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Autore: Orso Scrive    14/09/2023    1 recensioni
Dopo secoli di lotte, gli eserciti di Atlantide e di Iperborea si sono schierati uno di fronte all'altro nella Piana di Vigrior. Tutti hanno risposto all'appello e sono corsi all'ultima battaglia. La battaglia che cambierà per sempre le sorti del mondo.
Ma Dana, sacerdotessa del dio Beli, è intenzionata a sfuggire al fato racchiuso nei libri sacri e a portare in salvo il suo popolo...
Genere: Fantasy, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.

 

 

 

Le nuvole che avevano celato la luce del Sole furono dissipate da una folata improvvisa di vento. Un vento secco, afoso, mortifero, che proveniva dai resti delle città incendiate dopo i lunghi e aspri assedi. Un vento che recava il tanfo dei cadaveri bruciati, dei corpi abbandonati alle mascelle degli animali selvatici, di tutti coloro che non avrebbero mai avuto l’onore di una sepoltura onorata. I raggi caldi e accecanti del mezzogiorno illuminarono gli eserciti schierati uno di fronte all’altro, come un sudario luminoso venuto ad annunciare nuovi messaggi di morte.

L’intera piana di Vigrior, quella terra fertile solcata dal placido fiume Ifing, si era tramutata in una distesa di bronzo.

Elmi, corazze, schinieri, picche e lance levate verso il cielo. Tutto brillava di una luce sinistra e maligna nell’ondeggiare dei corpi e delle armi. Maschi e femmine in forma umana erano affiancati a tritoni dai corpi muscolosi e dalla testa di pesce, a misteriosi individui alati e con gli occhi fiammeggianti, a serpenti immani innalzati sulle lunghe code e dalla lingua saettante, a possenti lupi eretti sulle zampe posteriori, a esseri a cui il fato aveva donato prerogative divine. Ogni creatura vivente e dotata di intelletto aveva accolto quell’invito, aveva ascoltato la richiesta di convergere in quel luogo dove il destino di ciascuno si sarebbe plasmato, in un modo o nell’altro. Tutti erano accorsi, per portare e per ricevere la morte. Fauci, artigli e lame già bramavano il momento di strappare carne, di spezzare ossa, di assaggiare frattaglie ancora palpitanti, di dissetarsi con sangue ribollente come da empie fonti.

L’ultimo giorno, quello inscritto nelle pagine del destino da tempo immemore, era giunto.

Le macchine da guerra erano pronte.

Catapulte, baliste e altri macchinari che le menti più geniali e insieme contorte avevano saputo ideare, erano prossime ad animarsi per dispensare morte e distruzione. Il legno scricchiolava, le corde si tendevano, gli ingranaggi cigolavano, quasi che quegli oggetti fossero dotati di vita propria e anelassero solo di dare prova delle proprie capacità distruttive. Il fuoco ardeva nei bacili, fiamme contorte e bluastre spruzzavano nell’aria scintille e fumo soffocante. Strani raggi dai colori freddi si srotolavano come serpi infide dai cristalli incastonati nella pietra, predisposti a tranciare arti e ossa, a penetrare scudi e armature.

A un tratto, le spade cominciarono a battere contro i grandi scudi, tondi e ovali, sempre più forte, cadenzando un ritmo alienante e pazzesco. Il clangore riempì l’aria. Un clamore che si levò possente e assordate fino al cielo, cancellando e coprendo qualsiasi altro suono. Come incitate da un comando invisibile, migliaia e migliaia di voci si sollevarono in un alto grido, un unico urlo proveniente da una selva di toraci dilatati e ribollenti di adrenalina. Urla di gioia e d’impeto, a cui si sommarono quelle di scherno e disprezzo dell’esercito avversario. I corni vibrarono, i tamburi rullarono, venne dato fiato alle tombe, i flauti intonarono marce che nulla rimembravano dei canti festosi e degli inni gioiosi che in un tempo ormai sepolto erano risuonati nelle lande iperboree.

