, lo scopriremo! Una nuova indagine per le due eroine di Arcadia!”
Max si appoggiò alla testata metallica del letto ospedaliero
“Non so se sia meglio questo o cercare un cadavere.” Rispose sconsolata
Meglio trovare un cadavere che farsi aprire il cervello  pensò con convinzione.
 
 
Il mattino seguente fu dimessa come promesso.
Il dottor Hollander le fece firmare tutte le carte e le prescrisse dei farmaci blandi per eventuali attacchi di emicrania, raccomandandosi però di tornare a farsi visitare anche se ne avesse avuti leggeri e irregolari.
Chloe le aveva portato un cambio di abiti, l’aiutò a vestirsi nonostante Max le avesse ripetuto più volte che si sentiva bene. Ed era vero: aveva dormito per la prima volta dopo settimane in maniera impeccabile e si sentiva piena di energie come non lo era almeno un anno. Mal di testa scomparsi, visioni azzerate.
Tutto procedeva per il meglio.
Prima di uscire dall’ospedale, passarono dalla farmacia interna e presero le medicine prescritte. Una volta sul pick up, Max si sentì finalmente serena: odiava proprio gli ospedali.
“Wow se mi è mancato questo bel mezzo.” Commentò
“Wow che medicine fighe ti ha dato: hey se non le usi tu te le rubo io.” Disse Chloe
“Evita. Senti prima di fare colazione, ti va di passare alla Blackwell? Vorrei farmi vedere e avvisare che sarò assente. Anche se Sabato, il preside dovrebbe esserci: ultimamente fanno dei laboratori al mattino.”
Chloe strabuzzò gli occhi
“Sei più fedele a quella scuola che a me. Muoio di fameeee.”
“Ci vorrà un minuto. Su per favore.”
Perciò deviarono alla Blackwell, dove furono ricevute dal preside Wells nel suo ufficio, dove si sincerò delle condizioni di Max con spontaneo e reale interesse
“Sto bene, la ringrazio. Volevo lasciarle questi documenti dell’ospedale: vogliono che mi prenda una settimana di assoluto riposo lontano da stress o altro. Mi spiace molto, a ridosso delle vacanze natalizie, dover mancare. Sto bene e vorrei rientrare…”
“Ma meglio che lei non rischi, signorina Caulfield.” Rispose Wells comprensivo “ Sono certo che i professori l’aiuteranno a non  rimanere indietro con il programma e che le comunicheranno tutto tramite e-mail o con qualsiasi altro mezzo lei ritenga più comodo. L’essenziale è che lei si rimetta al meglio: è stato spiacevole vederla svenire.”
Max arrossì
“Mi dispiace, non volevo far fare brutta figura.”
Il preside Wells si alzò, a fatica, in piedi: la sua gamba non sarebbe mai più migliorata ma non sembrava abbattersi
“Signorina Caulfield, lei non ha causato nessun danno di immagine all’istituto e nemmeno ha fatto intendere che la scuola trascuri la salute dei propri alunni, non si faccia un cruccio di ciò. Lei è stata tempestivamente soccorsa da alcuni studenti e portata in infermeria da essi e due insegnanti accorsi sul posto. Inoltre, posso comprendere che lo stress causato dal suo rientro qui, con annesse attenzioni non gradite, possano averla spossata. Lei non deve preoccuparsi di nulla se non riprendersi al meglio.”
Max si sentì grata di quelle parole ma Chloe intervenne
“Tra gli studenti che hanno prestato soccorso c’era anche un certo Milton?”
Wells scosse la testa
“Il signor Milton è rimasto sinceramente sconvolto nel vedere la signorina Caulfield star male davanti ai suoi occhi e non ha potuto soccorrerla.”
Chloe rise
“In parole povere ha strillato come una scolaretta.”
Il preside Wells non rispose ma sorrise
“Diciamo che ha allertato a modo suo l’attenzione del corpo insegnati.” Disse
Chloe scoppiò in una fragorosa risata e tese la mano al preside
“Oh questa è fantastica, Ray. Cazzo sei diventato un figo, peccato tu sia cambiato ora che non ci sono più.”
Il preside Wells fu sorpreso da quelle dichiarazioni e dalla mano tesa di Chloe. La fissò per un istante poi la strinse con vigore e sorrise compiaciuto
“Lei può sempre tornare, signorina Price. Come sa, ho provveduto a rimuovere la sua espulsione. Mi farebbe davvero piacere rivederla qui. So che ora sta riscuotendo un discreto successo come manager nel risollevare il Two Whales Diner ma sono certo che, appena avrà una regolarità, vorrà di nuovo tornare qui.”
Chloe si grattò la testa
“Ne è così certo? Perché non sono molto convinta io…”
“Ne sono più che certo e non vedo l’ora di consegnarle personalmente il suo diploma. Nel frattempo, verrò volentieri a trovarla per colazione al diner, se me lo permette.”
Chloe allargò le braccia
“Ovvio. Tutti sono i benvenuti al diner!” esclamò
Max sorrise nel vedere quella scenetta e sentì un calore e una pace che non avvertiva da troppo tempo. Pregò perché la sua testa fosse in ordine, il suo potere calmato: era finalmente l’equilibrio che voleva e nulla doveva scalfirlo. Basta crisi: una fottuta vita normale.
Si alzò e tese anche lei la mano al preside.
“La ringrazio per tutto. Tornerò il prima possibile.”
 
 
 
Congedatesi dal preside Wells, appagate da una buona colazione e dal sapere che Milton aveva rovinato la sua stessa reputazione, le due ragazze tornarono a casa che risultò deserta di nuovo. Chloe sapeva che David e Joyce erano a Portland e non aveva detto nulla loro della reale assenza di Max, comunicata come una sosta nel suo dormitorio e lei le avrebbe fatto compagnia, e che sarebbe rientrata in casa quella mattina.
Salirono in camera e Max si guardò intorno, come se fosse stata assente per settimane intere anziché poco più di un giorno. Si sentì serena e al sicuro tra quelle quattro mura, lontana da occhi indiscreti, lontana da stanze e odori ospedalieri, lontana da Seattle e da tutto ciò che non fosse Chloe e quella stanza.
Si sedette sul letto, rifatto di tutto punto (cosa rara, quindi doveva essere una occasione speciale anche per la sua compagna) e si guardò intorno, come se fosse la prima volta che vide la camera della figlia dei Price.
Chloe appoggiò lo zaino che conteneva le poche cose di Max: un ricambio che le aveva portato per quel mattino, il sacchetto di carta con le nuove medicine, il caricatore del cellulare e un paio di ciabatte.
“Dunque, le tue medicine per la testolina le metto in bagno…”
“Chloe non serve che tu ti faccia sbattimenti per me: sto bene.”
Ma la ragazza parve ignorarla: uscì dalla camera con le medicine e la sentì trafficare in bagno. Anche lo zaino aveva insistito per portarlo lei. Era leggerissimo e Max si sentiva sul serio bene ma Chloe non aveva voluto sentire ragioni e lo aveva portato lei in spalla.
Appena rientrò in camera, Max riprese
“Come ti stavo dicendo: sto bene. Dico davvero, Chloe.”
Chloe si sedette accanto a lei sul letto, le prese una mano e la fissò negli occhi con i suoi: blu e azzurro che si mischiarono nello sguardo.
“Anche io sto bene e ti credo se mi dici che stai bene ma starò meglio se riposi quel culetto ossuto che mi piace tanto. Lo fai per me?”
“Ma Chloe…” protestò Max
Chloe scosse la testa
“Lo scorso anno è cominciata così: incubi e visioni ad occhi aperti e siamo finite qui, di nuovo, a cercare un cadavere e vincere un processo. Ora non so se questo è il preludio a qualcosa di più o semplicemente è il tuo potere che sta facendo un brutto scherzo, ma non voglio assolutamente che ti aprano il cervellino. Non voglio vederti sparire, trascinata da uomini in tuta bianca da anticontaminazione come una specie di E.T. e non rivederti mai più mentre per loro diventerai una cavia da laboratorio. Non voglio più disordine nelle nostre vite, necessito di pace. Ho bisogno solo di te. Promettimi che starai davvero a riposo.”
Max comprese ogni parola e ammise a sé stessa che non le piaceva l’idea di diventare una cavia da laboratori. Annuì energicamente
“Lo prometto.”
Chloe le diede un caloroso bacio sulla guancia
“Lo immaginavo. Ora, scappo al diner. Rimarrò qualche ora, organizzerò i turni per farmi sostituire così potrò starti accanto e tenerti d’occhio qualche giorno, intesi?”
Max avrebbe voluto protestare ma non disse nulla: preferiva farla stare serena e non replicò a quella scelta. Chloe prese quel silenzio come un totale assenso e sorrise. Si alzò, si cambiò maglietta e felpa e, con un ultimo rapido bacio sulle labbra, scomparve dalla camera da letto.
L’ultima traccia che ebbe Max di Chloe fu il rumore dei passi che scendevano le scale e della porta che si chiudeva.
Aveva ragione: gli incubi sul tornado e sulla fine di Arcadia l’avevano tormentata per mesi e mesi, finché non aveva iniziato ad avere visioni diurne. Tutto regolarmente come da prassi per lo stress post traumatico, nulla che non fosse inspiegabile. Però, sta di fatto, che in breve tempo erano dovute tornare sul serio ad Arcadia. Che anche stavolta fosse un segnale?
Attese qualche minuto poi sgattaiolò in bagno, prese le pillole prescritte anche se non aveva dolori, e tornò in camera. S’infilò il pigiama e rimase in attesa sotto le coperte ma il sonno non arrivava. Non aveva nemmeno fame, molto strano….
Con il telecomando da remoto abbandonato sotto il cuscino accese lo stereo e fece partire il cd di canzoni miste che aveva preparato pochi giorni addietro. Il brano, iniziato da poco, era dei Zero 7 e si intitolava In the Waiting Line.
 
Do you believe
In what you see
There doesn't seem to be anybody else who agrees with me

Do you believe
In what you see
Motionless wheel
Nothing is real
Wasting my time
In the waiting line
Do you believe in
What you see

Appropriato come testo, nulla da dire.
Si allungò e prese un fumetto dal suo comò ma non lo lesse con vero trasporto.
Dieci minuti e già si annoiava a morte.
 
 
 
Chloe s’asciugo il sudore dalla fronte.
Era indaffarata in cucina, dove la domenica c’era più bisogno essendo il giorno di ‘piena’ del locale tra famiglie che passavano per una merenda, turisti che si fermavano per pranzare, gente del posto che preferiva rilassarsi e non dover cucinare in casa. Si sentiva in colpa ad aver abbandonato Max a casa ma si sentiva ugualmente in colpa verso i suoi colleghi del diner, Clementine, Rodrick e Nicole.
Avrebbe dovuto ridurre i suoi orari, se non addirittura assentarsi, per i prossimi giorni perché non intendeva abbandonare Max da sola, in camera per tutta la sua degenza. Avrebbe dovuto assumere magari qualche studente part – time?
Ma no, che sciocchezza: per una settimana appena!
Dovevano solo organizzarsi e se Max fosse stata bene, avrebbe potuto coprire qualche ora nei prossimi giorni. Magari li avrebbe lasciati scoperti solo per l’inizio della settimana che, eccetto per le colazioni, erano i più scarichi a livello di clientela durante il giorno e alla sera.
Si fermò a pensare se stesse facendo tutto bene, se avrebbe consegnato a sua madre un diner ben gestito e collaudato: non intendeva darle pensieri o stress appena guarita, lasciandole un diner allo sbando e malorganizzato!
 
Che situazione del cazzo, Price!
Che bella situazione del cazzo! Max con la testa a puttane, tua madre che deve rimettersi in sesto e grazie a quella stupida adorabile della tua ragazza non è morta per miracolo, questi poveri volenterosi ragazzi che lavorano come schiavi e riescono sempre a sorridere e si affidano a un capo di merda come me!
Dio mio per fortuna che ho lavorato qualche mese al ‘ Bake ‘n’ Take’ mentre stavo a Seattle!
 
