Capitolo 3: Farò mia l'unica certezza di questo mondo
I vicoli stretti e bui instillavano paure primordiali nei cuori degli uomini.Uomini inclini a credere all’incubo, inscenato nel suo più fidato teatro: la notte inoltrata.
Samuel non sapeva se considerarsi fra questi.
Certo, lo scenario cupo in cui stava passeggiando, avviandosi lungo il solito sentiero che precedeva il caseggiato, non era dei migliori.
Curiosamente, deglutiva spesso. Come se strani timori si stessero sedimentando all’imbocco della sua gola, prima di esercitare tanta forza da richiedere di essere trascinati giù.
Aveva taciuto il motivetto che stava intonando, sentendo lo stomaco contorcersi alla vista delle innumerevoli ombre.
Altro che guardia di sicurezza notturna: la notte, con tutte le sue stranezze, era la vera guardiana. E Samuel sentiva i suoi occhi livorosi puntati su di lui. Cupi e beffardi, sembravano preannunciare la sua rovina.
Naturalmente non aveva paura.
Lui era lì per proteggere, per difendere… e se nel compito se la fosse vista brutta, tanto meglio.
“Il mio compito è incassare i danni al posto di altri. Gli altri non devono ferirsi. Io invece posso… devo” rimuginò fra sé, mentre la luna si affacciava sui suoi pensieri.
Dolorosamente chiaro.
Per questo Samuel, malgrado accusasse tremori lungo tutta la spina dorsale, si avviò verso la sede che gli era stata assegnata.
“Non fare così, non tremare. Ricorda che qualsiasi cosa orrenda ti capiti sarebbe più che gradita” si rimproverò Samuel, dandosi un colpetto di avvertimento sulla zucca. Il ritorno sordo del suo cranio gli segnalò di aver recepito il messaggio.
La luce del lampione era a singhiozzi. Samuel entrò nel suo cono di luce intermittente e ne uscì, di nuovo imbevuto di oscurità.
Il familiare gruppo di case – certo, familiare da solo una settimana – comparve nel suo campo visivo.
Con la schiena appoggiata ad un muretto, c’era il suo compagno.
Forse le loro chiacchiere avrebbero potuto accendere una tenera fiammella per tenere lontani i mostri mentali.
Samuel scosse inavvertitamente il capo pensando alla parola “fiammella”. No, piuttosto avrebbe preferito la più cupa delle notti.
“Samuel” lo salutò l’uomo, in perfetta tenuta da vigilante. Asciutta, pratica nei movimenti.
“Finnegan!” esclamò Samuel, con un sorriso spensierato. “Rieccoci qui, a presidiare con lealtà”.
“Non so come fai a tollerare questo lavoro, Samuel. Sto morendo dalla voglia di farmi una bella dormita”.
“Puoi, se vuoi. Posso occuparmi io…”
“No, no. Non voglio rischiare rimproveri o, peggio, il licenziamento. Piuttosto, vedo che fai sempre la strada peggiore per arrivare qui. Senza illuminazione, senza un segno di vita. Ti metti apposta nei guai? Il lavoro di guardia notturna ti ha fatto venire un delirio d’onnipotenza?”
Samuel lo guardò stupefatto, gli occhi castani che catturavano quel poco di luce che c’era.
Emise una risatina. Un’altra ancora.
Cercò di trattenersi.
Poi scoppiò a ridere di gusto.
“Delirio d’onnipotenza!” ripeté Samuel, che si piegò in due.
Il lungo silenzio che seguì, interrotto solo dalle sue risate sempre più deboli, gli procurò un piacevole imbarazzo.
“No, scusa, è che mi fa ridere l’espressione che hai usato. Io, col delirio d’onnipotenza…”
“Ho notato quanto ti ha divertito. Ma attento a non fare troppo rumore. Ci manca solo che mi rompano per queste cose” disse Finnegan, alzando gli occhi al cielo.
“Brutta giornata?” indagò Samuel, che era sempre pronto a farsi carico delle angosce altrui.
“Macché. Va come sempre” liquidò Finnegan con distacco. “Piuttosto, puzzi davvero tanto di cibo fritto”.
“Oh, diamine” commentò Samuel allegro. “Ho cercato di eliminarlo, ma non vuole proprio andarsene. Sto facendo pure il cameriere in un fast-food”.
“Così, anziché un solo modo per perdere tempo, adesso ne hai due” sospirò Finnegan. “È incredibile quanto il lavoro ci voglia morti, e tutto il resto. Mah… basta che non vengano qui a seccarmi. I clienti tuoi, non li sopporterei mai”.
“Non sono così male” tentò Samuel. “La cosa importante è portare loro le patatine fritte al giusto grado di cottura, e ricordarsi le salse”.
E sorridere quando eri insultato, ignorare gli isterismi dei bambini ed essere veloce a pulire la sozzura dei giovinastri anche quando lo facevano apposta, ridendo sguaiatamente. Annuire e sorridere in risposta a tutto questo, ricordandosi di essere inferiori.