Saturno, il grande re d’Iperborea, il signore della terra, il comandante degli eserciti, il depositario della sapienza alchemica tramandata di sovrano in sovrano sin dai tempi del mitico Urano, aveva fatto la sua apparizione in cima al colle sacro di Tara, il piccolo monticello che si innalzava a uno dei margini estremi della pianura. Da quel colle, dove la leggenda diceva che fosse sorto il serpente dorato della creazione nei giorni remoti della Prima Nascita da cui era scaturito il Tutto, sarebbe presto partito l’ordine supremo. Lì dove ogni cosa vivente aveva avuto origine, tutto sarebbe terminato, e un intero modo di vivere, di pensare, di guardare al mondo intero avrebbe incontrato il suo annientamento.

Era una profezia che si compiva.

Una funesta profezia che si era resa inevitabile.

Nei tempi remoti, all’alba della civiltà, quando i popoli erano ancora giovani e privi della malvagità di cui si sarebbero riempiti in seguito, la voce del grande Egipan, il dio profeta dalla testa cornuta e dalle zampe caprine, che aveva abitato i verdi pascoli d’Iperborea e aveva eretto la sua dimora sulle più alte montagne, aveva proferito le arcane parole.

 

Dal tutto scaturirà il nulla

e la vita darà la morte.

Lì, dove il serpente saettò per primo la lingua

per onorare l’alba risplendente,

l’uomo abbasserà il braccio

per salutare da ultimo le tenebre incalzanti.

 

Parole che, per interi millenni, erano rimaste scolpite sul frontone del tempio dedicato al grande dio, e racchiuse nei sacri libri custoditi nei collegi sacerdotali. Parole incomprensibili, a cui invano i re e i sacerdoti avevano tentato di dare una spiegazione. La più arcana di tutte le profezie mai pronunciate dalla voce del profeta. La spiegazione, oggi, era in quella sterminata marmaglia in armi, pronta a dimenticare ogni pietà per dedicarsi a un’unica e violenta carneficina.

Risplendente nella sua armatura di bronzo dorato, una mano protesa a stringere la briglia del suo carro da guerra e l’altra sollevata verso l’alto, brandendo la fulgida falce dalla lama d’argento, il re osservò in un impassibile silenzio i due eserciti che gridavano al suo indirizzo. Il pennacchio rosso del suo elmo ondeggiò nel vento, così come fecero i lunghi capelli e la barba bianchi che circondavano il suo viso antico e sapiente.

Lo sguardo del sovrano apparve indecifrabile, mentre il suo sguardo percorreva le file alleate e quelle avversarie.

Gli eserciti di Iperborea e di Atlantide erano pronti a marciare l’uno contro l’altro. Anni e anni – secoli, quasi un millennio intero – di conflitti e di incomprensioni irrisolte avevano condotto a questo, allo scontro fratricida delle più grandi potenze che avessero mai solcato le vie della terra. I figli e gli adepti del Vril, la potenza generatrice di cui tutti loro avevano beneficiato, avevano scordato la saggezza che aveva mosso i loro antenati per un tempo interminabile. Città erano crollate, uomini e donne avevano subito il più atroce massacro.

E ora si compiva l’ultimo fato.

Negli occhi e nei visi delle sue guerriere e dei suoi guerrieri, il re lesse la determinazione a resistere e a vincere, oppure a subire la sconfitta dopo aver versato dai corpi stremati l’ultima stilla di sangue. La medesima espressione la ritrovò nelle fattezze delle Amazzoni, le fiere guerriere abituate ad andare nude in battaglia. Quelle donne impavide, che avevano perduto il loro vetusto regno a causa della tracotanza dei signori di Atlantide, avrebbero combattuto fino a che nemmeno una di loro fosse rimasta in piedi, pur di vendicare l’oltraggio subito. Vide gli sguardi famelici e bramosi di sangue di tutte le creature, terrestri e acquatiche, pronte a morire a un suo semplice comando.

Nessuno si sarebbe sottratto al proprio dovere.