Mentre rimuginava su tutto, aiutava Rodrick con i piatti, mentre Clem e Nicole (chiama d’urgenza) correvano per i tavoli. Ogni tanto, quando il livello in cucina calava, andava a lavare più piatti che poteva o dava riposo a una delle ragazze in sala e portava qualche piatto. Riusciva, cosa molto strana, a servire tutti con il sorriso e scherzando.
A volte si stupiva: non era solo per tutta la situazione attuale, ma per la Chloe che era diventata dopo l’ultimo assurdo anno: tutta la rabbia e l’odio verso il prossimo erano svaniti.
Le bastava Max o era maturata o entrambe le cose?
Sicuramente, quella assurda settimana di Ottobre l’aveva cambiata.
Aveva cambiato entrambe e lo sapevano.
Però, nonostante una graduale serenità, sentiva come se avessero ancora un conto da saldare con l’universo.
O forse era solo Max a dover pagare per tutto.
Si bloccò di colpo, con una pila di piatti sporchi in mano, davanti al lavabo. Doveva essere rimasta congelata per un paio di minuti perché la voce di Rodrick le arrivò alle spalle come una doccia gelata
“Chloe? Ci sei?”
Sussultò un istante, annuì e adagiò i piatti nel lavabo.
“Devo prendere una pausa. Scusatemi un secondo.”
Scappò fuori ma non prima di aver preso sigarette e quel suo nuovo bizzarro accendino fico.
E il portafogli. Soprattutto il portafogli.
Non prese il cappotto ne la sciarpa nonostante il tempo gelido. Appena si chiuse la porta sul retro, si accese una sigaretta e tirò una boccata
“Pensavo volessi diminuirle.”
La voce di Clem la sorprese non poco: la ragazza era adagiata al muro con la schiena, avvolta in un cappotto pesante blu marino. Le sorrideva.
Era carina, non c’era alcun dubbio su questo. Dannatamente carina. Corpo snello, chiappe sode, viso d’angelo. Ma era anche dolce come poche, forse quanto Max. Anche lei sognava l’università ma si era presa un anno per mettere via i soldi e poi avrebbe tentato di farsi ammettere: Chloe sapeva già che le sarebbe mancata, era una ottima lavoratrice e sempre molto carina con tutti. E aveva anche un bel culo da guardare mentre lavoravano.
Si sentiva un po' in colpa verso Max per questo ma hey! Guardava solo un bel culo!
“Lo so Clem. Ma sono giorni convulsi.”
La ragazza, che sorseggiava un tè bollente dal suo termos, annuì comprensiva
“Si e mi dispiace per Max. Sta bene? Mi sta molto a cuore: è cosi gentile e si vede che ti ama da morire, lo si legge negli occhi.”
Chloe provò un moto di piccola gioia
“Si, sta meglio ma deve riposare. Sono comunque preoccupata: se dovesse avere una ricaduta non so cosa le potrebbero fare…. Spero solo non finisca sotto i ferri.”
Clem sorseggiò ancora un po' di tè e rifletté
“Spero tanto di no ma se così sarà, sono certa che ne uscirà bene con te accanto. A volte provo un po' di invidia nel vedervi: se solo il mio ex fosse stato innamorato la metà di quanto lo siete voi due, forse sarebbe andata meglio.”
Chloe si rese conto che non sapeva nulla della vita privata di Clem, eccetto le poche cose che aveva detto lei spontaneamente, come questa che era single, e si sentì in colpa.
Sembrava una ragazza molto sveglia e sensibile, una che non dovrebbe rimanere sola o che comunque saprebbe trattare a dovere chi ama…
Chloe ebbe un sussulto
“Clem posso farti una domanda un po' bizzarra?”
La ragazza annuì
“Se dovessi fare  qualcosa o prendere una decisione un po' drastica, un po' anche fuori dal comune, per provare, solo provare, una via alternativa per far star meglio chi ami, lo faresti?”
“Si tratta di Max?”
Chloe annuì
“Ma non mi dirai cosa si tratta nel preciso.”
Chloe scosse la testa in segno di diniego
Clem rifletté
“Tu la conosci meglio di me e se per farla stare bene devi rompere regole o abitudini sociali o di coppia, forse vale la pena rischiare.”
“Anche se non ho la certezza? Anche se mi getterei nel vuoto?”
Clem pensò ancora un attimo
“Beh, se è dannatamente importante e vitale, forse sì. Dipende dalla gravità della situazione… se non avessi alternative, forse potresti almeno sentire di cosa si tratta e poi prendere una decisione.”
Chloe le sorrise
“Mi hai aiutato molto. Grazie mille Clem.”
La ragazza mormorò un ‘figurati’ e fece le spallucce
“Io rientro: fa freddo e voglio vedere se i ragazzi sono tranquilli.”
Chloe annuì e aspettò di essere sola. Poi, prese quel bizzarro biglietto da visita anonimo dal portafogli, tirò fuori il cellulare e scrisse un sms al numero che era scritto con l’inchiostro blu.
 
 
Va bene  digitò Dimmi cosa devo fare
 La risposta fu quasi immediata, come se lo sconosciuto avesse in mano il telefono proprio in quel momento
Meglio parlarne a voce. Ci vediamo alle 21
 
Chloe sentì l’adrenalina aumentare.
 
Ok. Ma dove?
 
Tu sai il posto. A dopo.
 
 
Rimase perplessa per quella conclusione ed era molto tentata a rispondere in maniera piccata ma qualcosa nella sua mente la bloccò.
Si voltò in direzione del faro: non poteva vederlo ma sapeva che era lì.
Ora sapeva dove sarebbe dovuta andare.
 
 
Mentre parcheggiava il pick up alla base della scalinata restaurata che conduceva al faro, si sentiva ancora in colpa per come aveva mollato i ragazzi al diner. È vero che non c’era più praticamente clientela (strano) e che avrebbe potuto congedare Nicole che sarebbe dovuta riposare ma sentiva l’esigenza di andarsene. Voleva risposte e forse quello sconosciuto poteva darle.
I ragazzi le avevano ripetuto di non preoccuparsi e di stare a casa fino a Mercoledì almeno, così da stare accanto a Max il più possibile. Chloe, in cambio, aveva detto loro che gli avrebbe dato 50 dollari in più a fine mese e che potevano chiedere supporto a un paio di persone fidate che volessero soldi extra per qualche giorno di lavoro.
Praticamente aveva lasciato in mano tutto a loro tre ma sapeva che sarebbe stata Clem a governare la baracca.
Chiuse la portiera, fece un respiro profondo e s’incamminò con calma, verso il faro.
Dopo il restauro, era tornato simile ma non identico a prima, forse leggermente più alto e più grigio, con un rosso meno acceso a completare la tintura. La scalinata fatta con tronchi di alberi era di nuovo bella e sistemata, perfettamente in linea con il paesaggio boschivo.
Chloe, mano a mano che si avvicinava alla panchina, sentiva il cuore aumentare di un battito. C’era quasi, ancora due metri in salita, una curva e…
La panchina era vuota.
Cazzo aveva sbagliato? Aveva intuito male?
Forse era venuto al diner lui??
Merda!
Si avvicinò alla panchina e fece per sedersi quando
“Immaginavo lo avresti capito. Buonasera Chloe.”
Sussultò: lo sconosciuto era apparso alla sua sinistra, mimetizzato con l’ombra della sera, vicino alla mappa della città (ovviamente nuova: quella vecchia era stata divelta dal vento e finita chissà dove).
“Salve inquietante straniero.” Rispose lei
Lui sorrise
“Chiamami Robert, o Bob o come ti pare. Inquietante straniero è troppo lungo se permetti.”
Si avvicinò e la invitò a sedersi
“Non voglio farti rimanere scomoda: accomodati pure. Cercherò di essere breve, se me lo permetterai.”
Chloe ubbidì: la panchina era umida e si sentì congelare le chiappe ma mantenne la concentrazione e lo sguardo su quel buffo uomo adulto che le parlava come se fosse stato un padre
“Quindi hai deciso di fidarti di me?”
Annuì
“Bene: dobbiamo salvare Max. Il tempo, e ripeto che è buffo da dire, è contro di noi ed è poco anche se non sembra.”
“Non voglio che le aprano il cervello!” esclamò tutto a un tratto, interrompendo lo sconosciuto “Se starà male è questo che le faranno! Non voglio che accada!”
Robert si fece serio, perse il sorriso e sembrò meditare
“No, non credo che accadrà ma dobbiamo fare in fretta: io posso fare in modo che Max sistemi tutto quanto. Posso guidarla, guarirla e mettere fine a tutto questo ma devo avvertirti.”
Chloe si sporse in avanti, allarmata
“Riguardo a cosa?”
“Non sarà semplice. Sarà difficile, doloroso mentalmente e fisicamente. Forse Max vorrà mollare e avrà bisogno di te. Ma tu dovrai fidarti di me e di quello che decideremo di fare tutti e tre insieme. So che non è semplice e so che non sono nessuno ma se davvero sei venuta fin qui, allora sai che non c’è altro modo: il suo potere la sta uccidendo, Chloe.”
Chloe sentì il cuore fermarsi un istante. Digrignò i denti e scosse la testa
“Va bene, cazzo. Va bene, certo che mi fido. Ma ora dimmi che sta succedendo! Dimmi che cosa devo fare!”
Robert sembrò apprezzare quella convinzione così pura e tornò a sorridere. Le porse la mano destra
“Forse è più semplice se prima te lo mostro.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
3. Dejà – vu
 
