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Autore: Iryael    08/10/2023    2 recensioni
Ratchet racconta in prima persona l’esperienza della DreadZone: l'arrivo, la finta libertà dei gladiatori, le giornate scandite dai combattimenti, la fuga.
«All'inizio mi rifiutai di capire che quel che pensavo dei gladiatori, in realtà, era l'immagine che i mass-media vendevano agli spettatori. Ma il mio rifiuto non durò a lungo: bastarono pochi giorni a farmi aprire gli occhi.
Non esisteva paragone migliore del circo: noi gladiatori eravamo le fiere; mentre gli Sterminatori, le brillanti stelle dello spettacolo, erano domatori che si alternavano sulla pista dell'Arena.
Poi c'era lui, Gleeman Vox. Lui che aveva l'abito rosso del presentatore e coordinava la baracca, guadagnando sulla nostra pelle.
Fama, soldi e belle ragazze erano la nostra gabbia dorata. Quella vera, esplosiva, ce l'avevamo chiusa al collo.
Aprire gli occhi mi fece incazzare di brutto.
Nessun circo poteva permettersi di tenere un drago in gabbia. E loro - Vox e compagnia - l'avrebbero capito presto.»

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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Big Al, Clank, Gleeman Vox, Nuovo Personaggio (Takami Kinomiya), Ratchet] [Probabile OOC]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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Sarathos: per Clank
(Punti extra e akelite, ecco dove sta il sugo!)
 
Passato. Giorno dopo l’arrivo: 6 Novembre 5401-PF
 
Aprii gli occhi cullato dalla voce gracchiante dell’oloschermo. Il cuscino era bagnato; il pelo sul mio volto era umido. Mi tastai lo zigomo. Avevo pianto?
Nella cella con me c’era Al, che fissava l’olovisore con una faccia indecifrabile. Spostai lo sguardo sopra la porta, sul rettangolo luminoso: c’era un’armatura su un’hovermoto, che passava di anello in anello sotto il fuoco incrociato degli striker di Vox. Da come i phaser gli rimbalzavano addosso doveva essere un barricatore.
 
«Ooohhh! Ecco che infila il nuovo giro con molta grazia! Quest’umana non sarà veloce, ma non spreca neanche un’occasione! È come un colpo di cannone al magma col radiocomando!»
 
Nella mia rintronaggine fissai lo schermo per quasi un minuto. Il commentatore aveva ragione: quell’umana faceva una gara pulita. Con qualche svista, okay, ma senza strafare. Era quasi noiosa.
 
«Al, mi senti?»
Le mie orecchie si mossero appena. Quella era la voce di Clank. Si era ripreso!
Tornai a guardare il tavolino, o quello che rimaneva perché Al copriva quasi tutta la visuale. La voce di Clank non era la solita; sembrava uscire da un altoparlante... ma da quando ne avevamo uno?
Anche il kerwaniano smise di considerare l’olovisore. Lo vidi appoggiare un cacciavite e pensai: ah, ecco, se n’è costruito uno. Poi si rivolse all’altoparlante – o qualunque cosa fosse – e rispose: «Forte e chiaro. Sei online?»
«No, siamo fuori. Si è iscritta escludendo il supporto.»
«Be’, finora se l’è cavata benino.»
«Al! Sai anche tu che quello scudo è fragile. Dovremmo fare qualcosa.»
«Clank, no. Non infrangeremo tutte le regole.»
Ci fu un attimo di silenzio.
«Perché dovremmo infrangere le regole?» domandai; la voce arrochita che grattò fastidiosamente in gola. Al sussultò sullo sgabello e si girò di scatto.
«Ratchet!»
Misi i piedi giù dalla branda.
«Quella delinquente deve averti dato del sonnifero. Stai bene? Per Keplero, prima sembravi un cadavere.»
Mi appoggiai al tavolino. Come immaginavo c’era un altoparlante, ma non mi aspettavo che fosse il collare di Takami.
«Ratchet?»
«Proprio io. Come stai? Che ti è successo?»
«... Diciamo che non sono fiero del mio stato attuale. Quanto alla seconda domanda: non lo so.»
«In che senso?»
«Le mie banche dati sono danneggiate. L’ultimo backup risale a tre ore prima dell’aggressione. Neanch’io so cos’è successo.»
«Cazzo. Ci speravo.» Mi lasciai cadere sullo sgabello libero e fissai Al. «In che senso “sembravo un cadavere”?»
«Credevamo di trovarti sveglio più di un’ora fa. Non solo dormivi–»
«Kaput in toto. Non davi risposta a nessuno stimolo.»
«Ti abbiamo pure rovesciato dell’acqua in testa, ma non ha funzionato.»
Ah, ecco perché mi ero risvegliato su una spugna. «E perché parlate di infrangere le regole?»
Al mi riservò un’occhiata incerta. Clank invece esclamò: «Si tratta di Takami. Sta gareggiando sull’hovermoto e ci ha tagliati fuori!»
Ci misi un attimo a digerire il concetto. Takami su un’hovermoto? Quel budino che stava male al pensiero di mettere piede su una pista? E in che senso “ci aveva tagliati fuori”?
Al poggiò una delle sue mani grassocce sul mio braccio. Con l’altra mi indicò l’olovisore. «Guarda tu stesso.»
Seguii l’invito e mi soffermai di nuovo sull’armatura in gara. Era rossastra – come tutte quelle dei gladiatori di livello più basso – e della tipologia umana, ossia senza coda, orecchie, ali o forme particolari del casco. Fin qui nulla di strano. Poi una ripresa da destra mostrò un’abrasione da phaser sulla parte alta del braccio, proprio nello stesso punto in cui la torretta aveva quasi bucato le piastre sul braccio di Takami.
 