Là dove non c’era proposito di vendetta, c’era un fanatismo ormai incontenibile. Molti di coloro che erano conversi sulla piana, non avrebbero saputo dire perché si trovassero in quel luogo: avevano semplicemente ascoltato un richiamo interiore a cui sarebbe stato impossibile dare un volto, una forma, un nome. Il richiamo del sangue, della carne.

Il richiamo della morte.

Il re osservò la volta del cielo.

Enormi esseri piumati e creature simili a pipistrelli giganteschi lo avevano oscurato. Falene dalle forme quasi umane si inseguivano, ronzando adagio. Rettili dalle lunghe ali squamose saettavano le lunghe lingue biforcute dalle bocche irte di denti affilati. Volavano di qua e di là, in un frusciare di ali, in un battere di artigli e di rostri, in uno strepitio di armi.

E non erano i soli ad aver profanato quella che sarebbe dovuta essere la dimora degli dèi.

I vimana volteggianti, con i loro carichi di morte, gli annientatori di mondi, sibilavano versi acuti, emettevano luci accecanti dai mille colori e lasciavano dietro di sé scie di vapore, nuvole fasulle che si confondevano con i fumi degli incendi e con la coltre di umidità dovuta al sudore emanato dai tantissimi corpi ammassati gli uni contro gli altri. Sarebbe stato uno spettacolo grandioso e meraviglioso, se solo non fosse stato il preludio a una carneficina ormai irrimediabile.

Lo sguardo di Saturno cercò lontano, oltre le linee nemiche.

Avrebbe voluto vedere il viso di Oannes, il signore di Atlantide. Avrebbe desiderato leggere nei suoi occhi quale follia lo avesse indotto a giungere fino a tutto questo. Se l’avesse scorta, forse avrebbe potuto dare un senso alla medesima follia che aveva indotto lui stesso a scatenare le ostilità e a non sentire alcuna ragione. Oannes non era esente da colpe, e in questo Saturno gli era alla pari. Follia, morte e distruzione erano responsabilità che i due grandi sovrani si erano assunti all’unisono e non avevano più voluto lasciare andare.

Entrambi colpevoli.

Entrambi incapaci di riconoscere i propri errori.

Entrambi destinati ad annientare stirpi e popoli.

Non riuscì a scorgere il vittorioso comandante che, per primo in migliaia di anni, era riuscito a oltrepassare i sacri bastioni di Iperborea portando le sue armate fin nel cuore dell’antica terra. Oannes, implacabile, aveva assediato e distrutto decine di città, e infine era riuscito a prendere e radere al suolo persino Urania, la città-fortezza nel cui centro era sorto per millenni incalcolabili il palazzo dei sovrani, il trono dei re di Iperborea. Gli eserciti di Atlantide avevano estirpato Yggdrasil, il frassino della vita, e lo avevano condotto lontano, giurando che mai più i venerabili rami sarebbero germinati di nuove foglie nella terra di Iperborea.

Mai, nemmeno nei tempi più cupi e difficili, il popolo degli Iperborei aveva subito un simile rivolgimento disastroso.

Sembrava davvero che la fine del mondo intero fosse prossima.

Nonostante tutto, Saturno avrebbe agognato incontrarlo, come in passato. Avrebbe desiderato sedere con lui e accordarsi pacificamente, risolvendo a parole il conflitto disastroso. Andò con la memoria agli anni ormai lontani e sbiaditi in cui i due re, da pari a pari, uniti dalla consapevolezza di essere i più grandi e sapienti tra tutte le creature viventi, si erano trovati faccia a faccia e si erano stretti le destre in giuramento solenne di amicizia e di fedeltà. La sala delle colonne della sacra isola di Thule era stata la muta e silente testimone di quel patto.

Un patto che entrambi avevano infranto, giungendo a questo.

Vanagloria, la loro. Perché da grandezza e saggezza – o, almeno, da ciò che i due sovrani avevano considerato tali – non era derivata altro che morte. Morte e distruzione. Ciascuno di loro era stato accecato dalla voglia insaziabile di nuove conquiste, di nuove ricchezze, di potere infinito, sconfinato. Non aveva senso domandarsi chi dei due avesse cominciato per primo. Serviva soltanto sapere che il risultato erano queste schiere tumultuose, pronte a scontrarsi fino all’ultimo spasimo.

