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Autore: Soul of Paper    28/09/2023    2 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 81 - Il Parto


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Ca- capitano!”

 

Aveva appena messo piede nella clinica, che suor Cecilia non solo l’aveva chiamato, pur se balbettando, ma si stava perfino avvicinando e sembrava felice e sollevata di vederlo, come non mai.

 

Un sasso nello stomaco: non era un buon segno.

 

“Suor Cecilia? Che succede? Imma-”

 

La suora si bloccò: doveva aver notato la sua preoccupazione.

 

“N-no, no, non è successo niente a lei e alla bimba. Cioè non è successo niente alla bimba e anche la dottoressa fisicamente sta bene ma… ma temo sia successo qualcosa e… e non so cosa fare.”

 

“Cioè? Sta male? Che si sente?”

 

“No… non lo so… è che… è che non parla. Non parla proprio più. Si è pure fatta medicare senza lamentarsi, non dice niente e…”

 

Da un lato gli venne da sorridere, che il silenzio e la tranquillità di Imma impensierissero  così tanto la suora. Dall’altro, però, impensierivano pure lui e molto. Imma silenziosa non lo era quasi mai: pochi eventi le levavano il fiato o la parola e, di solito, o erano meravigliosi o terribili.

 

Mentre si incamminava a passo deciso verso il cortile e poi verso la stanza, sperò che si trattasse della prima opzione ma, visto anche dov’erano e in che condizioni si trovavano, la seconda era molto più probabile.

 

D’istinto, bussò prima di entrare, dandosi poi dello scemo da solo ma, quando aprì la porta, trovò Imma intenta a guardare dritto davanti a sé, una mano sulla panciotta di Francesco, steso accanto alla sua gamba. Stranamente non si lamentava ma la guardava pensieroso, corrucciato, come se fosse anche lui preoccupato e stranito.

 

Francesco percepiva gli stati d’animo di Imma come poche altre persone al mondo, lo sapeva. E poi, il fatto stesso che Imma non gli avesse fatto nessuna battutina delle sue, perché aveva bussato. Che non lo avesse preso in giro, come solo lei sapeva fare, quando per qualche istante riemergeva l’imbranataggine del Calogiuri arrivato da Grottaminarda, era un brutto, bruttissimo segno.

 

“Imma…”

 

Gli era uscito un sussurro un poco rauco, la vide deglutire e poi quegli occhi scuri erano nei suoi e lo guardavano in quel modo, in quel modo che era una coltellata al cuore, fin dal suicidio del giovane architetto nel caso Bruno. Quella vulnerabilità, quella disperazione, quella richiesta d’aiuto silenziosa, di chi il dolore era abituata a tenerselo dentro, anche se la stava schiacciando.

 

E poi quel mezzo sorriso amaro: sapeva che si erano capiti, che aveva capito che la situazione fosse grave ma… ma ciò non rendeva le cose più semplici, anzi.

 

Si avvicinò, cauto, non solo per lei, ma per il piccoletto. Qualsiasi cosa fosse successa, ci mancavano solo le sue urla.

 

Le sfiorò il braccio libero e poi le prese la mano, mentre si sedeva accanto a lei. Il modo in cui gliela stritolò fu da un lato rassicurante e dall’altro spaventoso.

 

“Imma…”

 

Sapeva di sembrare un disco rotto, ma non poteva fare altro che aspettare che lei dicesse qualcosa, o rimanere lì, in silenzio, a farle forza come poteva.

 

“Ha… ha chiamato l’assistente sociale.”

 

La voce di Imma era roca, spezzata, ma aveva anche il tono di quando pronunciava quella che considerava una sentenza definitiva ed inappellabile.

 

Ovviamente erano pessime notizie. Gli venne spontaneo guardare verso Francesco e Imma lo imitò e gli diede una carezza sulla guanciotta con una dolcezza che lo commosse, ancor prima di vedere le lacrime che brillavano negli occhi di lei, senza scendere.

 

“Che ti ha detto?” le chiese, cercando di contenere il tremore nelle corde vocali, perché aveva tanti scenari in testa, uno peggio dell’altro, ma doveva essere sicuro, prima di sbilanciarsi, non da fare peggio.

 

Imma deglutì tre volte e poi espirò un fiato lunghissimo, per provare a tranquillizzarsi.

 

“Me- Melita sta meglio e… e vuole… e vogliono… l’affiancamento e-”

 

Un singhiozzo e non riuscì a dire altro, nonostante continuasse a deglutire furiosamente e a stringere gli occhi per non piangere.

 

Le prese la bottiglietta d’acqua dal comodino e gliela porse, insistendo anche quando lei fece per scostarla, finché non ebbe bevuto due sorsoni pieni.

 

“Im-ma? Im-ma?”

 

Il richiamo preoccupato di Francesco fu il colpo di grazia e fece giusto in tempo ad abbracciarla, prima che scoppiasse in lacrime, tremando come una foglia.

 

Le accarezzò i capelli, per provare a farle forza, anche se non c’era un modo adeguato di farlo, di starle vicino. Si limitò a stringerla più che poteva, tra il pancione, Francesco e tutto il resto, lasciandola sfogare, per quanto poteva.

 

Alla fine i singhiozzi diminuirono e la sentì respirare in modo un poco più regolare, anche se non abbastanza.

 

“Imma, non-”

 

“Lo so che… che non mi devo agitare, lo so, ma-”

 

“Imma,” ripetè, staccandosi leggermente per prenderle il viso e guardarla in quegli occhi sfatti e proprio per quello di una bellezza lancinante, “la richiamo io l’assistente sociale. Adesso non è il momento giusto.”

 

“Ma Melita…”

 

“Melita ha aspettato tanto, può aspettare ancora qualche mese, no? Dopo il parto, almeno. Mo l’importante è che state sereni sia tu che Francesco. Non è il momento e lo devono capire.”

 

Imma si morse le labbra e lo guardò, in quel modo tra l’intenerito e il grato, ma scosse il capo.

 

“Ma-”

 

“Non sarà mai il momento, Calogiù. Lo so… lo sai anche tu.”

 

“E quindi, che vuoi fare? Se… se vuoi che sentiamo un avvocato, magari non Latronico, se non lo vuoi coinvolgere-”

 

Due dita umide e gelide gli tapparono la bocca, come avevano fatto mille altre volte, e la vide scuotere il capo, emozionata ma decisa.

 

“No… grazie, ma… non… Melita si merita una possibilità, è… è giusto così. Lo sapevo che sarebbe successo, l’ho sempre saputo, ma…”

 

“Ma questo non rende le cose più facili?”

 

“No. E non sarà mai facile. Mai. E… e pure se aspettiamo a dopo il parto… me lo dici quando e come c’avrò, c’avremo la testa e il tempo per… se qua la piccoletta ci esce con anche solo un decimo della nostra capa tosta?”

 

Fu il suo turno di deglutire a fatica, mentre le posava l’altra mano sulla pancia e sentiva un lieve calcetto. Almeno era diventata un poco più delicata nelle ultime settimane, per fortuna e purtroppo.

 

“E poi… e poi più il tempo passa e più… e più lo amo e…”

 

Se la abbracciò di nuovo, riempiendole la fronte di baci, mentre Francesco gorgogliava e la chiamava, quasi come se sapesse che stavano parlando di lui.

 

Ma forse il piccoletto non capiva, non poteva capire, quanto quella dichiarazione significasse per Imma.

 

Le prese di nuovo il viso tra le mani e si staccò, giusto il necessario per guardarla negli occhi.

 

“Possiamo… possiamo almeno fare una via di mezzo,  no? Un compromesso, anche se a te non piacciono, dottoressa.”

 

Imma si morse il labbro e lo studiò, confusa e incuriosita.

 

“L’assistente sociale la richiamo io e… e  le spiego la situazione tua, della piccoletta, di Francesco, come stiamo. E poi… e poi se qualcosa si deve decidere ora, deve venire qua e ne parliamo con calma, non al telefono: così si rende conto anche di come siamo messi e-”

 

“E ci manca solo quello! Che se vede in che gabbia di matte stiamo, qua Francesco come minimo ce lo portano via subito!”

 

Gli scappò una risata, perché Imma era ironica, anche se non del tutto, e perché era un ottimo segno, quando riemergeva il suo sarcasmo.

 

“Dottoressa…” sospirò, prima di aggiungere, cospiratorio, “e poi… davanti alle suore… manco l’assistente sociale ci può fare niente. Che siamo pure a due passi dal Vaticano, come dici sempre tu, mica si possono permettere! Per una volta che ci può fare comodo…”

 

Imma si lasciò scappare un sorriso, che divenne una mezza risata, pure se amara.

 

“Ma che fai? Mi diventi come Diana, Calogiù?”

 

“Se serve a farti ridere sì. A patto che non mi devo baciare Capozza.”

 

La risata di Imma, stavolta piena, e l’abbraccio in cui si trovò stritolato, lo riempirono di un sollievo che era impossibile da esprimere a parole.

 

Ma lo sentivano tutti e due, lo sapeva, e tanto bastava.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa… capitano…”

 

L’assistente sociale, appena entrata dalla porta, accompagnata dalla superiora, sembrò in fortissimo imbarazzo.

 

Da un lato era un buon segno, un punto a loro favore, da sfruttare, dall’altro… la faceva avvedere ancora di più di come si fosse ridotta la sua vita.

 

Sperava davvero ancora per poco ma, d’altro canto, se significava dire addio a Francesco, una parte di lei avrebbe preferito che quel tempo non scorresse mai.

 

Le fece segno di accomodarsi sulla sedia libera, ai piedi del letto, Calogiuri che ne occupava una al suo fianco. Francesco le stava accanto, come sempre, ma si era voltato e messo a gattoni per guardare l’estranea appena entrata, che probabilmente ricordava a malapena, sempre se la ricordava.

 

Ci fu un lunghissimo silenzio, carico di tensione, e le toccò sospirare e rompere il ghiaccio.

 

“Allora?”

 

“Allora… dopo aver parlato con il capitano, il medico e le infermiere che l’hanno in cura, ho un quadro più completo della situazione.”

 

Le fece cenno di proseguire, che non ne poteva più di tutta sta melina.

 

“Comprendo benissimo la posizione molto delicata in cui siete e… mi pare evidente che Francesco si sia letteralmente attaccato moltissimo a lei.”

 

Come a confermare le sue parole, Francesco si voltò e gattonò verso di lei, cercando le coccole, mentre lei, un pugnale nel cuore, gli accarezzava il viso e lo rimetteva sulla schiena, per fargli solletico alla pancia e poi prendergli le manine.

 

L’assistente sociale deglutì, l’aria di chi avrebbe voluto essere ovunque tranne lì.

 

“Comprendo anche che forse non è il momento più adatto per tentare un riavvicinamento tra Francesco e la madre biologica ma… la Russo soffre molto l’assenza del figlio. I medici che l’hanno in cura mi hanno confermato che la prospettiva del ricongiungersi a lui è stata ciò che l’ha spinta a dare il massimo con la fisioterapia e i trattamenti e… ovviamente il nostro interesse primario è quello del minore, ma… dobbiamo tenere conto anche di questo e di come potrebbe compromettere le possibilità di successo di un avvicinamento futuro. O la salute psicofisica della madre biologica.”

