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Autore: _the_unforgiven_    27/09/2023    3 recensioni
Micro raccolta di due racconti AU, accomunati dall'elemento soprannaturale e da una certa qual deriva thirsty.

I. Breve Racconto Arcadico
(Dicono che un dio tenga corte sul monte Citerone.)
Dionysos!Aziraphale, Pentheus!Crowley

II. Breve Racconto Gotico
(Spesso, una vecchia casa non è niente di più che una vecchia casa.
E poi, e poi ci sono case come questa.)
Priest!Aziraphale, Ghost!Crowley
Genere: Erotico, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Breve racconto arcadico

 

 

L'implacabile calore dell'estate va finalmente cedendo il passo alle prime avvisaglie d'autunno.

L'aria violetta del mattino risuona del richiamo delle rondini prossime a partire; i cortili sono pieni del profumo verde e pungente dei fichi maturi.

Ma dentro le case, i grandi telai e la lana da filare giacciono abbandonati nelle stanze ombrose; nessuna voce si ode cantare oltre i muri dei giardini; deserti i templi e i cortili del passo leggero di fanciulle e spose.

Le donne di Tebe non hanno ancora fatto ritorno.

Dicono che un dio tiene corte fra i boschi, sul monte.

Dicono che Dioniso stesso abbia acceso la pazzia nelle donne della città, per punire chi dubitava della sua ascendenza divina; che chiunque sale la montagna cade preda del suo potere, e abbandona il mondo degli uomini per vivere fra le belve.

Dicono tutto questo; e intanto restano qui, intimoriti e stupidi come un gregge che spera di avere indietro le pecore prese dal lupo.

Gemono che è stato un dio a volerli punire; così non devono vergognarsi di restare qui, tremanti nelle loro case vuote.

Si danno per sconfitti, e inventano qualcosa di più grande di loro, per poter dire che solo pregando si può affrontare la sventura.

Dicono tutto questo, e io non credo a una parola.

Quel che ha rapito da Tebe le fanciulle e le madri può essere solo ottenebramento, o errore; o forse, se mai, uno spirito malvagio, che le tiene prigioniere come uccelli in una rete.

Nessuno lo saprà, se nessuno proverà a scoprirlo.

Ecco perché questa mattina sto salendo da solo sulla montagna.

Prima che sorgesse il sole sono uscito dalla città; prima che qualcuno potesse fermarmi, prima che i miei capelli rossi mi tradissero e qualcuno mi riconoscesse; perché un figlio di re non rischi di finire in pasto ai lupi o fatto a pezzi dalle menadi.

E forse sarà quello che accadrà; nessuno sa cosa tiene il Fato in serbo per me.
Ma certo non mi troverà inerme, a farmi piccolo di vigliaccheria e superstizione.

Gli altri si affidino pure agli dei e alle preghiere.

Io, io voglio risposte.

Ti sento.

Ho avvertito il tuo passo nervoso dal momento in cui hai cominciato a salire il sentiero sul fianco del monte.

Il profumo della tua irruenza tinge l'aria come vino nell'acqua, il sudore che cola sulla tua schiena brilla nel sole come oro.

Ti sento. Ti aspetto.

Quando i primi raggi del sole mi toccano le spalle, mi trovo ormai sulle pendici della montagna. 

Un alito lieve di brezza spira dal fondo del bosco; il suo fresco sussurro è un sollievo sulla pelle accaldata.

Mi fermo e respiro a fondo, per rallentare il cuore messo alla prova dalla salita, per contare i miei nervi tesi, che fremono nonostante tutto.

Il vento che mi solletica la nuca si porta dietro un profumo di resina e l'odore asciutto dell'erba ingiallita. 

L'ombra del bosco non mi è mai apparsa più invitante.

C'è qualcosa di diverso, nella luce, quando passa attraverso i rami.

Anziché effondersi in modo semplice e uguale, come sui tetti delle case di Tebe, si spezza in una raggiera di frecce, si riversa a macchie sul tappeto di aghi di pino, sui cespugli di mirto, sulle bacche rosse del lentisco.