“Sì, sì. Quella roba lì… lasciamo perdere, va’.” Un lungo sbadiglio fu la sentenza conclusiva.
La luna avanzava lentamente nel cielo. Finnegan, con un cenno del capo, invitò Samuel a seguirlo lungo il monotono giro di ronda.
Parlava poco, Finnegan. Perlopiù sbuffava e commentava con disprezzo qualsiasi cosa, carico di frustrazione.
Di rado, però, diceva cattiverie a Samuel. Qualsiasi cosa poca carina avesse da dirgli, era più sincera che cattiva.
Probabilmente, pensò Samuel, capiva l’importanza di non essere antipatici proprio con l’unica persona che avrebbe potuto difenderti, in caso di… imprevisti.
“Ti pare che devo sopportarti per tutto il tempo con quest’odore di fritto, adesso?” protestò Finnegan, un accenno di sorriso ad addolcirne le parole.
Stavano pattugliando il gruppo di case centrale del quartiere.
“Potrebbe essere la tua arma segreta per conquistare qualcuna. Tu non ce l’hai una donna, vero, Samuel?”
Samuel si irrigidì leggermente, distogliendo lo sguardo. Era raro che lo facesse perché era a disagio e non per sottomissione volontaria.
“Lo sapevo che non ce l’hai. Eppure, non sei così male. Il tuo problema sono questi lavoracci. Le donne non guardano chi cerca di sbarcare il lunario. Magari, quando avrai una buona posizione e una bella macchina sportiva, allora inizieranno a guardare te”. La sua risata si levò, rauca e sprezzante. “Forse c’avrai più fortuna di me”.
“Io non cerco una donna” precisò Samuel.
“Cosa? Non mi dirai che cerchi… un uomo?!”
Samuel tremò leggermente nel vedere una vampata di odio nel suo sguardo, normalmente opaco.
“No. Non mi interessano gli uomini. Quello che intendo dire è che… non voglio legarmi” disse, col capo rivolto alla luna.
“Ah, sei un tipo libertino?” domandò ancora Finnegan, il cui interesse per la conversazione ad un tratto sembrava essersi riacceso. Guardava Samuel cercando di capire la sua natura, ma Samuel sapeva che non avrebbe mai capito.
Visto che era un adoratore delle conversazioni che non portavano da nessuna parte, e in particolare di quelle che ti facevano sentire sofferente e incompreso, Samuel si deliziò a spiegargli una parte della sua condizione, con le parole più semplici che gli venissero in mente.
“Nemmeno. Non cerco le donne e basta. Una donna può migliorarti la vita, lo so, se trovi quella giusta. Ma… non voglio concedermi questa occasione. E non è perché sono uno di quegli uomini autonomi e indipendenti che amano vivere da soli. So che la dolcezza della donna giusta potrebbe essere un faro, per me. Ma non voglio questo faro. Voglio rimanere all’oscuro, all’oscuro di qualsiasi cosa bella la vita abbia da offrirti, Finnegan. Riesci a capire?” chiese infine, senza aspettarsi una risposta affermativa.
Finnegan non rispose, guardava dritto verso l’ultima sezione di case. Il suo passo era regolare mentre batteva sulle piastrelle levigate del sentiero.
Le parole sembravano inghiottite dalla notte.
“Si cerca una donna convinti di meritare il meglio” continuò ancora Samuel, trascinato dall’entusiasmo, “Convinti di avere il diritto di essere amati, convinti di poter amare. Pensando di meritare quella felicità. Ma io non voglio che la mia vita migliori e non voglio nemmeno essere amato”. Strinse il pugno, eccitato. “Continuerò a fare qualsiasi lavoro di bassa lega mi propongano, soltanto per poter gioire della mia solitudine. Sono un perdente, mio caro Finnegan, e sono dannatamente felice di esserlo”.
Vide le sopracciglia di Finnegan guizzare verso l’alto, folte e cespugliose.
Samuel sguazzò nel lungo silenzio che seguì. Sapeva di aver creato un’atmosfera di imbarazzo e tensione, ed era felice di essere stato, ancora una volta, il più inetto tra i socialmente inetti. L’atmosfera era stata piacevole anche troppo a lungo, e si augurava che Finnegan avrebbe imparato a disprezzarlo per poter sgretolare anche la vacua allegria delle loro chiacchiere.
“Non avevo mai incontrato un tipo come te” disse ad un tratto Finnegan, che si fermò a guardarlo. Samuel lo imitò, pietrificandosi. “Uno a cui sta bene di vivere male. Se avessi la tua rassegnazione, penso che mi sentirei molto meglio. Avrei le stesse cose, ma mi starebbe bene così”. I suoi occhi sembravano brillare un po’ di più. “Io non sono come te. Non voglio stare sempre da solo. Io voglio una donna che mi scaldi il letto, che mi saluti quando esco di casa e che mi voglia bene. So che sarebbe la mia cura. La mia inestimabile cura. Non voglio essere infelice tutta la vita. Come posso accettarlo?”
Samuel sentì gli angoli delle labbra irrigidirsi, fare pressione per scattare. Cercò con tutte le forze di dominarsi, di trattenere l’euforia che gli stava germogliando dentro, ma alla fine esplose.