 

Imma annuì, perché che altro poteva fare? Capiva Melita, fin troppo bene, mannaggia a lei.

 

“E quindi?”

 

Era stato Calogiuri a parlare e lo vedeva che per una volta era quasi più impaziente di lei, anche se cercava di apparire calmo.

 

“E quindi, vista la situazione particolare in cui siete, stavamo valutando l’opportunità di assegnare una stanza alla Russo presso questa struttura.”

 

“EH?!”

 

L’avevano pronunciato all’unisono e si erano lanciati uno sguardo a dir poco basito.

 

“Me- Melita qui? Ma… ma avete presente l’ambiente che c’è qua e…”

 

Se lei in quel posto era come un pesce fuor d’acqua, Melita… non c’era nemmeno una metafora adatta per descrivere l’assurdità della situazione.

 

L’assistente sociale sorrise.

 

“Mi rendo conto che… non è esattamente l’ambiente a cui la Russo era abituata. Ma sono mesi che è in terapia intensiva e poi semi intensiva. E qua avrebbe un ambiente protetto, anche da un punto di vista della scorta, e poi almeno potreste cominciare a passare qualche ora insieme. Francesco al momento non credo possa stare senza di lei, dottoressa, e questo sarebbe un modo per affiancarvi gradualmente, dando modo sia a lei che alla Russo di non compromettere la vostra salute fisica e… e vedere come va. Se Francesco può riavvicinarsi alla madre biologica o meno. E prendere le dovute decisioni.”

 

Prese un respiro, perché sapeva che significavano quelle parole: non era certo che le avrebbero tolto Francesco, dipendeva tutto da lui.

 

Ma anche da lei, da loro.

 

Sarebbe stato tanto facile influenzarlo, influenzare negativamente quel processo così delicato ma… ma sarebbe stato anche così difficile, vedere Melita e la sua sofferenza.

 

Avrebbe dovuto essere forte per lei, per tutti e-

 

“Ovviamente la presenza del capitano può aiutare, quando lei non se la sente, dottoressa. Già è stato presente nelle precedenti visite con la Russo e il bambino.”

 

Annuì di nuovo, ma era consapevole che Francesco avrebbe voluto innanzitutto la sua di approvazione: doveva sentirla tranquilla con Melita, o non l’avrebbe mai accettata.

 

Si chiese se potesse farcela, se avrebbe avuto la forza di farcela.

 

Ma lo doveva fare, era la cosa giusta e migliore per tutti, doveva provarci almeno, con onestà, mettendocela tutta anche lei, come ce l’aveva messa Melita.

 

“Va… va bene. Se… se le suore e se Melita sono d’accordo, va bene.”

 

Una mano che stringeva la sua, gli occhi commossi di Calogiuri, che capiva ogni singolo pensiero che le passava per la testa.

 

Menomale che c’era lui!

 

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“Benvenuta.”

 

Il saluto della madre superiora era esattamente identico a quello che aveva riservato a lui e ad Imma: asciutto ma non in un modo necessariamente negativo. Professionale, sempre se si poteva definire professionale una suora.

 

Ma suor Elisabetta era molto più di una suora, lo aveva capito pure lui che cercava di evitare lei e le consorelle il più possibile e che era abituato alle suore che aveva conosciuto da bambino, severe e all’antica, ancor di più di sua madre.

 

Melita entrò, camminando un po’ a fatica, con una stampella come supporto. Era migliorata tantissimo dall’ultima volta che l’aveva vista. Il viso era ancora un poco segnato, ma dovevano averle fatto un ulteriore intervento, perché era decisamente più simile alla Melita di una volta, anche se alcuni tratti erano stati irrimediabilmente modificati.

 

Sembrava una combattente, in tutti i sensi.

 

Ma la decisione vacillò quando Melita incrociò gli occhi della superiora. E poi lo cercò, in panico.

 

“So che vi conoscete già,” proclamò la superiora e, assurdamente, non suonava sarcastico, visto che lui e Melita erano stati sui giornali, dipinti come amanti, “la dottoressa era impossibilitata a muoversi per accoglierla. Poi il capitano l’accompagnerà nella sua stanza. Prima però le mostro dove soggiornerà per le prossime settimane.”

 

Melita era assai intimidita, nonostante l’abbigliamento fosse molto più sobrio e coprente del suo solito, e probabilmente non solo per le cicatrici.

 

Le fece un cenno di incoraggiamento e la seguì fino al chiostro, dove c’erano gli agenti appostati. Se Melita era intimidita dalla superiora, loro lo erano da lei.

 

In effetti, per certi versi, la sua bellezza esotica metteva ancora più in soggezione così.

 

Si avvicinarono alla porta ma un’occhiata della superiora bastò per farlo rimanere un passo indietro, fuori dalla stanza, anche quando Melita gli lanciò un altro sguardo impanicato.

 

E poi lui con Melita in una stanza da letto, con tutto il bene, solo con miriadi di testimoni ci sarebbe entrato. Che già era stato fin troppo scemo in passato.

 

Mai più!

 

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“Eccoci qua…”

 

La voce di Calogiuri e la porta che si aprì. Un tuffo al cuore nell’incrociare per la prima volta quegli occhi scuri, anche se mai come quelli del piccoletto, in quel viso che era ancora così bello, nonostante le cicatrici. Anzi, forse lo era ancora di più, per certi versi, sembrava una dea della guerra, egizia probabilmente.

 

La vide abbassare lo sguardo e sentì un gorgoglio, la pancia di Francesco che vibrava sotto la sua mano.

 

“Im-ma? Im-ma?!”

 

La chiamava, preoccupato, ma lei riusciva solo a notare il dolore nelle labbra e negli occhi di Melita, un po’ di gelosia e tanto rimpianto.

 

“Francé…” lo chiamò Melita e Francesco si guardò un attimo intorno, confuso.

 

Calogiuri le fece segno, se si potevano avvicinare, e lei, impercettibilmente, gli diede il permesso, anche perché non riusciva a parlare.

 

“Francesco…” lo chiamò anche lui, facendo strada a Melita, che zoppicava vistosamente, “guarda chi c’è, ti ricordi di… di Melita?”

 

Francesco però continuava a fissare lei e solo lei, turbato, forse avendo percepito il suo nervosismo. Si sforzò di fargli un sorriso, accarezzargli un’ultima volta la pancia e portarlo a mettersi a gattoni.

 

“Allora, Francè? Hai visto?”

 

Calogiuri, con il suo sorriso e i suoi modi da paciere, stava chiaramente cercando di stemperare la tensione.

 

Melita aveva gli occhi pieni di lacrime, mentre guardava suo… suo figlio, perché quello era, suo figlio, come Calogiuri guardava sempre lei: come un miracolo.

 

“Amore mio…” la sentì sussurrare a fatica, allungando tremante la mano libera dalla stampella verso Francesco, per fargli una carezza.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

Francesco, a pieni polmoni, peggio di una sirena, cominciò a ululare e si scostò, voltandosi verso di lei e gattonandole sempre più vicino, come a ricercare protezione.

 

“Francè…” sussurrò, cercando di calmarlo, mentre Calogiuri lo prendeva in braccio e se lo metteva in grembo, sedendosi accanto a lei, in modo che non le finisse sulla pancia ma riuscisse lo stesso a consolarlo.

 

Un altro singhiozzo, diverso da quelli del piccolo ululatore seriale, ed era Melita che, sorretta inaspettatamente dalla madre superiora e affiancata dall’assistente sociale, piangeva ma in un modo ben diverso, con la disperazione di chi ha perso tutto.

 

“Su su, figliola, animo, animo!” la esortò la superiora, con una forza inattesa nelle braccia - probabilmente data dagli anni ad avere a che fare coi pazienti, “siamo appena all’inizio, è normale.”

 

Melita, pure nella disperazione, la guardò basita. La superiora la direzionò verso la sedia libera e, insieme con l’assistente sociale, la aiutarono a sedersi.

 

“Le cose importanti della vita vanno conquistate e mantenute, con tempo e pazienza. Non si deve abbattere e-”

 

“E che ne sa?! Che un figlio non ce l’ha mai avuto! E me sta a fa la predica con ste frasi buoniste del cazzo?”

 

Una cosa buona lo sfogo di Melita l’aveva prodotta: Francesco aveva smesso di ululare e la guardava incuriosito, come faceva sempre quando percepiva che c’erano guai in corso.

 

L’assistente sociale sembrava voler sprofondare, anche se mai quanto Calogiuri, rosso come non mai.

 

Lei, invece, da un lato era orgogliosa di Melita, dall’altro temeva che venisse cacciata di lì seduta stante - e forse una parte di lei lo sperava anche, ma sapeva, razionalmente, che sarebbe stato solo peggio.

 

Tutti scrutarono i lineamenti austeri di Suor Elisabetta ma, sorprendentemente, non accadde nulla: la suora si limitò a scuotere il capo, con l’aria di chi aveva a che fare con una bimba capricciosa.

 

“Al di là di questa passione per il turpiloquio che avete voi giovani, che pensate che vi dia un tono, se crede che questo mi scandalizzi, non ha mai avuto a che fare con tutti i pazienti anziani che ho avuto negli anni. Che diventano tutti un po’ bambini. O con il gestire le intemperanze e i caratteri diversi di una comunità di donne, da costruire e tenere insieme, in mezzo a tutte le difficoltà. Non avrò avuto figli biologici, ma so che l’amore, o anche solo il rispetto, si conquistano e si mantengono, giorno dopo giorno. E che i legami di sangue non sono sempre quelli che contano di più. So che ne ha già passate tante, ma il carattere lo deve tirare fuori ora, se vuole essere madre davvero.”

 

Si guardò con l’assistente sociale, ancora stupita quanto lei, ma evidentemente le suore i predicozzi motivatori non li facevano solo nelle fiction. Solo che quello di Suor Elisabetta era atipico, pragmatico. Per certi versi la sentiva simile a sé, nel modo in cui avrebbe approcciato una sospettata, un’indagata, o anche solo una testimone, nella stessa situazione di Melita.

 

Certo, forse persino lei avrebbe avuto più tatto, ed era tutto dire. Ma a volte il tatto era sopravvalutato, da mo che lo pensava, e poi dipendeva tutto dal carattere di chi tenevi di fronte, se era più efficace il bastone o la carota.

 

E, in effetti, Melita parve calmarsi, il silenzio calò nella stanza, mentre fissava suor Elisabetta con un misto di sfida ma anche un maggiore rispetto.

 

“Il periodo di affiancamento serve proprio a questo. In questo momento è normale che il minore riconosca la dottoressa Tataranni come la sua unica figura materna. E ciò che per me e per l’autorità che rappresento è più importante, è il benessere del minore. Dobbiamo collaborare tutti, ma con aspettative realistiche, anche se mi rendo conto che non sia facile per lei.”

 

Era stata l’assistente sociale a parlare, con tono più gentile della superiora, ma con l’aria di chi quel discorso lo aveva fatto molte volte, ma sapeva che tra il dire e il fare c’era di mezzo un mare di sentimenti e attese.

