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Autore: Dk86    15/09/2009    2 recensioni
Dal tramonto all'alba, sei maghi verranno toccati dall'intervento di altrettante entità; e forse, grazie a loro, riusciranno a comprendere meglio la propria esistenza.
Crossover con "Sandman" di Neil Gaiman.
La storia si è classificata prima al quarto concorso di "Anonima Autori".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Black, Bellatrix Lestrange, Narcissa Malfoy, Tom Riddle/Voldermort
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Qualche riga di premessa: prendo per scontato che tutti conosciate l’universo potteriano. Dato che invece probabilmente non avete mai sentito parlare di Sandman, volevo fornire due parole di spiegazione a riguardo. Ovviamente ho cercato di fare in modo che anche chi non conoscesse le vicende di Sogno e della sua famiglia potesse leggere questa storia, ma nel caso qualcosa vi risulti strano o incomprensibile fate riferimento a questa premessa.
Sandman è una serie a fumetti nata dalla penna dell’inglese Neil Gaiman, che racconta la storia degli Eterni, una disfunzionale fratellanza di personificazioni antropomorfe che sono proprio ciò che il loro nome suggerisce. In ordine di anzianità abbiamo: Destino, Morte (rappresentata come un’allegra ragazza un po’ goth), Sogno, Distruzione (il “fratello prodigo”, che ha abbandonato la famiglia qualche secolo fa e che ora viaggia per l’universo in solitaria), Desiderio e Disperazione (una coppia di gemelli) e la più piccola, Delirio, che un tempo era Delizia. Il loro compito è appunto far sì che ciò che ognuno di loro rappresenta sia adeguatamente presente nell’universo; Sogno creerà incubi e visioni notturne, Morte sarà presente alla dipartita (e alla nascita) di ogni essere vivente, Desiderio farà sbocciare la passione fra le creature e così via. Ovviamente il tutto è molto più complesso di quanto queste mie righe facciano supporre. Vi invito perciò a leggervi il fumetto in questione per approfondire meglio il discorso. E ora, vi lascio alla storia!




LA NOTTE ETERNA

Dietro i vetri sporchi della cabina telefonica il sole stava calando. Narcissa si ritrovò a fissare l’enorme globo solare che affondava lento in fondo alla strada, senza la più pallida idea di come fosse finita lì. Un suono metallico accanto all’orecchio le strappò un urlo; si voltò, e vide che reggeva in mano una cornetta. Con violenza la calò sulla forcella, come se fosse stata un rettile velenoso. Fece un respiro profondo, tentando di scacciare la nebbia ferrosa che le avviluppava il cervello; l’odore acre di chiuso e urina della cabina le invase le narici, facendola tossire. Convulsamente si portò la mano destra al volto, cercando di filtrare quella puzza nauseabonda, e nel farlo si accorse di stare stringendo in mano un foglietto appallottolato. Con un gemito sorpreso lo spiegò, e fissò per qualche secondo le cifre sulla carta, vergate con una calligrafia simile ma non identica alla sua.
Una frase, pronunciata da una voce che non sentiva da tanto tempo, le attraversò la mente.
“Se mai un giorno deciderai che varrà di nuovo la pena ascoltare ciò che ho da dirti, ma non vorrai guardarmi in faccia mentre lo farai, chiama questo numero”.
Lei non le aveva rivolto la parola. Ma aveva comunque accettato quel biglietto, conservandolo per tutti quegli anni.
Da quando suo marito era stato recluso ad Azkaban e suo figlio le era stato portato via secondo la volontà dell’Oscuro Signore, Narcissa aveva dei momenti di vuoto sempre più frequenti. Spesso si ritrovava in una delle stanze da bagno, o in cima alla torre nord, oppure nel frutteto senza la minima idea di come fosse arrivata lì né di che cosa avesse intenzione di fare. Il pensiero di Lucius e Draco le fece inumidire gli occhi ormai permanentemente gonfi per il pianto e la stanchezza.
Dopo tutto quel tempo dormire da sola in un letto enorme, in una stanza enorme, in una casa enorme, la terrorizzava nell’intimo.
Con stizza strinse il pugno che stringeva il foglietto consunto fino a piantarsi le unghie ben curate nella carne del palmo. Ma non lo gettò; anzi, lo lasciò cadere in una delle tasche della veste, stando bene attenta a non perderlo. Poi, senza preoccuparsi che qualcuno potesse vederla, si Smaterializzò, diretta verso il freddo e l’oscurità della propria dimora.
In fondo alla via il sole scomparve del tutto al di là dell’orizzonte. Il crepuscolo era iniziato.


