Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    28/08/2023    0 recensioni
"Non era stata una bella giornata per Armin.
L’addestramento era andato peggio del solito e il piccolo Arlert aveva accumulato errori su errori.
La sua autostima, già così bassa, non ne aveva giovato e Jean non riusciva a distogliere lo sguardo dalla scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi, mentre erano seduti a pranzo."
Genere: Hurt/Comfort, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
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Fanfic scritta per il gruppo Facebook “Prompts are the way”.
 
Prompt: JeanArmin. «Tu hai... tu hai tante belle qualità!» gli disse una volta. «È solo che non te ne accorgi. Ma ce le hai. E a me piacciono.»
Fandom: Attack on titan
Titolo: Non ti conosci abbastanza
Personaggi: principalmente Jean e Armin, con una piccola parte per Eren e comparsa di altri. Implicazioni JeanArminEren
Genere: romantico, slice of life, sentimentale, leggero fluff misto a leggero angst, missing moment
Rating: verde
 
 
NON TI CONOSCI ABBASTANZA
 
 
Non era stata una bella giornata per Armin.
L’addestramento era andato peggio del solito e il piccolo Arlert aveva accumulato errori su errori.
La sua autostima, già così bassa, non ne aveva giovato e Jean non riusciva a distogliere lo sguardo dalla scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi, mentre erano seduti a pranzo.
Eren e Mikasa avevano fatto in modo di tenerlo in mezzo a loro: la ragazza si limitava a tenergli una mano sulla spalla, silenziosa e discreta, Eren non smetteva di cercare parole adatte a confortarlo.
Nessuno, più di Eren, credeva nelle qualità di Armin e non perdeva occasione per renderglielo noto eppure, quel giorno, niente funzionava: Armin era così a terra che a stento lo ascoltava e Jean non poteva fare a meno di notare che il suo piatto rimaneva intoccato.
Non era una novità: gli dicevano sempre che mangiava come un uccellino e, piccolo com’era, si chiedevano come riuscisse a reggersi in piedi e a farsi bastare quel poco che metteva in corpo.
Jean sbuffò: avrebbe voluto far tacere Eren, fargli notare che non serviva a niente, le sue chiacchiere cadevano completamente nel vuoto.
Ne comprendeva le buone intenzioni ed era consapevole che, se c’era qualcuno in grado di rasserenare il piccolo Arlert, quello era proprio Eren.
Tuttavia, qualcosa suggeriva a Jean che, questa volta, sarebbe stato inutile.
Infatti, dopo qualche minuto Armin si sottrasse a quelle attenzioni, in un modo così brusco che Mikasa si ritrasse, mentre Eren si zittì di colpo nel momento in cui il ragazzino si alzò dal proprio posto e annunciò che sarebbe uscito a fare due passi.
Jean strinse le palpebre, corrucciato.
Anche Connie e Sasha avevano smesso di battibeccare, attratti dalla scena.
“Armin!” chiamò Eren, sporgendosi dal proprio posto, teso verso l’amico che già stava camminando verso l’uscita. “Non hai mangiato niente, torna qui!”.
“Eren, piantala” mugugnò Jean, attirando su di sé due occhi verdi che sembravano lanciare fiamme e il cui muto messaggio era chiaramente: ‘E tu che cazzo vuoi?!’.
“Lo stavi ubriacando di parole inutili” aggiunse Jean, senza farsi intimidire.
Eren scattò in piedi, le mani puntate sul tavolo, il viso in avanti, sembrava che il suo corpo volesse saltare dall’altra parte per raggiungere Jean.
Invece, si limitò a gridargli in faccia:
“Ma chi ti ha chiesto niente, muso di cavallo?! Sono affari nostri!”.
Quelle parole Jean non le poteva accettare: Eren sembrava convinto che lui, Mikasa e Armin costituissero ancora un gruppo a sé, all’interno del quale nessun altro aveva voce in capitolo.
Eren sembrava considerarli sua proprietà…
Soprattutto Armin, in un certo senso.
Un po’ era vero, Jean doveva ammetterlo, il legame che li univa aveva qualcosa di esclusivo e nessun altro avrebbe potuto intaccare più di tanto quella barriera che sembravano avere intorno.
Eppure, era convinto che Eren dovesse smetterla di vantare un privilegio sui suoi due amici d’infanzia, si erano avvicinati tutti quanti in quei mesi di addestramento, Jean aveva imparato ad apprezzare Armin e riteneva che nessuno, a quel punto, avesse il diritto di privarlo di quel rapporto crescente che andava consolidandosi.