 
Max si svegliò di soprassalto.
C’era un sole tenue che entrava dalla finestra ma era chiaramente molto presto… quando diavolo aveva dormito?
Si allungò a prendere il telefono e vide che mancava una manciata di minuti alle sette del mattino.
Sbuffò e uscì dalle calde coperte, facendosi accogliere dal gelo. Rabbrividì per un istante e pensò se non avesse svegliato Chloe con quel movimento frettoloso. Si voltò per controllare e…
Non c’era.
Chloe non c’era. Non era a letto, non ci era nemmeno passata, visto che il pigiama sembrerebbe essere ancora intrappolato sotto il cuscino e tutta la parte destra del letto era immacolata se non fosse per le normali pieghe che aveva causato lei muovendosi nel sonno.
Ma Chloe non c’era e non sembrava essere passata.
Fece per aprire la porta: oltre al biologico bisogno di fare pipì, voleva indagare sulla scomparsa della sua ragazza. Possibile che fosse ancora al diner??? Ma nel momento in cui stava per aprire la porta, quella si spalancò di colpo e non seppe come, ma per la prima volta i suoi riflessi funzionarono a dovere e fece un balzo indietro
“Ma sei impazzita?” strillò spaventata Max
Chloe era comparsa, aveva aperto di colpo la porta ed era vestita come il giorno precedente: sembrava avesse passato la notte sveglia ma non v’era traccia di stanchezza: sembrava euforica.
“Max non gridare!” si raccomandò  a bassa voce “Bene che sei già sveglia: dobbiamo andare!”
E mentre le parlava, si diresse a passo svelto in camera, frugando nei cassetti
“Andare dove?” chiese
Chloe le fece cenno con la mano di abbassare la voce
“David e mamma dormono! Vuoi fare silenzio?”
“Perché frughi nei miei cassetti?”
“Non vorrai mica venire in pigiama, spero! Muoviti, metti questi!”
E le lanciò un paio di jeans scuri e pesanti, una maglietta a maniche lunghe dei Radiohead, una felpa in lana color giallo canarino. Poi fuggì dalla camera e la sentì rovistare in bagno mentre si vestiva.
Chloe ricomparve con tutte le medicine che le avevano prescritto e le infilò dentro la sua storica borsa a tracolla blu, non prima di averla svuotata da tutti i libri di scuola presenti, rovesciandoli sulle lenzuola.
“Chloe ma dove stiamo…”
“Una gita!” concluse in fretta, senza darle tempo di finire la frase “Tu non preoccuparti. Finisci di vestirti e va’ di sotto a mangiare qualcosa: ti ho preparato uno spuntino veloce.”
Max non comprese ma sapeva che, se partiva per la tangente, difficilmente avrebbe persuaso Chloe a darle retta e spiegarle. L’unica via era assecondarla.
S’infilò il maglione, scese in cucina e vide un bicchiere di latte, una merendina preconfezionata nulla più: s’ aspettava davvero che sarebbe sopravvissuta con quella miseria?
Mangiò tutto in poco tempo e Chloe era già arrivata.
Sbucò con la testa in cucina, le porse la sua sacca blu e la sollecitò a muoversi.
Max ebbe a malapena il tempo di infilarsi le scarpe che Chloe la stava spintonando fuori casa e trascinandola per un braccio al pick-up
“Si può sapere che diavolo succede?” protestò “Mi stai rapendo di prima mattina senza dirmi nulla!”
“Quanto sei melodrammatica, Max!” rispose Chloe divertita, mentre saliva a bordo del mezzo. Max trotterellò fino al sedile passeggero e richiuse la portiera
“Dove stiamo andando? Eri tutta preoccupata sul fatto che dovessi riposarmi, non avere stress eccetera eccetera e ora alle sette del mattino di una gelida domenica invernale mi trascini via da un meraviglioso letto caldo.”
“Esattamente: tipico di Chloe Price!” rispose la ragazza allegramente, mettendo in moto
“Non sei nemmeno passata da casa! Dove sei stata tutta notte?”
“Non me ne ero nemmeno resa conto, sai? Buffo!” replicò sempre con fare allegro, mentre faceva la retromarcia e, infilatasi nella via, accelerò subito
“Chloe che succede? Dove stiamo andando?”
“Rilassati Max e lasciati trasportare dalla tua dolce pazza ragazza in blu.”
“Blu stinto, ormai: stai perdendo colore e i capelli iniziano a essere un po' lunghi.”
“Mi apprezzerai anche con un look diverso.”
“Certo è ovvio ma pensavo ti piacesse il tuo look da punk ribelle.”
Fu allora che Max notò che Chloe era vestita quasi elegante: indossava dei jeans neri che aveva comprato in saldo ma non aveva ancora indossato, degli stivaletti neri lucidi, presi in California, una felpa grigio perla dall’aria pesante, un cappellino di lana nero e non portava nessuno dei suoi bracciali o altri ninnoli. Nulla. Di solito li toglieva solo per lavorare (e nemmeno sempre, a dirla tutta).
“Amo sempre il mio look ma sono consapevole di essere gnocca in qualsiasi look per te. Ora rilassati e goditi la strada: non andremo lontano.”
Max sbuffò: odiava quell’alone di mistero ed euforia che circondava la sua ragazza.
Accese l’autoradio e scoprì che stavano trasmettendo Sweet Home Alabama
“Il country di Domenica mattina ti prego no!” protestò Chloe
Ma Max, un po' per ripicca e un po' perché la fece felice vedere che la sua ragazza era ancora lei sotto quella parvenza euforica, non cambiò canzone. Nessuna delle due lo fece.
Passò poco tempo in auto prima di capire dove erano dirette e, comunque, Arcadia non era certo una cittadina di enormi dimensioni. La destinazione le fu chiara praticamente nel momento in cui prese la strada
“Casa Prescott?” domandò Max “Per caso è venuta Kristine a trovarci?”
Chloe non rispose. Aveva un sorrisetto stampato in faccia, come chi sa che regalo farti a Natale ma non intende dirtelo ma si diverte un mondo a sentire tutte le teorie e idee.
La conferma non tardò ad arrivare, quando il pick-up prese il vialetto di Casa Prescott e parcheggiò di fronte al garage chiuso.
Chloe scese velocemente e Max se la trovò praticamente già addosso quando chiuse la portiera. Prima di scendere, però, aveva notato del fumo uscire dal comignolo.
“Chloe chi c’è in casa? Kristine?” chiese di nuovo
Per quanto fosse euforica, Chloe parve farsi più seria
“Ti fidi di me?” chiese
“Ovvio ma…”
“No: ti fidi vero?”
Annuì con vigore
“Quindi sai che non prendo decisioni a caso. Cioè si, lo faccio, ma comunque quando si tratta di qualcosa di delicato so ponderarle bene. E ti fidi di questo mio giudizio, vero?”
“Chloe sì! Che hai?” domandò esasperata “Non puoi dirmi tutto e basta?”
Chloe ritrovò quel sorriso ebete e compiaciuto e la prese per una mano, guidandola verso l’ingresso.
Davanti alla porta, prima di aprire, la guardò negli occhi di nuovo
“Ti fidi? Ho bisogno di sentirmelo dire, Max.”
Max roteò gli occhi: che inizio di giornata!
“Si. MI fido di te.”
Altro sorriso ed entrarono.
Casa Prescott era deserta: Kristine aveva venduto, regalato, traslocato ogni singolo mobile di casa, evitando di lasciare nulla più che le mura. Voleva, anche lei, nel suo piccolo dimenticare molte cose e anche aver regalato loro la casa era un segnale forte: non le importava nulla di ciò che sarebbe successo a quell’edificio, non era più per lei.
La scalinata in legno finemente decorata all’ingresso, sul muro di destra, era tetra, degna da casa dei fantasmi. Tutto era pregno di polvere. A destra poteva intravedere una sala vuota, Max non ricordava a cosa fosse destinata, ma ricordava bene a sinistra la sala doveva avevano cenato e discusso con Kristine la prima volta che si erano incontrate, dopo l’ospedale. Ed era lì che vi era il camino e Chloe sembrava diretta proprio in quella stanza, facendole un cenno con la mano di seguirla.
Timorosa ma curiosa, con i passi attutiti dalla polvere, Max si avviò verso il salone e quando vi entrò, rimase stupita per ciò che le balzò davanti agli occhi.
Senza mobili, tutto pareva più grande e spazioso e la porta sulla destra che collegava direttamente alla cucina pareva immensamente lontana. Vi erano 3 sedie di plastica molto spartane, portate sicuramente da Chloe dal magazzino del Two Whales e sì, il camino era acceso ma non era quello che la sorprese di più.
Di fronte al camino c’era un uomo.
Un uomo che aveva qualcosa di strano, di accomodante e di terribilmente familiare….
Le dava le spalle e poteva solo vedere radi capelli scuri e un lungo cappotto invernale pesante, di colore nero, coprirlo fino alle caviglie.
“Ciao Max.” disse una voce maschile con calma
L’uomo si voltò: aveva occhi marroni, labbra sottili, viso tondo e pallido e chiaramente era sulla quarantina. Non rispose subito al saluto poiché quella faccia le sembrava confermare le sue sensazioni di familiarità, come se lo conoscesse già. Ma non sapeva come fosse possibile perché era certa di non averci mai nemmeno parlato.
L’uomo fece un passo in avanti, rimanendo però tra il camino e le tre sedie disposte a semicerchio in centro al vecchio salone impolverato. Tese una mano e si presentò
“Sono Robert King. Puoi chiamarmi Rob o Bob o come ti pare, non credo serva formalizzarci troppo. Vuoi sederti?”
E mosse la mano destra che lei non aveva stretto a indicare una delle sedie in plastica portate sicuramente da Chloe nella notte. E fu proprio verso di lei che rivolse lo sguardo, confusa. Max si stupì nel vedere che la sua ragazza sorrideva entusiasta e sembrava incoraggiarla con gli occhi a rispondere. Sicuramente era stata lei a dirle il suo nome.
“No, sto bene qui…. Ci conosciamo?” chiese dubbiosa
Robert ritrasse la mano
“Non proprio, diciamo.”
“Curioso: ero sicura di conoscerti. Ho questa sensazione… come se ti avessi già incontrato…. Sei di Arcadia?”
L’uomo annuì
“Lo ero. Ora non abito più qui da molti anni.”
Max fece un passo in avanti, incerta. Provava emozioni miste alla vista di quell’uomo. Qualcosa nella sua mente lavorava vorticosamente. Non si arrese e chiese
“Se non abiti in Arcadia, allora dove stai?”
L’uomo, Robert, sembrò divertito da quella domanda
“A Seattle.”
Max tentò di nuovo di capire perché quell’uomo le pareva così mostruosamente parte della sua vita, come se fosse anni che lei e quel ‘Robert’ fossero legati da un rapporto che non sapeva definire.
“Oh, anche io, anche se non torno da qualche tempo. Magari ci siamo incro…”
“Non ci siamo mai incontrati. O meglio, non ancora qui e forse non accadrà mai. Però nemmeno io abito a Seattle ora.”
“Ma hai detto che..”
“Ci abiterò. Tra circa cinque anni. E tu mi conoscerai tra circa sedici.”
Max rimase perplessa
“Come… cosa hai detto scusa?”
Robert non si scompose. Sorrise e ripeté esattamente quello che aveva detto
“Mi conoscerai tra sedici anni. O forse no, qui è diverso. Magari in questa vostra esistenza non accadrà mai, visto come vanno le cose.”
Ok, era troppo per lei.
Fissò glaciale Chloe che, invece, le sorrideva compiaciuta.
“Bene se è uno scherzo, non mi piace affatto. Magari era fatto con le migliori intenzioni, ma non è certo questo che avrei voluto come ‘riposo’…. Davvero, tirarmi giù dal letto la domenica mattina per inscenare un viaggiatore del futuro e sperare che questo potesse tirarmi su di morale? Oh cereali! Me ne torno in auto!”
Stizzita, fece dietro front e s’incamminò a passo furioso verso l’uscita del salone e sarebbe anche arrivata dalla porta se la voce ferma di Robert non pronunciò una sola frase che la raggelò
“Il tuo potere ti sta uccidendo, Max.”
Rimase immobile, la pelle s’accapponò e non riuscì a voltarsi per qualche secondo.
Non poteva essere vero a quello che aveva appena udito. Non tanto sul cosa la stesse uccidendo, non tanto sul fatto che lei stesse morendo, ma che quell’uomo sapesse del suo potere….
Tremolante, decise di tornare su i suoi passi, volgendo lo sguardo stupito e terrorizzato prima a Chloe, che scosse la testa leggermente in segno di diniego, e poi verso lo straniero, il bizzarro uomo, il viaggiatore…
“Chloe…” cominciò a bassa voce “Tu hai…”
Nonostante avesse già negato con la testa, Chloe negò di nuovo con veemenza
“No, Max: te lo giuro su tutto ciò che vuoi. Lui sapeva già, quando l’ho incontrato. Sapeva tutto di te e del tuo potere…”
Max tornò a fissare l’uomo, ora con un po' di rabbia in corpo
“Chi sei? Come sai del mio potere?”
“Perché me lo hai detto tu.” rispose Robert con calma “Tu, cioè la te del mio…. Come posso definire…. Diciamo del mio ‘tempo’ ?”
Max scosse la testa e decise di sedersi su una delle sedie in plastica recuperata da Chloe: erano scomodissime ma le sue chiappe ora contavano meno di quello che stava udendo.
“Io non capisco…”
Chloe si fece avanti
“Robert forse dovresti andare dritto al punto.”
Robert si avvicinò e si sedette nella sedia accanto a Max che, sconvolta, stava con il capo chino, i capelli cadendo le coprivano il capo, come un casco castano rossastro.
“Max, perdonami se sono stato così diretto ma la situazione richiede di essere meno formali e più sbrigativi. Credevi davvero di essere la sola con dei poteri?”
Lentamente, la ragazza rialzò il capo e fissò Robert negli occhi.
“No. In effetti no. Non ci ho mai davvero pensato ma penso di non aver mai creduto di essere unica. Non ci ho mai badato ne voluto cercare altri, però sarebbe sciocco dire che mi reputavo la sola speciale al mondo. Quindi anche tu puoi riavvolgere?”
Robert alzò le mani in segno di resa e sorrise
“Ah no, no…. Io ho un potere decisamente più inutile. Però, amica mia, si: siete in tanti. Siamo in tanti e tutti diversi. Non so se anche nel tuo, diciamo, ‘tempo’ ci sono e sono gli stessi che ho incrociato io, ma ci saranno sicuramente tra qualche parte. O ci saranno in futuro.”
Max inclinò il capo incuriosita
“Hai detto che siamo in tanti ma hai anche detto ‘nel tuo tempo´ e che io ti avrei detto del mio potere… quindi la me che conosci tu e che non posso essere io perché non sono mai stata in tua compagnia.”
Robert sorrise e si alzò
“Ovvio. Soprattutto perché la Max che mi ha confidato del suo potere lo ha fatto recentemente ma io la conosco già da oltre due anni, quindi tu, o meglio la te che conosco io, mi conoscerà tra circa sedici anni.”
Chloe fischiò
“Ok, questa non me l’avevi detta Robert. Ma forse non stiamo facilitando le cose a Max…”
L’uomo annuì
“Giusto, giusto. Allora ricapitoliamo… Max, hai mai avuto la sensazione di vivere un momento già vissuto?”
La ragazza annuì
“Certo.. un dejà-vu. Penso che capiti a chiunque.”
“Molto bene. La mia teoria è che questi dejà-vu siano riflessi di una vita, un tempo, una realtà parallela che si sovrappone alla nostra: ogni volta che prendiamo una scelta, facciamo qualcosa che richiede una decisione che possa ammettere più soluzioni, azioni che hanno diverse conseguenze, il tessuto del tempo si divide.”
Mentre parlava, passeggiava fissando a terra. Poi si avvicinò a Max e allungò il braccio, mostrando il suo pesante cappotto nero
“Vedi questo? È composto da centinaia di fili, ognuno che viaggia parallelamente con altri fili, altri in direzioni opposte e differenti e si incrociano in alcuni punti, ma il risultato lo vedi da te: è sempre unico. Tutto converge in un solo e unico punto, disegno o destino o come vi pare chiamarlo. Così, a mio modesto avviso, fa il tempo e la realtà: ogni volta che facciamo una scelta, esso si divide e viaggia parallelamente, finché non si incrocia di nuovo, non converge definitivamente nel suo canone principale, si riallinea per così dire. Ma ogni linea viaggia nel suo modo, nel suo tempo, ma con molti punti in comune e quando si ricongiunge, magari perché ogni scelta, comunque, converge allo stesso scopo, si riassorbe e lascia tracce, come i dejà – vu.”
Max seguì la spiegazione attentamente ma non capì molto
“Ma così non esisterebbe il libero arbitrio: tutto è predestinato a una cosa sola.”
Robert scosse la testa
“Al contrario: è la prova definitiva del libero arbitrio: noi viviamo cento vite e non ce ne accorgiamo, ma creiamo noi la nostra storia personale. Le nostre scelte creano ciò che siamo e ci facciamo strada di volta in volta. Le varie opzioni che creiamo e che svaniscono per rientrare nella nostra esistenza sono la prova che abbiamo migliaia di scelte diverse.”
Chloe intervenne
“Woo wo wo questa parte non me l’avevi spiegata così. Anzi, non credo tu me l’abbia spiegata e sono io la mente scientifica della coppia: Max è l’artista tormentata. Stai parlando di universi o mondi paralleli?”
Robert scosse la testa
“Per niente. Non esistono. O meglio, non so se esistano universi paralleli. Forse si ma magari avremo aspetti diversi o nomi diversi e chissà quali altre differenze. Non sono un sostenitore di quella teoria e nemmeno alludo a quella. Dico che esistano dei tempi, degli specchi invisibili: linee temporali o realtà parallele o come preferite chiamarle. Qualcosa che vive in parallelo come un fantasma di questa realtà ma non si congela nel tempo, riallineandosi in automatico.”
Chloe annuì
“Forse capisco. Diciamo che, secondo te, tutto si sovrappone e prende vita propria nello stesso universo, viaggiando in un tempo differente ma non prendendo mai forma. Oppure lo fa ma viaggiando in tempistiche diverse, non ci accorgiamo che si riuniscono o noi ci riuniamo a loro, come se noi potessimo essere coloro sovrascritti o quelli che hanno sovrascritto.”
Robert annuì
“Si, circa così Chloe.”
Max s’illuminò
“Ma…Robert, giusto? Robert, come sai tutto questo? Se tutto è fittizio, perché tu sei solido e sostieni di venire da un futuro lontano 18 anni?”
Robert fece le spallucce
“Beh ora ci arriveremo ma abbiamo toccato il primo punto: questo è il mio potere.”
Max inclinò la testa di lato, dubbiosa
“Il mio potere.” proseguì Robert “E’ vedere le ‘alternative’ delle persone. Mi basta toccarle con la mano destra e bum! Mi si apre una visione nitida del loro momento peggiore, in cui hanno preso quello che il loro subconscio ha registrato come la decisione che ha cambiato la loro vita, e vedo cosa sarebbe successo se avessero scelto altro. Volendo posso trasmettere questa visione anche a chi è protagonista, ma cerco di evitarlo altrimenti sarei scoperto.”
Max si alzò in piedi
“E hai detto che è inutile? Tu vedi dentro le persone, dentro quello che più le tormenta!”
“Beh ammetto che nel mio lavoro, ogni tanto, è servito. Faccio lo psicologo e in un paio di casi ostici mi è tornato utile.”
Max era su di giri
“E come fai a mostrare ciò che vedi ai protagonisti delle tue visioni? Perché sembra che tu lo possa scegliere…”
Robert annuì
“Si, in effetti posso ma…”
Fu Chloe, a sorpresa, a rispondere
“Deve possedere un oggetto a cui la persona è legata, oltre a toccarla con la mano destra. Deve creare un doppio canale.”
Max era sbalordita, Robert sorrideva soddisfatto. Prima che altri potessero parlare, Chloe risolse i dubbi della sua ragazza
“Ti ho detto di fidarmi: io l’ho fatto Max. Robert mi ha mostrato una alternativa. E’ così che ho capito che poteva aiutarci. Così e spiegandomi alcune cose che a breve ti dirà. Era in ospedale quando stavi male e mi ha dato il suo numero. L’ho contattato e mi ha detto di incontrarlo al faro perché mi avrebbe detto come salvarti e una volta arrivata lì…”
 
 
 
….fissò la mano destra che Robert le poneva. Doveva afferrarla?
“Dammi un tuo oggetto, Chloe.”
Non le parve di capire bene e lo fissò dubbiosa
“Qualcosa che porti sempre con te, che hai molte volte con te o a cui sei legata. Oppure un capello. Va bene qualsiasi cosa, anche la tua collana con i proiettili.” Spiegò
Chloe non comprese quella richiesta ma volle fidarsi: sfilò la sua collana e la mise in mano a Robert che, delicatamente, la avvolse attorno al polso destro. Poi, porse di nuovo la mano.
“Ora afferra la mia mano e pensa a un momento della tua vita in cui credi che avresti dovuto fare una scelta diversa. Non importa quale, non è importante: è solo l’inizio, ci serve per partire insieme e facilitarti la cosa.”
Chloe continuava a essere dubbiosa e incerta. Sentì anche una punta di angoscia ma smise di dubitare e, con foga, allungò e strinse la mano di Robert e…

….. fu come un sogno. Tutto era sfocato, ovattato.
Ed era in camera sua.
Ma non come era ora o come era un anno fa.
Era la sua cameretta come era anni e anni fa, nel periodo della morte di suo padre. Era seduta sul letto, aveva jeans blu scuri e una felpa leggera. Si sentiva impaziente. Perché?
Accanto a lei, alla sua destra, un grosso zaino da viaggio verde scuro era chiuso e pronto per essere indossato.
“Chloe? Sbrigati farai tardi!”
Era sua madre. Urlava e la chiamava, la incitava a scendere e lei sapeva esattamente che doveva andare…. Doveva partire…. Partire per…..
“Come ti senti?”
Sobbalzò: Robert era comparso improvvisamente alla sua destra, accanto alla scrivania blu elettrica. Era uguale come al faro, sia per età che abiti.
“B…Bene direi… ma….”
“Sai cosa sta per succedere vero?”

