Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    31/08/2023    1 recensioni
In seguito ad una disavventura durante il periodo dell'addestramento, Armin ed Eren si trovano soli, nel bosco, di notte, al buio e Armin è ferito.
Eren, in ansia, è certo di una cosa soltanto: non può permettersi di perderlo.
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Fanfic scritta per il gruppo Facebook Prompts are the way.
 
Prompt: Eren/Armin, insieme al buio, non c’è luce e non possono accendere fuochi. Armin è ferito
Fandom: Attack on titan
Titolo: In attesa del sole
Personaggi e ship: Eren/Armin
Genere: drammatico, avventura, angst, guerra, azione, hurt/comfort
Rating: giallo
Note: il periodo in cui è ambientato è quello dell’addestramento, ancora non sono iniziate le vere e proprie lotte contro i giganti. I cadetti, a quel tempo, si impegnavano nelle varie prove, comprese quelle di sopravvivenza. In questa fic, ad Armin accade qualcosa di simile a ciò che accade a Khrista nell’oav Distress, in questo caso è lui a venire rapito da una banda di delinquenti. Avviso, quindi, che ci sono possibili cenni al traffico di esseri umani e ad abusi, solo minacciati però. Eren arriva in tempo <3
 
 
IN ATTESA DEL SOLE


Nessuno si era aspettato che la prova di sopravvivenza organizzata per quella giornata, sarebbe finita in quel modo.
I banditi che aggredirono Armin non erano certo tra gli ostacoli che gli istruttori avevano programmato.
Fu un attacco inatteso, improvviso e, soprattutto, impossibile da controllare, in quanto avvenuto in un momento in cui il ragazzino si trovava da solo, lontano dai compagni.
Solo Eren, che quando gli era possibile non stava mai troppo distante dall’amico, si accorse della situazione, ma non riuscì ad intervenire in tempo, né a chiedere aiuto: poté solo seguirli, di nascosto, fino all’accampamento dei briganti e lì rimase immerso nel fitto della vegetazione, in attesa che si presentasse un momento propizio per liberare Armin.
Fu costretto ad assistere mentre lo tormentavano, con battute poco piacevoli sul suo aspetto delicato, sul fatto che l’avessero scambiato per una fanciulla, su frasi disgustose che gli facevano correre brividi lungo la schiena e gli gelavano il sangue nelle vene.
“Credete che potremmo venderlo, anche se è un maschio?”.
“Esistono persone che apprezzano i maschietti, se sono così carini”. Il mento di Armin venne afferrato da mani lascive, si comportavano come se stessero valutando della merce di scambio… d’altronde, evidentemente, di quello si trattava, per loro. “Ma niente ci impedisce di divertirci un po’ anche noi, prima”.
Nell’udire quelle parole, la pazienza di Eren rischiò di venire meno, non poteva sopportare oltre.
Ma erano troppi, non si trattava di sole tre persone, come quelle che, anni prima, avevano rapito Mikasa.
All’epoca, lui aveva compiuto una strage, pur essendo un bambino e, adesso che era cresciuto, era anche più abile, più forte, poteva diventare ancora più feroce.
Tuttavia, sarebbe stato da solo contro dieci uomini.
Il tempo di cercare aiuto non l’aveva.
“È meglio lasciarlo intatto” disse un’altra voce. “La merce integra rende di più”.
Nonostante la furia cieca instillata in lui da ciò che udiva istante dopo istante, al tempo stesso quell’osservazione lo tranquillizzò: significava che, per il momento, Armin non sarebbe stato toccato.
Ciò che lo preoccupava, era la ferita che gli avevano procurato al fianco quando lo avevano attaccato: Armin aveva tentato una difesa disperata e uno dei banditi, colto alla sprovvista, gli aveva colpito il fianco con un coltello.
Nessuno si preoccupava che quel taglio potesse rovinare la merce, ragionò Eren, lottando contro il disgusto che quella parola gli suscitava, quindi sperava che fosse superficiale. Ma la camicia di Armin era macchiata di sangue e questo non gli piaceva.