«Cerca il re di Atlantide, signore», risuonò una voce leggera alle sue spalle.

Saturno non si voltò all’indietro. Distogliere lo sguardo dagli eserciti schierati avrebbe potuto essere interpretato come un segno di debolezza. Le sue armate si sarebbero sbandate, credendo che il re non osasse assistere impassibile e imperioso alla battaglia, e quelle nemiche avrebbero marciato contro di esse con maggiore accanimento, guidate dalla consapevolezza di una vittoria ormai inevitabile.

Era il momento di compiere una scelta, e il sovrano la compì mantenendo lo sguardo saldo in avanti. Sapeva più che bene che, così, avrebbe mancato di rispetto alla sacerdotessa del Sole, il più grande dio della terra di Iperborea, di cui lui stesso era figlio e fratello: un delitto imperdonabile, in altri tempi.

Ma i tempi erano mutati per sempre.

«Egli rifugge il mio sguardo, Dana», mormorò il vecchio sovrano.

Una folata di vento trasportò una nube di polvere e di fumo che, per un momento, lasciò il re circonfuso di una tetra e malaugurata caligine. I cavalli neri imbrigliati al cocchio da guerra sbuffarono e calpestarono il terreno con gli zoccoli, nervosi. Sembrava che anche loro non bramassero altro che slanciarsi nella mischia. La battaglia era nell’aria, riempiva tutta l’atmosfera come una vibrazione irresistibile. Una forza implacabile e a cui sarebbe ormai stato impossibile opporsi.

La sacerdotessa del dio Beli, moglie inviolabile del Sole Invincibile e custode della Luce del Nord, mosse un passo leggero verso il sovrano assiso sul carro. Un’età indefinibile gravava sulle sue spalle – anni, secoli, forse interi millenni, che il Vril aveva reso simili a giorni – eppure ella appariva sempre giovane e bella, beneficata dai poteri del dio immortale con cui era in completa comunione. I suoi piedi scalzi frusciarono a contatto dell’erbetta fresca della magica collina.

Nonostante il frastuono assordante, Saturno percepì ugualmente quel suono in cui ancora rifulgeva un poco dell’antica pace ormai perduta. E alle sue narici, al di sopra del fetido olezzo che gravava ovunque, giunse il delicato profumo della sacerdotessa, un sentore di fiori di campo e di spezie esotiche, di vaniglia e di miele, che stonava in quell’insieme pestifero e moribondo.

«Tu puoi ancora fermare tutto questo, signore», disse la donna. Il suo tono era una dolce e flautata melodia. Una carezza proibita per i timpani stanchi di Saturno. «Beli mi ha inviato un vaticinio. La sua voce è risuonata chiara alle orecchie del mio cuore, la sua luce calda è scesa ancora una volta a lambire il mio corpo consacrato alla sua potenza. Egli ha parlato. Egli ha compreso l’errore in cui lui stesso cadde, tantissimo tempo fa. Non sarà il tempo della fine, se tu lo impedirai. Un’antica profezia non può influenzare ciò che noi siamo e ciò che saremo. Un dio antico, il cui nome è stato quasi del tutto cancellato attraverso la polvere dei millenni, non può avere alcuna reale influenza su tutti noi. Sei tu il nostro sovrano, sei tu l’artefice del destino di Iperborea, non Egipan. Se incontrerai il tuo fratello, se camminerai con cuore saldo verso di lui, gli eserciti si apriranno silenziosi al tuo passaggio ed egli ascolterà le tue sagge parole. Deponi le armi e allarga le braccia per accoglierlo, come in passato. Dimentica odio e bramosia e il destino muterà.»

Il vecchio scosse leggermente il capo.

«È troppo tardi, ormai.»

La sua voce, al contrario di quella della sacerdotessa, era bassa e roca. Stanca. La voce di un uomo ormai arreso all’ineluttabilità del destino.