Chloe voleva dire no ma la sua bocca parlò in automatico
“Ho convinto mia madre. Dopo settimane e settimane ho convinto mia madre a farmi partire in autobus per Seattle. Vado da Max! Le ho rotto il cazzo tantissimo, ho chiamato lei quando non rispondeva, ho chiamato i suoi rintracciandoli sui cataloghi, li ho fatti chiamare da mia madre e alla fine quella stronza ha ammesso che aveva paura a scrivermi perché se ne era andata il giorno del funerale di mio padre. La deficiente non mi scriveva per questo e….”
Si bloccò… stava piangendo. Piangeva a dirotto
“Vado a Seattle…”mormorò…
Robert annuì comprensivo
“Questo è ciò che avresti voluto se solo avessi insistito con tua madre..”
Detto ciò, si avvicinò e le toccò la spalla e subito dopo le sembrò di svegliarsi di colpo da un sogno.

Faceva un freddo cane, era seduta sulla panchina del faro ed era ora la Chloe adulta dai capelli blu. Ma le guance erano rigate davvero da lacrime…
“Come…”
Robert le spiegò

“Come ti dissi poco fa, questo è quello che sarebbe successo se avessi insistito con tua madre e Max per non perdere i contatti e andare a Seattle… questo, per te, è qualcosa che ti ha formata come persona perché credi che ti avrebbe aiutata e tenuta lontano dall’autodistruzione che hai innescato per cinque anni. Questo è il mio potere, Chloe. E credimi, non sarebbe così utile preso da solo ma può salvare Max…”
Non servì altro per convincerla
“Spiegami tutto.”
 
 
 
Max era allibita
“Tu hai visto…. È incredibile….”
Chloe sorrise e annuì
“Devi fidarti, te l’ho detto.”
Max tornò a fissare Robert
“Ma come…. Tu vedi le alternative ma vieni dal futuro… come fai… non è correlato al tuo potere…”
Robert riprese a passeggiare
“Ora arriviamo al secondo punto: il tuo potere. Max, tu come lo descriveresti?”
Per la ragazza fu una domanda banale
“Beh io riavvolgo il tempo…”
Robert scosse la testa subito
“No, solo in parte è così. Max, ho visto ragazzini distruggere strade con il pensiero, emozioni manipolate e cancellate… ma il tuo potere è il più devastante di tutti. Tu non riavvolgi il tempo: tu lo manipoli. Viaggi attraverso le fotografie e sei in grado di alterare la realtà, lo puoi congelare e muoverti tu sola nello spazio mentre tutto resta bloccato in un loop infinito, come se fosse fermo sul posto, mentre l’universo prosegue. Max, tu prendi il tempo come astratto e lo rendi concreto. Questo lo rende pericoloso, perché l’universo e il tempo hanno leggi proprie, inarrestabili, che non vogliono essere alterate. Ma tu lo hai fatto.”
Max scattò in piedi
“No. Io non volevo tutto questo. Non ho fatto questo!”
Robert parve non ascoltarla e proseguì
“Perciò, come uno specchio che riflette una immagine unica, il tuo potere ha fratturato questo specchio e generato diverse altre crepe che riflettono una immagine distorta, differente, a volte più simile a volte più distante, da ciò che tu consideri realtà. Ogni linea ha preso vita propria, ogni scelta importante che hai fatto ha creato una realtà non più astratta ma solida, congelata nell’universo e viva, ma legata inesorabilmente alle altre. Qualcuna si è riallineata ma altre no e alcune di esse sono solidissime. E per via del tuo potere, questo è stato retroattivo: perciò tutte le tue scelte, le tue azioni, hanno generato conseguenze e realtà vive e indipendenti. E tutto ha avuto origine nel giorno della tua scelta più importante, quando hai rotto questo specchio: il giorno del tornado.”
Max si sentì mancare. Impallidì e si sentì stanca, svuotata, impotente
“No… ancora quella volta no…”
Il tono di Robert si fece meno accademico e più conciliante
“Purtroppo, quel giorno hai decretato che il tuo potere desse definitivamente vita a molte altre parti di te. Presumo che già lo fossero ma non così forti come lo sono diventate dopo quel giorno.”
“Non l’ho più usato…” mormorò
“Max, non conta se tu lo abbia usato dopo il tornado oppure no… conta che tu lo abbia usato e basta…”
“NON L’HO PIU’ USATO, CAZZO!” tuonò furiosa “NON L’HO PI…”
Si bloccò. Si, invece l’aveva usato.. ma non lo volle dire….
Si guardò intorno: Chloe, la sua ragazza, la donna che amava, la fissava con un velo di tristezza negli occhi; Robert sembrava più amichevole e meno freddo
“Max, purtroppo il tornado era la scelta per Chloe, la prova e il prezzo da pagare per tenere in vita Chloe, ma era solo l’inizio. Come ti ho detto, esiste il libero arbitrio e ti ha fatto fare una scelta: Chloe e la tua felicità o la depressione ma migliaia di vite salvate. Questo era il primo passo, il prezzo iniziale per una scelta. Il tuo potere è qualcosa che non può essere accettato, rompe un equilibrio. Tu non lo hai più usato? Ma le “altre te”? Se lo stessero usando? Non può esistere un universo e un tempo in cui, nella vita di un solo essere umano, vi siano tante frammentazioni indipendenti. Per questo si sta assestando, collegandovi tra di voi per fare sì che vi sia una pacificazione e un evento traumatico per una Max qualsiasi si riflette su tutte.”
Max fece un passo in avanti e, piena di curiosità, chiese
“Che evento?”
Robert si fece cupo
“La morte. Una di voi è morta.”
Max avvertì la pelle accapponarsi
“Quale? Chi?”
 “La Max che conoscevo io: si è suicidata tra giorni fa.”
Max sentì le proprie interiora contorcersi e la pelle diventare ancora più pallida. Chloe corse da lei e l’abbracciò, mentre Robert divenne più tenue nel suo tono
“Max Caulfield, la mia Max per così dire, ha scelto il suicidio non ancora trentasettenne.  Era mia paziente e, soprattutto, era mia amica. Ho cercato di darle pace ma non ho potuto e questo ha causato uno shock che sta colpendo tutte voi altre Max.”
La ragazza castana, sorretta dalla sua compagna, dovette sedersi: ora comprese il dolore che sentiva, la profonda tristezza…
“Io l’ho usato…. Ho usato il potere una sola volta qualche mese fa…”
“Al tribunale. Si lo so.”
E fu a quelle parole che si illuminò e alzò di scatto la testa
“Tu! Ecco dove ti avevo visto! Tu eri al tribunale!”
Robert sorrise e annuì
“Si, sapevo che mi avevi visto. Esatto, ero in gita a visitare questa realtà.”
Max scosse la testa
“Gita… io non…”
Chloe la rassicurò
“Max, ascoltalo. Ora arriva la parte peggiore, mi spiace.”
Max rise
“Tu si che sai come confortarmi!”
Anche Robert ridacchiò
“Diciamo che quella volta ti ha riconnessa con tutto questo caos, ma non credo sia stato determinante. Purtroppo, tu ne stai soffrendo più di tutte le altre perché sei più legata alla mia realtà di quanto non lo siano le altre.”
“Perché? Che abbiamo di speciale?”
“La mia realtà è gemella della tua, generata nel momento della scelta peggiore, quella del giorno del tornado. Tu hai salvato Chloe, la mia Max no. Ha scelto Arcadia e questo l’ha distrutta, mandandola in una profonda crisi depressiva. Noi siamo legati sin da quel giorno.”
“Ecco perché hai detto di conoscerla e di essere uno psicologo: eri il suo psicologo. O dovrei dire il mio? Cazzo, che confusione….Ma tu hai detto che avrei trentasette anni…”
“Ho anche detto che le realtà diverse viaggiano a velocità diverse..”
Max sentiva la testa scoppiare. Scosse il capo e provò a fare ordine
“Dunque: il mio potere manipola il tempo che, per definizione, non può essere manipolato perché manipolerebbe anche la natura, astratta e concreta delle cose. Io, avendolo usato, ho tirato la corda ma il fattore scatenante è stato scegliere di non uccidere la ragazza che amo e, tutto ciò, non era che l’inizio… perché?”
Robert tornò a usare un tono accademico
“Diciamo che il tornado era il prezzo per Chloe ma le varie realtà, le connessioni e le interferenze è l’assestamento del tempo e dell’universo ai tuoi danni: vogliono riallineare tutto e cancellare ogni cosa.”
Chloe si fece cauta
“Questa non l’avevi detta… cosa significa?”
“Che ha iniziato a interferire: l’evento scatenante del suicidio della mia Max, una delle principali se non quella centrale come lo è la tua, Chloe, ha dato il via a un processo già in atto: ora le realtà influiranno tra loro ma solo nelle menti e nel corpo delle varie Max, portandole tutte alla follia finché non si riallineeranno da sole o moriranno tutte tranne una. Forse, solo l’ultima Max rimasta tornerà a una vita normale ma a che prezzo? E siamo sicuri che sarà la linea temporale migliore e solida? Per questo sono qui: ho viaggiato in molte altre realtà, studiato molte differenti scelte e situazioni ma la migliore è proprio la mia gemella, ovvero la vostra realtà.”
Max era sempre più confusa e curiosa
“Perché? A che scopo??”
Robert si fece serio
“E qui siamo alla conclusione: perché dovrà rimanerne una sola. Sono qui per chiederti qualcosa di difficile: dovrai distruggere tu le altre realtà prima che lo facciano loro.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
4. Conoscersi
 
Max fissava fuori dalla finestra, inebetita.
Le parole che aveva sentito l’avevano uccisa dentro. Le sembrava tutto folle, assurdo…..
 
Distruggere le realtà… ma è follia!
 
