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Autore: Shadow writer    18/09/2023    0 recensioni
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui».
In un diario dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa.
Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la caviglia. Quella sera era ancora il mio salvatore.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 1. Il club

Al posto di crogiolarmi nel dolce far niente nelle prime settimane di libertà a fine giugno, avevo deciso di fare da educatrice al campo estivo che avevo frequentato fin da quando ero piccola. La paga era un mero rimborso spese, ma mi piaceva trascorrere le giornate a inventare attività per i bambini e giocare con loro.
Il venerdì che concludeva la mia prima settimana di lavoro era iniziato male quando due bambini avevano cominciato a tirarsi i capelli ancora prima che l’autobus partisse. Mi ero dovuta intromettere tra di loro per separarli, prendendomi qualche cazzotto a mia volta. Alla fine, mi era seduta tra i due per separarli e Andrea, il bambino alla mia destra, aveva passato i primi minuti di viaggio a dire che a lui i pullman facevano venire da vomitare, minacciando di farlo sulle mie gambe a ogni curva. Mi chiesi se anche io fossi risultata così difficile da gestire ai miei educatori, perché avevo solo bei ricordi di quei momenti.
«Io guiderò la mia barca contro di te e ti farò cadere nel lago!» strepitò Giacomo, il bambino alla mia sinistra, allungandosi verso Andrea. Gli afferrai il polso e lo rimisi al suo posto. «Il primo che farà cadere qualcuno in acqua, verrà abbandonato in mezzo al lago, così i pesci potranno mangiarlo» gli dissi e quello ammutolì.
Quando ero piccola, tutte le attività si svolgevano nella colonia in cima al monte, tra la frescura dei boschi e le vecchie stanze dell’oratorio in disuso, ma negli ultimi anni erano state inserite uscite che potessero rendere il campo più interessante, come la giornata al club di vela e canottaggio. Il pullman superò l’ultima curva e raggiunse la strada che costeggiava il lago. Le spiagge erano già gremite di turisti e locali che avevano piantato i loro ombrelloni colorati e le sdraio di plastica sui sassi chiari. Era una giornata soleggiata, ma un vento leggero che veniva dal lago rendeva piacevole la temperatura. Il bus si fermò davanti all’insegna del club, una scritta blu su assi verniciate di bianco e tutti i bambini si riversarono nel parcheggio. Alla nostra sinistra sorgeva il ristorante, con la sua elegante terrazza che si affacciava direttamente sull’acqua. A destra, invece, c’era l’ingresso per la palestra e gli spogliatoi, che conduceva poi al porto.
Controllai di avere tutti i bambini che mi erano stati assegnati e li guidai all’interno, dove lasciarono gli zainetti negli spogliatoi e poi andammo verso il porto. Il responsabile degli istruttori, un uomo alto e massiccio, con i capelli rasati e la pelle inspessita dal sole, disse ai bambini di stendere le salviette a terra dove c’era ombra, sull’asfalto, così che potessero iniziare la prima parte delle lezioni della giornata. Tra gli schiamazzi, quelli ubbidirono, senza lasciarsi sfuggire occhiate ammirate per le barche a vela poco distanti, sia quelle in acqua, sia quelle sollevate.
«Margherita!» 
A chiamarmi era stato il capo educatore, un trentenne stempiato con degli occhialetti rotondi che continuamente gli scivolavano giù dal naso sottile. «Per questa prima parte della lezione servono solo metà educatori. Se vuoi puoi prenderti una pausa al bar insieme agli altri e tornare tra un’oretta».
Lo ringraziai e mi diressi volentieri verso il bar, un chiosco in legno bianco collocato tra il porto e il ristorante. I miei colleghi erano già seduti a un tavolo da picnic, sotto ad un ombrellone azzurro chiaro, così andai al bancone per ordinare. Mentre aspettavo di essere servita, mi sentii chiamare nuovamente, ma questa volta da una voce diversa. Era Sam. Mi si parò di fronte, alto e sorridente. Non lo vedevo dalla sera in cui mi aveva riportata a casa in moto, la settimana prima, e notai che aveva tagliato i capelli e la pelle abbronzata faceva apparire più chiari i suoi occhi azzurri. Indossava la polo bianca degli istruttori di vela, con il logo del club – un gabbiano con le ali aperte – cucito in blu in alto a sinistra. «Com’è l’estate senza esami?».
«Piena di bambini urlanti» risposi.
Il barista mi porse in quel momento il tè freddo che avevo ordinato e feci per pagare, ma Sam fu più veloce: «Quello lo offro io. Vieni, hai voglia di farmi compagnia mentre faccio colazione?».
Acconsentii, così ci spostammo a uno dei tavoli più vicini al lago, da dove riuscivamo a scorgere i bambini che seguivano la loro prima lezione di vela sulla destra, mentre a sinistra si intravedevano tra le vetrate e le tende bianche i camerieri che stavano preparando il ristorante per il pranzo. In mezzo, il lago era una distesa turchina appena increspata dal vento e l’aria era così nitida che si vedeva la sponda opposta, un insieme irregolare di monti puntellati da agglomerati di edifici, che si stagliava contro il cielo brillante. 
«I tuoi esami come stanno andando?» chiesi. Sapevo che studiava qualcosa a metà tra le Lingue ed Economia, ma non avevamo mai parlato molto dell’università.
Lui scrollò le spalle. «Abbastanza bene, ma con il lavoro qui faccio fatica a trovare tempo per lo studio. Mio padre vorrebbe che mi concentrassi sull’università, ma un’estate senza lago non è una vera estate per me».
Mi fece sorridere. Suo nonno aveva fondato Il Gabbiano negli anni Sessanta, come un centro sportivo per velisti e canottieri. Nei decenni successivi, anche attraverso l’aiuto del figlio, il padre di Sam, era nato il ristorante e il chiosco e infine si era ampliato con la propria spiaggia privata, diventando uno dei principali luoghi di interesse in quella sponda del lago. 
«Hai visto Ginny in questi giorni?» mi chiese, guardandomi attraverso le sopracciglia corrugate con uno sguardo concentrato. 
Scossi il capo. «Ha l’orale lunedì, sai com’è quando deve studiare. Tu l’hai più sentita?»
Anche lui fece cenno di no. «Dici che dovrei augurarle buona fortuna per lunedì?».
Mi strinsi nelle spalle, non sapendo cosa rispondere, e ci pensai un attimo perché Ginevra non mi aveva ancora detto nulla della rottura. Il suo atteggiamento non mi stupiva, perché già altre volte ero venuta a sapere delle loro litigate solo a distanza di tempo. Non mi ero mai lamentata, perché sapevo che erano affari loro e che Ginny mi avrebbe messa al corrente se avesse voluto. 
«Hai avuto dei ripensamenti?» chiesi a Sam.
Parve stupito dalla domanda, perché sgranò gli occhi. «No», rispose in tono perentorio, «te l’ho detto, questa volta è per sempre».
In quel momento, gli educatori in pausa vennero richiamati dai bambini, così dovetti salutarlo e tornare al porto.
 