“È tutto. Siete congedati”.
Dalla sala del trono di Colui-che-non-deve-essere-nominato ci fu un fuggi fuggi generale, quantomeno dopo un ultimo inchino di circostanza. Nell’ultimo periodo il Signore Oscuro si era dimostrato più irritabile e malvagio del solito, e bastava anche solo una parola di troppo o un piccolo errore nell’esecuzione dei suoi ordini per ritrovarsi colpiti da un Crucio o da qualcosa di peggiore. Nessuno, nemmeno coloro che più erano vicini a lui, sapevano perché lo stregone fosse preda di quell’ira.
In fondo, per lui rivelarlo sarebbe stato troppo imbarazzante.
“Così non va, Tom” esordì la ragazza in nero, spuntando fuori da dietro il minaccioso trono che si ergeva in tutta la sua austera malignità al centro della stanza.
Come fosse riuscita ad accedervi senza il permesso del Signore Oscuro stesso, non era dato saperlo.
"Così non va proprio” ripeté lei, sul volto latteo e sbarazzino un’espressione di rimprovero, anche se lo sguardo che brillava nei suoi occhi scuri lasciava supporre che in realtà si stesse divertendo parecchio “Mi stai facendo fare un mucchio di straordinari in questi giorni, lo sai? Come se già il mio lavoro non fosse abbastanza pesante!”.
Voldemort sospirò, alzando gli occhi rossi verso il soffitto. “Per l’ennesima volta, si può sapere che cosa vuoi da me?” disse. Le prime volte lo stregone aveva scelto un approccio molto più minaccioso, ma aveva imparato ben presto che la giovane donna non sembrava assolutamente impensierita da frasi ad effetto o da inutile agitarsi di bacchetta: quando infatti aveva cercato di liberarsene con un Avada Kedavra ben piazzato, non era riuscito ad ottenere nemmeno un innocuo spruzzo di scintille. Sembrava quasi che su di lei qualsiasi magia si rifiutasse di funzionare.
Lei si avvicinò, con passi rapidi ed eccitati. Voldemort si fece un po’ indietro, cercando di non dare a vedere che arretrava: sarebbe stato un duro colpo per la sua reputazione, se qualcuno avesse scoperto che aveva paura di una ragazza.
Beh, forse paura era un termine troppo forte. Diciamo che la rispettava. La rispettava parecchio.
E la odiava, anche. Dal suo punto di vista, qualsiasi creatura vivente avrebbe dovuto inginocchiarsi tremante ai suoi piedi – sì, anche quelle non dotate di ginocchia – ed obbedire ciecamente ai suoi ordini, magari corredando il tutto con qualche singhiozzo di puro terrore.
Non si sarebbe tenuto tra i piedi Codaliscia per tutto quel tempo, altrimenti.
"C’è una cosa che non avevo ancora provato a chiederti, in effetti…” disse lei, fissandolo con il volto inclinato di poco verso la spalla sinistra. I suoi capelli le incorniciavano la fronte in una deliziosa cascata nera, e al collo le brillava un grosso pendente, forse d’argento. “Posso provare il tuo trono, almeno una volta?”.
"Certo che no” rispose lui in un borbottio a malapena udibile.
Dannazione, nessuno poteva neanche solo pensare di potersi avvicinare al suo scranno! E invece, macché: la misteriosa ragazza aveva già dato la sua scalata al poggiapiedi e si era appollaiata in cima con aria piuttosto soddisfatta.
"E ti capita di stare seduto qui anche cinque, sei ore al giorno, Tom?” domandò lei, con il tono di chi sta facendo conversazione sopra un tavolino imbandito a tè e pasticcini “Non credo che io riuscirei a resistere, è così scomodo! Mai pensato, che so, di metterci un cuscino?”.
"Sbaglio o ti avevo detto che non avevi il permesso di poterlo provare?” fece Voldemort di rimando.
La ragazza alzò brevemente gli occhi scuri verso il soffitto, come se stesse pensando alla risposta migliore da dargli. Poi si alzò sulle gambe magre e saltò a terra, proprio davanti a lui.
"Hai ragione, ti chiedo di scusarmi” disse lei “D’altronde, questa è casa tua, per quanto orridamente stereotipata per uno stregone malvagio possa essere. E non avevo intenzione di mancarti di rispetto”.
L’Oscuro Signore annuì suo malgrado: era piuttosto soddisfatto di essere riuscito a tenere testa alla ragazza in nero almeno una volta. “E ti pregherei anche di non chiamarmi più con quello squallido nome Babbano” aggiunse, approfittando del momento di debolezza dell’interlocutrice.
"E perché?” chiese lei “È quello il tuo nome. Voldemort è solo uno pseudonimo che ti sei scelto; e uno pseudonimo piuttosto sciocco, a mio parere. Andiamo, un anagramma! Sono cose che non fanno più nemmeno i bambini!”.
Lo stregone stava per rispondere in tono furibondo alla provocazione, ma riuscì a controllarsi. "In effetti è proprio allora che l’ho scelto. Quand’ero bambino" spiegò, a denti strettissimi.
"E c’è un’altra cosa che continuo a chiedermi" aggiunse la ragazza, assorta, come se la frase pronunciata da Voldemort non fosse mai esistita, tant’è che lui arrivò a chiedersi se davvero fosse uscita dalle sue labbra sottili o fosse rimasta a galleggiare in qualche angolo delle sue corde vocali.
"Sarebbe?" disse lui, incrociando le braccia sul petto magro. Aveva finalmente preso una decisione per liberarsi del fastidioso problema: di solito non era un grande amante dell’utilizzo della forza bruta, ma dato che sulla pallida donna le magie non volevano saperne di avere effetto, Voldemort era sicuro che cinque minuti in compagnia di Tiger, Goyle e Macnair avrebbero sicuramente sortito un effetto migliore di una scarica di Crucio.
Poi però lei parlò, e i suoi propositi si dissolsero come la pelle morta ed abbandonata di un serpente che si sfalda rinsecchita sotto i colpi di una raffica di vento.
"Mi chiedo perché, nonostante io ti venga a trovare ormai da qualche sera, tu ancora non mi abbia chiesto chi sono e perché vengo ad importunarti" disse lei. Qualcosa era impercettibilmente cambiato nella sua voce, nel suo sguardo scuro e nel suo contegno; era come se Voldemort si fosse accorto solo in quel momento che la sua interlocutrice possedeva una dignità ed un’autorità che per qualche strano motivo erano sempre state occultate ai suoi occhi. O forse era lui che si era sempre rifiutato di vederle.
"Non riesco a capire che cosa intendi dire..." rispose lui, cercando di mantenere un tono di voce il più sicuro ed indignato possibile. Il pensiero che non era possibile che una sbarbatella vestita come una Babbana della peggior specie mettesse in difficoltà l’Oscuro Signore ronzava ancora nel suo cranio, ma era come se non riuscisse a focalizzarlo più con chiarezza, come se lo guardasse attraverso un vetro sporco ed appannato.
"Bene" fece lei, sorridendo. Non era un sorriso per nulla rassicurante "Allora dimmi come mi chiamo e perché sono qui".
"Ehm, ecco..." borbottò lui, preso in contropiede. Gli scintillii di onice degli occhi di lei continuavano a fissarlo implacabili.
"Sai, poco tempo fa sono andata a prendere in custodia un simpatico vecchietto. Portava in testa un cappello buffo, e pensa un po’, me l’ha fatto persino provare!". La ragazza rise, sinceramente divertita. Un brivido di freddo argenteo percorse la schiena di Voldemort. "È stato molto divertente e ironico. Ha preso il mio arrivo con filosofia, come se mi stesse aspettando e non vedesse l’ora di fare la mia conoscenza; e prima che lo accompagnassi lì dov’era destinato ad andare, mi ha chiesto una cosa. Mi disse: ‘C’è una persona che mi piacerebbe che tu conoscessi. Potresti fargli visita, così che capisca che ci sono cose ben peggiori di te?’. E lo ammetto, questa sua richiesta mi incuriosì. Così sono venuta una volta a trovarti, e la cosa si è rivelata divertente; perciò ho deciso di tornare più spesso. Immagino che tu conosca la persona di cui sto parlando: si chiama Albus Silente".
E finalmente Voldemort capì chi c’era davanti a lui. "Tu menti!" ruggì, ma senza l’intima convinzione di voler spaventare la sua avversaria. "Le tue insolenze mi hanno stancato. Mi bastano pochi secondi per far accorrere qui tutti i miei Mangiamorte!". La vuotezza della sua minaccia risuonò palese perfino alle sue orecchie.
La donna in nero abbozzò un inchino. Se avesse indossato un cappello a cilindro, se lo sarebbe tolto in segno di rispetto. "Prego, provaci" lo sfidò, alzando gli occhi scuri e beffardi. "Ma temo che in questo momento i miei fratelli e le mie sorelle si stiano interessando a loro: credo che Delirio sia particolarmente attratta da Bellatrix Lestrange; Sogno sta visitando le visioni notturne del giovane Malfoy, e in quanto a Disperazione, dovrebbe aver trovato terreno fertile in sua madre. Un po’ di dispiace per lei, ma d’altronde mia sorella ha il suo posto nell’universo e il suo compito da svolgere esattamente come ce l’abbiamo tutti noi...".