Anche i suoni sono diversi, sotto l'alta cupola dei pini; il frinire delle cicale copre ogni cosa al punto da diventare un doppio silenzio; quasi non sento il rumore dei miei passi, mi muovo come in sogno nell'aria odorosa di corteccia.

Eppure sento che qualcosa mi ascolta; mi osserva mentre mi inoltro sempre più nel cuore del bosco.

Non sono un guerriero; ma so difendermi.
Ho legato al fianco il coltello da caccia; la mia fedele fionda di corda.
Ma qualcosa bisbiglia al mio orecchio che non sono queste le armi che mi proteggeranno dal pericolo che abita la montagna.

Finalmente un suono attira la mia attenzione, un crosciare che fa eco a quello delle cicale; il benedetto mormorio dell'acqua.
Mi accorgo di avere terribilmente sete; seguo il rumore a lunghi passi, fin dove rocce inghirlandate di edera svettano fra la boscaglia; quando emergo dalla macchia, però, quasi trasalisco per la sorpresa.

La sorgente che sgorga dalla roccia si raccoglie in una conca trasparente; tre fanciulle sono intente a bere, chine sul bordo e col viso che sfiora l'acqua.
Al mio apparire non si muovono; sollevano appena lo sguardo, continuando ad abbeverarsi come leonesse.

Sono scarmigliate e seminude, i capelli cinti di fiori e pampini; quando la prima si alza, asciugandosi il mento con un lungo gesto del polso, il seno bianco lampeggia fra riccioli neri.

Le altre due la imitano; si bisbigliano qualcosa l'un l'altra, lanciandomi sardoniche occhiate oblique; poi scoprono i denti in un ringhio infantile e corrono via, ridendo, nel fitto del bosco.

Stai attento, mio diletto; quello in cui cammini non è il regno degli uomini.

Fai attenzione, che il tuo coltello e la tua forza virile non ti tradiscano, davanti al riso sfrontato delle menadi.

Bada che il cacciatore non diventi preda; che non ti prendano, non ti consumino, non ti divorino brano a brano.
So che lo farebbero; affonderebbero le unghie e i denti nella tua carne, prenderebbero tutto quello che scorre nelle tue vene azzurre e lo trasformerebbero in rosso corallo; ti strapperebbero il respiro e la vita e berrebbero il tuo sangue a larghi sorsi estatici.

Ma io non ho voglia di cederti a loro.

Non senti il mio respiro nel soffio di vento che ti sfiora il collo?
Non senti come il mio desiderio dà un peso all'aria che respiri, non lo senti brillare nel gelo dell'acqua che ti scorre in gola?

Ho continuato a vagare nel bosco per il resto del giorno, a metà sperando e a metà temendo un nuovo incontro come quello alla sorgente; ma non ho più visto nessuno.

Che io abbia scelto una direzione sbagliata, o che mi stiano evitando di proposito, non saprei dirlo; ma a tratti mi sembra di udire il suono di risa mescolarsi al canto delle cicale, di scorgere il biancheggiare di uno sguardo nell'intrico dei rovi.

A tal punto perdo la cognizione del tempo, che quando il sole si avvia al tramonto ho l'impressione di trovarmi sulla montagna da appena un'ora.

Non voglio passare la notte nel bosco.

Cerco una via d'uscita, con un'ansia sottile che cresce man mano che la luce cala; le prime stelle sono già fuori quando finalmente raggiungo una radura, un'apertura fra gli alberi che mi permette almeno di respirare, di vedere il cielo.

Sono esausto.

Appena il tempo di estrarre dalla mia bisaccia un boccone di pane, un pezzetto di formaggio; e presto sono riverso sull'erba secca e ancora tiepida, a lasciarmi cadere nel sonno e dentro un cielo stranamente vicino.

(...Non trovo ad attendermi un riposo tranquillo.

Per tutta la notte scivolo da un sogno all'altro; frammenti indistinti che mi lasciano madido di sudore, sospeso fra il sonno e la veglia, con il cuore in tumulto e il respiro affannato come da una lotta.