Quella sera tornai a casa distrutta dalla giornata al lago, tanto che dopo la doccia mi lanciai sul letto e mi addormentai immediatamente. Avevo trascorso il pomeriggio a controllare bambini scalmanati che correvano sulle rocce e sguazzavano allegramente nell’acqua alta. Mi ero dimenticata di mettere la crema solare, così sentivo la pelle che tirava e scottava sulle spalle e sulla schiena. Dopo la chiacchierata al chiosco, io e Sam ci eravamo incrociati solo di sfuggita, quando aveva riportato i bambini dall’uscita con le barche a vela e poi ci aveva aiutato a radunarli prima di prendere il pulmino.
Stesa sul letto, ascoltavo mia nonna, al piano di sopra, che affettava il prosciutto e ascoltava il telegiornale al massimo volume. Mi resi conto di essermi addormentata quando sentii mia madre chiamarmi per la cena. Mi vestii di fretta – una gonna corta e una canottiera bianca – e corsi in cucina.
«Non ci sono per cena, esco con Ginny ed Erika» le dissi.
«Buono a sapersi» replicò mio papà dal tavolo, «così posso mangiarmi anche la tua porzione».
Ridendo, lo salutai con un bacio sulla guancia, poi uscii di casa. Mi affrettai giù per i tornanti, per raggiungere il parcheggio dove mi aspettava Erika, nella sua vecchia Clio grigia.
«Scusa per il ritardo» dissi salendo sul posto del passeggero. «Mi sono addormentata quando sono tornata dal campo estivo»
«Oh, figurati, ero appena arrivata» replicò Erika con noncuranza e capii che stava mentendo per farmi sentire meno in colpa.
Avevo conosciuto Erika durante un corso di pallavolo alle medie. Avevamo la stessa età, ma lei era in una classe diversa e non ci eravamo mai parlate prima. Eravamo diventate amiche, ci vedevamo anche fuori dal corso, così l’avevo presentata a Ginevra, che l’aveva accolta di buon grado nonostante fosse diversa dal tipo di ragazza che frequentava. Erika era vivace e le erano sempre piaciuti gli sport, non le feste eleganti e gli abiti firmati. Se un indumento non fosse andato bene per correre o giocarci a calcio, non lo avrebbe mai messo. 
Guidò fino al locale che Ginny aveva scelto per cena, un ristorante in un paese vicino che si affacciava sulla piazza principale del centro storico. Dopo qualche tentativo, trovò parcheggio e ci dirigemmo verso la piazza, su cui dominava la chiesa, in marmo bianco, con la grande scalinata che saliva fino al portone. Al suo fianco, un palazzo in pietra da poco restaurato ospitava il municipio da centinaia di anni. 
Ginny ci aspettava fuori dal locale, reduce da un altro aperitivo poco distante. Nonostante la sua modesta altezza, si faceva notare per il suo atteggiamento fiero, la schiena dritta e il mento alto. Cercai sul suo viso qualche segno di tristezza o dolore, ma non ci riuscii. Pareva più che altro scontenta per il nostro ritardo.
«Finalmente!» borbottò quando ci vide. «Stavo cominciando a pensare che non ci avrebbero più tenuto il tavolo riservato». 
Un cameriere ci fece accomodare all’esterno, sotto alla veranda aperta.
«Non parliamo dell’orale per favore» stabilì immediatamente Ginevra. «Mi viene l’angoscia al pensiero che voi lo abbiate già fatto e io devo aspettare altri tre giorni».
«Eh dai, Ginny!» protestò Erika. «Sei già promossa e non ti lasceranno con meno di novanta. Di cosa hai paura?»
Ginevra la squadrò come si guarda una persona che non capisce un discorso elementare. «Ho paura di tutto quello che c’è dal novanta al novantanove».
Intervenni tra le due, rivolgendomi a Ginny. «Vedrai che andrà tutto bene, hai avuto tutto il tempo per prepararti. Però stasera parleremo d’altro, come vuoi tu, okay?»
Lei annuì e parve rilassarsi. «Scusatemi, sono solo un po’ tesa».
Erika rise e la pungolò con il gomito. «Non ce ne eravamo accorte».
Ginny scosse il capo, facendo ondeggiare la frangetta nera, e sospirò. «Non vedo l’ora di partire per la Sardegna».
Il cameriere ci chiese cosa volessimo da bere, poi sparì all’interno del ristorante, lasciandoci consultare i menù.
Lanciai un’occhiata fugace a Ginevra da dietro il foglio che stava leggendo. Pareva assorta nella lettura delle insalatone e il suo volto non tradiva nessun altro pensiero.
Decisi di fingere nonchalance quando le chiesi: «A proposito di Sardegna, anche quest’anno viene Sam con te?». Forse era una mossa meschina, la mia, ma sapevo che non le avrei cavato nulla con una domanda diretta. Inoltre, avevo imparato questa tecnica da lei, che era maestra nel rigirare le conversazioni a proprio vantaggio senza che l’interlocutore se ne rendesse conto.
Ginny si irrigidì e alzò gli occhi inespressivi verso di me. «Non credo. Sam e io… abbiamo litigato».
Erika rise. «Sai che novità!»
«È una cosa seria?» la incalzai. Lei scrollò le spalle. «Chi lo sa. Non lo vedo da qualche settimana e per il momento sto bene così».
Erika parve intercettare la serietà della conversazione perché il sorriso si spense sulle sue labbra e assunse una posa più composta. Mi guardò, in cerca di una spiegazione, e quando non la ricevette si rivolse a Ginny. «Voi… vi siete lasciati?»
L’altra sbuffò. «Sì, come le altre cinquecento volte». Quando si accorse che entrambe la stavamo fissando senza parlare si spazientì. «Allora, volete decidere cosa ordinare?»
Erika e io abbassammo gli occhi sui menù, ma ci scambiammo un’espressione d’intesa. Anche l’argomento “Sam” era tabù per quella sera.
 