Mi ami?
Le parole galleggiano nell’aria. Nessun altro può vederle, ma io sì. Sono davveeeeeero brava. Già.
La donna dai capelli scuri e dalle palpebre pesanti è sdraiata scompostamente su una branda. Non dorme e se ne sta lì con gli occhi rivolti verso il soffitto. Mi piacciono i suoi occhi, ogni volta che ci guardo dentro ci vedo un pezzettino di me che diventa sempre più grosso.
E tutto ciò che lei pensa è
Mi ami?
In realtà i suoi pensieri sono molto più complessi: un sacco di cose strane attorcigliate tra loro, strette strette come agnellini impauriti che si ammassano nell’angolo più buio di una stalla, ma per esprimerli bastano due parole. E queste parole sono
Mi ami?
Il giorno in cui lei venne da me io c’ero, e c’era anche mia sorella maggiore. La donna era sdraiata su un letto, e intorno c’erano un sacco di persone che si agitavano come degli insetti impazziti quando alzi un sasso, e c’era un sacco di bianco e di rosso e di nero davanti agli occhi della donna, e poi da lei era uscito qualcosa che doveva essere vivo ma invece era morto. Da lei, che era viva e invece avrebbe voluto non esserlo.
Mia sorella maggiore aveva scosso la testa e aveva portato via con sé il neonato, e da quel giorno la donna era diventata mia. E io non la darò a nessuno.
La sua mente mi piace. È come una scala.
È
una
scala
davvero
lunga lunga,
con un sacco di
gradini alti e ripidi.
La donna se ne sta ai piedi
dell’ultimo scalino e guarda verso
l’alto, perché vorrebbe salire, ma crede
di non essere forte, di non essere degna, di
(Mi ami?)
non essere amata.
E in cima alla scala c’è lui.
Lui non mi piace. In parte è anche mio, perché in parte è di tutti noi, tranne che di Sogno.
Però non mi ci avvicino quasi mai a meno che non sia proprio necessario. Il suo odore segreto è cattivo.
Ogni cosa ha un odore segreto, sapete? E solo io posso sentirlo, perché io sono la migliore. A volte faccio in modo che anche delle persone possano annusare gli odori segreti delle cose, perché è bello. Però di solito quelle persone finiscono per essere completamente mie dopo che ho dato loro quel dono, chissà perché.
Non c’è un odore segreto che sia uguale ad un altro. I rinoceronti profumano di telefono, per esempio, e i telefoni sanno di gelato al limone.
L’odore segreto della donna sulla branda è strano e triste, come un cane lasciato fuori dalla porta di casa quando sta piovendo e lui guaisce e gratta gratta grattagrattagratta fino a consumarsi gli artigli.
Quello della cosa in cima alle scale invece è cattivo. Sa di oggetti lasciati per molto tempo ad ammuffire in un sottoscala polveroso, della pelle morta abbandonata dai serpenti, del buco di un dente marcio che è caduto e ha messo a nudo la gengiva e continui a passarci la lingua perché sai che in quel punto dovrebbe esserci qualcosa ma non c’è, di un bisbiglio roco sussurrato nel cuore della notte attraverso la cornetta di un telefono…
Un telefono che non profuma di gelato al limone.
Alla donna che sa di cane triste tutto questo non interessa. L’odore segreto di lui è nauseante, ma lei non può sentirlo. A volte penso che cosa succederebbe se io per caso glielo facessi sentire, e allora magari lei correrebbe via dai piedi della scala con le dita strette strette strette intorno al naso, però forse così non sarebbe più mia, poi. O peggio.
Lei continua a guardarlo. Anche ora che lui non c’è, lei lo vede davanti ai suoi occhi così chiaramente e lui è bianco e rosso ma soprattutto è neroneroneroneronero che sembra che un milione di pantere abbiano sputato palle di pelo all’interno della sua anima.
Mi piacciono le pantere, davvero. Il loro odore segreto è di idromassaggio.
Anche l’idromassaggio mi piace, adoro le cose che fanno le bolle, e ogni tanto anch’io faccio le bolle, oppure lascio che il mio corpo diventi leggero e si disperda nell’aria ed è molto bello ma anche strano e un po’ triste.
Mi ami?
Lei non gliel’ha mai chiesto. Non lo pensa nemmeno quando lui è presente perché anche lui riesce a vedere le parole che galleggiano nell’aria ma non bene come me perché io sono la migliore.
Se lui non c’è però lei ci pensa in continuazione, e cerca di capire come potrebbe chiederglielo ma ogni volta si dà della stupida e si strugge nel pensiero di lui come una giovinetta al primo amore che non sa come rivelare i propri sentimenti all’oggetto dei suoi sospiri perché oh lui potrebbe anche non provare nulla del genere per me e se mi rifiutasse credo che ne morirei.
Morire non ha proprio un suo odore segreto. Morire ha lo stesso odore di mia sorella maggiore, e lei profuma soltanto come se stessa.
Lui non vuole morire perché morire è la cosa che teme di più e lei vorrebbe morire per lui perché lui è la cosa a cui lei tiene di più. I miei fratelli gemelli lavorano sempre in coppia, a loro piace così e ogni tanto anch’io mi unisco a loro quando fanno delle cose divertenti, ma oggi sono qui da sola e guardo una donna che pensa solo ad una cosa, e questa cosa è bianca e rossa e nera come ciò che l’ha ferita in passato e che l’ha fatta sentire morta, ed è per questo che ogni volta lei pensa
Mi ami?
Sono sdraiata su una branda, adesso. Alzo lo sguardo e vedo una ragazzina con gli occhi sbagliati che mi fissa famelica e mi chiedo che cosa ci sia che non va; finché non capisco che quella ragazzina sono io e che la cosa accasciata scompostamente è solo un involucro secco come quello delle cicale in luglio, che una volta poteva dare la vita ma che ora è solo grigiore e tristezza, e davanti a me c’è solo il viso
(della cosa in cima alle scale)
dell’Oscuro Signore che mi fissa e io mi ci avvicino e gli sussurro
Mi ami?
Tu… mi ami?

Nessuno risponde.
Forse, il freddo aumenta.


"Questo sarà l’anno scolastico migliore di tutti!”. Blaise alzò il calice di succo di zucca al soffitto, subito imitato da tutti gli altri: Theo, Millicent, Pansy, Daphne… Anche Vincent e Gregory, dopo qualche secondo, capirono che dovevano levare i loro bicchieri.
Draco, com’era ovvio, si unì per ultimo al brindisi. “A noi!”, disse, sorridendo. “Al nostro ultimo anno in Serpeverde!”.
L’annuncio del ragazzo fece inavvertitamente cadere un’aura di malinconia sul gruppetto. “È vero…”, mormorò Daphne, guardandosi intorno. “Ci pensate? Dopo sette anni a Maggio dovremo lasciare per sempre questo luogo…”.
Blaise allungò la mano libera e le scompigliò i capelli. “Ne parli come se dovessimo morire, Daf!”. Ridacchiò, prima di levare un’altra volta il calice e berne il contenuto in un sorso. “Ma pensateci bene: una volta che saremo fuori di qui potremo fare tutto quello che vorremo, senza che qualcuno degli insegnanti ce lo impedisca. Finalmente saremo considerati adulti, e non più dei mocciosi che non sono capaci nemmeno di tenere in mano una bacchetta!”.
"Senza contare”, riprese Pansy, un ghignetto sul viso. “Che non ci toccherà più vedere ogni giorno quei pezzenti dei Tassorosso e quei saccentelli dei Corvonero!”.
"Già, e non ti dimenticare di Potter”, disse Theodore, con tono quieto e tranquillo come suo solito. “Di certo la sua presenza e quella dei suoi fantastici amichetti non è qualcosa che mi rallegri la giornata”.
"La cosa importante, alla fine”, concluse Millicent, staccando con cura un acino dal grappolo d’uva nel cestino posto davanti a lei e gettandoselo in bocca. “È che non ci perdiamo di vista, no? Oh, ecco i gufi con la posta”.
Dalle altre finestre della Sala Grande, infatti, stava sciamando uno stormo di rapaci, ognuno con una lettera nel becco o un pacchetto stretto fra gli artigli. Proprio davanti a Draco si posò Muninn, uno dei due gufi reali gemelli della sua famiglia, che gli porse una missiva sulla cui busta spiccava, vergata in inchiostro verde pallido, la calligrafia aguzza ed elegante di sua madre. Senza perdere tempo il ragazzo strappò la lettera all’uccello – che reagì con uno stridio di protesta – e la aprì.