Mi resta la sensazione di un peso caldo e vivo sopra il mio petto, di una pressione soffice e invincibile a bloccarmi i fianchi, i polsi; di una irresistibile debolezza che mi apre le labbra, trasforma in liquida brace il nerbo della mia schiena, delle mie braccia.

Ricordo solo l'ultimo frammento prima del mio risveglio: io che mi strappo al micidiale languore, che con uno scatto finisco per incombere sulla figura ora rovesciata sotto di me, bianca e arrendevole come i mucchi di lana da filare; io che ora ne serro i polsi e finalmente ne incontro gli occhi, torbidi come vino, chiari come spuma di mare, io che mi sveglio di colpo prima di poter chiedere "chi sei?")

Povero mio diletto, non ho resistito a insidiare il tuo sonno.

Sono entrato con facilità nei tuoi sogni, anima curiosa, ricettiva come un fiore fecondo.

Questa mattina, disteso sulla nuda terra, hai già il pallore di un amante disfatto; questa notte ho avuto un assaggio di quanto mi inebrii la tua resistenza, di quanto piccante sia la tua resa, quanto dolce il tuo respiro nel mio.

Quasi temo che la realtà possa sbiadire al confronto; che non possa superare l'incanto di questa passione immaginata.

Ma sono curioso anch'io, mio diletto.
Curioso, e avido, e rapace.

Il profumo dell'uva fragola satura l'aria, dolce e fresco e così denso che quasi lo sento premermi addosso, anticipare la sodezza scivolosa dei suoi grappoli.

Mi protendo a coglierli, e a terra rimbalzano più acini di quanti ne riesca a trattenere fra le mani, macchiandomi le dita, lasciandole così appiccicose che devo leccare via il succo zuccherino dai polsi, dalle braccia.

Assorto nel saccheggio dei grappoli, non bado a dove metto i piedi; quando mi accorgo di avere disturbato una vespa intenta al mio stesso banchetto, è troppo tardi; un dolore acerbo mi trafigge il piede.

La sorpresa mi fa balzare indietro, cado a sedere sull'erba mentre una pulsazione bruciante si irradia dalle dita fino al calcagno.

Solo allora mi accorgo di lui.

Quando alzo lo sguardo, trovo il suo già fisso nel mio da lunga distanza.

Esce dall'ombra del bosco; cammina verso di me senza fretta ma senza indugio, con un sorriso luminoso e occhi grandi e infidi come quelli degli idoli.

Il battito del cuore risuona come un tamburo nei miei timpani. Mi dice di scappare; con una certezza senza spiegazione mi grida di sottrarmi a quello sguardo ipnotico.

Ma un tremore terribile mi ha preso, mi immobilizza come il topo nelle spire del serpente.

Tremo, ma il destino non mi coglierà alle spalle.
Non fuggirò.

...certo, ora non potrei nemmeno se lo volessi. Ma almeno, rinunciando ad alzarmi su gambe che non mi rispondono, mi puntello sui gomiti, sollevo il mento per guardare in faccia ciò che sta per accadere.

Lui è ormai così vicino che posso distinguere il colore cangiante delle sue iridi; ha qualcosa di infantile nella curva del naso, nei riccioli di lunare biondezza; ha qualcosa di mostruoso nella fissità dello sguardo, nel biancore del sorriso.

Quando mi è di fronte, si china lentamente su un ginocchio; lascia scorrere su di me gli occhi verdazzurri, l'ombra di lunghe ciglia.
Poi tende la mano verso il mio piede, lo solleva reggendone il tallone; e reclinando il capo preme le labbra fresche sulle mie dita doloranti.

Ti sento tremare; sento il tuo sangue correre mentre quasi soccombe al timore, il tuo respiro veloce, dolce come il profumo dell'uva; ma sento anche il fuoco dei tuoi occhi, la forza nervosa delle tue mani che artigliano l'erba arida.

La tua pelle che scotta sulle mie labbra è una tentazione squisita; potrei, oh forse potrei averti subito, qui, sotto il manto ombroso della vite, piegarti sulla terra indurita dal sole e raccogliere dalla tua gola singulti piccoli e dolci come i chicchi dell'uva.

Ma non voglio sciupare questo piacere.