Il mattino era ormai totale, ma il sole a malapena si percepiva per il grigiore imperante delle nuvole oscurava e rendeva il tutto tetro e ovattato. Non si voltò, non voleva. Non odiava né Chloe e nemmeno quell’uomo strano, Robert…
“Che cosa significa?” chiese con voce mesta e il viso rivolto fuori “Tutto questo è folle da morire, sembra fantascienza pura. Non capisco.”
Sentì dei passi leggeri e pensò che fosse Chloe che si avvicinava a lei, pronta a sorreggerla emotivamente cingendole un braccio sulle spalle. Ma non vi fu nessun braccio, solo la voce tenue di Robert
“So che sembra tutto una finzione, un grande scherzo, eppure tu sai che non è così. Sai di aver sentito cose che non ti appartenevano, sensazioni non tue, oggetti che non possedevi o non potevano essere accanto a te. Sono segnali: la barriera è rotta e tutte le realtà stanno scontrandosi. Tu ne soffri maggiormente perché sei la più solida, una parte del filone principale. Io provengo da una realtà che è speculare a questa ma completamente diversa…. Ho viaggiato, ho visto molte altre realtà e credimi: voglio scommettere su questa.”
“Perché? Solo perché siamo la gemella, la linea temporale migliore….”
“No. Questo non è salvifico, perché questo varrebbe anche per la mia realtà, o linea temporale come preferisci chiamarla. Ora tutte sono parificate, non esiste una più forte dell’altra. Per questo è adesso il momento di agire.”
Max si voltò e incrociò negli occhi di Robert qualcosa che non aveva visto prima: stanchezza.
“Com’era lei?” chiese Max “La mia me… io…. Insomma hai capito…”
Robert sorrise e chiuse gli occhi
“Era… beh era come te….Forte, nonostante fosse spezzata e distrutta. Aveva una carriera meravigliosa ma si portava dentro una malinconia che non poteva essere guarita. Buffo che io ne parli al passato con te davanti.”
Max si accorse che le labbra erano incurvate in un sorriso: parlava di lei; eppure, le sembrava una estranea.
“Come è…”
“Non ha importanza. Al momento è ancora viva, ma non posso cambiare le sue scelte. Ci ho provato.”
Max si sentì confondere da quelle parole ma fu Chloe che espresse il dubbio a parole
“Un momento: hai detto che Max è morta e ora ci dici che non è così. Dici che non puoi tornare indietro nel tempo ma hai detto che hai tentato di cambiare le cose. Non ti seguo.”
Robert non parve sorprendersi e rimase impassibile.
“Si, perché c’è un modo perché il mio potere sia meno inutile ed è combinandolo con quello di Max. Quando ho saputo che si era suicidata, sono andato a casa sua e ho preso dei capelli dal suo pettine e li ho usati per tornare al momento in cui ha scelto di uccidersi. Tutto questo era possibile solo grazie al potere di Max che congela ogni scelta e la rende tangibile, altrimenti non avrei mai potuto farlo. Ho provato a dissuaderla ed è così che abbiamo capito che potevamo viaggiare in altre realtà: io indossando o possedendo oggetti suoi e lei usando il suo potere. Esiste un limbo che solo lei può vedere grazie a me e da quello possiamo muoverci. Ho provato a farle vedere altre realtà ma questo sembrava ferirla e non ha cambiato idea. Per questo sono tornato di nuovo a quel momento e ho provato una seconda strada, mentre le altre line si riallineavano o scomparivano. Non so quanti tentativi ho fatto, ma alla fine sono riuscito a patteggiare con lei tre giorni. In quel tempo, ho viaggiato ed esplorato altre linee temporali, altre realtà cristallizzate e solide, per capire dove potessi trovare una Max che aiutasse me e la mia. Ogni volta fallivo e dovevo ritornare al giorno della scelta di concedermi tre giorni. Finché non ho trovato voi, questa realtà. Era così strano perché era la più vicina e la più forte; eppure, non l’ho mai notata. Ho visto, bi ho osservate e siete perfette: la vostra unione, il modo in cui le vostre vite stanno andando avanti, avete ricominciato… tutto questo è speranza. Pura e semplice speranza di poter ricominciare. Questo è assente ovunque, tranne che qui. È solida, calda e accogliente. Per questo voglio puntare su di voi.”
Chloe insistette
“E se rifiutassimo? La tua Max è morta e la mia rischia di morire anche lei o uscire pazza per chissà quanti anni?”
“No.”spiegò Robert, facendosi serio “ Ma dovrei rivolgermi ad un'altra realtà che potrebbe accettare e distruggere la vostra e voi svanireste definitivamente. Perché questo significa distruggere le realtà: tornereste astratte e verreste riallineate nella linea che combatterà per vivere e le vostre controparti non avrebbero memoria se non svariati..”
“Dejà- vu.” Concluse Max “Cazzo non ci voglio credere….”
Era tutta una spirale, che tornava e tornava sempre allo stesso momento: quel giorno nel bagno.
Il suo shock, il suo potere, il tornado, questo….
“Quindi hai riscritto la tua realtà più e più volte ma inutilmente. E ora la mia altra me sta aspettando che tu trovi una realtà che sia degna per non portarla al suicidio?”
“Molto brevemente ma si, diciamo che è così.”
“E se io rifiutassi, tu chiederesti a un’altra me di un’altra linea temporale. Così via finché una non sceglierà di farlo e in quel caso io potrei diventare il dejà-vu della mia altra me che avrà il coraggio di fare questa cosa. Corretto?”
Robert si limitò ad annuire
Max si strinse le tempie con le mani. Non aveva mal di testa, solo che tutto quanto la stava facendo impazzire
“Non capisco Robert…come puoi pensare che questa cosa sia realizzabile? Hai provato con la tua Max ma magari con me….Come puoi pensare che si possa fare?”
Robert non sembrava preoccupato e fornì subito una risposta
“In realtà tu lo hai già fatto. Se ben ricordi, hai cambiato tutto attraverso una fotografia e poi risistemato.”
Max annuì ma Robert riprese
“In più hai viaggiato in una sorta di piccola realtà sovrapposta quando hai cambiato continuamente la realtà per sfuggire a Jefferson e tornare a salvare Chloe, dico bene?”
“Si. Era tutto strano, ho parlato con una parte di me cattiva e ho visto la realtà farsi a pezzi e cambiare. Era tutto così…”
“Instabile.” concluse Robert “Perché ancora il tuo potere stava agendo pericolosamente ma non in maniera definitiva. Quello era il principio di ciò che è stato creato. Sono supposizioni, anche per me è difficile da spiegare tutto questo, ma so che c’è e bisogna affrontarlo.”
Chloe schioccò le dita
“Io sto capendo poco nonostante sapessi già tutto. In sostanza Max può, con il tuo aiuto, spostarsi in queste altre realtà e, una volta dentro, non so come, dovrebbe farle implodere per la sua futura sanità mentale. Noi saremmo la realtà migliore perché, come la tua, sarebbe quella all’origine della spaccatura di tutte le altre che, però, sono nate da decisioni passate di Max e che si scontrano. Anche quelle molto, molto vecchie?”
“In alcuni casi si.”
“Quindi, Max dovrebbe distruggere migliaia di realtà. Ma il tempo non basterebbe!”
“No, in realtà sono molto meno. Si, quelle create sono moltissime ma, fortunatamente, quelle che reggono tutto quanto, esclusa questa, sono quattro. Eliminate quelle, questa realtà sopravviverebbe a tutte le altre, che si riallineerebbero senza danni da sole. Ma finché non cancelleremo nemmeno una di quelle, le cose non miglioreranno. Anzi, più le altre rimarranno libere di consolidarsi e continuare nel tempo, più diventeranno difficili da sradicare e, io credo, potrebbero permettere ad altre realtà ora fragili di diventare più solide. Dobbiamo cancellarle prima che sia tardi.”
Max si sentiva di colpo sotto migliaia di riflettori, tutti puntati su di lei, con una platea invisibile attenta ad osservare ogni sua mossa, anche la più piccola e insignificante. Si sentiva soffocare, perduta, sola.
Ma non c’era nessuna platea e nessun riflettore, solo la tenue luce invernale e Chloe con Robert a osservarla
“So che tutto questo ti confonde e ti spaventa, Max.” disse Robert “Te lo posso leggere negli occhi. So che anche molte cose non ti sono chiare e fatichi a comprenderle, ma piano piano ti spiegherò tutto, ora non avrebbe senso darti migliaia di informazioni quando ancora devi accettare la realtà di molte di esse che hai appena udito.”
Chloe fece un passo avanti e le prese una mano
“Forse dovresti fare come hai fatto con me, Robert: mostrale. È più facile.”
Detto ciò, rafforzò la presa sulla delicata mano destra di Max, come se fosse un tesoro o un’arma spaventosa e la trascinò lentamente verso l’uomo. Robert annuì
“Si, forse è meglio se le faccio capire con una piccola gita.”
Max si trovò di fronte a Robert e Chloe le lasciò la mano e si diede subito da fare togliendo le sedie di plastica e accatastandole al muro, vicino al camino acceso
“Come posso viaggiare con te tra le dimensioni?” chiese Max “Non me lo ricordo già più”
Robert le sorrise comprensivo
“Solo un tuo oggetto personale.”
“Quindi tu indossi….. hai qui un oggetto della mia me del tuo…. Della tua realtà?” chiese titubante, attratta e spaventata
Robert si limitò a risponderle sollevando la manica destra del cappotto e svelò un maglione, anch’esso nero, ma al polso aveva un braccialetto azzurro, leggermente scolorito, a lei mostruosamente familiare…
Sollevò anche la sua mano destra e vide al suo polso lo stesso braccialetto, insieme a uno rosa scuro. Le venne la pelle d’oca.
“Credo tu debba completare la collezione.” disse come per sdrammatizzare, sfilandosi quello rosa e porgendolo a Robert che, vedendolo, sorrise e se lo infilò al polso, intrecciandolo a quello azzurro.
“Ora sei più Max tu di Max stessa.” Commentò Chloe, tra il divertito e il nervoso: quello che stava per fare Max la terrorizzava ma non voleva darlo troppo a vedere.
Robert si fece serio e si concentrò su Max
“Ti sentirai leggera. Non subito ma dopo un paio di minuti. Il tuo corpo resterà qui, mentre io e la tua mente viaggeremo altrove. Non spaventarti: Chloe ti prenderà prima che tu cada a terra.”
Detto ciò, Chloe si mise dietro, infilando le mani sotto le ascelle di Max
“Ti fidi di me, Rose?” sussurrò. Max ridacchiò e la ringraziò per il suo modo di stemperare la tensione.
Robert riprese
“Ora non serve che tu faccia nulla: sarà dopo che il tuo potere tornerà utile. Appoggerò la mia mano destra su di te, dopodiché dovrai solo fidarti e ti spiegherò tutto più tardi. Pronta?”
Max annuì.
“Allora a tra poco.” Rispose Robert con un sorriso e appoggiò delicatamente la mano destra sulla sua spalla sua spalla sinistra.
Inizialmente, Max non sentì ne vide nulla di diverso ma poi, come se fosse passato un battito di ciglia, le luci erano svanite, le mani di Chloe non erano più sotto le sue ascelle e tutto intorno era buio. Solo Robert restava dov’era.
Improvvisamene, una tenue luce si accese in direzione di dove erano le finestre di casa Prescott.
Si voltò e…. ed effettivamente c’erano ancora delle finestre ma piccole, come quelle di un appartamento. Fece un passo e sentì qualcosa di morbido sotto i suoi piedi: un tappeto?
Robert e la sua presa non c’erano più e si sentì di esplorare tutto intorno e rimase scioccata: era una stanza arredata e nuova.
Una libreria, due poltrone dall’aria comoda, un tavolino in vetro, una scrivania….Era uno studio…
Non vi era il tetto, solo le quattro mura: sopra tutto era tinto di nero come la pece e fuori dalla finestra proveniva una luce ma non si vedeva nulla se non un bagliore giallastro, senza paesaggio alcuno.
“Questo…. Questo è….” Balbettò
“Il mio studio a Seattle? Si. Ma non è fisicamente qui, diciamo che è il suo riflesso. Io, questo luogo, lo chiamo Limbo. Lo abbiamo tutti ma lo visitiamo poche volte. Credo che prenda la forma del nostro luogo più intimo e sicuro, dove forse siamo soli e maggiormente liberi di essere noi.”
“Anche io ho avuto una visione simile… quando sono svenuta nei vari tentativi di liberarmi da Jefferson nella dark room…. Ma era diverso, era più un incubo… aveva l’aspetto distorto e oscuro di molti posti diversi….”spiegò Max, mentre faceva scivolare la mano su una delle due poltrone, scoprendola morbida al tatto. Ma soprattutto, scoprendo di possedere il senso del tatto in quel luogo.
Robert le si avvicinò e le spiegò una nuova verità
“Perché in quel contesto, il tuo non era un vero Limbo. Come ti dissi, sapevo già che avevi avuto una esperienza simile in passato e ho visto molte cose in comune con me e con il mio potere, anche se sono completamente diversi. Tu hai viaggiato nel tuo subconscio, scavando e riscrivendo il tempo. Io lo faccio di abitudine ma è in quel momento che hai iniziato a solidificare le tue realtà. Probabilmente il tuo Limbo non ti si è davvero manifestato perché c’era caos. Ora siamo nel mio perché stiamo viaggiando dentro di me prima di passare a te e dubito che vedremo il tuo Limbo, dato che abbiamo usato il mio come mezzo di trasporto.”
Max scosse la testa
“E’ tutto così confuso e complesso…. In pratica siamo partiti dalla mia realtà ma, visto che le mie realtà non si sovrappongono e sono divise e distinte, vivono in uno spazio libero tra tutte loro e tu hai accesso a esse semplicemente tornando indietro fino alla tua realtà ma non uscendo completamente nella tua stessa realtà?”
Robert batté le mani
“Quasi da dieci e lode! Mi sembra che per essere una che è confusa e trova tutto complicato stia, invece, comprendendo fin troppo velocemente. Si, più o meno ci sei: siamo nel mio limbo perché io posso tornare qui prima di tornare nella mia realtà e uso il mio Limbo come sostituzione del tuo, in modo tale da avere una connessione a doppia mandata: tu solidifichi le realtà, così rendi tangibile il mio Limbo anche al di fuori della mia sfera personale e, al tempo stesso, io rendo tangibile te in ogni realtà potendo trasportare la tua mente tra le varie alternative esistenti.”
Max era ancora stupita da quella stanza, dal fatto che fosse reale quando non avrebbe dovuto esserlo. La scrivania era così liscia e solida…
“La mia me quindi, se ho ben capito, non è ancora…” non riuscì a concludere la frase. Le pareva così strano parlare di se stessa come una altra persona, per di più che si stava per suicidare!
“No. Ho riscritto abbastanza e sta bene, è viva ma non ha cambiato i suoi propositi. Le ho strappato del tempo e sta sperando nel meglio per te, più che per lei.”
“Se ho ben capito, ha viaggiato con te…”
“Si, ma le è costata molta fatica e non escludo che sarà così anche per te. Le realtà e ciò che vedeva lei erano leggermente diverse, perché le prospettive erano confuse e distanti: ormai era lontana dalla vita. Tu no: tu sei energia, piena di futuro. Vedrai cose che lei non ha potuto vedere e affrontare. Te la senti?”
Max annuì.
Robert, allora, si diresse alla porta e adagiò la mano sul pomello ma, prima di aprirla, attese che Max le fu vicino e le diede un altro avvertimento
“Max, come ti ho detto non è semplice da comprendere e tu hai già compreso più di quanto pensassi. Oltre questa porta vedrai ciò che non dovrebbe esistere e dovrai affrontare una prova tremenda. Non ti biasimerò se vorrai chiamartene fuori. Pronta?”
“Più pronta di così!”
Robert aprì la porta e ciò che vide era, forse, più incredibile della stanza stessa.
S’incamminò a passo sicuro benchè non vi fosse alcun pavimento. Solo buio. Un immenso universo buio come il soffitto della stanza, nero e impenetrabile.
Ciò che riuscì a colpirla maggiormente rispetto a quella solida oscurità erano le stelle: poche, alcune luminose come piccoli soli, altre fioche e morenti ma, anche se disperse nel buio totale, tutte visibili.
“Sembra lo spazio, ma so che non è così: sono già stata in un posto simile. Nel mio incubo. Lì era buio completo e le sole fonti di luci erano dei frammenti solidi della mia assurda settimana, come se volessero lasciarmi un messaggio prima di prendere quella devastante decisione. Ora capisco che vi era qualcosa di più, non erano solo frammenti a quanto pare. Però, non ricordo minimamente la presenza di stelle come qui.”
Robert le si affiancò
“Non sono stelle, Max.”
E allungò la mano destra, come per afferrare qualcosa nel buio. La allungò e sembrò stringere in direzione della stella più vicina. Roteò il polso a semicerchio e quella si avvicinò, come se stesse zoomando verso di essa. Non appena fu davanti a loro, Max si stupì delle dimensioni, grande quanto una parete della sua stanza se non più alta, e del fatto che emanava una enorme luce gialla all’interno. Eppure, la cosa che la colpì di più non era nessuna delle due
“Ora capisco l’esempio dello specchio…” disse
Somigliava a una gigantesca scheggia di vetro, enorme e regolare. Stazionava lì, a pochi passi da lei e stava immobile nel buio, illuminandole il viso con la sua luce giallo paglierina. Si avvicinò e le parve di sentire del calore sulla sua pelle…
“Queste non sono stelle: sono le altre realtà. Frammenti di un determinato momento in cui la tua altra te stessa è in crisi e si è unita a tutte le altre, aprendosi definitivamente a una connessione totale con te e tutte le altre. Sono tutte interconnesse, ora, come ho detto poc’anzi.”
Max si avvicinò ancora, provando a sbirciare aldilà di quel luminoso muro giallastro ma non vedeva nulla di nulla.
“Questa è una realtà? Un accesso a un’altra me? Incredibile.”
Si stupì e comprese solo in quel momento quanto tutta quella storia assurda era vera, parte di lei e legata per sempre al suo destino. Quindi era vero… doveva entrare in quella luce e devastare una realtà che stava placidamente scorrendo e respirando…
“Ok, come si fa ad entrare?” chiese
Robert parve stupito
“Vuoi già cominciare? Sicura?”
Max annuì con foga e così, Robert l’accontentò.
Si mise dietro di lei e le adagiò la mano destra sulla sua spalla destra
“Ora, alza la tua mano destra. Insieme formeremo un canale con i nostri poteri. Alza la mano come se volessi usare il tuo potere ma, contemporaneamente, concentrati su quella realtà e sfiorala con le dita della tua mano. Chiaro?”
Max annuì con foga, facendo ondeggiare i capelli. Il suo cuore batteva all’impazzata, il respiro accellerò…. Stava per andare oltre….
Alzò la sua mano destra e si concentrò su quell’ingresso giallo come se fosse una fotografia. Poi, lentamente, i polpastrelli sfiorarono la superficie e…
E cadde.
Una scarica, simile a una leggera corrente elettrica, le percorse la mano, il braccio, il corpo e la rese molle, al punto che si afflosciò su sé stessa e non batté la testa solo per il tempestivo intervento di Robert, che l’afferrò al volo prima che cadesse con il cranio.
“Si, immaginavo sarebbe successo. Impossibile che tu fossi pronta.” commentò serenamente, aiutandola a rialzarsi “Non potevi farcela ma valeva la pena tentare.”
“Grazie per l’avvertimento. “replicò lei irritata “Perché?”
Robert la prese di nuovo per una spalla con la sua mano destra
“Torniamo e ti spiegherò tutto.”
Stavolta sentì un peso crearsi in fondo allo stomaco e poi il respiro uscirle di colpo, come se fosse riemersa da sott’acqua. Strabuzzò gli occhi e si ritrovò a terra, sul freddo pavimento di casa Prescott, con lo sguardo fisso sul soffitto bianco e spoglio. Sotto di lei, Chloe la reggeva amorevolmente
“Bentornata! Ci avete messo poco!”
Max si sentiva confusa
“Davvero? Mi sembra di essere mancata per mezz’ora almeno.”
“No. “disse Chloe “Al massimo due minuti.”
“Te l’ho detto: il tempo si muove diversamente.” Spiegò Robert, mentre si ripuliva il naso da quello che Max, ben memore delle sue passate avventure, sapeva essere sangue.
“Quindi?” lo incalzò lei “Perché non potevo passare?”
Robert prese una sedia di plastica dal muro, l’aprì e si sedette accanto al camino: era più pallido di prima e sembrava che quel piccolo viaggio gli fosse costato molta fatica.
“Perché tu non sei ancora pronta, Max. Devi prima risolvere qui, in questa realtà, ciò che ti impedisce di viaggiare. Serve che la tua mente sia libera, sgombra da dubbi e paure che ti porti appresso. C’è un dubbio, una paura, un episodio della tua vita che ti ancora qui. Liberati e solo così potrai essere abbastanza in pace con te stessa per farlo. Altrimenti non potremo andare oltre.”
Max si rimise in piedi e lo fissò con espressione ebete
“Io cosa? Cioè abbiamo poco tempo, il mondo collassa, io rischio di diventare una pazza furiosa da manicomio e ora dovrei fare altre sedute dallo psicoanalista per chissà quanti mesi per poter viaggiare in altre realtà?”
Robert annuì
“Beh, si. Se non risolvi te stessa qui, come pensi di risolvere altre te che vivono altre angosce diverse ma, al tempo stesso, uguali alle tue? Devi vivere loro, in maniera profonda e concreta, ma non potrai mai farlo se rimani ancorata a ciò che ti lega qui. Cosa ti trascina a fondo qui Max? Devi scoprirlo: la chiave per viaggiare in altre realtà è conoscere sé stessi.”
Max scosse la testa
“Non abbiamo tempo. Andrà tutto a puttane!”
“Beh si dà il caso che io sia uno psicologo e che abbia il potere di viaggiare dentro le scelte che ti hanno segnata. Quindi non ti serviranno mesi, ma dovrai preparati a una bella botta morale amica mia.”
Chloe si mise in mezzo a loro due
“Wo, wo, wo che stracazzo succede qui? Robert non mi avevi mica parlato di tutto questo? Doveva solo farsi un cazzo di trip mentale e convincere le altre sue sorelline Maxine a lasciarla in pace. Cosa sarebbe ora ‘sto viaggio introspettivo?”
Robert alzò una mano per calmare Chloe mentre con l’altra estrasse un cioccolatino dalla tasca e se lo mangiò al volo
“Scusate ma devo recuperare zuccheri ogni volta che faccio questo doppio viaggio. Dolci e Junk food funzionano alla grande, tra parentesi. Comunque, Chloe, non è nulla di grave: Max non può connettersi ad altre realtà perché qualcosa la frena: forse un enorme senso di colpa per qualcosa del passato con cui non riesce a fare pace.”
Chloe scoppiò a ridere
“Auguri allora! Pure con il tuo potere ci metterete mesi!”
Max, invece, si era ammutolita ed era andata in panico: Chloe aveva ragione!
Robert, invece, rimase impassibile
“No. Credo che ci vorrà qualche ora ma forse possiamo farcela. Max?”
Lei non seppe che dire: voleva dire sì ma ammise di avere paura. Una paura fottuta di affrontare sé stessa in tutte le fasi della sua vita.
Annuì.
“Si. Facciamolo. Ora.”
Robert sorrise
“Mi piace questa determinazione.” disse mentre si rimetteva in piedi e trascinava la sedia verso di lei “Siediti.”
Ubbidì e nel frattempo Robert si tolse il braccialetto rosa che lei aveva consegnato poco fa e lo vide infilarselo in tasca: evidentemente era convinto che lei ci sarebbe riuscita e avrebbero ripreso il viaggio assurdo dimensionale.
“Ora, come avrai notato, ho tolto il collegamento con te e mi basterà solo toccarti con la mano, senza aprire un doppio canale: grazie al tuo potere sarà tutto più facile e verremo proiettati dal tuo subconscio nel primo ricordo che ti ha ferita. Come vedi, con te, le leggi del mio potere cambiano. Stavolta non sarà come prima, sarà più rapido e più traumatico. Pronta?”
Max strinse i denti
“Pronta quando lo sei tu.”
Quella determinazione strappò un secondo sorriso a Robert, che le adagiò una mano sul collo e….
 