Mio amato figlio,
ho saputo che sei stato scelto come Capocasa per Serpeverde. Io e tuo padre siamo davvero fieri di te, e siamo sicuri che continuerai a tenere alto l’onore della famiglia Malfoy anche dopo che ti sarai diplomato. Quando tornerai a casa per le vacanze di Natale troverai ad attendere un regalo che sono sicura apprezzerai moltissimo. Tuo padre l’ha fatto produrre su misura per te.
Ricordati che ci amiamo e che ti siamo sempre vicini,
tua madre Narcissa

La commozione salì per un attimo fino agli occhi di Draco, che però fu lesto a ricacciarla indietro. Di certo non poteva permettere che i suoi amici – né in effetti chiunque altro – lo vedessero con le guance rigate dalle lacrime.
"È da parte di tua madre, vero?”, domandò Pansy, curiosa come sempre. “Che ti ha detto?”.
Il ragazzo ripiegò il foglio di pergamena e se lo infilò in una delle tasche della divisa. “Niente di importante”, rispose in tono fermo. Dentro di sé, però, riusciva a sentire un piccolo globo caldo irradiare felicità all’altezza dello stomaco: era insieme ai suoi amici, sua madre e suo padre stavano bene e lo amavano e nessuno si preoccupava di Colui-che-non-deve-essere-nominato.
Tutto era perfetto. Nulla era fuori posto.v Perlomeno finché non si voltò verso il tavolo degli insegnanti. La prima cosa a colpire la sua attenzione fu lo sguardo di Piton: l’uomo aveva sempre avuto gli occhi scuri, ma quel giorno sembravano due pozzi bui, senza che si riuscisse a distinguere fra pupilla, iride e sclera.
Seduto alla sua destra, con un sorrisetto sardonico perso fra la barba argentea, c’era Albus Silente.
La sfera di felicità nel corpo di Draco evaporò, lasciando spazio al freddo della consapevolezza. Non è possibile, pensò fin troppo lucidamente. Silente è morto. Lo ha ucciso Piton, e poi io e lui siamo fuggiti, e…
Si voltò di nuovo verso i suoi amici, cercando un appiglio alla realtà; ma era come guardarli attraverso una fotografia: le loro figure erano spente e distanti, e anche se muovevano le labbra, Draco non riusciva ad udire una parola di ciò che dicevano. Cercò di attirare la loro attenzione, ma loro continuavano a discutere e ridere fra di loro, come se lui non esistesse. Infilò nella tasca della divisa una mano tremante, ma ciò che ne trasse non fu la lettera di sua madre, bensì delle scaglie di pergamena vecchie e sbiadite, che gli si polverizzarono fra le dita.
"Pare che questo settore sia giunto a corruzione più rapidamente di quanto mi sarei aspettato”, proferì una voce dietro di lui.
Draco si voltò. “P-professor Piton?”, mormorò, con un filo di voce.
La persona che si trovava di fronte a lui era l’insegnante di Pozioni, ma allo stesso tempo non lo era; oltre ai buchi neri al posto degli occhi, la sua pelle – solitamente olivastra – era tanto pallida da sembrare bianca, e il suo tono di voce era molto più lento, profondo e solenne.
"Ho assunto questo aspetto perché tale era la tua volontà, Draco Malfoy”, spiegò la figura, mentre i connotati del suo volto cambiavano, diventando sempre meno simili a quelli di Piton, fino a stabilizzarsi in un viso dalle linee dritte e affilate. “Ma con il proseguire del crollo di questa frazione del mio regno, non ho più ragione di mantenerlo”.
"C-chi diavolo sei?”. Il ragazzo non si preoccupò più di trattenere le lacrime. “Perché mi stai facendo questo?”.
L’altro continuò a fissarlo impassibile. “Io sto solo tenendo fede al mio compito. Tutto ciò che ci circonda, però, è stato creato da nient’altro che la tua volontà”. La figura fece una breve pausa. Attraverso gli occhi lucidi, Draco notò che non stava respirando, né che all’apparenza aveva bisogno di sbattere le palpebre. “Siamo in un sogno, dopotutto”.
"Un sogno?”, ripeté Draco. In fondo, tutto avrebbe senso, si ritrovò a pensare. E in quel momento fu colpito dal dolore della realtà, così improvviso ed intenso da fargli mancare il fiato e bucargli il cuore. “E perché devo fare dei sogni del genere?”, gridò, la sua ira rivolta verso lo sconosciuto uomo bianco dagli occhi neri. “Perché devo essere costretto a provare felicità se poi scopro che è fasulla e mi viene strappata in questo modo?”.
Ancora una volta, l’altro non si scompose. “Perché questo è ciò che desideri. Brami questo tipo di gioia, ma allo stesso tempo ritieni che sia impossibile realizzarla. Per questo motivo la nascondi. Ma nei sogni, nulla può rimanere un segreto”. L’uomo si avvicinò a Draco e si chinò, così che i suoi pozzi di tenebra fossero allo stesso livello degli occhi del ragazzo. “Qualche tempo fa dissi ad una persona che quando si sogna a volte si ricorda qualcosa, ma che quando ci si sveglia si dimentica tutto”. Era impossibile capire quali espressioni si aggirassero dietro lo sguardo di quel misterioso individuo, ma per un attimo Draco fu quasi certo di avere scorto una scintilla di qualcosa molto simile a pietà. “Forse, per una volta, si può fare un’eccezione”.
Draco si svegliò, nella sua stanzetta spoglia e grigia nella roccaforte del Signore Oscuro. Il sogno che aveva appena avuto era impresso nella sua mente in maniera vivida. Solo un particolare era confuso: un uomo pallido dai capelli neri che gli aveva parlato, ma non riusciva proprio a ricordare che cosa gli avesse detto…
Nella sua stanzetta spoglia e grigia, nel silenzio della notte, Draco iniziò a piangere.