Soprattutto dopo…
Deglutì, nel momento in cui il ricordo di Marco balenò nella sua mente e lo respinse subito, anche se non poté impedire che il velo di malinconia irrompesse in quell’alterco tra lui ed Eren.
Portò una mano agli occhi, sbuffò e la fece scivolare lungo il viso poi, con l’altra, spinse Eren lontano da sé:
“Non ho voglia di litigare”.
“Neanche io” sbottò Eren, lasciandosi ricadere sulla propria sedia. Ma si rialzò quasi subito. “Ho altro da fare!”.
Jean si alzò a propria volta:
“Eren, aspetta!”.
Il ragazzo ebbe un fremito di nervosismo, la tensione nella sala si fece palpabile: ciascuno dei presenti si preparava, probabilmente, ad assistere all’ennesima scazzottata tra i due eterni rivali.
Jean gli mise una mano sulla spalla, mossa azzardata, lo sapeva: il rischio che Eren si rivoltasse e gli mollasse un pugno in faccia era molto elevato, ma lui non aveva intenzione, per una volta, di provocare risse o di stuzzicarlo. Gli intenti di Jean erano altri.
“Vado io da Armin”.
Non si trattava di una richiesta, lo stava mettendo di fronte al fatto compiuto ed era consapevole che si trattava di un azzardo.
Fece scivolare la mano dalla sua spalla e passò oltre, come se non ci fosse altro da aggiungere.
Percepì gli occhi di Eren fissi sulla sua schiena, non osava immaginarne l’espressione, ma non gli importava: finché se ne stava buono e non gli correva dietro, per lui era sufficiente.
E, stranamente, Eren non lo fece: Jean oltrepassò la soglia, uscì all’aria aperta e continuò a camminare senza ritrovarsi alle calcagna una furia in preda alla gelosia.
Camminò qualche minuto prima di trovare Armin dove aveva sperato, nei pressi delle scuderie: ad Armin piacevano i cavalli, forse si sentiva solidale con il loro destino di vittime passive dell’esistenza.
Come tutti loro, anche quegli animali subivano qualcosa che non avevano scelto e, di sicuro, Jean lo aveva capito, Armin avrebbe voluto scegliere tutt’altro per se stesso.
Certo, a lui qualche possibilità di fuggire via sarebbe stata concessa, ma quell’evenienza non l’aveva mai presa in considerazione. Non sempre Jean comprendeva cosa frullasse in quella testolina, ma qualcosa di lui, ormai, l’aveva capita: era coraggioso, generoso e non gli mancava una sorta di strano orgoglio…
E di sicuro era testone come pochi.
In quel momento, un testone depresso: si trovava in uno stato di prostrazione evidente, le gambe raccolte contro il petto, il viso affondato in esse.
Jean si avvicinò e si lasciò cadere al suo fianco, quindi gli mise una mano sulla nuca e gli arruffò i capelli, gesto che, tra loro, era diventato una sorta di segno di riconoscimento, un accenno di intimità tra compagni che entrambi accettavano, per quanto lo stesso Jean ne fosse stupito: gli veniva naturale, nei confronti di Armin, una tenerezza che non riservava a nessun altro, neanche a Connie o a Sasha.
Solo a Marco…
Ma Armin non era Marco e Jean non riusciva a capirsi.
Il ragazzino ebbe un moto di sorpresa e il visetto arrossato spuntò fuori dalla tana che si era costruito con le sue stesse braccia.
“Jean…”.
“Tu devi esagerare sempre tutto, vero?”.
Le guance pallide si infuocarono, altra caratteristica che lo rendeva bizzarro: arrossiva per tutto, per qualunque cosa, che fossero complimenti o critiche.
Ogni minima emozione era una scusa per arrossire ed era talmente strano in un ragazzo…
“Talmente strano da essere adorabile” si trovò a pensare, vergognandosi a morte.
Seguì il movimento degli occhi azzurri: scesero a terra, a fissarsi gli stivali immersi tra nuvole di polvere e fieno sollevati dal venticello che preannunciava il guastarsi del tempo.
“Non so a cosa ti riferisci” mormorò Armin, scavando distrattamente la terra con la punta del piede.