 

Melita prese un respiro e annuì, anche se a fatica. Guardò lei e Calogiuri e poi il piccoletto, che la osservava con una manina in bocca. Francesco a volte gli ricordava Diana, per come veniva ipnotizzato dai drammi che lo circondavano.

 

“Scu- scusate, ma… ma per me non è facile accettare che… insomma… lo so che non può riconoscermi, ma… ma non è facile. Avevamo fatto qualche progresso e ora…”

 

“E mica è detto che non siano serviti. Perché non provi a cantargli la vostra canzone? Magari di quella si ricorda meglio e anche di te, pure se è stato tanto sballottato in questi mesi.”

 

Calogiuri.

 

C’era quella decisione in lui, quella delle emergenze, quando prendeva le redini e cercava di sistemare tutto per tutti.

 

Un attimo di silenzio, Melita prese qualche respiro e poi cominciò a cantare quello che riconosceva come un vecchio tormentone estivo. Non avrebbe mai creduto che una di quelle canzoni per imbecilli da spiaggia potesse suonare così straziante.

 

Francesco continuò a studiarla, con curiosità, poi si levò la manina dalla bocca e iniziò a battere le mani, in un modo che le fece bene e male insieme e le ricordò tantissimo Noemi da piccola.

 

Incoraggiata dal risultato raggiunto, da suor Elisabetta e dall’assistente sociale, Melita si alzò piano piano, continuando a cantare e si avvicinò a lui. Provò a tendergli la mano libera e Francesco, curioso, le afferrò l’indice, facendolo andare su e giù un paio di volte. Ma poi, quando lei provò ad accarezzarlo, lui si voltò nuovamente verso Imma, rifugiandosi nel suo fianco.

 

Un altro colpo per Melita, che però non smise di cantare, con un filo di voce, mentre Francesco ogni tanto si voltava per spiarla. Ma poi, lo sguardo fisso in quello di Imma, tenendole la camicia da notte con le manine a pugno, piano piano, si addormentò tra lei e Calogiuri.

 

“Va bene così,” sussurrò l’assistente sociale, facendo segno a Melita che poteva smettere.

 

Melita era in lacrime, ma seguì l’indicazione.

 

“Ci vorrà sicuramente un lungo periodo di affiancamento. Piano piano, vediamo come va. Deve sfruttare questo tempo al massimo ma con calma e pazienza, anche se lo so che non è facile. Francesco deve stare sereno e sentirsi al sicuro. Per intanto almeno lo potrà vedere tutti i giorni, no?”

 

Le toccò annuire e anche a Calogiuri mentre Melita si asciugò le lacrime con un sospiro.

 

“Ora può sistemarsi nella sua stanza e poi nei prossimi giorni fisseremo degli orari di visita, compatibilmente con le esigenze mediche della dottoressa. Forza!”

 

La superiora, autorevole fino al marziale. Melita non oppose resistenza e, dopo un ultimo sguardo a Francesco, ancora addormentato, la seguì fuori dalla stanza, insieme all’assistente sociale.

 

Lasciò andare il fiato a lungo trattenuto. Calogiuri la guardava preoccupato.

 

“Dottoressa…”

 

“Ce la faccio, Calogiù, non ti preoccupare, ce la faccio. Per il piccoletto questo ed altro…”

 

Si sentì abbracciare di lato, un bacio sulla tempia e ringraziò per l’ennesima volta di averlo, letteralmente, al suo fianco.

 

*********************************************************************************************************

 

“Allora, dottoressa? Come procede… l’affiancamento?”

 

Si guardò con Calogiuri e poi sospirò, trattenendo la rispostaccia alla psicologa.

 

Ma che domanda era?

 

“Eh… insomma… Francesco… vuole comunque stare sempre con me. Melita, la madre biologica, riesce a tenerlo in braccio soltanto per poco.”

 

“E questo per lei è un bene o un male?”

 

Prese un respiro, perché la psicologa, almeno su quello, un minimo perspicace lo era stata.

 

“La verità?”

 

“Le ho già detto che non esiste una verità assoluta in terapia ma sì, se mi dice come si sente, ha più possibilità di essere efficace…”

 

Sì, di zero! - pensò, ma non lo disse, perché Lucia era terrorizzata ogni volta che la vedeva e gli altri suoi colleghi che le avevano proposto, già solo dalla foto, le avevano ispirato ancora meno fiducia.

 

Che parevano quegli psicologi che scrivono libri, con il loro faccione in copertina, per poi andare in televisione a disquisire di crimini, con una perspicacia che, a confronto, l’appuntato Calogiuri era stato un profiler dell'FBI.

 

Almeno Lucia non se la tirava troppo, come avrebbe detto Valentina, era già qualcosa.

 

“Eh… non… non è facile per me l’idea di lasciare andare Francesco. Anche se da un lato sarebbe una responsabilità minore, non averlo sempre appresso, che vuole solo me o quasi… dall’altro…”

 

“Dall’altro?” fu sollecitata, dopo un po’ di silenzio.

 

“Dall’altro… non ho mai avuto nessuno così attaccato a me. A parte Calogiuri, ma lui è adulto e non conta.”

 

“Quindi ha difficoltà coi bambini?”

 

E fu lì che al suo “insomma…” si associò un “no!” decisissimo di Calogiuri, che la sorprese.

 

“Se intendi che tu non hai difficoltà coi bambini, Calogiù…”

 

“Ma  neanche tu ce le hai: i bambini di solito adorano Imma. Perché… è schietta e… e non li tratta da bambini, non so se mi spiego.”

 

La dottoressa spalancò gli occhi e segnò tutto. Imma era lusingata, ma sapeva anche che…


“Tu non sei obiettivo, Calogiù!”

 

“No, no: è vero. I bambini e gli animali si fidano istintivamente di te, dottoressa, da sempre. Con gli adulti hai un po’ più di problemi, invece. E dai, pensa non solo a Francesco ma a mia nipote-”

 

“Ma Noemi vole bene tanto tanto a tutti,” citò, col tono della bimba, facendolo sorridere.

 

“E… e Bianca allora?”


“Chi è Bianca?”

 

Calogiuri si morse la lingua.


“Una… una bambina che, a causa di alcuni traumi, aveva moltissima ansia sociale, la sta superando piano piano.”

 

“Ma con lei non aveva problemi nemmeno quando l’ansia sociale era più forte?”

 

“No… effettivamente no…” le toccò ammettere, mo che ci pensava.

 

“Ma anche i bambini che vediamo nei casi o… gli animali: da Ottavia, che ti si è attaccata subito, come Francé-”

 

“Perché aveva fame e l’ho salvata dalle oche, la ruffiana!”


“Sì, ma anche i cavalli e le cavalle, insomma sei-”

 

“Mi dipingi come san Francesco, Calogiù, ancora un poco!”

 

“No, ma è vero. Con gli adolescenti già è più complicato, ma anche con loro te la cavi, alla fine, è con gli adulti che fai più fatica. Ma di solito se lo meritano.”

 

Le venne da sorridere, mentre la psicologa faceva una faccia da insomma! che… aveva colpito ancora.

 

“Da come la vede Calogiuri, al di là dei possibili bias, direi che ci ha fornito esempi concreti di molti casi in cui i bambini si trovano bene con lei, anzi benissimo. Allora perché tutte queste paure?”

 

“Ma con Francesco… con Francesco ci siamo scelti e… lui mi ha scelto come…”

 

“Come figura genitoriale a cui è più attaccato?”

 

Spiò Calogiuri ma poi annuì, perché era la verità.

 

“Forse a differenza della sua prima figlia biologica?”

 

Le toccò di nuovo annuire, perché era soltanto che vero.

 

“Sì… diciamo che con Valentì… da bambina non avevamo un brutto rapporto, anzi, le mancavo molto quando ero al lavoro, ma appunto non ero spesso a casa. Poi nell’adolescenza… un disastro… cocca di papà proprio. Mo un rapporto lo abbiamo recuperato e… andiamo d’accordo ma… non è un legame così stretto e… e viscerale come quello che ha con suo padre.”

 

“Secondo me invece è altrettanto stretto. Solo diverso,” intervenne Calogiuri, che l’avrebbe baciato e strozzato insieme.

 

“Le ho già detto che non esiste la verità assoluta in terapia, dottoressa. Solo diversi punti di vista. E forse… forse lei ricollega l’amore filiale a quella devozione e a quell’obbedienza assoluti, tipici di un bambino più piccolo?”

 

“Non… non lo so… non sono mai stata molto materna, credo-”

 

“Ma con Francesco se la cava bene, no?”

 

“Sì, sì, ma… non ho mai avuto il desiderio che hanno certe madri di vedere i figli ogni secondo, di stargli addosso. Certo, con Valentina ero molto apprensiva, che non si mettesse in brutti giri ma… mi piace lavorare e… forse sono sempre stata più paterna. Per come si considerano i ruoli qua in Italia.”

 

“E non c’è niente di male. Però… ora con Francesco, anche se lei è qua, allettata e malata, ha comunque voglia di stargli vicino, no? Anzi, le fa piacere, da un lato, che lui voglia solo lei.”

 

“Sì, ma… ma ho anche poche alternative e poi… insomma… non so se… se riprendessi a lavorare come sarei.”

 

“E questo la preoccupa, anche in vista della bimba in arrivo?”

 

Lanciò un’altra occhiata a Calogiuri e gli sorrise, stringendogli la mano, “non sono preoccupata, perché so che c’è lui e sarà un padre fantastico ma…”

 

“Ma teme di non essere una madre fantastica. Come non si è sentita per sua figlia maggiore?”

 

Annuì, perché sì, non ci voleva certo uno psicologo per capirlo, visti i suoi precedenti.

 

“Insomma… è che… da un certo punto in poi con Valentì è stato come se ci fossimo quasi perse. E non solo per l’adolescenza, che bisogna uccidere la madre - sempre metaforicamente, è chiaro!”

 

La psicologa segnava, guardandola come se fosse un esemplare raro.

 

“E insomma… al di là dell’adolescenza, io per un po’ di tempo, per troppo tempo, ho delegato quasi tutto a Pietro, il mio ex marito, per quanto riguardava Valentina. E… ed erano complici, ma nel senso che lui faceva quello buono e conciliante, e io il poliziotto cattivo e-”

 

“E ha paura di ripetere la dinamica con la bimba che sta per nascere?”

 

“Se aspetta un poco a nascere è meglio per lei, meno per me, che sto ferma qua e-”


“Dottoressa… non defletta…”

 

Sì, quella frase era veramente odiosa, le toccava ammetterlo, quando si era dalla parte di chi la riceveva.

 

“Beh… in confronto a Calogiuri… insomma lo ha visto bene? Che è amato da tutto il genere femminile di qualsiasi età, poi con quegli occhioni che tiene… come faccio io ad avere anche solo una speranza di reggere il confronto? E su!”

 

Calogiuri divenne fucsia ma scosse nettamente il capo.

 

“Ma con Francesco lo reggi il confronto, dottoressa, più che bene e-”

 

“Sì, ma lui è-”

 

Si bloccò prima di dire maschio. Ma l’avevano capito benissimo sia Calogiuri che la dottoressa.