 
….pioveva
Pioveva a dirotto. Una cazzo di tempesta!
Vento fortissimo, un rumore terrificante, come un boato, come una montagna che si spaccava in due….
Lo riconobbe subito e si voltò alla sua sinistra: il tornado!
Era tornata a quel giorno.
Quel maledettissimo giorno!
Cazzo! Era ovvio anche se non ci aveva pensato!
“Max! Devi farlo! Solo tu puoi farlo!”
La voce terrorizzata di Chloe la colpì in viso più della forte pioggia: lei era di fronte a lei, spaventata ma risoluta, con tanto dannatissimo amore negli occhi e dolore.
Solo in quell’istante si rese conto che stava stringendo la foto della farfalla tra le sue mani…
“Prevedibile, in effetti”
La voce di Robert sovrastò la pioggia, provenendo alle sue spalle e l’uomo comparse alla sua sinistra, tra lei e lo strapiombo, ma non abbastanza da coprire il tornado.
“Si, avrei dovuto immaginarlo.” rispose, urlando per farsi sentire
“Max… chi è lui?” chiese Chloe, indicando Robert “Che cosa ci fa qui?”
Nessuno dei due parve dare retta a Chloe e commentarono tra di loro la scelta di quel ricordo
“Sei sicura che questo sia il ricordo che più di ha devastata?”
“Direi! Ha originato ogni problema, ogni cosa per la quale siamo arrivati fin qui. Mi sembra normale che questo sia il principio e la fine.”
“Vero ma non lo darei per scontato. Il tuo subconscio può volerti nascondere il vero motivo che ti ha fatto soffrire. Se però sei convinta che sia questo, come pensi di risolvere tutto per avere pace con te stessa?”
Max non seppe rispondere. Fissò Chloe, confusa e spaventata, e provò a dire quello che pensava
“Chloe mi dispiace: qualsiasi scelta io faccia, rovinerò tutto. Distruggerò la tua vita e poi la mia oppure distruggerò quella di migliaia di altre persone per la nostra. Ma avremo sensi di colpa per molto, molto tempo e tutto questo si ripercuoterà su di noi e saremo costrette ad affrontare tutto di nuovo.”
Gridava. La pioggia le finiva in bocca, la foto della farfalla stretta in una morsa ferrea nel suo pugno, mentre il corpo rabbrividiva per il freddo.
“Max qualsiasi cosa tu scelga io sono con te. Non dimenticarmi!” rispose lei, facendo un passo indietro.
“Non andare via, aspetta! Non capisci? Ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare!”
“Lo sai tu cosa è meglio per tutte e due, Max. Io non posso fare nulla: ho solo fatto disastri e ti ho trascinata con me. Posso solo chiederti scusa.”
“No, puoi fare molto altro. Farai molto altro… o cazzo, Robert! Non so che devo fare!”
Robert le si avvicinò
“Cosa vuoi davvero Max?” chiese
“Io… io vorrei che tutto questo non sia mai accaduto! Come siamo arrivati a questo? Perché sono una cazzo di bambina infantile che…”
Sole.
Sole e caldo.
Un divano comodo, un letto e calore. Vestiti asciutti, calore….
La sua camera alla Blackwell….
“Però.. bella cameretta” commentò Robert, che era apparso dal nulla vicino alla sua pianta, Lisa “Stavi bene alla Blackwell, vedo.”
“Fai sempre così? Compari all’improvviso?” chiese Max, mentre si teneva una mano sul petto per lo spavento. Robert ridacchiò
“Più o meno. Ti abituerai. Quando siamo? Inizio della fatidica settimana o…”
Max ci pensò un istante. Fuori dalla finestra era autunno, eppure non le sembrava che fosse il giorno della visione….una strana sensazione…
Prese il telefono e controllò la data: le venne un colpo al cuore, di nuovo.
“Oggi è il giorno del party del Vortex Club….” commentò cupa
Robert la fissò dubbioso
“End of the world?”
Max scosse la testa
“No…. Staserà Prescott drogherà Kate… Stasera è la sera di quel  party, in cui rovineranno la vita di Kate Marsh!”
Robert continuò a non capire
“E tu avevi provato a dissuaderla?”
“No.” disse Max “Avrei voluto tanto farlo ma alla fine non feci nulla.”
Si alzò dal divano della sua stanza e prese a camminare in circolo
“Se le avessi impedito di andare…. Lei non sarebbe stata drogata e non avrebbe avuto la reputazione e la vita rovinata da quelle bestie. Volevo dirle di stare qui ma lei sembrava così entusiasta all’idea di andare… voleva sul serio socializzare e potersi integrare con la nostra classe. Sai, essendo religiosa era vista come una stramba.”
Max provò una fitta dolorosa al cuore: non ci pensava da molto, molto tempo a quel giorno e il senso di colpa che l’aveva accompagnata fino a che non erano sopraggiunte altre questioni…
Tipo il potere e salvare anche Chloe…
Sentì bussare alla porta e il flusso dei suoi pensieri s’interruppe bruscamente.
“Max? Sei qui?”
La voce dolce di Kate Marsh fece capolino aldilà della porta in legno. Vide che la sua amica tentò di aprirla ma doveva aver chiuso la porta a chiave. Si scagliò verso Robert, terrorizzata
“Che faccio?” sussurrò istericamente “Cosa devo fare?”
Robert che, come ogni sacrosanta volta, riusciva a mantenere la calma e questo cominciava a irritare Max, rispose pacatamente
“Sei sicura che questo sia il ricordo che vuoi aggiustare? La colpa da espirare?”
“Credo di sì! Nemmeno ci pensavo più e…”
Si raggelò a udire le sue stesse parole.
“Io non ci pensavo nemmeno più.” Ripeté stancamene “Cazzo, sono un mostro..”
Robert la rincuorò
“No, Max, non sei un mostro. Sei un essere umano come tanti altri che a diciotto anni ha affrontato una prova che nessun essere umano, in tutta la vita, affronta. Hai visto troppe cose in così poco tempo: il tuo affetto per Kate era onesto e lo è ancora ma non puoi pretendere che le scelte che fanno gli altri siano sempre una tua responsabilità. Non ci hai più pensato perché hai comunque speso tempo a salvarla fino all’ultimo istante. Direi che hai fatto molto.”
Max voleva replicare ma non ne trovò la forza. Si decise a rassegnarsi e rispondere a Kate
“Max, tutto bene? Sento la voce di un uomo.. sei sola?”
“Si Kate, scusa: ero al telefono con mio padre e ho lasciato il vivavoce. Senti ma tu sei convinta di andare al Vortex stasera?”
“Si, lo sai.”
“Davvero? Kate non mi fido di loro.”
“Nemmeno io ma Gesù dice di amare indistintamente e per me significa anche dare opportunità agli altri di mostrarsi sotto altre luci. So che vado anche per vanità personale, per timore di non essere accettata in questa scuola. Lo so che è anche per quello e me ne vergogno molto. Ma devo, Max: so che potrei mostrarmi sotto una luce diversa e anche loro potrebbero fare lo stesso con me. Dobbiamo solo imparare a fidarci.”
Max si morse la lingua e sentì lacrime calde uscirle dagli occhi.
Cristo Kate…. Sei così buona da essere così ingenua.
Fece un respiro profondo per calmarsi poi rispose
“Ok, Kate. Però sta attenta e non bere nulla: tu vorrai anche dargli fiducia, io non riesco. E ricordarti che sei una mia cara amica e che ti vorrò sempre bene e non dubiterò mai di te, ok?”
Silenzio, poi Kate rispose
“E’ carino da parte tua Max. Certo, lo so che sei una cara amica e anche tu lo sei per me. Prometto di fare attenzione e poi sai che non son una bevitrice. Senti, ma perché non vieni anche tu con me? Così mi terrai d’occhio, visto che sono proprio una ragazzaccia”
Seguì una risata sincera da parte di Kate che per Max fu solo un colpo al cuore ancora maggiore dei precedenti. Cercando di non far capire a Kate che stava piangendo, Max riuscì soltanto a dire
“Certo. Certo, volentieri Kate. Andremo insieme, ci puoi scommettere.”
E mentre lo diceva, si accasciò al centro della stanza, in lacrime silenziose. A malapena udì il saluto festoso di Kate Marsh che, alle sue orecchie, suonava come un addio.
“Non posso farlo Robert. Avevi ragione, questo ricordo non ha nulla a che vedere con tutto il resto. Io avevo anche dimenticato di questa conversazione nell’ultimo anno. Che razza di persona sono io, che dimentica il giorno in cui ha condannato a morte una amica? Che persona merita di salvarsi? Cerca un’altra Max: io non posso farlo.”
Robert si chinò su di lei, le prese il viso e le asciugò le lacrime con le mani
“Sicura? Vuoi dire addio a tutta la vita che hai davanti con Chloe? Lascerai che un’altra Max prenda il tuo posto?”
“Se è una versione di me che ha più cuore, che venga subito.”
“Non esiste qualcuno che abbia più cuore perché lo avete tutte. Sei tu e non dovresti massacrarti ancora per colpe che non hai. Sei una ragazza di nemmeno vent’anni, Max: concediti di vivere.”
Max sentiva che non era giusto continuare. Scosse la testa
“Non penso di meritarmelo. Non dovrei farlo io.”
“E chi altre? Là fuori tutte siete uguali, con sensi di colpa diversi verso altre persone, ma è il tuo carattere. Avrai sempre di che recriminare ma la domanda è: sei davvero una cattiva persona come credi e dici di essere? Oppure sei solo una giovane donna di vent’anni che sta affrontando prove terribili?”
Max non seppe che dire. Scosse ancora la testa e disse
“Un’ultimo tentativo. Poi basta: se non sarò in grado di capirmi, potrai cercare un’altra me.”
Robert non commentò e si limitò a adagiare una mano sulla sua testa e, immediatamente, si sentì leggera, più di prima, mentre la realtà attorno a lei cambiò una terza volta.
Ora era seduta a bordo del suo letto, nella sua cameretta di Seattle.
Fuori, un tempo bellissimo, quasi invitante. Voleva uscire e correre, respirare aria fresca e scacciare via tutto quell’orrore, quel dolore, quelle colpe che si era convinta di avere addosso come una seconda pelle.
Si alzò e notò che la sua cameretta era ancora incompleta, con scatoloni ammassati negli angoli, uno specchio appoggiato pericolosamente in un angolo tra l’armadio e la finestra.
Ancora specchi…
Si avvicinò e rimase sorpresa (ma non troppo, cominciava ad abituarsi alle stravaganze) della sua immagine riflessa: era lei ma a tredici anni.
Tutto le fu subito chiaro: era appena arrivata a Seattle. Non era passato che qualche giorno forse. Si ammirò con i pantaloncini corti in jeans, scalza a piedi nudi, una maglietta giallo canarino con uno smile nero dipinto al centro, la coda di cavallo che le lasciava scoperte le orecchie (quanto odiava le sue orecchie!) e le lentiggini più visibili che mai.
“Cazzo, di nuovo.” borbottò “quante volte devo tornare nel mio corpo di tredicenne?”
Si voltò e diede una occhiata alla camera, spoglia se non per un comò e la cassettiera con i vestiti, oltre al letto e al già citato armadio.
Niente scrivania, niente presenza di Chloe, niente Arcadia Bay.
Solo Seattle e scatoloni.
“Non sembri particolarmente felice.”
Robert era apparso accanto alla porta, appoggiato contro di essa; una oscura macchia di notte contro quel candore immacolato.
“No, non lo sono.” rispose “Non lo sono mai stata in quei giorni. L’arrivo a Seattle fu traumatico.”
“Perché?”
“Beh, una ragazzina di tredici anni, timida, impacciata, insicura, che a malapena aveva degli amici ad Arcadia Bay, catapultata in una grande città, a dover ricominciare da zero.”
“Ti mancava Arcadia?”
“Non particolarmente. Mi mancava la sua familiarità, il senso di sicurezza che mi dava.”
“Ti sentivi sicura ad Arcadia?”
“No. L’ho realizzato solo quando sono venuta qui, non so se mi spiego. Insomma, è come se avessi abbandonato un nido, un nido orribile come qualsiasi piccola cittadina di provincia può essere, ma non fossi pronta a spiccare il volo.”
“Eppure non stai precipitando.”
“Così sembra. Oppure è solo apparenza. Ho volato perché dovevo, ho imparato perché ho dovuto imparare: ma questo significa che io sappia volare? A volte è solo che ci spingiamo in alto per non soffocare ma poi, inevitabilmente, precipitiamo. Il volo non è altro che una caduta elegante.”
Robert emise un fischio
“Molto profonda per una tredicenne.”
“Idiota.” rispose lei sorridendo e rimettendosi a sedere sul letto.
“So cosa stai facendo con tutte queste domandine, Robert: mi stai psicanalizzando. Stiamo avendo una seduta non pagata.”
“Vuoi che la smetta?”
“No.”
“Ti manca Arcadia in questo momento? Intendo, in questo momento di sei anni fa?”
Max ci rifletté
“Non è proprio una nostalgia per la città. Come ti dissi, era la sensazione di sicurezza, di familiarità, di controllo. Qui non lo ho. Qui sento che dovrò ricominciare tutto da capo e io non sono brava. Non sono per nulla brava a socializzare, a espormi, a essere viva e parte di qualcosa. Sono una stramba solitaria.”
“Non si direbbe: hai sviluppato molti legami.”
“Con molta fatica e sono comunque meno di quanti una ragazza media statunitense ne sviluppa a vent’anni.”
“E cosa credi che ti manchi?”
Max ci rifletté
“Autostima. Mi è sempre mancata, sai? Credo di possederne il minimo essenziale per sopravvivere. Penso anche che mi manchi un po' di intraprendenza, il che è buffo visto che da fotografa dovrei averne in abbondanza, non posso certo chiedere sempre, in ogni occasione, se il mondo può gentilmente mettersi in posa e congelarsi per minuti interi finché non mi decido.”
“Direi che è una ottima auto analisi, Max. Pensi di non avere mai avuto tutto questo?”
“No. Forse le ho acquisite ora. O forse le ho sempre male ma non lo sapevo.”
“Merito di Chloe?”
Max ebbe un sussulto. Quel nome smosse la sua coscienza… Ma non la sua coscienza, ma quella della Max di tredici anni.
“Non saprei. Si, credo di sì ma anche un po' tutto quello che è capitato. Merito di Chloe, di Kate, di Victoria e anche di Nathan Prescott a dirla tutta.”
 