“Sì che lo sai” borbottò Jean, stringendosi tra le spalle e puntando lo sguardo nella direzione opposta, verso il cielo. “Tra l’altro non riesci a nascondere nulla, neanche quando ti impegni a farlo. E oggi ti impegni proprio poco, ti si legge in faccia tutto quanto”.
Osservò di sottecchi la sua reazione: il rossore si accentuò, il naso, piccolo e tondo, era ancora più in fiamme del solito e gocciolava sopra le labbra imbronciate.
“Sta venendo freddo, ti prenderai un raffreddore restando qui”.
“Ancora?!”.
Il piccolo Arlert scattò in piedi, i pugni frementi e gli occhi così lucidi che Jean si chiese se stesse per piangere o se avesse già la febbre.
Quella reazione lo colse del tutto impreparato.
“Armin… che hai?”.
“Non perdete occasione per ricordarmi quanto io sia un impiastro, come se non lo sapessi già di mio!”.
Completò la frase tirando su col naso e sfregandoselo violentemente con l’avambraccio, ottenendo di peggiorare il rossore e provocandosi un violento starnuto.
In un’altra occasione, a Jean sarebbe venuto probabilmente da ridere: invece si trovò a provare solo una gran tenerezza.
Sospirò, si alzò puntellandosi con una mano sul ginocchio e lo raggiunse: il ragazzino ora teneva lo sguardo basso ritenendo, con ogni probabilità, di essersi appena umiliato ulteriormente.
Le sue spalle si scossero in quello che sembrava un leggero singhiozzo.
“Non c’è niente di male ad essere un po’ cagionevoli”.
Nel momento in cui lo disse, Jean si rese conto di quanto scontata e infelice potesse risuonare quella frase.
Infatti, Armin fu scosso da un tremito, i suoi pugni si fecero più tesi, il viso già basso si rifugiò ancor più tra le spalle, rendendo la sua figura, già piccola, talmente minuscola che a Jean sarebbe bastato avvolgerlo tra le braccia per farlo scomparire.
E si scoprì ad avere tanta voglia di farlo, ma al pensiero di un tale gesto l’imbarazzo superava qualunque istinto alla tenerezza.
Come rimediare alla gaffe che aveva appena compiuto?
“Armin…” tenne un tono di voce fermo, serio, talmente maturo che, forse, Connie e Sasha si sarebbero presi gioco di lui.
“Sei solo tu a non vederlo” proseguì, tentando di scegliere le parole questa volta, ma lui non era bravo con i discorsi grandi e complessi. Poteva solo cercare di essere sincero con chi, secondo lui, meritava di più di quel che credeva. “A non vedere quanta ammirazione attiri su di te”.
Il ragazzino si ritrasse, con un gesto del braccio allontanò da sé le mani di Jean, non sollevò il viso, ma la voce, per quanto tremante, si tinse di durezza:
“Risparmiami stupidaggini melense alle quali non crede nessuno!”.
Eccoli l’orgoglio e la testardaggine che permettevano a quello scricciolo biondo di non soccombere di fronte a nulla.
“Alle quali tu non credi” lo corresse, senza cambiare inflessione e fermezza. Scosse il capo, con un risolino sprezzante: “Se pensassi che tu fossi un frignone incapace, credi che mi darei questo disturbo per venirti a cercare? E che gli altri si preoccuperebbero a tal punto?”.
Un’ulteriore rintanarsi tra le spalle fece pensare a Jean che, prima o dopo, Armin sarebbe imploso su se stesso.
“Certo, perché siete protettivi e buoni, fondamentalmente”.
La sua vocina leggera sembrava meno convinta, meno arrabbiata.
Jean levò gli occhi al cielo e il nuovo sbuffo fu più rumoroso del precedente, tanto da spingere Armin a uscire un poco dal suo guscio per scrutarlo in tralice, con quel broncio buffo e il naso che continuava a colare.
Jean si sforzò di restare serio, non osava immaginare come, in quel momento, il piccolo avrebbe accolto una risata: si considerava un fallimento, si sentiva umiliato, un’ulteriore vergogna, probabilmente, lo avrebbe fatto fuggire a gambe levate.
“Io non sono buono per niente, e protettivo solo con chi penso che lo meriti”.
Il piccolo naso e le labbra si arricciarono: si sforzava di mantenere il broncio, ma quell’espressione sospettosa rifletteva anche una certa curiosità.
“Non ti conosci abbastanza bene…”.
Jean sbatté le palpebre: trattenere l’ilarità divenne più difficile.
“Detto da te, poi!”.
“Io mi conosco benissimo!”.