 

“Quindi lei, più che paura di essere inadeguata con un figlio in generale, ha paura di essere inadeguata con una figlia femmina, in particolare?”

 

“Non… non sono stata una grande madre, lo ripeto. Rigida, molto attenta alla disciplina e… e forse un poco invidiavo mia figlia in certi momenti, per… per quella spensieratezza che non ho mai avuto, e che lei invece si poteva permettere. E… e non era giusto.”

 

“Ma adesso lo ha capito no? E pure da sola…”

 

“Sì, sì… l’ho capito stando con Calogiuri. Con lui… con lui ho vissuto quelle tappe che mi ero un po’ persa e… riesco a capire meglio Valentina mo.”

 

“E allora… non pensa che sarà più serena anche con la bimba che sta per arrivare?”

 

“Sì… ma… tra il dire e il fare… c’è di mezzo la mia disciplina quasi militare. E… e ho paura che… riprendendo con il lavoro… che non riuscirò a mantenere un equilibrio e… non sono molto brava con le vie di mezzo, io: o tutto o niente.”

 

“Ma sei già molto migliorata sui compromessi, dottoressa, lo hai detto pure tu,” la incoraggiò Calogiuri, con quel sorriso e quel tono pacato ma deciso che le faceva davvero credere, almeno per qualche istante, che dicesse il vero, “e poi… e poi non mi prenderei mai la tua parte di ruolo, salvo emergenze. Cinquanta e cinquanta, dottoressa. E… non ti metterei mai contro nostra figlia, anche solo per levarmi dai guai, come non lo faresti tu. E sul poliziotto buono e cattivo… possiamo fare a turno. Mi impegnerò di essere più credibile che in procura a fare quello cattivo, e magari il corso mi ha aiutato.”

 

Sorrise perché si, Calogiuri era sempre più autorevole, tranne con le suore, che non ce la poteva proprio fare.

 

“Insomma… in psicologia si dice che quando si hanno le stesse premesse e gli stessi comportamenti, se non viene operato un cambiamento ad uno dei fattori, sarebbe folle aspettarsi risultati diversi. Ma qua… dei cambiamenti ci sono stati, mi sembra, no? Per esempio, con Francesco, se le fosse capitato qualche anno fa…”

 

“Sì, con Pietro che avrebbe eretto un altarino al MASCHIO, sua madre che lo avrebbe riempito di vizi e con Valentina che sarebbe stata gelosissima e-”

 

Si accorse, dal sorriso della psicologa, di essersi risposta da sola.

 

E il cuore le si fece un poco più leggero, soprattutto quando la piccoletta tirò un altro calcetto, sempre al momento giusto, mannaggia a lei!

 

Su quello, era proprio tutta il suo papà.

 

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“TATA!!”

 

L’urlo precedette i piedini scalpiccianti e quelli ben più pesanti delle suore che cercavano di trattenerla, così come Rosa, ma invano.

 

La intercettò infine Calogiuri, appena in tempo, prima che le volasse sul letto.

 

E invece fu lui a farla volare e Noemi rise, con dei “zio! Zio!!” da scioglimento. Ma poi si bloccò e la guardò, serissimo.

 

“Devi essere delicata con la zia, va bene? Non bisogna toccarle la pancia e non si deve muovere.”

 

Noemi annuì con un “promesso!” tenerissimo quanto sincero, com’era sempre lei. E poi Calogiuri le levò le scarpine e se la ritrovò dal lato opposto a Francesco, che faceva i suoi risolini. E poi attaccata al braccio.

 

“Il braccio almeno posso abbracciare, vero?”

 

Si commosse, sia per lo sguardo, sia perché faceva sempre meno errori a parlare, mannaggia pure a lei!

 

“Eh certo!” esclamò, smettendo solo per un attimo di coccolare Francesco, per darle una carezza su una guancia.

 

Noemi, di tutta risposta, si alzò in piedi e ricambiò, riempiendole di bacini il viso e stringendole pure il collo, che come faceva a lamentarsi? Sempre mannaggia a lei!

 

Francesco protestò un poco e quindi Imma riprese a coccolarlo. Noemi, con una delicatezza commovente, passandole sui piedi, si spostò dal lato del letto dove c’era anche lui e se lo prese in grembo, come la bimba grande che era.

 

“Non dobbiamo far stancare troppo Tata, eh, Francè, hai capito?”

 

Il bimbo non sembrava proprio molto d’accordo ma annuì, in un modo diverso da come faceva con lei.

 

“Hai tanta bua, Tata?”

 

“Eh… insomma, ma devo stare ferma per la piccoletta qua. Che deve stare ancora un po’ dentro alla pancia prima di nascere.”

 

Noemi ci si avvicinò leggermente, tanto che Calogiuri stava per bloccarla, apprensivo, ma si fermò a poca distanza e cominciò a parlare, con un tono ancora più serio, che pareva pronta a una conferenza, pareva.

 

“Lo so che vuoi ussire e anche io vojo giocare con te, cucinetta. Ma devi fare la brava ancora per un po’, va bene? Poi giochiamo.”

 

Sentì un singhiozzo e per un attimo pensò fosse stata lei a produrlo, o Calogiuri, ma no, era suor Cecilia, che stava in una valle di lacrime.

 

“Suvvia…” provò a minimizzare la superiora, con un paio di nobilissime e austerissime pacche sulle spalle, roba che lei in confronto era la persona più sciolta del mondo, ma che le ricordarono anche un po’ lei e Diana, qualche anno prima.

 

“Ma… ma…” balbettò la suorina, mentre suor Giuditta alzava gli occhi al soffitto, schifata.

 

Sempre lei con Diana qualche anno prima, ma peggio.


“Ma pecché piange?” domandò Noemi, preoccupata, voltandosi verso la suorina, per poi bloccarsi un attimo.

 

“Ma… ma siete colleghe di Tata?”

 

La suorina dal pianto passò allo strozzamento, così come la simpaticona e pure il povero Calogiuri e Rosa. Ci mancava solo Pietro, che chissà dove era finito, la magnum di Mancini, e poi lo scenario sarebbe stato completo.

 

Suor Elisabetta, invece, spalancò gli occhi, sorpresa come non l’aveva mai vista.

 

“Come colleghe di Tata? Perché lo pensi?”

 

“Eh… siete tutte vestite di nero. E anche Tata quando è al lavoro si veste di nero, lungo lungo e-”

 

“Quella è la toga, Noè, questa è la tonaca, è diverso. E poi io mica metto il velo, che mi ci vedi col velo?”

 

“Eh no eh!” esclamò Noemi, decisissima, e almeno su quello, per fortuna, non ci stavano dubbi. Poi si fermò, con aria triste.

 

“Però… però… però allora è motto qualcuno? Per quello piange?”

 

Ci fu un’altra tornata di strozzamenti, tranne lei e suor Elisabetta, che le sembrò molto divertita, nonostante il massimo del sorriso per lei fosse non avere le labbra all’ingiù. Ma gli occhi le brillavano.

 

“Perché siamo vestite tutte di nero e hai visto gente in nero ai funerali?”

 

“Eh sì… e poi le amiche di nonna… quando era motto qualcuno… sempre nero. Sempre sempre.”

 

“No, vedi, Noemi, noi non è che siamo così perché è morto qualcuno. Ma perché siamo delle spose. Siamo sposate con Gesù, con il Signore.”

 

Noemi aveva la faccina corrucciata di quando stava riflettendo molto intensamente su qualcosa. Era curiosa e preoccupata al tempo stesso di cosa sarebbe potuto uscire dalla sua boccuccia di rosa.

 

“Ma… ma se siete sposate non ci si veste di bianco? Pecché di nero? Non siete felicie?”

 

Fu il turno di suor Elisabetta di soffocare.

 

Noemi era una putenza, come avrebbe detto Matarazzo ai vecchi tempi.

 

“Ci vestiamo anche di bianco. Ma d’estate. D’inverno… vedi… una volta, quando non c’erano tanti soldi, il bianco e il nero erano i colori più economici. E il nero tiene meglio il calore e una volta i conventi non è che fossero caldi. E poi… il bianco si sporca più facilmente. Così è più comodo.”

 

Ammazza!

 

Doveva ammettere che l’approccio scientifico di suor Elisabetta non era da sottovalutare. Pure se le parti sulla penitenza, il castigo, l’autoflagellazione spesso tanto amata dagli ordini religiosi, il lutto perenne per il cristo in croce se le era convenientemente evitate. Ma la capiva.

 

“Ah… ok…”

 

Per un attimo tirarono tutti un sospiro di sollievo: sembrava che Noemi avesse esaurito i perché, fino a un “ma!” che prometteva molto poco di buono.

 

“Ma… ma se Gesù sta in cielo, come fate ad esserci sposate? Che mia mamma con il mio papà che lavora sempre, sempre via… si è stuffata. E pue io, eh!”

 

Suor Giuditta era in procinto di un cazziatone, suor Elisabetta presa in contropiede. La suorina, passate le lacrime prima e lo strozzamento poi, si copriva la faccia, per nascondere le risate.

 

“Eh… è un po’ complicato, diciamo che lui da un lato è lontano ma è in ogni luogo, quindi è sempre vicino a noi. Non siamo mai da sole.”

 

“Eh no eh!! Ma poi… ma poi non ci si può sposare con uno e batta? Come fate a essere tutte sposate incieme? Che avvocato di papà ha detto che non si può stare con due persone incieme!”

 

Si ripromise di riempire Noemi di leccalecca - altro che Pietro! - quando fosse finalmente tornata a casa, perché l’espressione delle suore era a dir poco impagabile.

 

Doveva fare la PM, doveva! Altro che i Latronico qua!

 

“Non… è… è più come un’amicizia molto profonda, cioè si possono avere tanti amici, come essere una famiglia e-”

 

“Ma non si sposano tutti gli amici, no? E con famiglia non si sposa, si vole bene e basta!”

 

Suor Elisabetta, spompata come non l’aveva mai vista, si limitò a scuotere il capo, proclamando la resa.

 

“Quando dicevo che i legami di sangue non contano… se mai penserai di fare l’avvocato, signorina, avvisaci che ti assumiamo volentieri. Se vorrai mai fare la suora, però, promettimi che scegli un altro convento, va bene?”

 

“Eh sì eh! Però io no suora! Io vojo marito che mi aiuta, come Pietto e zio!”

 

“Rendiamo grazie a dio!” proclamò la superiora, molto sollevata.

 

Però, prima di andarsene, quando le consorelle erano già uscite, la vide fare una specie di occhiolino a Noemi.

 

In fondo in fondo, non era poi così male.

 

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“Si può?”

 

Melita era sulla soglia, incerta e, subito dietro di lei, c’era Pietro, tremendamente a disagio.

 

“Ah, Piè, ma allora ci sei pure tu?”


“Imma…” annuì, l’aria di chi non avrebbe voluto essere lì.

 

“L’ho trovato con quelli della scorta e gli ho chiesto di accompagnarmi. Ho fatto male?” domandò Melita, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Rosa prima squadrò Melita, evidentemente non troppo felice che fosse vicina a Pietro, dopo sospirò, chiarendo, “la suora, quella simpaticona, ha fatto un po’ di storie a vederlo, che gli uomini in questa zona secondo lei non possono entrare, se non sono il coniuge o parenti. E allora ha preferito stare fuori.”