Il dono che Lucius Malfoy aveva fatto alla sua novella sposa prendeva il nome di Sala degli Specchi: come il nome suggeriva, si trattava di un’immensa sala da ballo dalle pareti ricoperte di superfici riflettenti. Sei così meravigliosa che anche cento tue immagini mi sembrano poche, le aveva spiegato lui, e Narcissa in quel momento si era resa conto di essere innamorata.
Ora che però nessuno tranne lei popolava la casa, quel luogo – in cui i Malfoy avevano tenuto feste e ricevimenti con le migliori famiglie della società magica purosangue inglese – era solo un triste deserto fatto di vetro. Narcissa vi si aggirava, ma non vi cercava dell’acqua. Tutto ciò che voleva era un segno della presenza di suo marito, di suo figlio, qualcosa che le impedisse di sprofondare di nuovo nell’abisso di dolorosa solitudine. La mano le corse in un gesto spasmodico alla tasca della veste doveva aveva infilato il numero di telefono, e altrettanto rapidamente ne uscì.
"Dove siete?”, mormorò. A causa della gola riarsa tutto ciò che le uscì dalla bocca fu un rantolo. Nessuno rispose; solo decine, centinaia di donne tutte uguali dallo sguardo disperato e le occhiaie profonde si fissarono a vicenda.
Narcissa si avvicinò ad uno degli specchi. “È tutto inutile, tanto”, si lamentò con il suo doppio oltre il vetro. “Non torneranno mai più”. L’altra Narcissa non le diede la soddisfazione di un contraddittorio; ma in compenso dalle profondità dello specchio iniziò ad emergere qualcosa, come una fotografia in fase di sviluppo. La donna fissò meravigliata l’immagine che prendeva consistenza, fino a concretizzarsi nella figura di suo marito.
"Lucius…”, mormorò lei, poggiando le dita sulla superficie lucida. Ma era ovvio che lui non potesse sentirla: quella era una visione dell’uomo che amava più giovane di quasi vent’anni, nel periodo in cui si ostinava a tenere i capelli raccolti in una coda di cavallo – Dio, quante volte lei gli aveva ripetuto che stava meglio tenendoli sciolti? – e fissava con aria apprensiva quella che Narcissa dopo un paio di secondi di incertezza riconobbe come la porta della loro stanza da letto.
L’uscio si spalancò dopo qualche secondo, e ne emerse una Guaritrice del San Mungo dai corti capelli grigio ferro e l’aria efficiente. Lucius fece un passo avanti. “Allora, come sta?”.
La Guaritrice annuì. “Tutto è andato per il meglio, signor Malfoy”. Si scostò dalla porte per permettere al padrone di casa di passare. “È un maschio”, aggiunse, mentre Lucius entrava nella stanza.
Sdraiata nel letto c’era una giovane donna bionda, che stringeva al petto – Narcissa non riuscì ad evitare di scoppiare in lacrime – un neonato. “Guardalo, quanto è bello”, disse la Narcissa-ragazza, tendendo il bimbo con braccia deboli e provate.
Il marito fu subito accanto a lei. “Non devi fare sforzi, Cissa”, replicò, prendendo il figlio fra le braccia. “Hai ragione, è davvero bellissimo”.
"Hai già pensato al nome da dargli?”, domandò Narcissa. Era distrutta, ma sorrise con dolcezza.
"Beh, credo che mia madre si aspetterebbe che io lo chiamassi Abraxas”, rispose lui. “Ma io pensavo a Draco”.
"Draco...”, mormorò lei, gli occhi fissi sul bambino. “È un nome forte...”.
E così com’era giunta, la visione sfumò, lasciando il posto ad una Narcissa con le labbra spalancate e gli occhi umidi. “No...”, bisbigliò contrariata. “No, no, no, no, no, no!”. Il tono di voce si alzò progressivamente, trasformandosi in uno strillo, e la donna si avventò con i pugni contro lo specchio. “Ridammelo! Ridammelo!”. Il vetro si crepò, ferendole le mani, ma lei neppure provò dolore.
Lo specchio immediatamente a destra, però, iniziò a colorarsi e a dipingere un altro miraggio. La scena era ancora ambientata nella stanza da letto dei Malfoy, ma si svolgeva di notte; Narcissa occupava da sola il letto, agitandosi in un sonno leggero e nervoso. Nella culla verde e argento accanto a lei Draco invece riposava tranquillo.
Non fu il lieve schiocco della Materializzazione a destare Narcissa, bensì il pianto di suo figlio, spaventato dal rumore improvviso. La donna sobbalzò dopo aver aperto gli occhi; al centro della camera era apparsa una figura ammantata da una veste nera, con una maschera argentea sul volto. Narcissa scivolò dal letto e prese il figlio fra le braccia. “Ti ho detto mille volte di non...”.
Lucius si portò un dito alla feritoia fra le labbra della maschera. “Ssh”, intimò, togliendosi poi il volto posticcio. Gli strilli di Draco diminuirono fino a quietarsi, mentre il neonato di riaddormentava. “Scusa”, bisbigliò l’uomo, togliendosi la divisa da Mangiamorte e gettandola in un angolo della stanza come se fosse uno straccio infetto. “È che... è successo”.
"Cosa è successo?”, domandò Narcissa, avvicinandosi alla culla per posarvi il figlio.
"Il Signore Oscuro”, rispose Lucius. Il suo volto era molto più pallido del solito. “È stato sconfitto”.
La donna quasi si lasciò cadere dalle mani il figlio. “Cosa?”, domandò incredula, controllandosi a malapena per non gridare.
"È stato sconfitto”, ripeté il marito, come se nemmeno lui credesse alla proprie parole. “Era andato ad attaccare i Potter, visto che grazie a Minus aveva scoperto il loro rifugio. È riuscito ad uccidere James e la Sanguesporco, ma quando ha lanciato l’Avada Kedavra su loro figlio... La maledizione è rimbalzata indietro. Non so come o perché”.
"Davvero?”, chiese Narcissa, sull’orlo delle lacrime. “Non è uno scherzo?”.
Lucius si fece avanti ed abbracciò la giovane moglie. Odorava di sudore e di paura, ma si rilassò nella stretta di lei. “Non sono mai stato tanto serio”, mormorò.
"Dunque...”, bisbigliò lei, guardandolo dritto negli occhi. “Niente più missioni pericolose? Niente più notti insonni con la paura che non tornerai?”. Aveva quasi terrore ad ammetterlo a se stessa, ma non si era mai sentita tanto felice in vita sua.
I due si voltarono verso la culla. Draco, piombato di nuovo in un sonno profondo, si agitava piano, come se stesse sognando. “Mai più. Te lo prometto”.
L’immagine si dissolse piano dal vetro. Narcissa, muovendosi meccanicamente, con gli occhi vuoti ed un sorriso storto sulle labbra, si trascinò fino allo specchio successivo, attendendo che un altro dei suoi ricordi si manifestasse.


"Vattene!" Voldemort, tenendo in mano l’inutile bacchetta, tesa davanti a sé come se la ragazza fosse stato un vampiro e lui le stesse mostrando un crocifisso, stava cercando ancora una maniera per scacciare la fastidiosa ragazza in nero. "Vattene! Lasciami in pace!".
Lei sorrise, ed era un sorriso dolce e sincero, anche se lo Stregone Oscuro non si sentì per nulla rassicurato. "Perciò Albus aveva proprio ragione. Tu hai paura di me; sono io la cosa che tu temi di più...". Nella sua voce non c’era traccia di ironia e di sarcasmo. Stava semplicemente constatando quella che ai suoi occhi neri ed eterni era la verità. La ragazza fece un passo avanti.
Voldemort indietreggiò. E ancora. E ancora.
"Non è mia intenzione farti del male, non preoccuparti, Tom" disse lei, tendendo le mani con le palme aperte come a mostrare che era disarmata. Un altro passo indietro per Voldemort. "Non è nemmeno in mio potere infliggertene. Non è questo il mio compito". Il suo volto si fece di nuovo duro e terribile. "Ma Albus aveva ragione, nel dirti che ci sono cose peggiori di me".
Voldemort era ormai schiacciato contro la parete. Sudava freddo, e non riusciva a staccare i luciferini occhi rossi dalla ragazza in piedi davanti a lui. Non voleva chiederlo, non l’avrebbe chiesto, lei non poteva costringerlo...
"Per esempio?" domandò, con un filo di voce.
Lei sorrise, per l’ultima volta. "Per esempio, quello che viene dopo" disse Morte, prima di scomparire.
E il Signore Oscuro fu di nuovo solo, nella sua tetra reggia buia.