Riecco l’orgoglio e persino una certa dose di prepotenza: almeno reagiva e questo bastava a rendere Jean un poco più sollevato.
Incrociò le braccia, assunse un atteggiamento riflessivo e riprese a parlare:
“Bisogna ammetterlo, Armin, spesso è vero, sei intelligente e sai valutare, sai fin dove puoi spingerti…”.
Fece una pausa, per osservare di nuovo le reazioni del ragazzino, che ora aveva tirato fuori del tutto la testa dalle spalle e lo guardava dritto negli occhi, senza abbandonare la diffidenza, ma almeno disponibile.
Fu uno stimolo a proseguire:
“Il più delle volte, tuttavia, quando si tratta di te stesso, manchi di lucidità e lungimiranza”.
Gli occhi di Armin si strinsero, Jean lo vide mordicchiare il labbro inferiore.
“Non sei obiettivo” insisté, implacabile. “E ci prendi tutti per stupidi!”.
A quell’ultima osservazione, Armin sussultò, i suoi occhi si fecero grandi e Jean ebbe l’ennesima conferma che potevano diventare davvero tanto grandi, occhi di cielo nei quali affondare.
“Cosa vuoi dire? Vi prenderei per stupidi in che senso?!”.
“Perché vuoi farci credere che ti sopravvalutiamo” Jean si mise a gesticolare nervosamente. “Io, Eren, il capitano Levi, la caposquadra, il comandante…”.
“Lo… loro… cosa…”.
“Non sono forse loro a cercarti tanto spesso, a volere una tua opinione, a fare affidamento sulla tua intelligenza e sul tuo spirito di osservazione?!”.
“Ma… ma Jean…”.
Di fronte a quei balbettii, a quell’evidente confusione, Jean comprese che stava portando Armin verso la sconfitta di tutte quelle convinzioni distorte su se stesso…
Almeno per quella volta.
“Vedi che ho ragione?”.
Si avvicinò di nuovo al ragazzino, una mano tornò sulle spalle e si posò sulla guancia, in un gesto che, si rendeva conto, era un passo ulteriore verso un’intimità profonda, ma per una volta non si sottrasse al proprio istinto: voleva, soprattutto, essere certo che quel viso pieno di domande non tornasse a nascondersi.
“Non so come fare in modo che tu mi creda una volta per tutte, ma vorrei che ti ficcassi bene in testa quello che sto per dirti!”.
Ebbe un attimo di esitazione: se qualcuno li avesse visti, avrebbe pensato che il loro atteggiamento fosse alquanto ambiguo, così vicini, le sue mani addosso ad Armin, con tutta quella confidenza…
Quella che di solito lui osservava tra Eren ed Armin e che aveva sempre trovato disgustosa…
Beh…
Forse così disgustosa non lo era: Armin era carino, era un bravo ragazzo, era…
“Che diavolo sto pensando?” si rimproverò.
Quando riprese, la sua voce uscì incerta, l’imbarazzo si era impadronito di ogni sua reazione:
“Tu hai... tu hai tante belle qualità! È solo che non te ne accorgi. Ma ce le hai. E a me piacciono!”.
Si bloccò, mentre il calore risaliva lungo le sue guance, in risposta al rossore che tornava su quelle di Armin, ancora più intenso di prima.
Era andato troppo oltre: come potevano venire interpretate quelle parole?
Ammirazione, certo, rispetto, che domanda era?
Che altro?
Di questo doveva convincere Armin, che era degno di ammirazione, che non doveva rimproverare se stesso, che aveva tante doti apprezzabili, che non aveva nulla da invidiare a nessuno, eppure…
Eppure, Jean era consapevole di aver sottinteso dell’altro e poteva solo sperare che Armin non se ne fosse reso conto, che, per una volta, quella acutezza che lo contraddistingueva non fosse stata in grado di andare oltre l’apparenza.
“Perché sei arrossito?”.
Jean sussultò.
Ovvio, non gli sfuggiva nulla.
Certo, probabilmente il suo imbarazzo era troppo evidente perché sfuggisse all’attenzione di chiunque.
“Sei tu che sei rosso!”.
“Sì, forse lo sono anche io, ma questo non rende meno rosso te”.
Piccola peste, era capace di prendere in giro il prossimo pur lottando contro la propria vergogna.
“Non sono abituato a confortare gli altri!”.
“Invece lo sei, ma non diventi sempre così rosso”.