 

Un moto di rabbia perché, sebbene non è che avesse piacere che Pietro, come chiunque altro del resto, la vedesse conciata in quel modo, come si permetteva la cara sorella Giuditta di decidere per lei?

 

Altro che sorella Alberta!

 

“No, hai fatto benissimo,” rassicurò quindi Melita che, evidentemente, era l’unica, a parte lei e Valentina, ad avere il coraggio di farsi rispettare lì dentro, “Piè, non stare lì impalato, vieni!”

 

“Sììì, Pietto!” ululò Noemi, che stava sul letto a giocare con Francesco e un paio di peluche.

 

Pietro, la faccia di chi temeva di essere prossimo a cantare nelle voci bianche, richiuse la porta dietro di sé e fece un paio di passi in avanti, seguito da Melita, che però fissava soltanto suo figlio, come ipnotizzata.

 

“E tu chi sei?”

 

Noemi, sempre curiosa più di una biscia, che stava scannerizzando Melita dalla testa ai piedi.

 

“Sono… sono…”

 

“La mamma di Francesco.”

 

Calogiuri la guardò, sorpreso quanto lei stessa da quell’affermazione. Ma era la verità e doveva abituarsi ad accettarla, anche solo vocalizzandola.

 

Noemi spalancò la bocca, guardandola di nuovo per bene.

 

“Ma allora… ma allora sei quella che stava male tanto tanto?”

 

Melita, sorpresa, annuì.

 

“Ma allora… ma allora non era bugia e non sei volata in cielo come la mamma di Bianca!”

 

Di nuovo, prese a tutti un colpo, anche se le venne pure un poco da ridere nel beccare Melita a farsi le corna dietro la schiena.

 

“Una lunga storia. E comunque no, Noè, mica era una bugia. Stava male, ma mo sta meglio.”

 

“Aaaah… ma allora è perché c’avevi la bua che hai quelle righe sulla faccia?”

 

“Noemi!”

 

Rosa, incazzata e bordeaux, mentre Noemi, con occhioni spalancati, pareva chiedersi cosa avesse detto di male.

 

“Ma pecché? Sono belle, sembra dissegno!”

 

Melita, inaspettatamente, sorrise.

 

“Non so’ facili da cancellare come un disegno.”

 

“Pecché le devi cancellare? Sono bee bee!”

 

Melita di nuovo sorrise, l’aria di chi voleva spupazzarsi Noemi di coccole, ed Imma, senza pensarci, le fece segno di sedersi accanto ai bimbi.

 

Melita, commossa, si mise vicino ai suoi piedi e, nel giro di pochi secondi, Noemi gattonò verso di lei, portandosi dietro anche Francesco e aiutandolo a salire in grembo a Melita, seppure il suo amato ululatore fosse un po’ riottoso.

 

Melita era in una valle di lacrime. Imma trattenne il fiato, mentre Noemi redarguiva Francesco con un, “devi fare il bravo con la tua mamma, che ha avuto la bua. Anche se adesso non ha più la bua grande come Tata. Quindi devi fare il bravo sia con mamma tua che con Tata, va bene?”

 

Francesco gorgogliò, con l’aria da se lo dici tu! ma poi, quando Noemi gli passò uno dei peluche, si mise a giocare insieme a lei, usando Melita come supporto.

 

E, anche se non era paragonabile al rapporto che aveva con lei, era la prima volta che il piccoletto stava così buono senza averla al suo fianco, da quando erano lì tutti insieme.

 

Una sensazione dolceamara al petto: altro che gli assistenti sociali!

 

“Noemi è proprio una forza, eh?”

 

Incrociò lo sguardo orgoglioso di Pietro, definibile soltanto come paterno.

 

“Questa ci sotterra a tutti, Piè!” deflettè, anche se a Calogiuri il tono agrodolce non sfuggì e forse neanche a Pietro.


“Ti trovo bene… cioè… per quanto puoi esserlo in queste circostanze. Non… non me l’aspettavo che resistessi tutto questo tempo ferma a letto.”

 

Un cenno a Calogiuri, sapendo benissimo quanto lo avesse fatto penare, ma lui sorrise e sollevò le spalle, come se non fosse l’impresa che era, quella che stava compiendo con lei.

 

“Non ti invidio,” lo punzecchiò Pietro, sembrando un po’ ammirato pure lui, ammollandogli una pacca sulla spalla.

 

“Non fate troppo comunella voi due, mi raccomando!” intervenne Rosa, sempre sul pezzo.

 

E dopo un “non ti invidio manco io!” di Calogiuri a Pietro, il successivo battibecco affettuoso tra fratelli con Rosa, i bimbi che giocavano sereni e Melita che era al settimo cielo, diede una carezza alla piccoletta, stranamente tranquilla quel giorno.

 

Giustamente, in mezzo a quella gabbia di matti, persino il suo utero doveva sembrarle il paradiso.

 

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“Ma è senza vergogna!”

 

Stava tornando dal fare l’ecografia e tutti gli altri esami di rito. Era riuscita a convincere suor Cecilia a lasciarle guidare la carrozzina e tornare in stanza per conto suo, anche se supervisionata a distanza.

 

Del resto, da quando le aveva fatto quella sfuriata, della quale non aveva ancora avuto il coraggio di scusarsi - le parole proprio non le volevano uscire - la suorina era solo che felice di non dover passare troppo tempo sola con lei.

 

Fermò la carrozzina, per una volta grata che facesse meno rumore dei tacchi che tanto rimpiangeva, e spiò, oltre alle colonne del chiostro, quella simpaticona di sorella Giuditta che discuteva con Melita.

 

“In che senso?”

 

“Questo è un luogo di malattia e di preghiera e lei se ne va in giro così?”

 

La suora indicava la maglietta di Melita, molto accollata per i suoi standard ma che, a causa delle sue forme, lasciava scoperti giusto un paio di centimetri di pancia, a dir tanto.

 

“Fa caldo! Mica sono ‘na suora io,” protestò, protesa in avanti sulla stampella, almeno finché le toccò indietreggiare, sotto il piombo di una filippica da manuale.

 

“E menomale! Non c’è più religione qua! Gira di tutto, pure una come te! Senza vergogna! Senza dignità, senza fibra morale! Che quel povero bambino come crescerà? In mezzo alla perversione, senza nessuna regola e-”

 

“E mo basta!”

 

Non ce l’aveva fatta: era stato più forte di lei. Le mani, le ruote e la lingua si erano mosse da sole, aveva svoltato l’angolo ed era intervenuta.

 

Giuditta aveva fatto dietrofront e l’aveva fissata con un odio ed un risentimento che neanche i sospettati. E forse le suocere.

 

“Parla proprio lei! Che è soltanto colpa sua, SUA, se ci troviamo in questa situazione! Che qua girano cani e porci! E mo pure le… le peripatetiche!”

 

“Se non ci pensasse già da sola a mettersi in ridicolo, le direi di moderare i termini. Melita non ha mai fatto altro che ballare ma, pure in caso contrario, ricordo male io, o era un certo Gesù Cristo che si accompagnava a una certa Maria di Magdala?”

 

La suora strinse i pugni, colpita, ma fece un paio di passi verso di lei.

 

“E chi sarebbero gli altri cani e porci? Io e Calogiuri? Mia figlia e Penelope?”

 

“Sì! Ormai non si può dire più niente ma sì! Non è naturale! La superiora concede tutto, concede troppo, ma la bibbia-”

 

“La bibbia dice pure di amare il prossimo. E, di solito, chi si scalda così tanto per due ragazze che stanno insieme, o per qualche centimetro di pancia scoperta di una bella donna, è perché teme di esserne attratta. Non è che è lei ad avere qualcosa da capire, sorella?”

 

Comprese di averla punta nel vivo dall’urlo. La soddisfazione durò il tempo di trovarsela a pochi centimetri, gli occhi fuori dalle orbite.

 

“Basta!”

 

Calogiuri…

 

Protettivo come sempre, si era messo in mezzo tra lei e la religiosa, osando persino afferrarla per le spalle per allontanarla da lei.

 

La suora, ovviamente, non la prese bene e ricominciò la tiritera di proteste, di “come osa? Come si permette? Giù quelle mani!” i decibel che si alzavano sempre di più.

 

“Ma che succede qui?!”

 

La superiora, con quattro parole, aveva zittito tutti, paralizzati nelle rispettive posizioni. Si udivano giusto gli uccellini che ancora cinguettavano, godendosi il caldo autunnale.

 

“Questo… questo mi ha messo le mani addosso!” ululò suor Giuditta, staccandosi da Calogiuri, entrambi peggio dei cruschi.

 

“Stava… stava aggredendo Imma, le urlava addosso! Imma non deve agitarsi-”

 

“Ma se era lei a urlare addosso a me! Delle schifezze, delle vere schifezze, madre! Solo a ripensarci ho i brividi!” proclamò, facendosi il segno di croce con aria compunta quanto disgustata.


“La dottoressa voleva solo difendermi!”

 

“Non è vero, madre! La colpa è tutta loro: da quando sono arrivati qui hanno portato solo guai. Pensi anche a come è stata la povera sorella Cecilia!”

 

La madre superiora strinse le labbra, con l’aria di chi le stava credendo.

 

“Non è vero niente, madre! E proprio tu parli di me, Giuditta?”

 

Suor Cecilia, decisa come non l’aveva mai vista né sentita, le erre e le esse che roteavano col suo meraviglioso accento, li aveva raggiunti, tremante ma con una luce negli occhi che le fece quasi paura.

 

Procedette, senza esitazione, a riferire esattamente quanto era stato detto, parola per parola.

 

A lei manco il taccuino serviva!

 

“Ecco, ha sentito di cosa mi hanno accusata?” si inserì Giuditta, pronta a rigirare la frittata, “di essere contronatura e-”

 

“No, ti hanno accusata di essere una… una bulla, come si dice in italiano, no? Ed è quello che sei! Mi hai fatto passare l’inferno da quando sono arrivata, perché ero quella nuova, perché non sono bianca come te, per come parlo! E fai così con quasi tutte le pazienti. Non… non ho mai avuto il coraggio di dirlo ma… ma-”

 

“Va bene così, suor Cecilia, mi è tutto chiaro.”

 

La superiora aveva alzato una mano, più solenne di un giudice. L’occhiata che stava rivolgendo a Giuditta le fece pensare che quello che aveva fatto passare, a chi era finita sotto le sue grinfie, non sarebbe stato nulla in confronto a ciò che la attendeva dalla superiora.

 

“Vai nel mio ufficio, Giuditta.”

 

La religiosa aprì la bocca ma bastò un’altra stilettata oculare di suor Elisabetta per farla dileguare.

 

“Cecilia, mi dispiace non aver mai notato niente e che non ti sia fidata a riferirmelo prima. Se dovessero esserci altri problemi di questo tipo, me ne devi parlare subito, siamo intese?”

 

La superiora aveva chinato il capo, in segno di penitenza, e la suorina, sorpresa, annuì.