Come hai detto... -puff- che te la cavi... -pant- coi mezzi?
Uh... Così così...
 
La guardai infilare gli anelli e... no, dai, mi perculano. Poi però guardai i phaser rimbalzarle addosso. Erano troppo addosso perché fosse un barricatore. E la barriera di Takami era davvero raso-armatura, quindi...
 
Non appena realizzai che l’umana dalla gara pulita era la stessa che stava in squadra con noi sgranai gli occhi.
«Che diamine ci fa lì?!» esplosi, le braccia contro l’olovisore a mo’ d’insulto da stadio.
Silenzio.
Notai che l’hovermoto aveva i phaser montati sullo scudo. «E perché non spara?!»
«Ah saperlo.» fu la replica di Al. «Non l’ha mai fatto.»
«Forse non ha accesso alle armi.» ipotizzò Clank.
Sì; oppure non le sa usare, o sono malfunzionanti. C’erano un milione di spiegazioni possibili. Tra la sua incapacità e il sadismo dello staff ci stava di tutto.
 
«Ecco che la spalla del Team Darkstar completa metà dei giri in assoluta tranquillità! Che gara assurda gente! Sembra che gli striker non possano nulla! Ah, se solo avessi ancora il mio adorato cannone al magma... quand’ero in pista io sì che il pubblico si divertiva...»
 
L’inquadratura si spostò su un crinale. Alcuni robot di Dreadzone stavano avvicinando qualcosa con dei muletti. L’inquadratura si strinse su uno di quei cosi e, istintivamente, drizzai le orecchie.
 
«Oh, ecco il pepe per l’altra metà gara! I cari vecchi death biker! Ora sì che cominciamo a ragionare!»
 
«Dobbiamo fare qualcosa.» dissi a denti stretti, fissando i robo-centauri accendersi. «Dobbiamo aiutarla in qualche modo.»
«Non possiamo.» Clank fu categorico. «Ha scelto l’iscrizione senza supporto. Significa che ci ha esclusi anche dalla radio. E il collare ce l’avete lì, per cui la comunicazione è del tutto impossibile. Non c’è niente che possiamo fare, a parte scegliere se guardare la gara in cella o in infermeria.»
«Infermeria?» Istintivamente guardai Al, alla ricerca di una spiegazione. Lui alzò le spalle.
«Be’, sì. È il posto a cui è collegato il goal...»
Dovevo avere una faccia da cretino, in quel momento, eppure ero convinto che il goal ci riportasse nella nostra cella. L’infermeria era una sorpresa, ma spiegava anche perché entrambe le volte mi fossi risvegliato pulito e incerottato.
«Okay, allora andiamo là. Voglio esserci quando tornerà indietro.»
«Se tornerà indietro.» puntualizzò Al. Gli scoccai un’occhiataccia e lui fece di nuovo spallucce. «Andiamo, non li chiameranno death biker solo perché fa fico.»
 
«Woo-hoo! Che cannonata gente!»
 