In mezzo ai suoi aguzzini, Armin tremava visibilmente e, a distanza, Eren poteva scorgere la sua espressione smarrita e persino una certa rassegnazione, data dalla consapevolezza della propria totale impotenza.
Eren avrebbe voluto che percepisse la sua presenza, gli incoraggiamenti che formulava la sua mente:
“Resisti… sono qui, sono vicino a te e presto ti porterò al sicuro”.
Passarono i minuti, poi le ore.
Giunse il tramonto, mentre Eren fremeva nel suo nascondiglio.
Solo il fatto che si fossero decisi a lasciare in pace Armin lo convinceva ad essere paziente: passato l’iniziale divertimento Armin, da nuovo giocattolo, era diventato semplicemente merce e lo avevano lasciato da solo nel suo terrore, mentre loro si erano riuniti per la cena.
Il ragazzino, le mani legate dietro la schiena, aveva anche le caviglie avvolte da una corda spessa e non poteva tentare di muovere neanche un passo.
Sdraiato a terra, non diceva nulla e non si lamentava.
Il buio ormai prossimo impediva ad Eren di intuire la sua espressione dal punto in cui si trovava, ma poteva immaginarla.
I suoi tremori, poi, non gli sfuggivano e rimpiangeva sempre di più di non riuscire a comunicare con lui attraverso il pensiero:
“Sii forte, presto sarai in salvo!”.
Quando potevano guardarsi negli occhi, qualunque messaggio arrivava al cuore l’uno dell’altro.
Qualcuno li aveva definiti anime gemelle: chissà che anche la forza del pensiero…
Ci provò, ci provò con tutte le sue forze:
“Sentimi… sentimi… sono vicino! Sono qui per te!”.
Gli sembrò di vedere Armin sussultare e muovere il capo, come a guardarsi intorno, ma era sicuramente suggestione, o forse il dolore al fianco, che a tratti si faceva più insopportabile: non era immaginabile che lo avesse sentito davvero.
Passò ancora un po’ di tempo, poi fu certo che i banditi si fossero addormentati intorno al loro fuoco improvvisato.
Era il momento giusto per agire.
Avvenne tutto molto velocemente: si fece riconoscere da Armin, che gli sorrise con un trasporto tale da commuoverlo, lo liberò, lo aiutò a mettersi in piedi e, più silenziosamente che poterono, si allontanarono dall’accampamento.
Passarono solo pochi minuti e alle loro spalle risuonò un grido:
“Il prigioniero è scappato!”.
“Come cazzo ha fatto?!”.
Eren accelerò il passo, intimando ad Armin di fare lo stesso.
La fuga li portò sempre più distanti dalle voci concitate della banda di criminali, finché non le udirono più, ma erano consapevoli che ciò non li metteva al sicuro.
L’unica garanzia di salvezza era quella di riunirsi ai compagni, impresa tutt’altro che facile: era quasi notte, non riconoscevano i sentieri, per lasciarsi il pericolo immediato alle spalle si erano inoltrati nelle zone più impervie e meno praticate.
Eren disperava che, da soli, avrebbero riconquistato la strada di casa.
Mentre spostava rami e sterpaglie che sbarravano loro il cammino, provava una rabbia immensa, chiedendosi come potessero esistere esseri umani che agivano sui propri simili in maniera peggiore dei giganti stessi.
“Evidentemente, i mostri non sono solo i titani” rifletté, scostando con rabbia un rovo che gli aveva graffiato la faccia.
Teneva Armin per mano, si rendeva conto di trascinarlo bruscamente.
Il compagno arrancava e lo sentiva pesante alle sue spalle, ma non poteva agire in maniera diversa, dovevano allontanarsi il più possibile da quegli…
Non uomini…
Mostri.
“E… Eren…” si levò, flebile, il richiamo alle sue spalle.
“Non possiamo fermarci, Armin!”.
“Sto… per…”.
I passi di Eren si arrestarono bruscamente e si sfogò con un nuovo, furioso strattone alla parete vegetale davanti a sé.
“Merda!” esclamò, voltandosi poi verso l’amico, in tempo per raccoglierlo mentre si accasciava in preda a un violento capogiro.