 

“Sì, se Giuditta-”

 

“No, suor Cecilia, di Giuditta non ti devi più preoccupare. Non vi dovete più preoccupare. E mi scuso per questo increscioso incidente. Dottoressa, forse è meglio se rifacciamo le analisi, no?”

 

Non avesse saputo che la madre superiora era pur sempre una madre superiora… il nome di suor Giuditta si sarebbe aspettata di trovarlo nei necrologi. La boss dei Mazzocca era ‘na crema, al confronto.

 

Tanto che non se la sentì nemmeno di protestare oltre quando suor Cecilia, con un iperpremuroso Calogiuri, la riportarono dritto dritto da dov’era venuta.

 

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“Che c’è Calogiuri? Che il solco nella stanza al massimo lo posso fare io, quando mi riprendo, non tu!”

 

Aveva il cellulare in mano e andava avanti e indietro, avanti e indietro, nella stanza illuminata solo dalla lucina notturna. Uno sguardo colpevole.

 

Cattivissimo segno.

 

“Che è successo mo?”

 

“Una mail… dagli assistenti sociali. E…”

 

“E non hai il coraggio di aprirla.”

 

“No.”

 

“Vieni qua…”

 

Calogiuri si avvicinò, sedendosi accanto a lei. Imma chiuse gli occhi e premette lo schermo.


“Se è una cattiva notizia me la devi dare subito, Calogiù, capito? Veloce!”

 

Si sentì stringere la mano, ma nient’altro, tanto che finì per cedere e riaprire gli occhi.

 

E il cuore le saltò un battito.

 

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“Dottoressa, c’è una visita!”

 

Suor Cecilia, la voce squillante di chi era felice come una pasqua, fece entrare una persona che normalmente portava tutto tranne che gioia.

 

L’assistente sociale.

 

“Vai a chiamare Melita?”

 

Ormai si davano del tu. Almeno con lei. Calogiuri rimaneva sempre super rispettoso. Era Calogiuri, del resto.

 

La sorella annuì e quasi volò fuori dalla stanza.

 

Suor Giuditta non si era più vista. L’aver in qualche modo contribuito al suo trasferimento aveva portato ad una totale distensione dei rapporti con la suorina. Ad una confidenza impensabile fino a poco tempo prima.

 

Il che significava che la mano non le tremava più quando le faceva le iniezioni e, pure per quella piccola benedizione, ringraziava chiunque ci potesse essere, forse, in ascolto. Se non c’aveva i timpani rotti dopo tutti quegli anni a sentirla urlare.

 

L’assistente sociale spostò una sedia e si accomodò, salutando con la mano Francesco, bello tranquillo tra le braccia di Calogiuri, seduto accanto a lei.

 

Sopraggiunse Melita, l’aria di chi andava al patibolo. Il clima si stava facendo frizzante, come evidenziato dal suo abbigliamento.

 

Giuditta, ti sarebbe bastato resistere ancora due settimane! Mannaggia a te!

 

“Signorina Russo, si accomodi…”

 

Melita annuì, zoppicando fino alla sedia rimasta libera. Dopo essercisi in qualche modo sistemata, provò ad appoggiarci la stampella, con mano così tremante che ci fu un piccolo boato del metallo che si sfracellava a terra.

 

Uno, due, tre secondi e l’ululato di Francesco, puntuale come un orologio. Per fortuna, oramai, sapevano come calmarlo: Calogiuri lo fece saltellare un po’, lei gli diede due carezze e, su suo invito, Melita partì con un altro tormentone estivo - che del precedente non se ne poteva più! - e Francesco si tranquillizzò del tutto, iniziando a battere le mani.

 

“Mi sembrate una squadra molto affiatata, ormai.”

 

Si voltarono verso l’assistente sociale, riportati bruscamente alla realtà. Melita aveva due occhioni che le ricordarono tantissimo Valentina.

 

“Melita, deve stare tranquilla. L’affiancamento sta procedendo bene-”

 

Melita tirò un sospiro di sollievo, almeno fino a quando l’assistente sociale non ci aggiunse un “ma”.

 

“Ma, come ho già preannunciato alla dottoressa e al capitano, il minore non è ancora pronto a staccarsi da loro. E nemmeno lei, signorina Russo, per quanto abbia fatto notevoli progressi, credo sarebbe in grado fisicamente di occuparsi costantemente del minore. Per questo-”

 

Il singhiozzo di Melita la interruppe e riprese anche la sirena di Francesco. Sempre solidale nelle proteste lui.

 

“Calma, calma!” provò a tranquillizzarla l’assistente sociale, mentre Calogiuri si avvicinava con un fazzoletto, “non c’è nulla di definitivo ancora. La decisione presa insieme al tribunale è stata quella di proseguire con l’affiancamento, per poi passare gradatamente a un affido congiunto, per poi valutare i tempi e i modi per renderlo esclusivo.”

 

Melita sembrò più confusa che sollevata.

 

“In… in che senso?”

 

“Nel senso che per ora, se ti va, potrai continuare a stare con noi e ad affiancarci con Francesco. Anche perché Imma a breve dovrà… assentarsi per un po’, per ovvi motivi-”


“Speriamo non troppo a breve, Calogiù!”

 

“E poi… e poi piano piano farà qualche giorno con te e qualche giorno con noi. E alla fine si presume che potrai tornare ad averlo con te a tempo pieno.”


“Sempre se il minore sarà pronto,” si inserì l’assistente sociale. Lo sguardo di Melita fluttuava tra la speranza e la delusione, peggio di una partita di ping pong.

 

“Ma… ma se voi ve ne andate a Milano, io-”

 

“Se vuoi, puoi venire con noi,” si inserì, perché sapeva che era meglio che quella notizia venisse da lei stessa che da Calogiuri, “possiamo trovarti un appartamento vicino al nostro. Che manco sappiamo dove sarà, ad essere proprio sinceri, ma… hai visto come siamo messi, no? E poi-”

 

“E poi come mi mantengo? Cioè… non voglio fare l’invalida a vita o… o dover stare sotto protezione sempre!”

 

“Quello lo deciderà il giudice, ma la dottoressa e il capitano hanno una soluzione da proporti.”

 

“Il merito in realtà è di Calogiuri, che mi ha dato un buon suggerimento,” ammise, prendendogli la mano e sorridendogli, in un modo che calmò finalmente di nuovo Francesco, “non solo ti spetterà un risarcimento per tutto quello che hai subito, dall’avvocato e dagli amici suoi, ma… per le persone nella tua situazione, soprattutto donne, ci sono aiuti e incentivi. Quando ti riprenderai completamente, magari potrai aprirti un locale tutto tuo. E, nel frattempo, mi sono un po’ guardata intorno e, a quanto pare, il bar della procura di Milano al momento è chiuso. L’ultimo gestore lo teneva ‘na schifezza e ovviamente mo sono molto selettivi su chi lo può gestire. Non sarà un jazz club o un night alla moda ma… finché Francesco è piccolo, potrebbe pure essere un buon compromesso, no? Se tenti il concorso, con i bonus di punteggio che ti spettano, avrai buone possibilità. Se ti va, naturalmente. Se no, qualcosa a Milano si trova, figurati!”

 

Melita spalancò occhi e bocca, senza parole.

 

“Melì?”

 

“Signorina Russo, che ne pensa?”

 

“S-sì, cioè… ma… ma una con il mio passato… davvero mi farebbero lavorare in una procura?”

 

“Beh… lì saresti al sicuro e, proprio per quello che hai passato, è molto improbabile che tu possa avere in futuro legami con la criminalità organizzata,” chiarì Calogiuri, con un sorriso, “e poi, se non ci provi non lo sai. E, come dice Imma, potrai sempre cederlo e aprirti un posto tutto tuo, quando Francesco sarà più grande. O possiamo tenerlo noi di notte e tu di giorno, o dividere il costo di una babysitter. Che, per quanto scalcia questa piccoletta, almeno una ci servirà di sicuro.”

 

Un altro singhiozzo, talmente forte da preoccuparla. Ma il sorriso di Melita, bellissimo, bianchissimo e speculare a quello di suo figlio, le diede per la prima volta la sensazione che, sebbene il loro futuro fosse incerto come non mai, in qualche modo se la sarebbero cavata, senza addii traumatici, né per loro, né per l’ululatore seriale.

 

E magari si sarebbero pure salvati tutti quanti le orecchie, riposandole per qualche ora al giorno.

 

E che cavolo!

 

*********************************************************************************************************

 

MEOOOW MEOOOOW MEEEEEOOOOOWWWW

 

“Ottà, che c’è mo? Per carità, se te lo vuoi puppare un poco pure tu sto semolino, a me fa solo che piacere. Ma, va bene che qua non ci stanno le scatolette al salmone tue, ma non pensavo che stessi messa così male!”

 

Un soffio indignato, Ottavia si voltò, mostrandole con orgoglio il portacoda, ma poi tornò a miagolare e a girare intorno al vassoio che teneva in grembo, con su quella specie di schifosa poltiglia in brodo.

 

Fosse stato almeno nel latte, ma no, troppa grazia!

 

Si guardò con Calogiuri, confusa.

 

“Tu capisci che c’ha, Calogiù?”

 

Calogiuri, che stava sorbendosi - in tutti i sensi - la sua porzione di semolino, in un atto di lodevole solidarietà, si limitò a sollevare le spalle, perplesso quanto lei.

 

“Forse… forse l’ultima volta che l’ho vista così agitata è stato prima-”

 

Si bloccò, deglutendo così forte che per poco non si strozzava. Imma sapeva benissimo cosa stava per dire: prima degli agguati.

 

Ci mancava solo la mezzanotte di fuoco tra le suore!

 

“Mi sa che non ho più fame…” sospirò, guadagnandosi un’occhiata di riprovazione che, se Calogiuri avesse fatto così pure con la calciatrice, sarebbe venuta su mangiando pure le rape fritte, per quanto era efficace.

 

“Calogiù… e dai, un poco l’ho mangiato. E poi, tanto, per quel che mi muovo…”

 

“Devi mangiare, dottoressa, è un ordin-”

 

“AHI!”

 

L’urlo le era venuto spontaneo: un colpo alla base della pancia.

 

“Ottà!” la chiamò, che va bene le zampate e gli agguati, ma…

 

Ma Ottavia, forse spaventata dall’urlo, forse già da prima, stava appollaiata in cima a una sedia, sdegnosa e regale come solo lei sapeva essere.

 

“AHIA!”

 

Un secondo colpo, ancora più forte del precedente.

 

“Piccoletta, va bene che vuoi farti sentire e il semolino farà schifo pure a te, in qualsiasi modo ti arrivi, ma-”

 

Le toccò interrompersi e mordersi le labbra, da tanto aveva male.

 

“Questo è meglio che lo spostiamo!” esclamò Calogiuri, levando di mezzo il vassoio, premurosissimo come al solito.

 

Si toccò la pancia, in quel punto, per calmare la piccoletta, ma c’era un’altra cosa strana mo. Il dolore lì sotto proseguiva, però non erano calci o pugni: quelli erano molto più in alto, vicino al suo ombelico, così forti da intravederli, sotto la camicia da notte.