Con un poco di riluttanza lascio dunque andare la tua caviglia, che invece mi sarebbe piaciuto accarezzare, per scivolare senza fretta lungo le tue gambe di gazzella, farle fremere di baci.

Invece mi alzo; passo oltre, e spero che l'orlo della mia veste sfiorandoti ti accarezzi per me.

Ho fatto appena qualche passo quando odo la tua voce alle mie spalle.

"Già che c'eri," risuona roca, "avresti potuto far svanire il veleno dal mio piede."

Mi volto, e ti sei girato a guardarmi, ancora a terra come sei, torcendo il collo per non togliermi di dosso quegli occhi di fiamma

Se sapessi come mi riempiono di delizia il tuo rossore, il tuo respiro travagliato, il modo in cui tenti di nasconderli digrignando i denti.

Mi fai venire voglia di prenderti il volto fra le mani, di assaporare dalla tua bocca la tua impertinenza ribelle.

Ma mi domino; ti mostro benevolenza paziente: "Per questo, dovrai pregare la vespa," rispondo, prima di allontanarmi.

Faccio in tempo a udire uno sbuffo di riso incredulo mescolato a offesa, e non posso impedirmi di sorridere fra me.

No: prenderti non potrebbe bastare a farmi felice.

Solo quando verrai a cercarmi il mio desiderio sarà appagato.

La mia ombra che va allungandosi nel sole sembra faticare a starmi dietro, mentre misuro la radura a grandi passi, stringendo i denti e i pugni ma senza ancora sapermi risolvere.

Per tutto il pomeriggio non ho fatto altro che camminare avanti e indietro al margine del bosco, senza osare entrare, ma senza decidermi a voltare la schiena e fuggire; e ora che un altro giorno si avvia alla fine, sento la mia stessa irrisolutezza pesarmi alle caviglie come una zavorra.

Non posso dimenticare.
Ora che ti ho visto, non posso fingere che i sogni di questa notte fossero soltanto sogni; ora che mi hai toccato, non posso credere che tu non sia fatto di carne e sangue come me.

Se ti colpissi, sanguineresti?

Se affondassi il mio coltello nella tua carne, arriverebbe a mordere il tuo cuore?

...E se lo facessi, senza prima averti chiesto il perché di tutto questo, me lo perdonerei?

Con un ruggito di rabbia mi lascio cadere sull'erba arida.

Che cosa cerchi?
Che cosa vuoi, da noi, da me?
Chi sei?

Più di un uomo, per entrare da padrone nel mio sonno, scardinare il mio riserbo e il mio controllo e lasciarmi al mattino con un un languore struggente nei lombi e un vuoto rabbioso nel petto; eppure meno di un dio, per sentire una mancanza, qualsiasi cosa sia che vai cercando da noi mortali; davvero ci conduci qui solo per farci impazzire, morire di spasimo?

Ho la gola inaridita e un tremore che va dalle mani fino alle spalle, quando finalmente prendo una decisione.

Sono salito qui per salvare la città, forse; ma soprattutto, sono salito qui per capire.

Voglio una risposta alla mia domanda; e ho un modo soltanto per averla.

Tutto il bosco si lascia andare ad un sospiro, quando fai ritorno.

Ci sei mancato, mio diletto; avevamo già nostalgia delle tue lentiggini, della grazia acerba delle tue spalle, del colore dei tuoi capelli; del tuo ardimento, della scia di fuoco della tua volontà impetuosa.

Hai torto, diletto mio, se credi che con malizia abbia irretito le donne di Tebe. Quando mi hanno sentito, quando hanno sentito la voce della montagna chiamare insieme al vento del mattino, hanno saputo di non tollerare più una vita costretta nel piccolo recinto dei cortili; di non essere più pronte a chinare la testa per padri e consorti, di volersela piuttosto incoronare di edera e di mirto.
Hanno avuto fame di ogni godimento che la breve vita potesse donare loro, come i grappoli umidi e dolci dell'uva. Hanno passato troppo tempo a negarseli; come biasimarle, se ora non sanno più distinguere sulle loro dita le macchie di sangue dal succo delle more, se nella frenesia di godere di tutto, prima che sia loro tolto, prima che sia troppo tardi, ora tutto bramano?