"Svegliati, Andy”.
Andromeda Black dormiva sempre con la testa sotto le coperte. Il tutto risaliva a quando da piccola sua sorella maggiore l’aveva convinta che nell’armadio della sua stanza vivesse un ghoul che aspettava solo che lei si addormentasse per saltare fuori e divorarsela in un sol boccone. Le ci erano voluti un paio d’anni per capire che il mostro non abitava nel suo guardaroba, bensì in soffitta e che soprattutto non aveva alcuna intenzione di mangiarla; ma l’abitudine di isolarsi dal mondo esterno nel caldo bozzolo delle coperte non le era mai passata.
"Forza, Andy, svegliati”.
Dolci tocchi le picchiettavano la schiena ad intervalli regolari, come se qualcuno le stesse facendo camminare due dita sul corpo. Lottando contro il dormiveglia, Andromeda si rese conto all’improvviso che c’era solo una persona al mondo che usava il vezzeggiativo ‘Andy’.
"Ted?”, domandò con un filo di voce. Non osò togliere la testa da sotto le coperte: se quella che stava vivendo era un’illusione, almeno che durasse il più possibile.
Le dita continuavano a tamburellarle la schiena; la donna poteva percepire la presenza del loro proprietario, seduto sul letto accanto a lei. “Allora sei sveglia, Andy”, disse, e la voce suonava proprio come quella di Ted.
Andromeda tacque per un lunghissimo momento. Riuscì a dare tregua alle lacrime con sorprendente facilità. “Non dovresti essere qui”, disse alla fine. “Lo sappiamo entrambi”.
Le dita si sollevarono. “È così che mi ricompensi, Andy? Con la freddezza?”, ribatté l’altro in tono risentito. “Io ho sfidato il pericolo degli alleati di Tu-sai-chi, ed è questo ciò che ottengo come ringraziamento?”.
"Tu non sei Ted”. La voce della donna era ferma e sicura. “Lui non farebbe mai qualcosa di tanto stupido”. Un’altra pausa di riflessione. “Dunque, chi sei? Il Signore Oscuro ti ha mandato ad uccidermi?”.
Da oltre le coperte si levò una risata acuta e argentina, che di certo non sarebbe mai potuta sgorgare dall’ampio petto di Fred. “Io sono tutto ciò che tu desideri, Andy. Né più, né meno”.
La donna si levò a sedere, togliendosi le coperte dal viso; la stanza da letto, arredata con i vecchi mobili ereditati dai Tonks e dalle pareti tappezzate di fotografie, era illuminata da un bagliore argenteo e soffuso, di cui non si riusciva a capire la fonte. Seduto accanto a lei, sulla parte di letto riservata a suo marito e che a Andromeda sembrava vuota da secoli, c’era il visitatore.
Era difficile capire se fosse un uomo o una donna; poteva essere entrambi, o nessuno dei due. Vestiva un elegante completo nero, che contrastava piacevolmente con la sua pelle diafana. Aveva un profumo dolce, estivo, lievemente intossicante, e fra le dita affusolate stringeva una lunga sigaretta accesa.
"La prego di non fumare, qui”, disse Andromeda in tono severo. Il rimprovero suonò buffo alle proprie stesse orecchie: nella sua stanza era entrato uno sconosciuto che si era appena finto suo marito – oppure era stata lei ad immaginarsi tutto quanto? – e tutto ciò che lei riusciva a dirgli era di spegnere la sigaretta?
Il visitatore, comunque, non si fece pregare: escluso un leggero sbuffo di fastidio con cui espulse il fumo che aveva nei polmoni, mosse le dita della mano destra in un gesto rapido, e da un attimo con l’altro non vi stringeva più nulla. “Dicevamo, Andy?”, disse, sfoggiando un sorriso malizioso.
Andromeda deglutì, mentre un brivido non proprio spiacevole le attraversava la schiena. È bellissimo e sa perfettamente di esserlo, pensò. “Per favore, eviti di chiamarmi in quella maniera. Inoltre, sarebbe cortese se quantomeno si presentasse, visto che non la conosco mentre a quanto pare lei conosce bene me”. Così bene da sapere come mi chiama mio marito nei momenti d’intimità, quantomeno, pensò, con un altro brivido.
Lo sconosciuto si lasciò andare ad un’altra risata, e nella mentre di Andromeda si agitarono sentimenti contrastanti. Avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, ma d’altra parte si ritrovò a pensare a come sarebbe stato posare le proprie labbra sulle sue, far scorrere le mani su quel corpo pallido, e poi…
La donna arrossì. Erano anni che non provava sentimenti di tale intensità, e si sentì in colpa: era come tradire Ted.
"Te l’ho detto: sono tutto ciò che puoi desiderare”, rispose lui o lei. “Puoi chiamarmi Desiderio, Andy… E dammi pure del tu”.
Andromeda stava per chiedergli di nuovo di non usare quel vezzeggiativo, ma ritenne di aver comunque raggiunto un buon compromesso; perciò scostò le coperte si alzò dal letto. Provò un improvviso senso di vergogna a mostrarsi in pigiama, con i capelli sfatti e senza nemmeno un filo di trucco di fronte a Desiderio. Il suo interlocutore era fisicamente così perfetto che l’avrebbe fatta sentire a disagio anche se fosse stata al meglio della sua forma; mentre tutto ciò che lei era in quel momento era una quasi cinquantenne annientata dalla solitudine. Ciononostante, per buona misura, si infilò la sua vestaglia migliore. “Dunque, Desiderio, posso sapere che cosa ci fai qui? Non te l’hanno spiegato che non è educato spiare una signora mentre dorme?”.
Desiderio accavallò le lunghe gambe magre. "Sono qui perché tu vuoi qualcosa. Ogni volta che nell’universo qualcuno desidera, io sono là".
Sembrava assurdo che una cosa simile fosse vera. Eppure Andromeda non dubitò nemmeno per un istante che quella non fosse altro che la pura verità. "Io...", la donna abbassò lo sguardo, fissandosi le mani e vedendole segnate e piene di rughe. Da quando era invecchiata così? "Io vorrei mio marito e mia figlia. Li vorrei qui, accanto a me", disse. "Ma finché il Signore Oscuro non cadrà, dovremo vivere nel terrore, senza sapere se potremo rivederci ancora...". Si lasciò cadere sul letto, con la testa fra le mani. "Buon Dio, nemmeno so se conoscerò mai il mio nipotino...".
Il tocco lieve di Desiderio le sfiorò una spalla. "Dunque desideri la tua famiglia", disse. Andromeda non poteva vederlo, ma sul suo volto perfetto c’era un sorriso malizioso. "E delle tue sorelle che mi dici, Andy?".
"Oh, per loro nemmeno esisto. Bella mi ucciderebbe senza esitare se mi vedesse, immagino. E in quanto a Narcissa…”. E qui la voce della donna si ruppe.
"Continua, ti prego. Spesso parlare fa solo bene". La voce di Desiderio era miele, ma il suo volto continuava a dire tutt’altro.
Andromeda sollevò gli occhi, che si diressero verso il comodino. Su di esso c’era un vecchio telefono nero a disco. "Stasera, mentre cenavo, ha iniziato a squillare. Non ho fatto in tempo a rispondere, e nemmeno io saprei spiegare perché, ma credo... credo che fosse lei". Si voltò verso Desiderio, che ora sorrideva angelico. "Ma è impossibile. Narcissa ha promesso a se stessa di non parlarmi mai più, sai? Anni fa... Beh, i miei genitori mi avevano imposto di sposare un uomo di nome Lucius Malfoy. Io però avevo già conosciuto Ted e mi ero innamorata di lui; sapevo che i miei non avrebbero mai approvato la nostra unione, visto che lui era povero e ancora peggio era Babbano per nascita. Così lasciai la mia famiglia, e Narcissa - che aveva preso il mio posto come promessa sposa di Malfoy - mi disse che non mi avrebbe più rivolto la parola. Prima di andarmene, però, le lasciai il numero di telefono dei Tonks, nel caso avesse voluto tornare sui suoi passi...". Scosse la testa, lasciando la frase in sospeso. "Ma avrei dovuto immaginare che non l’avrebbe fatto. Noi donne Black siamo fatte così, quando ci fissiamo su qualcosa nulla riesce a farci cambiare idea; e così io non mai più ripreso a dormire con la testa fuori dalle coperte nonostante avessi capito che non c’era nessun mostro nel mio armadio, mentre lei, anche ora che è rimasta tutta sola in quella grande e fredda casa, è troppo orgogliosa per rivolgermi la parola".
"Immagino che suo marito non l’abbia resa felice, allora", disse Desiderio. In realtà conosceva già la risposta a tutte le domande: d’altronde lui/lei e la sua dolce gemella lavoravano spesso insieme, e quasi mai avevano segreto l’uno per l’altra.
"Al contrario", rispose Andromeda. "Sono sicura che Lucius e Draco - loro figlio, sai - abbiano reso mia sorella immensamente felice...".