Jean fece un passo indietro, arretrò, si portò una mano alla bocca per soffocare un’imprecazione e, quando la riabbassò, lo sguardo di Armin era immutato, due occhi azzurri enormi che spiccavano in un viso infuocato.
“Stai cambiando discorso!”.
Armin fu sul punto di ribattere ma, proprio in quel momento, un richiamo risuonò nella parentesi silenziosa, spingendo Jean ad allontanarsi un poco dal compagno.
“Armin, hey, Armin!”.
Eren correva verso di loro, agitando una mano e provocando in Jean un nuovo bisogno di imprecare contro il mondo intero, anche se doveva ammettere che, dopotutto, il rompiscatole era arrivato al momento giusto… per una volta.
Ignorandolo totalmente, Eren lo oltrepassò e saltò al collo dell’amico: quella spontaneità tra loro non mancò di stupire Jean una volta di più.
Non c’era imbarazzo, né vergogna tra loro e un senso di fastidio pizzicò il petto di Jean: era certo che, in questo caso, non si trattasse di disgusto e, forse, non si era mai trattato di quello.
“Mi hai fatto preoccupare, scemo!” esclamò Eren, interrompendo l’abbraccio, ma mantenendo intrecciate le loro mani.
“Scusami” fu la flebile risposta di Armin. La parola rimase spezzata dal bisogno di tirare su col naso, ancora gocciolante.
Eren fu subito in allarme:
“Ti sei preso il raffreddore!”.
Avvicinò le labbra alla sua fronte, con la medesima naturalezza che caratterizzava ogni suo approccio con l’amico.
“E forse hai anche la febbre!”.
“Non ce l’ho” borbottò Armin.
Eppure, quegli occhi lucidi non facevano ben sperare neanche Jean, non credeva fossero dovuti solo al precedente imbarazzo e alla tristezza che Arlert si era portato dentro fino a poco prima e che sperava di avere un po’ debellato.
“Eren…” si fece di nuovo udire un flebile mormorio di Armin.
“Dimmi…” fu la risposta, fin troppo tenera, di Eren.
Gli occhi di Jean si posarono, suo malgrado, su quelle quattro mani che non volevano saperne di slacciarsi: sembravano due bambini in procinto di mettersi a fare il girotondo e, per quanto ridicola potesse apparire quella prospettiva legata a due soldati, pur tanto giovani, Jean si scoprì a non avere alcuna difficoltà nell’immaginarli.
“Scusami se prima sono stato intrattabile”.
Eren sorrise, liberò una delle sue mani per portarla verso la lunga frangia che ricadeva sulla fronte di Armin e la scompigliò con una carezza giocosa:
“Sono io che non so mai quando è il momento di tacere!”.
Armin arrossì per l’ennesima volta, la testa ricadde in avanti e il suo sorriso dolce andò a rifugiarsi sulla spalla di Eren.
Un’altra immagine si materializzò nella mente di Jean, dopo quella dei bimbi che facevano il girotondo: quella di due tortorelle che tubavano.
Cominciava a sentirsi il terzo incomodo in quella situazione assurda e, per ricordare la propria presenza, si schiarì la voce.
I ragazzi ebbero un sobbalzo e i loro sguardi si posarono su di lui, diversissimi: scocciato e pronto alla sfida quello di Eren, timido e a disagio quello di Armin.
Eren si mise a camminare, la mano ancora intrecciata a quella dell’amico a strattonarlo, dando per scontato che l’avrebbe seguito:
“Devi mangiare qualcosa, Armin, Mikasa sta controllando che il tuo piatto non finisca tra le grinfie di Sasha!”.
“Ma…” cercò di protestare il piccolo, anche se oppose solo una minima resistenza.
Jean si portò una mano alla bocca a soffocare un ghignetto, immaginando Mikasa che faceva la guardia al piatto, davanti ad una Sasha dagli occhioni sgranati a supplicare cibo.
“Jean!”.
Si girò al richiamo di Armin e vide i due ragazzi fermi, Eren visibilmente contrariato e Armin che sorrideva nella sua direzione.
Il piccolo Arlert fece un cenno con una mano:
“Jean, grazie di tutto!”.
Quel dannato sorriso, quegli occhi azzurri, quel tenero rossore…
Jean sbuffò, alzò gli occhi al cielo, cercando di far finta di nulla e borbottò, con minor convinzione di quanto avrebbe desiderato:
“Va a mangiare, devi rimetterti in forze”.
 
 
   
 
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