Qualche ora più tardi, mentre mi riaccompagnava a casa, Erika si azzardò a tornare sull’argomento vietato. La strada aveva appena iniziato a salire verso l’alto e, all’altezza del primo tornante, domandò: «Come la vedi tra Ginny e Sam?»
Strinsi le labbra e fissai gli occhi sulla strada scura, lo stesso asfalto che avevo percorso aggrappata a Sam, poco prima che lui mi rivelasse tutto.
«Sembra seria questa volta, ma con loro due non si può mai sapere» risposi senza troppa enfasi. 
Erika mi diede ragione e, sbuffando, aggiunse: «Dovremo attendere cosa decide Mr Perfezione».
«In che senso?»
«Mi sembrava chiaro che non fosse una scelta di Ginevra. Se lui cambierà idea torneranno insieme per la millesima volta».
Non replicai. A Erika, Sam non era mai piaciuto. Provava un’ostilità di fondo nei suoi confronti, che era data dalla sua condizione sociale – Sam era ricco e quindi, come tutti i ricchi, corrotto – e dal suo atteggiamento così sicuro di sé da apparire altezzoso. E poi Erika, benché più distaccata da Ginny rispetto a me, allo stesso tempo tendeva a darle più credito di quanto facessi io, per cui credeva sempre alla sua versione dei fatti senza mai approfondire. La lasciai guidare in silenzio fino a che non mi lasciò davanti a casa mia.
 
   
 
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