Ma hai anche ragione, mio amato; c'è qualcosa che mi manca, che mi fa sentire vuoto come la luna calante; che mi lascia anelante e derelitto come una nave infranta sugli scogli.

È un vuoto che non c'era, solo due giorni fa.

La tua ferita me l'hai già inferta, senza coltello e senza lotta; e tu solo hai il potere di guarirla.

Cala il buio.

Il bosco è un sottile intrico nero contro l'azzurro cupo del cielo; mi muovo lentamente; mi affido, più che ai miei occhi, a presentimenti.

Nel folto, in lontananza, giurerei di scorgere una luce; un bagliore danzante di fiamma, la promessa di un falò acceso.

Mi avvicino scivolando con cautela, con l'impressione bizzarra di essere io l'estraneo, la fiera che dal bosco striscia ad insidiare il fuoco acceso dagli uomini.
Nella destra stringo il coltello sguainato, fra dita così rigide che cominciano a dolermi.

Ho paura; ho paura più di quanta ne abbia provata mai, ho paura eppure non posso fermarmi; non me ne andrò senza avere capito; e i miei piedi avanzano da soli.

È davvero un fuoco, quello che vedo sempre più distintamente fra i tronchi neri dei pini; un falò odoroso di resina e di brace.
Le ombre intorno ondeggiano appena al guizzare della fiamma. Non scorgo figure umane.

Finalmente, i miei passi esitanti mi portano fin dove gli alberi si diradano ai piedi di una breve parete di roccia.
Al centro della radura brucia quieto il falò; e tutto attorno, l'una addossata all'altra come cuccioli, giacciono donne addormentate.

Dormono così profondamente, raggomitolate nelle lunghe chiome sciolte o abbracciate l'una all'altra, che nessuna sembra accorgersi di me.

Solo uno sguardo subito si fissa nel mio, appena alzo gli occhi, ed è uno sguardo trasparente e quasi nero nella luce delle fiamme.

Siedi ai piedi della rupe come un re in trono; il tuo scettro una coppa di vino, la tua corona edera scura.

Siedi nella luce rossastra come una femmina dissoluta; la tua pelle fiore di magnolia, le tue spalle, i tuoi fianchi invitanti come i bracci curvi di una lira.

Giungo di fronte a te e nella destra stringo il mio coltello; il mio cuore un prigioniero furioso che batte alle sbarre delle mie costole.

Se sapessi come sei bello, mentre esci dalla tenebra guardingo come il lupo, cauto come il serpente.

Non mi sazio di guardarti, di guardare le ombre scabre intagliarsi nelle tue membra, guardare la linea sottile delle tue labbra e i lunghi muscoli delle tue braccia contratti fino allo spasimo, guardare il riflesso delle fiamme nei tuoi riccioli fulvi, nei tuoi occhi come miele di bosco.

Ti guardo avanzare lentamente; sento il tremore delle tue gambe, il tuo respiro frenato, la presa dolorosa della tua mano sul tuo coltello, e ti aspetto; ti aspetto, finché arrivi fino a un passo da me.

Sento il tuo bisogno come fosse il mio; sento la domanda premerti sulla lingua e sui denti sfilacciando sempre più la tua paura, ed è un sollievo anche per me quando finalmente, come un boccone amaro, sputi la domanda che ti brucia le viscere:

"Chi sei?"

Sospiro, perché la tua audacia è più stordente del vino; la tua bellezza più tormentosa della sete; e un languore bianco mi scioglie il sangue mentre ti tendo la coppa, rispondo "Lascia che te lo mostri."

Cade a terra il tuo coltello.

Tremano le tue mani mentre afferri la coppa di lucido argento, bevi un lungo sorso che ti rovescia il capo e offre la tua gola alla luce radente.

Quando lasci cadere anche la coppa per immergere nei miei i tuoi occhi d'ambra, so che mi appartieni.

Quando con impeto mi afferri e mi baci, e sento dalle tue labbra fluire caldo un sorso dolce di vino, so di appartenerti.

 

   
 
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