Si lasciò scivolare a terra con lui e, nell’abbracciarlo, entrò a contatto con il fianco ferito e con la viscosità del sangue ancora fresco, segno che continuava a perderlo.
“Sono uno scemo” imprecò contro se stesso.
Come poteva pretendere che Armin andasse ancora avanti in quello stato?
Perché non l’aveva preso subito tra le proprie braccia, anziché costringerlo a camminare a quella velocità massacrante persino per un fisico in forze?
Però gli servivano le mani libere, quella parte di foresta era troppo intricata per percorrerlo con un compagno svenuto a carico.
Si trascinò con lui in un punto abbastanza libero dalla vegetazione per poter adagiare Armin a terra.
“Armin” lo chiamò dolcemente. “Ti prego, rispondimi”.
Gli diede qualche colpetto sulla guancia e, con suo grande sollievo, dalle labbra dell’amico si levò un gemito.
“Eren… Eren… scusami… io… sono…”.
Lo zittì immediatamente, consapevole che stava per esprimere qualcosa di poco carino nei confronti di se stesso:
“Sei qualcuno che non posso permettermi di perdere, quindi vedi di stare zitto e lasciami fare”.
La priorità era fermare l’emorragia e Eren si odiò ancora di più, perché le lezioni teoriche e pratiche su come prendersi cura di un corpo ferito non erano mai state, per lui, di semplice acquisizione: era molto più bravo Armin in certe cose e avrebbe desiderato, anche per quello, che i loro ruoli fossero invertiti.
Pensare che quel piccolo stupido si riteneva il più inutile della squadra, si insultava, non capiva quanto preziose fossero le sue doti.
“Ora che non c’è da menar le mani sono io a sentirmi un inutile peso morto” pensò, ma lo tenne per sé. Non voleva certo che Armin percepisse tutta la paura che aveva di non essere in grado di prendersi cura di lui.
Il buio sempre più denso non facilitava la situazione, ormai poteva vedere appena, tra le ombre, la figura di Armin, ne coglieva ancora il pallore e gli occhi scavati.
Gli prese una mano e la sentì gelida, gli toccò la fronte e la trovò bollente: ovvio, il fisico di Armin sembrava sempre predisposto alla febbre.
Un po’ di freddo, la stanchezza, un forte stress… e la sua temperatura corporea svettava.
Ma lui andava avanti, testardo, coraggioso…
“Il più coraggioso di tutti…” mormorò, facendo scivolare la mano dalla fronte alla guancia.
Glielo diceva spesso e sperava che, prima o poi, Armin gli avrebbe creduto.
“Eren…”.
“Sono qui. Adesso ci penso io a te”.
Lo avrebbe fatto, anche in mezzo alle tenebre più fitte.
A tentoni trovò il taglio sul fianco, sotto la camicia strappata.
Allargò lo strappo per mettere completamente a nudo la parte. Ad Armin sfuggì un lamento di dolore.
“Tranquillo, resisti, cerco di fermare il sangue”.
Gli rispose un sottile mugolio di assenso e alcune parole mormorate a fatica:
“Non fa così male”.
Se non fosse stato tanto preoccupato, a Eren sarebbe venuto da ridere. Si limitò a un ghignetto nel ribattere:
“Sì… immagino”.
Già…
Fermare il sangue…
Come?
Con cosa?
Non aveva nessuna medicazione con sé, neanche un po’ d’acqua.
Senza pensarci troppo, afferrò un lembo della propria divisa e lo tagliò con il pugnale che aveva con sé, poi lo premette con forza sulla ferita di Armin, provocando un sussulto nel corpicino sfinito.
“Scusami”.
“Tranquillo” squittì la piccola voce dell’amico…
Piccola, come ad Eren sembrava piccolo lui in quel momento.
“Il mio Armin” pensò, quasi in lacrime, mentre si faceva sempre più strada la consapevolezza che stava rischiando concretamente la vita, senza che lui potesse fare nulla più di quello.
“Fermati” supplicò, rivolto a quel flusso scarlatto che sembrava infinito. “Maledizione, fermati”.
Se solo avesse potuto estrarre dal proprio corpo il sangue sano che vi scorreva, glielo avrebbe donato tutto, fino all’ultimo goccia.