 

Un’altra fitta, ancora più intensa, e le mani di Calogiuri a tenerla ferma, per le spalle, mentre cercava di sistemarle i cuscini.

 

“Forse è meglio se chiamo qualcuno?”

 

“No, Calogiuri, no- AHIA!”

 

Una fitta tremenda, un dolore pulsante e poi caldo e freddo e-

 

“Acqua?”

 

“Vuoi un po’ d’acqua?” le chiese Calogiuri, cominciando ad alzarsi, ma lo trattenne per la maglia.

 

“Mi… mi si sono rotte le acque, Calogiù…” sussurrò, spaventata quanto mo lo era anche lui.

 

Si voltarono verso il calendario sul comodino, all’unisono, come se fosse un’indagine e non uno dei momenti più terrificanti della sua vita.

 

“Il 20 novembre… è troppo presto, è-”

 

“Ormai la trentaseiesima settimana è praticamente finita. La dottoressa aveva detto che mo dovrebbe essere più o meno come un parto a termine, no?”

 

“Eh… è quel più o meno che mi preoccupa, Calogiùù-AH!”

 

E fu in quel momento, mentre gli stritolava una mano, che qualcosa cambiò in quegli occhi azzurri che tanto amava: era fermo, deciso, lucido.

 

“Vado a chiamare le suore. Tu…”

 

“Se mi dici non ti muovere, t’ammazzo, Calogiù! A te e a sta piccoletta che AH! Questa vuole uscire! Sei troppo veloce, piccolè!”

 

“Ha preso proprio tutto da te, allora!” la sfottè, come solo lui sapeva fare, per disarmarla e tranquillizzarla, prima di attivare il cicalino della chiamata e uscire, chiamando a gran voce, “suor Cecilia!” con un tono che manco la povera suorina fosse stata Capozza.

 

*********************************************************************************************************

 

Ma chi me l’ha fatto fare a me?

 

Il pensiero che si ripeteva come un mantra, mano a mano che i dolori si facevano più forti.

 

C’avevi quasi cinquant’anni, una figlia rompipalle te l’eri già sorbita per un ventennio - numero d’anni che porta sempre malissimo - ma no, tu, cocciuta come al tuo solito, dovevi proprio andare a impelagarti di nuovo? Mannaggia a te, a lui, a tutti!

 

La voce della sua coscienza, che per una volta suonava soltanto come lei stessa medesima, quando demoliva il sospettato di turno.

 

Ma poi vedeva gli occhi enormi e preoccupati di Calogiuri, sentiva le dita tra le sue, che non la mollavano, nonostante lo stesse stritolando peggio di un boa constrictor, percepiva un calcetto o movimento della piccoletta ed il pensiero mutava in un altro mantra, che ormai l’accompagnava da mesi.


Stai bene, piccolè! Non farmi scherzi! Stai bene, stai bene!

 

Una nuova fitta, che le pareva di aver preso una martellata tra basso ventre e zona lombare, e si ricominciava da capo.

 

“Questa è la vostra stanza…”

 

L’infermierina, una biondina slavata alle prime armi, a giudicare da come la guardava terrorizzata - cominciamo bene, proprio! - fece loro strada e, insieme a una collega più anziana, la aiutò a spostarsi dall’immancabile carrozzina all’ormai imprescindibile letto d’ospedale.

 

Manca poco, Imma, manca poco!

 

I soliti controlli di rito, il dolore che andava e veniva, andava e veniva, sempre più intenso e ad intervalli sempre più stretti, e poi l’infermiera senior cominciò a snocciolare dati su dilatazione, tempistiche delle contrazioni e quant’altro.

 

“Il feto parrebbe essere nella posizione corretta. Abbiamo avvisato la sua ginecologa, ma dobbiamo decidere ora per l’epidurale e se volete chiamare l’anestesista.”

 

“Come sarebbe a dire se volete? E che state aspettando? Che mi apra in due?!” urlò, già stufa ed arcistufa di tutte quelle manfrine e della cultura del dolore per cui, se non partorivi tra indicibili sofferenze, non eri veramente madre.

 

Partorirai con dolore stocazzo!

 

“A proposito, la ginecologa valuterà se tentare col parto naturale o se sia meglio un cesareo. Tuttavia parrebbe tutto procedere abbastanza velocemente: potremmo presto arrivare al livello di dilatazione necessario per trasferirla in sala parto,” chiarì l’infermiera, senza perdere un colpo, come se non le avesse appena gridato addosso.

 

C’aveva proprio fretta di uscire la piccoletta, mannaggia a lei!

 

“Veloce come te, te l’ho detto, dottoressa.”

 

A quel sussurro, incrociò lo sguardo di Calogiuri, tra l’adorante e l’apprensivo, e non sapeva se fosse più la voglia di baciarlo o quella di staccargli la testa.

 

Pure quella fluttuava, come il dolore.

 

Le infermiere non persero tempo a dileguarsi, dopo aver fatto le dovute raccomandazioni sul monitoraggio e su quando chiamarle.

 

L’unico suono era il bip ritmico dei macchinari e quello dei loro-

 

Un’altra fitta, ancora più forte, e si piegò: non ce la faceva più ed erano solo all’inizio!

 

“Respira, come ci hanno insegnato al corso preparto, respira…”

 

Si scostò dalla mano che Calogiuri aveva posto sulla sua spalla e gli stritolò l’altra.


Al momento, l’opzione decapitazione era in netto vantaggio.

 

“Il corso preparto delle suore, Calogiù? Che quelle quando mai hanno partorito? Che poi se non respiro ci rimango, grazie tante!”

 

Calogiuri sospirò, un poco ferito, ma anche risoluto, cocciuto.

 

“Imma… non posso nemmeno immaginare il dolore che provi, ma pensa a tutto quello che hai passato in questi mesi. Ormai il più è fatto, manca-”

 

“Manca solo di far uscire un melone da qua sotto, che se la rivedi è un miracolo, Calogiù! Ma tanto è facile: tu il più lo hai fatto in pochi minuti, mannaggia a te! Cioè… un po’ più di pochi minuti, sempre mannaggia a-”

 

La risata di Calogiuri fu coperta da un’altra contrazione che le levò pure la poca voglia residua di scherzare.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma è nata?”

 

“Come sta Imma?”

 

“Non l’abbiamo ancora sentita urlare. L’hanno sedata?”

 

Rosa, Pietro e Valentina.

 

Era uscito due minuti, il tempo che la ginecologa facesse tutti gli accertamenti necessari. Era quasi mezzanotte.


Trovarsi davanti quei visi familiari, soprattutto quello di sua sorella, fu un sollievo, anche se se lo aspettava, avendo provveduto ad avvisarli per messaggio.

 

Non era più solo, solo davanti al dolore di Imma, che avrebbe tanto voluto prendersi lui, se solo avesse potuto. Ma forse non sarebbe stato in grado di reggerlo, non era forte come lei e non lo sarebbe mai stato.

 

Però… c’era anche il senso di responsabilità, soprattutto verso Valentina, che sua madre stesse bene, che non si fosse giocata la salute - o peggio - anche per colpa sua.

 

“La stanno visitando. Tra poco capiremo quanto manca. Non sanno se riusciranno a farle l’epidurale in tempo. Però… il reparto è ben insonorizzato…” ironizzò, perché che altro poteva fare?

 

“Dalla tua faccia si vede proprio che già hai capito tutto!”

 

La pacca sulla spalla di Pietro, preoccupato ma anche divertito, del resto lui ci era passato per primo, “le gioie della paternità, mare- anzi, no capitano!”

 

“Ma come hai fatto tu?”

 

“E come ho fatto? C’ho avuto le mani distrutte per giorni, ecco come ho fatto. Se tieni dei guanti belli spessi… magari dei guantoni da boxe è meglio.”

 

Gli venne da ridere ma Pietro non rideva affatto.

 

E mo era terrorizzato.

 

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“Come va?”

 

“Calogiuri!”

 

Il suo nome Imma lo aveva pronunciato, urlato pure, in mille modi da quando si conoscevano. Ma mai così, come se volesse solo lui da un lato e scuoiarlo dall’altro.

 

“Che succede?”

 

“Questi… questi criminali! Che i criminali sono meglio! Non mi vogliono fare l’epidurale!”

 

“Non è che non vogliamo, è che non si può: dobbiamo portarla in sala parto, è ora. La dottoressa non perde tempo.”

 

“Ve lo do io il tempo! AAAAH!”

 

Le urla di pochi minuti prima non erano nulla in confronto a quelle. L’ansia gli aumentò esponenzialmente.

 

Altro che insonorizzazione!

 

Le strinse la mano e capì l’avvertimento Pietro: se andavano avanti così, avrebbe dovuto fare fisioterapia per i giorni a venire, ma come minimo.

 

“La piccoletta sta bene? Che è così in anticipo!”

 

Imma. Anche tra il dolore, sempre di quello si preoccupava, più che di se stessa.

 

“I valori sembrano nella norma, Imma. Alla fine ormai mancava poco ed è bella grande per le settimane che ha. La posizione c’è e non vede l’ora di uscire. Poi faremo tutti i controlli, ma ora dobbiamo andare.”

 

Senza quasi rendersene conto, si trovò ad accompagnare Imma, distesa sul lettino, per i corridoi del reparto. Si bardò di tutto punto con camice, cappuccio, guanti e copriscarpe. Poi dritto in sala parto, accanto ad Imma che manco davvero coi peggiori criminali o Carminati del mondo l’aveva mai sentita così.

 

“Imma, adesso devi spingere.”

 

“E grazie al cavolo, e che altro dovrei fare? La spaghettata di mezzanottAAAAH?

 

Tornò a stringerle la mano e ad asciugarle la fronte, sudata ancor più della sua, provando a sostenerla, per quanto possibile.

 

“Stai andando benissimo, come sempre!”

 

“Sì, il complimento al ciuccio mo, che pure le asine partoriscono, non ti ci mettere pure tuUUUH!”

 

La tenne stretta più che poteva, le baciò la tempia, contando con lei i respiri e le spinte, preoccupato e allo stesso tempo lucido come non era mai stato.

 

“Si vede la testa, quasi ci siamo!”

 

“La tua testa. DURA. Calogiùùù!”

 

Ogni pezzo di frase era corredato da una spinta e da una stritolata: non sentiva più il male, ormai, ma nemmeno le dita.

 

“Manca poco… forse dobbiamo facilitare l’uscita, passatemi-”

 

“Non v’azzardate a tagliarmi, capito?! Diglielo pure tu!”

 

Il panico negli occhi di Imma e si affrettò a darle manforte, “non si possono evitare tagli invasivi? Se non è necessario, ovviamente.”

 

“Però allora devi concentrarti e spingere bene, Imma. Tre, quattro spinte buone al massimo e ci siamo.”

 

Se le occhiate di Imma avessero potuto uccidere, la ginecologa sarebbe già stata all’obitorio, ma poi il suo sguardo mutò, con quella decisione e concentrazione di cui solo lei era capace.

 

Fosse crollato il mondo, ce l’avrebbe fatta, lo sapeva.