Quasi tutta la notte era trascorsa, e Narcissa aveva percorso l’intero perimetro della Sala, inseguendo il carnevale delle proprie memorie. Ormai per tornare al punto di partenza restavano soltanto due specchi.
Con il passare delle ore Narcissa aveva sentito rinascere in sé la speranza. Aveva assistito a ricordi allegri e ad altri malinconici ed agrodolci: la prima parola di Draco, la loro prima vacanza insieme in Romania, il giorno in cui per la prima volta si era staccato da loro per andare ad Hogwarts... Alcuni di essi li aveva perfino dimenticati, e si diede più volte della stupida per essersi lasciata scappare memorie tanto preziose.
Fu così che con completa fiducia si avvicinò al penultimo specchio. Ma questo le mostrò uno spettacolo radicalmente diverso dai precedenti.
Narcissa non si trovava nella sua casa, o in qualche altro posto a lei caro e familiare. Le costò qualche secondo per capire che si trattava di un luogo in cui era stata una volta sola: il quartier generale degli Auron al Ministero della Magia, in cui era stata chiamata con urgenza per accertamenti circa un anno e mezzo prima. Nel ricordo era vestita con un decoroso abito nero, ma si era truccata con evidente fretta, e una perla nera di mascara le brillava sulla guancia là dove una lacrima l’aveva trascinata. Un uomo dal volto arcigno e la mascella quadrata, con indosso una divisa argento, girava intorno alla sedia su cui era seduta come un grifone che punti la sua preda.
"Le ripeto che non so nulla”, stava spiegando lei con voce salda, ma occasionalmente spezzata da un singhiozzo leggero. “Sono sicura che si tratti di un errore, mio marito è un rispettabile membro della società magica e di certo...”.
"Signora Malfoy, è inutile che reciti la parte della mogliettina innocente”, la interruppe l’Auror. “Anche se suo marito in passato ha... diciamo ‘contribuito’ alla causa del Ministero, il fatto che sia stato trovato con indosso abiti da Mangiamorte di notte e in una sezione dell’Ufficio Misteri vietata ai non addetti ai lavori equivale a una condanna sicura di venti anni ad Azkaban. Come minimo”.
Narcissa si irrigidì. Non voleva più dare a quel rifiuto l’impressione di essere una donna debole. “Perché non venite a casa nostra e la perquisite?”, lo sfidò, gli occhi azzurri di nuovo asciutti. “Immagino che non avrete difficoltà ad ottenere un semplice mandato”.
L’altro rise, un raglio untuoso e sgradevole. “Certo che lo faremo! Non siamo più nell’epoca di permissivo lassismo di Caramell; Rufus Scrimgeour è proprio ciò di cui il mondo magico aveva bisogno, soprattutto in tempi... difficili come questi”.
La Narcissa del presente chiuse gli occhi con un gemito. Non voglio rivivere un ricordo del genere, non voglio, si lamentò internamente. La sala era ripiombata nel silenzio , così lei si arrischiò a sollevare le palpebre. Nel vetro c’era solo il suo riflesso, niente più; lo specchio accanto, l’ultimo, iniziava però a colorarsi d’immagini.
"Oh, ti prego, che sia un bel ricordo, ti prego”, mormorò lei, mentre le ombre prendevano la forma di un volto olivastro che lei conosceva molto bene.
"Silente è morto”, disse Piton.
Narcissa era seduta nella poltrona della biblioteca che – prima che venisse gettato ad Azkaban come un qualunque criminale – era di solito occupata da suo marito. Alla notizia sobbalzò, e le unghie artigliarono i braccioli. “È stato Draco a...”, iniziò, ma non riuscì a completare la frase.
Il viso di Piton era una maschera di pietra. Dalle sue labbra uscirono soltanto due sillabe.
“No. Io”.
La donna si sentì quasi in colpa a tirare un sospiro di sollievo. “E ora, dov’è? Voglio vederlo”.
L’uomo si lasciò andare ad un sospiro stanco. “Non puoi. Gli ordini del Signore Oscuro sono tassativi. Draco deve...”.
Narcissa si alzò un piedi, animata da una furia bianca. “Io sono sua madre! Come può impedirmi di...”.
“Può, e lo farà. Lo sta già facendo, in effetti”, fu la semplice risposta di Severus. “E anch’io sono d’accordo con lui. Aspetta, lasciami spiegare”, continuò, fermando sul nascere le proteste di lei. “Ti ricordo che io sono ancora vincolato a te dal Voto Infrangibile; se a Draco fosse permesso di vederti potrebbe lasciarsi andare a... gesti inconsulti, per così dire. Tenendolo sempre sotto la mia ala, invece, mi sarà molto più facile proteggerlo e rispettare il nostro patto”.v “Severus, tu...”, Narcissa si tese in avanti, afferrando un lembo della veste del mago. “Tu non puoi farmi questo. Te lo chiedo come amica”. Singhiozzò, mentre la gola le si torceva nell’ennesimo groppo. “Ho già perso mio marito. Non chiedermi di rinunciare anche a mio figlio”.
Piton continuava a fissarla con sguardo impenetrabile. “Mi dispiace, Cissa”, e si Smaterializzò senza aggiungere altro.
“Non era così che doveva andare”, gemette la vera Narcissa, mentre guardava il proprio doppio accartocciarsi in lacrime sulla poltrona al di là del vetro. “Non era così che doveva andare”.
"E invece è proprio così che è andata”.
Dallo specchio si era levata un’altra voce, niente più che un sussurro. Una voce che Narcissa non conosceva, ma che era convinta di avere udito infinite volte. Alzò lo sguardo, e la vide: da dietro la poltrona della biblioteca della sua memoria era emersa una creatura grottesca: una donna completamente nuda, bassa e obesa, con una crocchia di neri capelli rovinati e la pelle bianca che ricordava il ventre di un rospo. La fissava con piccoli occhi dolenti, immersi nel grasso.
Narcissa, in preda all’orrore, si rese conto che quella donna non apparteneva ai suoi ricordi: poteva sentirla, poteva comunicare, stava guardando proprio lei. Avrebbe voluto fuggire dalla Sala a gambe levate, ma quello sguardo porcino la teneva inchiodata al pavimento. “C-chi sei?”, gridò, in tono ormai oltre l’isteria. “Che cosa vuoi?”.
La creatura nuda si fece avanti. Narcissa poté notare che sull’indice della sua mano destra portava un anello che terminava con un piccolo, grottesco uncino, sicuramente affilato. “Mi conosci, Narcissa Malfoy. Io vi osservo sempre, te, e tutti coloro che per natura siete spinti verso il mio dominio. Anche quando siete soli, io vi sono accanto”. Tacque per un attimo, mentre un ratto grigio le si arrampicava fino alla spalla. “Io sono l’altro lato di ogni specchio”
. “Perché mi stai mostrando questo?”, le urlò contro Narcissa. Si sentiva impotente e svuotata, come se l’avessero legata sull’orlo di un precipizio e stessero tagliando a poco a poco la corda che le impediva di cadere nel vuoto.
Perché è il mio compito”, rispose Disperazione. “Ognuno ha il proprio, nell’universo”. Sollevò con lentezza la mano destra e infilò con precisione chirurgica l’uncino dell’anello nel proprio bulbo oculare. Narcissa era troppo terrorizzata per riuscire a distogliere lo sguardo dal macabro spettacolo. “Tu sai qual è il tuo, Narcissa Malfoy?”, domandò, mentre l’umor vitreo le colava lungo la guancia.
La donna tentò di rispondere, ma la bocca le sembrava fatta di sale.
Tu credi di avere perso tutto, perché sei rimasta sola”, continuò Disperazione. Il suo occhio destro si staccò infine dal nervo e cadde sul pavimento lucido della biblioteca dello specchio con un sordo rumore di sciacquio. “Ed è esattamente così”.
“È vero”. Narcissa si arrese all’evidenza, crollando in ginocchio. “Io non sono forte... Io senza di loro... Senza di loro non sono nulla”.
Perciò scegli”, continuò Disperazione. “Puoi abbandonarti completamente a me, oppure cercare di lottare. Ma tanto, alla fine, tornerai da me. Tutti ritornano, prima o poi”. Non c’era accenno di vittoria nella sua voce. Era solo terribilmente triste e malinconica. E terribilmente solitaria.
Passò quasi un’ora prima che Narcissa trovasse la forza di rialzare la testa; nello specchio non c’era più nessuno. La processione della notte appena trascorsa l’aveva sfinita nel corpo, e Disperazione l’aveva annientata nell’intimo. Con estrema fatica riuscì ad alzarsi in piedi; perfino respirare le costava sforzo. Si portò le mani al ventre, cercando un modo per riempire il vuoto, e sentì qualcosa. Qualcosa che frusciava debole oltre il tessuto.
Nel suo sguardo, solitaria e debole, si accese una scintilla. Non sapeva se avrebbe funzionato; ma avrebbe tentato, prima di arrendersi alla sua tetra visitatrice. Senza preoccuparsi di essere vista, esattamente come la sera prima, si Materializzò nella cabina telefonica sporca. La strada deserta era illuminata a stento dalla luce dell’aurora, e alla donna fu necessario qualche tentativo per riuscire a digitare il numero corretto.
Portò la cornetta all’orecchio, terrorizzata da mille pensieri: nessuno avrebbe risposto, oppure dall’altro capo si sarebbe levata una voce sconosciuta, oppure...
Poi, qualcuno sollevò il telefono. “Andromeda?”, domandò Narcissa, scommettendo tutta la sua speranza e tutta la sua disperazione in quel nome tanto familiare.
Alle sue spalle, senza alcuna fretta, stava sorgendo il sole.