E la Dark Room…. Quella maledetta Dark Room….
 
“Quindi è stata Arcadia a forgiarti. Loro e quella settimana. Mai in Seattle? Nulla in Seattle ti ha reso ciò che sei?”
“Si, forse sì. Sicuramente qualcosa mi ha…. Dio mio perché il nome di Chloe mi fa male?”
Robert chinò il capo di lato, incuriosito
“Mi stai dicendo che il nome di Chloe ti intristisce?”
“Si. Fa male, malissimo. Sento un senso di colpa enorme…”
Robert sembrò sempre più incuriosito
“Stai sentendo dei sentimenti della tua controparte?”
“Si, io credo di sì.”
Robert si fece scappare un sorrisetto
“Curioso. Non è strano, dovrebbe essere normale, ma è strana la tua intensità. Come se fosse tua, una emozione, un sentimento fisso, vivo, non un ricordo. È tuo, vivo e pulsante. L’intensità è curiosa. Non dovresti viverla così tanto.”
Max si mise una mano sul cuore
“Come è possibile… mi sembra di essere ancora una bambina di tredici anni. Come se lo provassi davvero, ora, e che tutto quello che è successo nell’ultimo anno non fosse mio.”
“Non dovresti provare quel sentimento, è come se fossi fusa con questa realtà… Quello che provi è ciò che potresti provare quando viaggerai tra le realtà, non rivivendo un ricordo. Forse…”
“Forse… cosa?”
“Parla. Dimmi che provi.”
Max cercò di calmare il suo respiro e fare mente locale, separando il suo animo di donna ormai adulta da quello della tredicenne. Voleva analizzare proprio il suo dolore preadolescenziale per primo, comparando alla esperienza che aveva acquisito
“So che tante cose che sono successe potevano essere evitate se solo fossi stata ciò che sono ora. Se fossi stata più intraprendente, forse mi sarei fatta più amici qui, forse non sarei stata una emarginata per tanto tempo. Se solo fossi stata più decisa da sempre forse avrei potuto salvare Kate, forse avrei potuto essere una amica migliore per Chloe anche nella distanza.””
Chiuse gli occhi. Lo sentiva, lo comprendeva: dolore, rimorso, paura, rabbia… verso sé stessa, verso la sua perenne indecisione, la sua vergognosa codardia…
“Se fossi stata più decisa avrei potuto aiutare Chloe fin da subito. Se fossi stata più decisa, avrei potuto essere una presenza più forte e non un fantasma. Se le fossi stata più vicino, anche dalla distanza, forse non si sarebbe arrabbiata così tanto con il mondo, forse si sarebbe potuta arrabbiare ma meno, meno guai, meno rischi. Se fossi stata una persona migliore, più decisa, più affidabile, forse Chloe non sarebbe entrata in quel bagno a farsi sparare da Nathan e tutto questo non sarebbe successo. OH CAZZO SONO UNA STRONZA!”
Esplose.
Dolore e rabbia, paura e consapevolezza.
Pianse, si strinse lo stomaco e brividi nevrotici la scossero
“Cazzo, se solo fossi stata più presente! Merda, merda e stramerda! Se solo fossi stata più presente tutto quanto sarebbe stato evitato! Perché sono una maledetta codarda? Perché? TUTTO IL MIO RIMORSO È QUI! QUI, NEL GIORNO IN CUI MISI PIEDE A SEATTLE E CHE SO CHE AVREI DOVUTO CHIEDERE SOLO DI ANDARE DA LEI. OH MERDA, AVREI SOLO DOVUTO CHIEDERE, INSISTERE, DI FARMI TORNARE QUALCHE GIORNO AD ARCADIA!”
Si voltò e prese il primo oggetto che gli capitò a mano, senza sapere cosa fosse, e lo scagliò contro lo specchio, che si frantumò in migliaia di pezzi, alcuni si staccarono e caddero al suolo con un suono melodioso.
Poi, come se esplodesse, sentì il suo corpo espandersi ed invadere l’aria, avvolgere ogni cosa.
Tutto era oro.
La sua stanza era indefinita, ammantata da un velo dorato. Robert non c’era più, la porta chiusa.
Timorosa, si avvicinò e la aprì: la casa di Seattle era come sempre, solo avvolta nell’oro.
Tutto taceva, nessuno era vivo o presente.
Andò verso sinistra e si diresse verso l’unica porta aperta, quella del bagno.
Vi scivolò dentro e, con sua modesta sorpresa, non tutto era avvolto dall’aura dorata. Il lavabo e lo specchio erano intatti, ancora bianchi e candidi. Ammirò la sua immagine riflessa e impiegò un paio di secondi prima di rendersi conto che era tornata nella sua età attuale: vide la Max adulta che conosceva, ma vestita come la sé tredicenne e il volto rigato dalle lacrime.
“Quindi ecco chi sei, Max Caulfield: una codarda. Una amica di merda che non ha avuto il coraggio di chiedere di passare del tempo con la sua migliore amica che aveva appena perso il padre. Se solo fossi stata la metà di quello schifo che sei oggi, forse la tua migliore amica ora non avrebbe avuto disastri su disastri a cui tu hai voluto rimediare compiendo disastri ancora più grandi. Se solo fossi stata una cazzo di persona decente. Sono stata una codarda e non potrò mai negarlo. Posso solo accettarlo e ora dovrò rimediare.”
Non fece in tempo a comprendere di aver finito di parlare che svenne e prima che potesse urtare il lavabo, sentì la presa salda di Chloe e la voce di lei che la chiamava
“Hey, cazzo! Hey, tranquilla ci sei, sei qui. Sei tornata. Tutto ok, Max.”
Era ancora seduta sulla sedia di plastica. O meglio, la parte inferiore lo era ma la testa e il busto stavano per cadere rovinosamente a terra ma Chloe deve averla presa al volo. Si rialzò lentamente, stordita e confusa. Cercò prima con lo sguardo Chloe e si rese conto di provare una enorme vergogna. Allora, cambiò direzione e cercò Robert.
Lo trovò, adagiato al muro contro il camino, pallido e con il sangue che colava copioso dal naso: ormai non tentava più nemmeno di nasconderlo.
“Ci sei riuscita, a quanto pare.” disse con una leggera nota di divertimento e soddisfazione.
Eppure, quella frase le mise panico in cuore.
Si alzò e, senza sapere con quali forze, nonostante le gambe molli scattò a passo svelto, divincolandosi dalla presa di Chloe.
Camminò a passo spedito, quasi correndo. Spalancò la porta di casa Prescott, e avanzò nel vialetto, nell’erba umida e si arrestò al limite del marciapiede. Boccheggiava, cercava aria e con la bocca aperta e il naso ne ingoiò il più possibile, per darsi pace.
Era fredda, viva e tutta intorno a lei, dentro di lei. La sentiva nei suoi polmoni, come se fossero ricolmi di aghi di ghiaccio.
Non le importava del freddo perché la faceva sentire viva.
Non le importava del cielo plumbeo e invernale perché era il suo cielo.
“Vuoi prenderti un’influenza?”
Chloe comparve dietro di lei, appoggiandole il giubbotto sulle spalle
“Ok che mi sono presa qualche giorno per starti vicina ma non perché avessi un febbrone da cavallo. Che ti prende? Sembri folle.”
Max non la ascoltò. Si limitò solo a chiederle
“Chloe? Mi odi, vero?”
Chloe le si parò davanti
“Sei impazzita? Perché dovrei odiarti?”
“Non sono mai venuta a trovarti, Chloe. Per cinque anni io sono svanita dalla tua vita. Potevo venire se solo avessi avuto il coraggio di insistere con i miei genitori. Potevo rispondere più spesso ai tuoi messaggi e alle tue chiamate se solo non avessi avuto la perenne sensazione di averti ferita. Sapevo anche così facendo ti avrei ferita di sicuro e sempre più a fondo ma se fossi stata diversa forse ti avrei potuta aiutare a essere meno rabbiosa e tutto questo non sarebbe successo. Tutto ciò è colpa mia perché io non ho saputo starti accanto. Perdonami.”
Chloe la prese per le spalle
“Woooah Max relax, ok? Non so che cosa tu abbia visto ma deve averti sconvolto. Ancora con sta storia? Si non sei stata il massimo come amica. Sei sparita per cinque cazzo di anni e sei stata stramaledettamente lontana quando ne avevo bisogno. Ma tu salvarmi? Solo se avessi avuto voglia di scrivermi? Max, io sono la sola artefice del mio disastro. Lo sono sempre stata.”
“No, Chloe io…”
“No, un cazzo. Mi conosci: quando mai sei stata più testona di me da decidere quando c’era da decidere? Forse avrei fatto le stesse identiche cose anche se tu fossi stata più presente: ero comunque arrabbiata con tutti e tu non potevi certo starmi accanto come un cane da guardia, eri comunque fisicamente a Seattle. Max non potevi fare nulla.”
Max chiuse gli occhi
“Io non so se tutto quello che dici sia vero o se sia vero quello che credo io. So solo che mi dispiace così tanto. Penso solo che ciò che sono ora sia ciò che sono sempre stata ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Tu e tutta la follia che è accaduta un anno fa mi ha cambiata, fatta maturare ma avrei dovuto farlo da sola e non ha scapito delle vite di quasi tutta Arcadia.”
Chloe le prese teneramente il viso tra le mani e le diede un bacio delicato sulle labbra
“Tu sei Max Caulfield. Sei sempre stata così e sarai sempre così, anche maturando e cambiando. E non hai la stramaledetta idea di quanto sia felice di ciò.”
Max riuscì finalmente a sorriderle di rimando e ricambiò il bacio. Assaporò le labbra di lei con pazienza e delicatezza. Non voleva che tutto questo svanisse. Non solo ora, ma per sempre.
Così, in quella frazione del bacio, comprese la cosa giusta da fare e che era davvero pronta per farlo
Ritiratasi dalle labbra di Chloe, le sussurrò
“Lo farò.”
Poi girò i tacchi ed entrò in casa: Robert le aspettava ancora contro il camino, ripulito dal sangue
“D’accordo.” disse “Facciamolo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
5. Partire
 