La mano di Eren, ormai rossa e viscida, così come la pezza improvvisata, venne coperta da quella dell’amico, che trovò anche la forza di stringerla un poco:
“Eren… non… non aver paura. Resta calmo…”.
Deglutì, senza poter più trattenere le lacrime: quello che giaceva lì, tra foglie, rami ed erba, era qualcuno di troppo prezioso perché il mondo potesse perderlo.
“Non è un taglio profondo” si disse. “Perché il sangue continua a uscire? Perché l’ho fatto correre troppo? È colpa mia!”.
Con cautela, tolse il pezzo di stoffa, cercò di capire, al tatto, le condizioni della ferita: constatò, con sollievo, che tutto il sangue fuoriuscito andava seccandosi e la ferita non ne emetteva più.
Almeno per il momento.
Strinse la mano di Armin:
“Non sanguini più”.
Il ragazzino cercò il suo sguardo, nella tenebra che si infittiva intorno a loro.
Eren riuscì solo a indovinare il sorriso che gli rivolse e lo intuì dal tono della voce:
“Sapevo che ce l’avresti fatta”.
“Io no” fu la risposta che gli suggerì l’istinto.
La voce diede forma, tuttavia, a qualcosa di diverso, mentre gli carezzò la fronte ancora troppo calda, in contrasto con il gelo del resto del corpo:
“Come ti senti?”.
“Debole… scosso… ma ci sei tu…”.
Eren ingoiò, cercando di sciogliere il nodo in gola che lo soffocava.
“Però” riprese Armin, “cosa facciamo? È buio…”.
La voce, troppo affaticata, si spezzò e fu Eren a proseguire per lui:
“E fa freddo. Tu sei gelato. Ma non possiamo arrischiarci ad accendere un fuoco, quei bastardi potrebbero notarlo prima dei nostri compagni”.
Già, i compagni…
Chissà cosa stavano pensando della loro scomparsa.
Eren non dubitava che si fossero preoccupati e anche attivati per cercarli, ma una volta scesa la notte si erano, con ogni probabilità, arresi: nella migliore delle ipotesi avrebbero ripreso le ricerche il giorno seguente e Eren temeva che le condizioni di Armin potessero peggiorare nel frattempo.
“Non ho freddo” mentì il ragazzino, ma senza troppo successo, perché i brividi che lo scuotevano da capo a piedi tradivano il suo reale malessere.
“Aspetta…”.
Eren si tolse giacca e camicia, restando a petto nudo e drappeggiò ogni strato di stoffa così recuperato addosso ad Armin.
“Così sarai tu a morire di freddo” provò a protestare l’amico e Eren si spaventò per quanto suonasse debole la sua voce.
“Io non mi ammalo mai!”.
Era vero.
Chi più chi meno tutti i soldati, sia gli ufficiali che i cadetti, di tanto in tanto si ammalavano, prendevano un’influenza, anche solo un raffreddore.
Eren era uno dei pochi a non aver mai preso nulla, fin da quando era piccolo poteva vantare una salute di ferro.
All’improvviso si sentì più fiducioso, motivato.
Avrebbe tenuto al caldo Armin e avrebbero resistito, insieme, fino al mattino.
Si trascinò fino all’albero più vicino e si sedette, con la schiena appoggiata alla corteccia, poi, con delicatezza, sollevò la testa di Armin e fece in modo di sistemarla, il più comodamente possibile, sulle proprie gambe. Armin si abbandonò a lui con totale fiducia.
“Resta più fermo che puoi, la ferita potrebbe riaprirsi”.
“Non succederà”.
Com’era forte il suo Armin.
Lo coprì ancora meglio con quel poco che aveva e lo tenne stretto, perché gli arrivasse anche il calore del proprio corpo.
“Sei abbastanza caldo?”.
“Sto bene…”.
Non era vero, Eren lo sapeva, era stata una domanda stupida, ma forse tremava un po’ meno.
O, forse, era quello che sembrava, perché anche lui tremava di freddo.
Si impose di restare positivo: non potevano fare altro, se non sperare che la notte passasse senza alcun contrattempo e che, passata la notte, la salvezza sarebbe giunta insieme al sole.
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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