«Un tempo, Beli la pensava come te», riprese Dana, quasi gli avesse letto nel pensiero. «Prima di lasciare la sua forma fisica, egli era convinto che il destino scritto da centinaia di migliaia di anni non potesse essere mutato. Ma si sbagliava, e lo ha ammesso. E se un dio può ammette di aver commesso un errore, perché non potrebbe farlo un re? Abbandona i propositi di sangue, re Saturno, e incontra il tuo fratello Oannes, per parlare e risolvere così la vostra eterna contesa, che non ha recato altro che lutti e devastazioni.»

Saturno non si mosse. La sua voce, quando rispose, divenne ancora più rauca e stanca di quanto non fosse stata soltanto un momento prima. Eppure, nonostante la rassegnazione, in lui era ancora presenta una lucidità in grado di mostrargli le cose per come erano davvero.

«Il tempo delle parole è terminato da moltissimi anni. Non vedi questi eserciti, Dana? Non odi gli strepiti, i clamori? Nulla ormai può trattenerli. E non giunge al tuo naso l’odore dei cadaveri in putrefazione, che gridano vendetta? E non è solo vendetta, quella che ruggisce ai nostri piedi. È orrore allo stato puro. Questi esseri sono affamati di morte, massacri, stupri. Il germe della cattiveria si è impadronito di tutti loro: non sono più esseri distinti, differenti l’uno dall’altro. Non c’è più niente di individuale, in queste creature. Sono un’unica entità, una sola mente collettiva mossa da un unico pensiero ormai impossibile da sradicare. Il sangue scorrerà, le vite saranno troncate. La fertile pianura, che tanto a lungo ha sfamato le nostre genti donandoci i frutti più appetitosi e maturi, si tramuterà in una distesa sanguinolenta di cadaveri putrefatti. Niente lo impedirà. Aspettano solo un mio cenno. E io intendo darlo. Non posso sottrarmi a ciò che io stesso ho avviato.»

Dana affiancò il carro del re. La sua veste ricamata ondeggiò nel vento caldo, che scompigliò i suoi lunghissimi capelli color dell’oro. I suoi occhi, blu come il ghiaccio imperituro delle cime dei monti e come il cielo in cui risplendeva il suo dio, cercarono invano quelli di Saturno. Il vecchio la ignorò. Il sovrano continuò a fissare con insistenza gli eserciti pronti a darsi la morte.

«Non sarà mai troppo tardi. Beli ha parlato. E chi mai potrà opporsi al Sole, alla sua forza che scaturisce dall’Universo? Non tu, non Oannes, tantomeno un vecchio dio dalle gambe caprine e coperto di peli!»

Un gemito le sfuggì dalle labbra, ma i suoi occhi restarono asciutti e continuò a parlare. Una voce chiara, capace di vincere ogni clamore.

«Gli uomini cadranno, le creature viventi torneranno a fondersi nel nulla, le terre muteranno la loro forma, i fiumi devieranno il loro corso e gli oceani sommergeranno ogni cosa, gli stessi dèi saranno perduti e dimenticati, nomi ormai vuoti di senso: ma il Sole continuerà a rifulgere, imperituro! La sua gloria sarà sempiterna! Perché non ascoltare il suo verdetto, allora?»

La sacerdotessa sospirò, come se parlare le stesse costando uno sforzo immane. Riuscì a proseguire.

«Disperdi le armate, signore, e compi il tuo dovere di sovrano saggio e illuminato. Segui la via che Beli ti indica con i suoi raggi luminosi. Fai come ti dico, e la tua luce gloriosa rifulgerà nei secoli: tu stesso sarai ricordato come una divinità, al pari del Sole. Accanto a Beli il Glorioso, tuo fratello e padre, tu sarai Saturno il Salvatore, pastore dei popoli. Ma se non mi ascolterai, se ti accanirai in questa mortale follia, tanto Iperborea quanto Atlantide subiranno lo smacco della sconfitta e della distruzione e i Dodici scenderanno dal loro monte lontano per adempiere al loro destino di futuri padroni del mondo, prima che anche il loro tempo giunga al termine. E tu, Saturno, sarai soltanto un vecchio rassegnato e sconfitto, costretto all’esilio in terre lontane, dove soltanto pastori ignoranti, che mai videro la grandezza d’Iperborea, daranno ascolto agli ultimi insegnamenti che sarai capace di impartire.»