Erano passati due giorni. Chloe aveva finito di fare le valigie e sembrava più entusiasta di lei.
Robert aveva proibito che iniziassero subito con il loro ‘viaggio’ e l’aveva costretta a riposare un paio di giorni. Sosteneva che, anche se non sembrava, aveva superato una prova molto dura per la sua mente. Inoltre, voleva dare loro una nuova location, più adeguata, per ciò che avrebbero dovuto fare. Quella mattina aveva inviato loro un sms con un indirizzo. Pareva nella zona appena ricostruita di Arcadia, piena di appartamenti nuovi.
“Oh, ma non sei eccitata, Max? Viaggerai per altre realtà!”
Chloe era su di giri, come una bambina.
“Non capisco come tu faccia ad essere così contenta.”
Chloe la fissò con sguardo stupito
“Hai idea delle storie assurde che mi racconterai al tuo ritorno? Di come sarai, di come saremo, in altre realtà? Cazzo, non vedo l’ora di sentire le storie assurde che avrai da raccontarmi!”
Max le sorrise di rimando ma non era del tutto convinta. Si era decisa a fare quello strambo viaggio in chissà che meandri dell’universo ma il timore di fallire le si era inserto nel cervello come un tarlo.
Partirono con il pick-up e si diressero verso l’indirizzo designato. Chloe canticchiava tutta allegra All Your Gold dei Bat For Lashes mentre Max fissava fuori dal finestrino.
 
There was someone that I knew before
A heart from the past
That I can not forget
And I let him take all my gold
And hurt me so bad
But now for you

I have nothing left
Of all my gold

A ghost from the past
Has turned my heart black
Am I ever gonna let him go?
And get my gold back?

Una volta arrivate, videro Robert, vestito sempre di nero, attenderle all’ingresso di un complesso residenziale nuovo, con piccoli appartamenti in palazzine da tre piani massimo, tutte di colore bianco. Con la mano, indicò loro un parcheggio dentro il cancello e Chloe obbedì.
“Pure il parcheggio riservato. Che onore!” commentò allegra.
Robert si propose di portare loro le valige e fece strada. L’appartamento che aveva affittato era nella prima palazzina, al secondo piano. Una piccola scala esterna conduceva al piano secondario, arrivando di fronte alla porta.
Una volta dentro, le accolse un tepore magnifico. L’ingresso era molto semplice: un soggiorno quadrato con divano rosso con penisola, un tavolino in vetro al centro e un tappeto adagiato sul parquet. Sulla sinistra un corridoio e nell’angolo in alto a sinistra, in parallelo al divano, la porta che portava a una cucina molto piccola, in cui si intravedeva un piccolo ripiano e dei fornelli. Seguendo il corridoio si vedevano due porte, una a metà e una in fondo. Una finestra, a metà del muro di fronte al corridoio, faceva filtrare luce dentro la casa.
“Come se foste a casa vostra.” le accolse Robert, mentre adagiava le borse vicino al divano “prendete pure la camera matrimoniale. Io mi arrangerò sul divano.”
Chloe, vestita con un giubbotto imbottito e jeans neri, entrò a passo spedito nella casa e si guardò intorno
“La camera? Pensi che staremo qui a lungo? Non è una cosa in giornata?”
Robert scosse la testa
“No. Max dovrà riposare il più possibile e se sarà necessario, prenderemo tutto il tempo possibile.”
Max si mise a esplorare la casa anche lei, osservandola e trovandola accogliente
“Sicuro che ti vada bene? Anche tu avrai bisogno di riposare, Robert.”
“Non preoccuparti.” le ripose l’uomo “Il divano è comodo.”
“Per quanto l’hai affittata?” chiese Chloe
“Oh, circa un mese. No, tranquilla: non credo che ci metteremo così tanto. Inoltre, sono qui già da un pezzo.”
Si spostò in cucina e tornò con delle bibite gassate e le offrì alle ragazze che accettarono. Max ne approfittò per fare un paio di domande che aveva pensato in quei due giorni
“Mi chiedevo: in base a ciò che hai detto, che tu sei frutto di una realtà nata dalla nostra, questo significa che c’è un tuo altro te qui?”
Robert rispose affermativamente
“Si. Non so dove sia ora il mio altro me, dato che il percorso preso qui potrebbe essere molto diverso. DI sicuro c’è.”
“Ma allora perché non sei nel corpo di lui? Da quello che mi hai detto, io entrerò nella mente delle mie altre me stessa nelle altre realtà, perché tu non sei nella mente della tua controparte?”
“Semplice: il mio potere mi permette di essere un osservatore. Quindi posso separarmi ogni volta che visito una realtà. Inoltre, sono tutte realtà create da te e dal tuo potere, io c’entro poco e nulla. Sono solo un visitatore, una variabile non prevista. Posso intrufolarmi e adeguarmi alle realtà, assumendo ogni volta l’identità che voglio: il piccolo vantaggio di essere un ospite indesiderato nelle tue realtà.”
Max annuì e si ritenne soddisfatta ma Chloe aggiunse
“E nella tua realtà, dove io sono crepata, che fai? Cioè si sei psicologo ma poi?”
“Nulla di eccezionale. Sono sposato e ho due figlie. VI farà piacere sapere che mia moglie è Dana Ward.”
Chloe scoppiò a ridere
“Davvero? Pensavo che si sarebbe sposata un Quaterback!”
“Beh, le persone cambiano. Ho conosciuto Dana circa cinque anni dopo il tuo omicidio ma abbiamo iniziato a frequentarci dopo sette anni che eri stata uccisa da Prescott. Dopo una relazione di tre ci siamo sposati.”
Chloe era tutta un ghigno ma per Max quella storia fu fonte di un’altra domanda
“Quindi come hai avuto il tuo potere?”
Robert si fece più serio e si chinò verso le ragazze
“Due anni dopo che Jefferson fu arrestato, io avevo iniziato gli studi di psicologia ed ero intenzionato ad andare a Quantico: volevo diventare un profiler. Essendo di Arcadia Bay, mi aveva molto colpito la questione dei Prescott e dell’insegnante molestatore. Un sabato di Maggio ero con mia madre a Portland, in un centro commerciale di cui ora mi sfugge il nome. Stavamo tornando a casa ma nell’atrio, all’improvviso, entrò un ragazzo. Era giovane, molto giovane. Pallido e altro, vestito da militare. Quelli furono gli ultimi ricordi miei, dopo ho solo fumo, schegge e sangue. Mia madre era morta, crivellata da tre colpi esplosi dall’arma di quel ragazzo. Fu un duro colpo per me e completamente incredulo e sotto shock, toccai il cadavere di mia madre. Per pochissimi istanti ebbi una visione in cui lei era viva e non eravamo al centro commerciale ma ad Arcadia, a fare una passeggiata: era l’alternativa che avevo proposto a lei anziché andare al centro commerciale. Allora non lo sapevo, ma avevo risvegliato il mio potere. L’unica cosa che ho compreso quel giorno è che, benché abbia visto morire mia madre per mano di uno squilibrato, non volevo più fare il profiler ma lo psicologo per aiutare le persone che, come me, dovevano superare un trauma.”
Le ragazze tacquero per un istante
“Mi spiace. Dico davvero.” commentò Max
“Per questo Max, cioè la Max della tua realtà, è venuta da te?”
Robert fece le spallucce
“Non so. Mi ero fatto una discreta fama in Seattle ma so solo che quando venne da me era una fotografa affermata con una grave sindrome depressiva e che ho potuto aiutarla al meglio.”
Max si sentiva, ancora una volta, spogliata di una intimità che non era davvero sua.
“Senti Robert avrei almeno altre cento domande ma vorrei chiederti di cominciare. Voglio chiudere questa storia e aiutare me e la tua Max.”
Robert sorrise e la invitò ad alzarsi.
Si era tolto il cappotto e indossava un paio di pantaloni comodi invernali e un maglione grigio perla ma dal polso vide chiaramente sbucare il suo bracciale rosa assieme a quello blu dell’altra Max.
“Prima di cominciare, voglio essere sincero con te: quello che affronterai sarà devastante. Ti farà a pezzi e ti farà dubitare di te. Ti spezzerà, mentalmente e fisicamente. Ma se supererai tutto questo, sarai più forte che mai.”
“Non ho paura.” rispose con decisione Max
“Saranno quattro. Quattro realtà che reggono tutti i fili, esclusa la tua ovviamene. Quattro realtà che dovrai visitare e distruggere dall’interno. Le altre seguiranno a ruota. Senza distruggere tutte e quattro quelle realtà, tutto questo sarà inutile.”
“Lo farò.”
Robert sembrò sul punto di aggiungere altro ma non lo fece. Chloe, invece, le strinse teneramente la mano.
“Resta pure seduta.” disse Robert, sedendosi a sua volta sul divano “Sai già cosa dobbiamo fare ora. Chloe? Assicurati solo che non cada di faccia sul tavolino.”
Chloe fece una smorfia tra il divertito e il preoccupato
“Ci vediamo dopo Max” le disse, baciandola sulla guancia
Poco dopo, fu buio di nuovo.
Di nuovo quel portale di luce gialla e accogliente
Robert era di fianco a lei, serio come non lo era mai stato
“Sei sicura? Te lo ripeto Max: non sarà facile. Due realtà sono molto dure da affrontare, altre due saranno più lievi. Questa che ho scelto, che hai già provato ad attraversare, è una delle due più difficili ma, se supererai questa, il tuo cammino sarà agevolato dalla forza che ti darà. Non sei obbligata, puoi ancora tornare indietro.”
Scosse la testa con vigore
“No. Voglio farlo. Devo farlo e non fallirò. Sono stufa che la mia vita sia condizionata dal mio potere e dalle scelte che ho fatto e potrei fare. Voglio la mia vita, i miei errori e la mia pace tutta per me.”
Robert annuì
“Bene. Andiamo allora.”
Si mise dietro di lei, adagiando delicatamente una mano sulla sua spalla destra.
“Quando sei pronta, Max.”
Inspirò.
Sentiva che questa volta sarebbe stata dura, difficile e complicata.
Ma era solo un primo passo verso l’ultima avventura della sua vita.
Tutto quello che era iniziato un anno fa stava per finire.
Tutto finisce.
Alzò lentamente la mano destra.
Si sentiva pronta come non mai e risoluta.
“Andiamo.“ disse
Sfiorò con le dita della mano la superficie calda e giallastra e stavolta non vi furono scariche, ma un calore inebriante.
Poi, un lampo bianco l’avvolse.
   
 
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