 

Una, due, tre spinte, svariati urli e poi uno strillo acuto, fortissimo, che fu un pugno allo stomaco, liberazione e gioia e… e non ci capiva più niente e… e gli girava la testa, le gambe che cedevano.

 

*********************************************************************************************************

 

Il pianto. Quel pianto.

 

Le faceva eco, il cuore che le batteva fortissimo, la vista appannata e… e un peso accanto a lei, sul cuscino.

 

Incrociò gli occhi di Calogiuri, bianco come un cencio, quello sguardo estatico, incredulo che amava così tanto.

 

“Calogiù?” chiese, preoccupata, toccandogli la mano e avvedendosi che era viola.

 

Forse aveva un poco poco esagerato.

 

“Tranquilla, non svengo, tranquilla.”

 

Giusto un sussurro, un sorriso, un bacio alla mano: tutte le rassicurazioni di cui aveva bisogno.

 

E poi un altro pianto, forte, potente, e la vide, per la prima volta la vide: magrolina ma lunga lunga, assai più di Valentì, pur non essendo a termine. Urlava e si dimenava, si dimenava e urlava, roba che in confronto Francesco era muto, mentre i dottori la ispezionavano e poi cercavano di pulirla.

 

“Ha… ha la tua voce!”

 

Si voltò di scatto verso Calogiuri, tanto che le scrocchiò il collo, mentre la sala parto esplodeva in una risata collettiva.

 

Ma lui non rideva, no: lui era felice. Anzi, entusiasta. Anzi, guardava e ascoltava la loro piccoletta come se quello fosse il suono più melodioso al mondo.

 

“Calogiù…” sospirò, commossa come… non c’era un paragone: lui la amava, le amava, così tanto da sfiorare la sordità.

 

E il TSO.

 

Ma poi un dubbio, visto quanto gridava.

 

“Ma è tutto a posto, vero?”

 

E stavolta fu la mano di Calogiuri a stringere più forte la sua.

 

“Faremo accertamenti più approfonditi per esserne sicuri al cento percento ma… è forte, a un alto percentile di crescita e, almeno dai primi rilievi, è tutto assolutamente nella norma. Deve solo aumentare di massa: è due chili e ottocento, ma anche voi siete di costituzione leggera. Avremo le risposte definitive dopo le analisi ma… sono fiduciosa.”

 

Un peso che le si levò dal cuore e dallo stomaco, infinitamente maggiore di quei due chili e ottocento dai quali si era svuotata.


Si sentiva leggera, come un palloncino.

 

“C’è da tagliare il cordone ombelicale. Se il padre se la sente…”

 

Calogiuri…

 

Era ancora come ipnotizzato a studiare quella scriccioletta che ululava indignata e non pareva intenzionata a smettere.

 

Incrociò i suoi occhi allagati e lo vide fare quel segno di ma chi io?! che la riportò indietro di chissà quante vite e che amava infinitamente, come e più di allora.

 

“Calogiù… che ti sei incantato? Te la senti o no? Decidi, veloce, che qua mica posso stare con sta roba a penzoloni fino a domattina.”

 

La voce rochissima, spezzata e il sorriso ebete con i quali aveva pronunciato quelle parole la tradivano ma… non poteva resistergli quando faceva così.

 

“Ce- ce la faccio! Ce la faccio,” proclamò, deciso come no, una volta non sarebbe proprio stato mai e, dopo un’ultima stretta di mano, si alzò e si rivolse ai medici, “come devo fare?”

 

Li vide trafficare per predisporre tutto il necessario e porgere le forbici a Calogiuri.

 

Si guardarono, si sorrisero e poi…

 

E poi il primo taglio non riuscì, tanto era emozionato, e ce ne volle un secondo, la piccoletta che non smetteva un attimo di strillare.

 

Imma trattenne un singhiozzo, mentre i medici finivano di pulirla e avvolgerla in un telo, Calogiuri che fissava le forbici e il pezzo di cordone che gli era rimasto in mano, le labbra quasi blu.

 

“Menomale che non è un maschio… se no qua, altro che voci bianche!”

 

Sì, era sempre meno credibile, la voce che le andava e veniva, ma il rossore alle guance di Calogiuri, il modo in cui mollò il tutto per concentrarsi su di lei, valsero ben lo sforzo.

 

Estese il braccio fino ad afferrargli la mano e gli sussurrò il “bravo, Calogiuri!” più emozionante della loro vita.

 

“Eccola qua… poi può metterla sul petto della madre: ha bisogno del contatto fisico ora.”

 

Un’infermiera gliela stava porgendo, mezza coperta e mezza no, tanto si dibatteva.

 

Lo sguardo. Quello sguardo di Calogiuri non se lo sarebbe scordata mai. Se lei era la madonna, la piccoletta era il bambinello e il firmamento intero, Calogiuri che si asciugava un paio di lacrime col gomito, prima di provare a prenderla in braccio.

 

Un paio di altri urli incazzosi che degradarono in vagiti, mentre lui, con il sorriso più bello di sempre, iniziò a prendere le misure e a cullarla, con una dolcezza disarmante.

 

E poi di nuovo quegli occhi nei suoi e quel sorriso sempre più abbagliante, man mano che si avvicinava, il tremore che lasciava spazio a quella naturalezza nell’imparare le cose che era solo di Calogiuri.

 

“Un’altra cocca di papà…” lo sfottè, perché la piccoletta rumoreggiava, ma in modo più… curioso che altro.

 

“Vuole farsi sentire, dottoressa.”

 

E poi il peso sul bordo del lettino, delicato come una piuma, ed un altro peso, vivo, pulsante e scalciante - già solo da quei colpetti l’avrebbe riconosciuta tra mille! - spalmato tra la pancia e il petto.

 

La gola prosciugata, le ciglia inondate, improvvisamente percepì tutto e niente.

 

Quel piccolo battito, premuto sul suo cuore, sincronizzato al suo e al polso di Calogiuri, che le accarezzava il dorso della mano. Quella mano che in automatico aveva mosso per toccarla per la prima volta, per sfiorarle la schiena, così minuscola e calda e morbida.

 

Un vagito, un altro e poi… e poi il silenzio: non sentiva più nulla. La boccuccia si era chiusa, quella testolina piena di capelli scuri scuri e riccissimi si era bloccata e-

 

Occhi. Azzurri. Enormi. Tenerissimi. Nei quali si era persa in mille momenti diversi, ma che la scrutavano per la prima volta, senza realmente vedere. Ma il suo stomaco, che aveva preso a contrarsi compulsivamente, non ne voleva sapere della scienza. Pure la piccoletta iniziò a singhiozzare, come nel pancione, in un duetto perfetto, e continuava a fissarla, confusa ma come se aspettasse lei e soltanto lei, da sempre.

 

“Eccallà! E come devo fare io mo?” le uscì, in qualche modo, perché sapeva già, con assoluta certezza, più di qualsiasi intuizione risolutiva dei suoi amati casi, che quello scricciolo l’avrebbe sempre fregata, sempre, e che quegli occhi sarebbero stati la sua rovina.

 

“Amore mio…”

 

Il sussurro di Calogiuri, poco più di un soffio, e poi un “amori miei… non… sei bellissima… è bellissima… è uguale a te!” che le solleticò la guancia.

 

“No, se è bellissima è perché è tutta quel ruffiano di papà suo. Mannaggia a te, Calogiù! Che m’hai fatto fare!”

 

Scoppiarono a ridere, continuando ad accarezzarla, gli occhioni azzurri che piano piano si richiudevano, mentre si sentiva piombare addosso, di colpo, tutta la stanchezza del mondo.

 

“È… è incredibile… tu sei incredibile… io… io non potrò mai… grazie… grazie… gra-”

 

Lo zittì con un bacio, prima che si infilasse in una litania infinita, conoscendolo, e gli sorrise sulle labbra.

 

“L’abbiamo fatta insieme, Calogiù. Insieme. Lavoro di squadra.”

 

Un altro sorriso da squagliarsi e Calogiuri proclamò, la voce rotta, “la nostra vittoria più gran-”

 

Bastò un secondo, uno sguardo, un momento di perfetta consapevolezza e seppe che si erano intesi, come sempre.

 

“Allora… dobbiamo registrare i dati della bambina. Nata il 21 novembre, ore dodici e dodici, precisa come un orologio. Avete già deciso come la volete chiamare?”

 

Eccallà, il destino. Anche in quella frase dell’infermiera.

 

Un altro cenno di intesa, si sorrisero ed annuirono, esclamando all’unisono, “Vittoria!”

 

Quel nome che era sfuggito loro in tutti quei mesi ma che, a ripensarci, era così… inevitabile, ovvio.

 

Non poteva che chiamarsi così.

 

“Vittoria Calogiuri!” ribadì e le venne da ridere e da commuoversi ancora di più al pensiero di come quelle due parole, da quel momento in poi, avrebbero avuto tutto un altro significato.

 

“Tataranni!”

 

“Eh?”

 

Un’occhiata perplessa, perché non l’aveva mai chiamata così, non senza il dottoressa davanti. E di acqua ne era passata sotto ai-

 

“Tataranni. Calogiuri Tataranni. Vittoria Calogiuri Tataranni. Tutti e due i cognomi. O non vuoi?”

 

L’ennesimo colpo al cuore, perché anche quello era talmente da Calogiuri che si dava della scema per non averlo previsto.

 

“E certo che lo voglio! Sarà un poco lungo sui documenti ma…”

 

“E quindi avete deciso?” si inserì la povera infermiera, che probabilmente era a tanto così da mandarceli a tutti e due e forse pure alla piccoletta, pure se mo ronfava della grossa.

 

Almeno lei!

 

“Vittoria Calogiuri Tataranni!”

 

Tre parole pronunciate all’unisono, tre rapidi baci e, pure se la perfezione non esisteva, Imma sapeva, istintivamente, che quel momento era esattamente ciò che avrebbe usato per immaginarsela, per raffigurarla, da allora in poi.


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo attesissimo e che è stato letteralmente un parto da scrivere. Ci sono voluti quasi quattro anni per arrivare qua, due da quando avevo questa scena in mente, e sono felicissima, ma allo stesso tempo molto in ansia, di averla finalmente messa nero su bianco. Spero abbia potuto in minima parte ripagare le lunghe aspettative ed attese, io ce l’ho messa tutta. In ogni caso, ogni vostro parere, positivo o negativo, è sempre preziosissimo, soprattutto dopo questi mesi di pausa.

La storia non è ancora conclusa, anche se ormai mancano pochissimi capitoli. Ci sono ancora alcuni punti aperti da chiudere, per arrivare a scrivere la parola fine e poi all’epilogo. Spero vi andrà di seguirmi in questo ultimo pezzetto di strada, nonostante gli impegni dilatino le pubblicazioni, ma cercherò di stringerle un po’.

Un grazie infinite per la pazienza ed il supporto a tutti coloro che mi hanno scritto in questi mesi. Un grazie enorme a chi ha recensito e recensirà, a chi ha messo questa storia tra i preferiti o i seguiti.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare dopo domenica 22 ottobre, spero in tempo per colmare un poco l’astinenza che avremo dopo la fine della terza stagione.

A presto e grazie ancora!

 
   
 
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