Rise davvero, di gioia e di gusto, investendo la notte degli echi delle sue risa.
Finnegan lo fissò, senza parole.
“Ma Finnegan, perché? Lo capisci anche tu! Anche se la vogliamo, non avremo mai la nostra cura! Non c’è neanche bisogno di cercarla. La cura di che cosa? Questa è la vita, e l’unica cura è soffrire. Farsi schifo è la soluzione più divertente che abbiamo per tutte le cose che la vita ci propina, spacciandocele per opportunità. Io ho già trovato la mia cura, e so che non merito altro per aver osato credere che ci fosse qualcosa di diverso da questo”.
“Non sei mica Dio. Non puoi dirmi come andrà a finire” ribatté Finnegan, strizzando gli occhi nel guardarlo male. “Sono più vecchio di te di vent’anni, ma mi sento più giovane, Samuel… dannazione, guardati. Sei già stato sconfitto dalla vita? Sei depresso? Come cazzo fai a non volere una donna, o qualsiasi altra cosa?”
Samuel sorrise.
“Ho già la mia cura” annunciò. “Sono felice nei miei stenti e nel mio stare male. Visto che si può solo stare male, perché non imparare ad apprezzarlo? Finnegan, Finnegan, ci speravo anche io, nelle cose, una volta! Avevo delle aspirazioni, e mi sembrava che mi rendessero felice, ma il contraccolpo del mio fallimento mi ha quasi ucciso. Ora ho capito che sperare è una cosa da veri falliti. E tu, mio caro Finnegan, sei davvero ingenuo se credi che un giorno…”
“Ssst!” sibilò Finnegan, sollevando un dito davanti alle labbra. “Ho sentito qualcosa”.
I sensi di Samuel si tesero.
Schiamazzi che crescevano d’intensità. Urla confuse, una dispersiva cacofonia di rumori.
Si voltò indietro. Quattro uomini robusti, di cui uno armato di una mazza di ferro, stavano per raggiungerli. Indossavano cappucci neri che nascondevano i volti e giacche pesanti che aderivano perfettamente al loro corpo.
Samuel sgranò gli occhi.
Si voltò verso Finnegan, ma non trovò nessuno al suo fianco.
“Finnegan?” domandò alla notte, disorientato. Il tremolio della sua voce gli confermò una paura paralizzante, che lo teneva inchiodato al posto mentre i quattro individui si avvicinavano rapidamente.
Doveva assolvere al suo compito. Chiamare le autorità. Difendere le case. Non se stesso, si ricordò con fervore, ma almeno le case.
Invece rimase dov’era.
Ormai avrebbe dovuto farci l’abitudine, a quella sensazione desolante. Era come sentirsi abbandonati al proprio destino, fragili e indifesi.
Dopotutto, quello era il genere di sensazioni che cercava e bramava.
Ma questa volta era diverso. Questa volta, l’abbandono di Finnegan era penosamente inatteso.
E accusò dolore all’altezza del petto.
Aveva lavorato a lungo sull’elaborazione di quel dolore, sulla sua accettazione. Eppure, sembrava che a certe cose non riuscisse mai a farci l’abitudine.
Perché? Che cosa diavolo gli mancava per capire che doveva solo attendersi il peggio e anzi, sperare che accadesse?
Segretamente, aveva mica sperato in qualcosa di più?
Non doveva aspettarsi che Finnegan rimanesse. Non doveva aspettarsi che qualcuno rimanesse per lui.
Per questo doveva abituarsi a soffrire. L’unica certezza.
Sollevò il capo. Era circondato.
“Adesso mi ammazzeranno” riconobbe. Provò a sorridere, ma questa volta non ci riuscì. E le risate di puro, masochistico entusiasmo si rintanarono in fondo alla gola, impossibili da tirar fuori.
Il vento sibilava tra i rami del cespuglio. Una mano vi si aggrappava, malferma.
Gli occhi freddi di Finnegan scrutavano lontano, concentrandosi sul drappello di uomini che sollevava e abbassava calci, pugni, mazza di ferro verso l’unico disteso ai loro piedi.
“Un fallito, eh?”
Angolo autrice
Ciao a tutti e grazie di essere arrivati fin qui! È sempre un piacere pubblicare le mie storie in un sito che mi ha visto crescere sin da quando era una bambina e ogni capitolo pubblicato, mio e vostro, è un'occasione per ripopolarlo e animarlo. Forse pecco di ingenuità, ma conto ancora sul fatto che EFP possa tornare ad essere un punto di riferimento per lettori e scrittori di ogni genere!
Continuare questa storia di pari passo con il Writober si sta rivelando più difficile del previsto, ma nel complesso sono soddisfatta dei miei sforzi e della mia rinnovata costanza nello scrivere.
Cosa pensate di ciò che ne sta venendo fuori? Vi sta coinvolgendo? Apprezzerei molto se poteste darmi un parere, di qualsiasi tipo!
Un saluto da Valentina e buona scrittura/lettura di storie a tutti voi.