Il bagliore argenteo che permeava la stanza iniziava a sfumare nell’oro. Andromeda se ne era accorta, e aveva lanciano un’occhiata alla vecchia sveglia di Ted. "È quasi l’alba...", mormorò. "E nemmeno mi sono accorta del tempo che passava! Come quando ad Hogwarts restavo sveglia tutta la notte con le mie amiche a parlare di ragazzi e dei sogni per il futuro...". Si sentì gli occhi lucidi, nel ricordare la propria giovinezza. "Grazie, Desiderio, per avermi tenuto compagnia. Mi dispiace che tu sia stato costretto ad ascoltare le chiacchiere di una donna vecchia e triste".
"Io non credo che tu lo sia, Andy", rispose lui, e si chinò in avanti, sfiorando appena con le labbra la fronte di lei. E per qualche istante dopo quel bacio Andromeda si sentì davvero giovane, e ricordò che cosa si provava a pensare che si sarebbe vissuti per sempre, e cosa aveva provato la prima volta che il suo sguardo aveva incrociato quello di Ted...
Poi il telefono squillò.
"Forza, Andy, rispondi", la incitò Desiderio. "È per te".
Andromeda sollevò il ricevitore, la fronte corrugata. Dopo qualche secondo le rughe si spianarono e sul volto sbocciò un timido sorriso. "Ciao, Cissy". Si voltò verso Desiderio per ringraziarlo, ma non c’era nessuno oltre a lei. Fissò perplessa la camera da letto illuminata dalla luce dell’alba: in fondo, chi altro avrebbe dovuto esserci? La donna scosse la testa, mentre la voce della sorella continuava a sgorgare dalla cornetta.
"Sì... Sì, tutto bene. E tu?".


Due figure percorrevano i sentieri del giardino di Destino, camminando fianco a fianco. Una era il legittimo proprietario, il cappuccio del saio grigio calcato sugli occhi ciechi e l’enorme libro incatenato al polso.
L’altro era un vecchio alto e allampanato, con una lunga barba argentea ed un’espressione sorniona negli occhi chiari dietro una montatura a mezzaluna. "Signor Destino, è sicuro che la mia presenza non le rechi disturbo?".
"No", rispose l’altro, nello stesso tono neutro che usava sempre e che ricordava il frusciare secco delle pagine di antichi volumi dimenticati dal mondo. "È molto raro che qualcuno incroci il mio cammino. A volte nemmeno io disdegno la compagnia".
"Ottimo, allora", replicò Albus Silente. "Sa, quando sua sorella minore mi ha... diciamo ‘prelevato’, non avrei mai immaginato che sarei stato destinato ad un luogo tanto bello".
L’altro sembrò sorridere, non era chiaro se per i complimenti al suo dominio o se per l’uso – intenzionale o meno – del verbo “destinato”. “Come ho detto, è difficile che qualcuno dopo la morte venga a risiedere nel mio giardino. Ma tu, che nel corso della tua vita hai cercato più di ogni altra cosa di indirizzare il fato lungo i binari che avevi stabilito, non avresti potuto finire in altro luogo se non questo”.
"Capisco”, rispose il vecchio mago, annuendo. “In ogni caso, se posso permettermi, sua sorella è davvero uno splendore. Peccato che non sono più così giovane come una volta… Anche se forse parlare di giovinezza o vecchiaia dopo la morte suona bizzarro, no?”.
"Uno splendore?”, ripeté Destino. “Non ho mai pensato a mia sorella in questi termini”.
I due presero a camminare in silenzio. Nessuno dei due avrebbe saputo dire quanto tempo trascorse. Non era importante, in fondo.
Dopo milioni di passi, Destino si arrestò di fronte ad un bivio. “Ciò che sto per fare è accaduto un paio di volte soltanto durante la storia dell’universo”, disse, aprendo il libro che portava sottobraccio ed iniziando a sfogliarlo. “Ma a te, che hai servito in modo tanto fedele la causa del destino, sarà concesso di leggere un’unica pagina”. L’Eterno aveva trovato il punto che stava cercando, perché piegò il volume in modo che il suo compagno di viaggio potesse leggere.
Seguirono altri minuti di silenzio, mentre lo sguardo rapido di Silente sfrecciava sulla pagina.
Destino chiuse il libro. “Era ciò che ti aspettavi?”, domandò.
"Sì”, rispose il vecchio. Sembrava molto, molto soddisfatto.
  
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