Per un brevissimo istante, Saturno apparve incerto e insicuro. La sua vita era stata troppo lunga e le innumerevoli esperienze che aveva vissuto erano state troppo profonde per potersi sottrarre all’ascolto di una profezia. Ma anche altre profezie erano già state pronunciate in sua presenza, molte altre ancora si erano tramandate attraverso le generazioni, e tutte avevano condotto a questo momento.

Impossibile fingere che non fosse così.

Il fato aveva stabilito da tempo immemore che si sarebbe giunti a questo istante supremo. E, al contrario di ciò che sosteneva Dana, nessuno – né Saturno, né Oannes, e neppure il dio Beli in persona – avrebbe potuto sottrarsi al volere del fato, il regolatore implacabile del Tutto e del Niente. Di quello che sarebbe stato poi, a Saturno non importava.

«Non posso trattenere questa turba di guerrieri inferociti, Dana!», replicò il vecchio. Adesso, nel suo tono, si diffuse un accento più duro, aspro. «Il dio del Sole è forse divenuto cieco? È dunque priva della capacità di ragionamento, la sua mente? Nemmeno se apparisse in tutto il suo fulgore nel mezzo del campo di battaglia, rivestito della sua armatura d’oro e con in pugno le armi forgiate da Weland e accompagnato dalle sue sorelle Selene la nottilucente e Eos portatrice di luce, egli potrebbe adesso impedire che le armi cozzino l’una contro l’altra!»

Dana sussultò. Un ansimo le sfuggì dalla labbra. Indietreggiò e quasi incespicò nei propri passi. Sul suo viso, l’eterea bellezza lasciò il posto a un’espressione mortificata, tetra. Un pallore quasi mortale invase la sua fronte e le sue tempie. D’improvviso, l’età implacabile sembrò gravare su di lei, facendola apparire vecchissima e stanca.

«Mai e poi avrei creduto che Saturno il Saggio, figlio di Crono il Grande e fratello del dio Beli il Risplendente, avrebbe potuto piegarsi a proferire bestemmie come l’ultimo dei suoi soldati», disse, trattenendo a stento le lacrime.

«Vattene, Dana!» ruggì il vecchio.

I cavalli, ancora una volta, scalpitarono. Il re li trattenne a stento, tirando indietro le briglie con forza. Le sue braccia furono solcate da vene rigonfie e sul collo l’arteria gli pulsò in modo pericoloso.

«Vattene, prima che dia ordine alle mie guardie di condurti via con la forza! Non intendo spingermi a insultare in questo modo la tua figura sacrale, ma non sfidarmi per scoprire fino a che punto potrei osare arrivare! Allontanati da sola, sulle tue gambe! Un campo di battaglia non è il luogo adatto per una docile sacerdotessa abituata a vivere ritirata nella pace dei templi e tra i fumi inebrianti delle sostanze sacrali, ad ascoltare il canto celeste! Tornatene da dove sei venuta e innalza preghiere al tuo dio, se ancora è in grado di ascoltarle, perché la vittoria arrida al nostro popolo!»

Il tono di Saturno si era fatto all’improvviso duro e sprezzante. Sembrava che uno spirito malefico si fosse impossessato del suo essere, togliendogli ogni residuo di saggia consapevolezza. Al posto del vecchio sapiente che da tempo immemore reggeva le sorti di un mondo, c’era adesso un demone capace solo di pensare alla guerra.

«Oggi Iperborea muore», sussurrò Dana.

«Sia quello che deve essere», replicò il sovrano, con accento duro.

La sacerdotessa alzò di nuovo lo sguardo, sfidando la figura del re, che si ostinava a ignorarla. Il viso della donna tornò a farsi bello, acceso di una luce nuova. La fiamma di una determinazione consapevole illuminò il suo sguardo, facendolo sfolgorare come se il Sole stesso ardesse nelle profondità del suo animo.

