Fuwa se lo domandava spesso.
Come si poteva dire che qualcosa era solo “bianco”?
Esistevano un’infinità di sfumature di quello che comunemente veniva definito il colore “bianco”, e tutte rivestivano una importanza e una dignità di tutto rispetto.
C’era il bianco avorio, che si trovava nelle zanne di molti animali e nelle ossa, anche le nostre.
Il bianco antico, come quello che assume la carta o la stoffa con il passare degli anni.
La neve, candida e lucente appena caduta e più scura non appena si sporca.
C’era il bianco di certi fiori, con petali sempre diversi gli uni dagli altri.
Il bianco fantasma, quasi evanescente.
Il bianco naturale chiamato Navajo, perché ricorda le atmosfere tipiche dell’Arizona, e della sua popolazione originaria.
E c’era addirittura un bianco cosmico, il “bianco latte” che certi studiosi ritengono essere il colore dell’universo.
Se lo domandava anche mentre accarezzava dolcemente le spalle nude di Nikaido, osservando da vicino, incantato, i pori della pelle come minuscoli vulcani e la peluria sottile sollevarsi sotto il suo tocco.
Ma ancora di più, mentre con le dita arrotolava piano le ciocche dei suoi capelli, e ne ammirava i riflessi cangianti sotto i primi raggi del sole che inondavano la stanza, quello che Fuwa si domandava era come potessero tutti i bianchi del mondo coesistere in quella massa di capelli arruffati. E come potesse il più candido e innocente dei colori, provocargli pensieri tanto immorali e sconci.