«Ma, per Beli, io farò di tutto per impedire che ogni cosa si disperda tra la polvere e le fiamme delle battaglie!» promise, solenne. «Io farò sì che l’antica sapienza perduri, e che il popolo di Iperborea non muoia tra fiamme e patimenti!»

Dalle labbra di Saturno uscì un borbottio incerto, che si disperse nel clamore degli eserciti.

I soldati, sempre più eccitati nell’orgasmo imminente dello scontro mortale, cominciarono a invocare il suo nome, chiedendo di dare inizio alla battaglia senza più alcun indugio. Le truppe avversarie tentarono di sovrapporsi a quel grido urlando a gran voce il nome di Oannes, il loro re. Le spade, la lance e le picche batterono più forte contro le armature, addosso agli scudi, sul terreno. Pietre e terra furono calpestati con forza da piedi nudi o calzati, da zampe e zoccoli. Versi, sibili e ruggiti accrebbero d’intensità fino a fondersi in un unico suono, di cui divenne impossibile distinguere le differenti origini. Il cacofonico clamore fu tale che la terra tremò, come se fosse in preda a un terremoto.

La sacerdotessa oscillò e barcollò. Parve percossa all’improvviso da un violento pugno invisibile. Dovette aggrapparsi alle stanghe del carro da guerra per non crollare sull’erba. Assordata da quel grido lacerante, le forze le vennero improvvisamente a mancare. Un malore infausto le si diffuse in tutte le membra. Il suo volto, già pallido, assunse un colorito bianco, funereo. Lacrime impotenti le inumidirono le guance.

«Vattene», intimò ancora una volta il re.

Dalla base della collina giunsero di corsa quattro uomini e quattro donne, tutti vestiti con abiti ricamati con effigi solari, come lei. Le sacerdotesse la afferrarono e la trattennero prima che potesse perdere i sensi. Morfesa, il più alto e muscoloso dei druidi, si premurò di prenderla tra le propria braccia e di tenerla sollevata. Dana ansimò e non disse nulla. Respirò a fatica.

«Conducetela lontana e che non appaia mai più dinanzi ai miei occhi, perché se la rivedrò non risponderò delle mie azioni e dimenticherò il rispetto dovuto alla sua funzione sacrale», ordinò Saturno, duro. «Le sue infauste parole sono un tradimento verso l’intera stirpe degli Iperborei! Da questo momento, Dana e chiunque le sia vicino dovrà vivere in totale reclusione nel tempio di Beli, sulla cima del monte Elios; il collegio sacerdotale dovrà abbandonare ogni altro tempio, compreso quello dell’isola di Thule. Chi oserà lasciare tale prigionia, sarà catturato e condotto al più doloroso dei suplizi!»

I sacerdoti, sbigottiti, non osarono replicare nulla. Si limitarono a chinare il capo e a continuare a sorreggere Dana, quasi esanime. Soltanto Morfesa, rispondendo al suo spirito ribelle, mantenne lo sguardo alto. Quel decreto regale aveva appena ridotto il culto del Sole, da lunghi secoli il più diffuso nella terra di Iperborea, a un crimine da perpetrare in segreto e in un luogo quasi inaccessibile.

«Noi oggi combatteremo e vinceremo, e i nostri avversari saranno schiacciati come insetti molesti!» ruggì ancora Saturno, esaltato. «E da questo momento in avanti, si onorerà solo il dio della guerra Teutates, non altri!»

Non degnò di un solo sguardo i sacerdoti di Beli che, intonando a bassa voce preghiere per il loro dio, si allontanavano trasportando la sacerdotessa ormai priva di forze. Alcuni soldati, avendo sentito il decreto del re, si affrettarono a scortarli affinché non disobbedissero a quanto era stato loro imposto. Una nube di fumo nero, trasportata dal vento che spirava dalla direzione del mare, li velò fino a celarli del tutto.

L’attenzione di Saturno restò tutta per gli eserciti pronti allo scontro.

 

 
   
 
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