Partì un replay. Quei cosi non erano arrivati ai primi cento metri che quello davanti aveva attivato un lanciamissili. La scocca sulla destra fumò di bianco; poi il proiettile lasciò la fiancata e si sparò avanti a tutta velocità. Divorò la distanza lasciando una scia lattiginosa e si schiantò appena alle spalle di Takami. Il replay finì lì e l’attimo dopo mostrarono l’hovermoto della nostra umana, che aveva accelerato. Potevo immaginarmela, la sua espressione. Era talmente rigida in sella al mezzo che doveva avere dei muscoli di pietra.
La voce di Clank si sovrappose a quella del commentatore.
«Mi spiace dirlo, ma Al potrebbe avere ragione. Statisticamente parlando–»
Chiusi le orecchie. Avevo davvero bisogno di quella statistica per sapere quali fossero le probabilità? No. E non volevo sentirla neanche perché dopo essere usciti vivi dalle prime due gare non volevo sentirmi ribadire la situazione tremenda.
Big Al scrutò a fondo la mia reazione. Incrociai il suo sguardo, e tutto ciò che lessi era biasimo.
«Te l’ho detto ieri. È una posizione nobile, la tua, ma dovresti smetterla.»
«Me l’hai detto, sì. Ma finché saremo una squadra ci dobbiamo comportare da tale.»
Mentre parlavo mi resi conto che stavo dicendo una fesseria. Quando mai ci eravamo comportati da squadra? Cioè, io e loro sì, ma quando mai avevo considerato Takami come un pezzo della squadra? Il cazziatone di Clank aveva senso: io per primo l’avevo esclusa, sbolognandola a lui perché la rendesse meno budino.
Sovrappensiero, poggiai il gomito sul tavolino e mi coprii la bocca con una mano.
E ora che ci pensavo: lei era stata il navigatore di Garganthas the Gigantic, che era morto ben più avanti di Sarathos. Conosceva meglio di noi il terreno e la difficoltà della sfida. Eppure si era iscritta alla gara con una formula che la obbligava a contare solo sulle sue forze. Per qualche ragione si era messa in mostra. Quale momento migliore per osservarla?
E difatti, siccome l’universo ha un senso dell’umorismo tutto suo, l’immagine si concentrò su un ibuâr che, microfono alla mano, sparava commenti pretenziosi.
«Ma chi è ‘sto qui?» sbottai, indispettito.
«Lepton Leroy. Un ex gladiatore.»
Ah, ecco. Spiegava il celolunghismo. «Sentite, voi avete visto la prima parte della gara. Come se l’è cavata?»
«Così, né più né meno.» grugnì Al.
Lo schermo mostrò di nuovo l’immagine di Takami e il conto dei giri segnava che ne mancavano solo due alla conclusione della gara. L’umana prese piuttosto bruscamente una curva a gomito, tanto che perse la traiettoria tenuta fino a quel momento. I death biker non si lasciarono sfuggire l’occasione e arrivarono a due lunghezze. Non solo: il terzo di quelle latte da sfasciacarrozze cominciò una manovra strana. Alzò il retrotreno, assomigliando tremendamente ad una gigantesca scarpa col tacco; poi fece mutare la scocca sopra il propulsore in una specie di frombola. E intanto il primo sganciò un altro missile.
L’inquadratura si spostò ovviamente su di questo e sulla sua traiettoria. Takami, per non farsi colpire, si gettò fuori strada.
 
«Oooohh! Dovrà fare un anello per rientrare nel prossimo checkpoint! Perderà un mucchio di secondi e di punti con questa manovra scellerata!»
 
Il tizio aveva ragione: era troppo vicina, troppo veloce e troppo fuori traiettoria per entrare nell’anello luminoso senza tornare indietro. Ma Takami era di un altro avviso. Scansata l’esplosione cercò di riassestarsi in pista dando di sterzo e controsterzo. La ripresero dall’alto: allo sterzo accelerò sensibilmente, poi – pressoché al pari del segnapista – si mise in piedi, diede di controsterzo e frenò di colpo.
 
«Che cosa?! Un ballet-loop?! Così vicino al checkpoint è una manovra disperata!»
 
L’hovermoto compì un giro su se stessa, piroettando sull’avantreno come una ballerina. L’inquadratura si chiuse sulla scena. L’immagine divenne al rallentatore e...
Ping! Il checkpoint cambiò colore.
Sgranai gli occhi.
Takami spinse il sedere contro la sella. Il propulsore posteriore si abbassò e l’hovermoto sfrecciò verso l’anello successivo.
«Una manovra notevole.»
Notevole? Era da pro. Non da “così così”. Cosa diamine pensava quando mi aveva dato quella risposta?
Ma torniamo al terzo death biker, quello con la frombola. Lo inquadrarono subito dopo. La lattina aveva azionato quella specie di propaggine, che aveva cominciato a ruotare come una pala d’elica, rilasciando di tanto in tanto delle sfere scure. Le rilasciava un po’ in ogni direzione, senza curarsi troppo della mira. Fece più o meno un quarto di giro rilasciando quella roba, poi tornò all’assetto normale. Il propulsore si illuminò d’azzurro e Frombola filò avanti, seguendo la pista fino a mettersi in coda a Lanciamissili.
 
«Ed ecco che siamo ufficialmente all’ultimo giro, gente! E siamo ancora sotto i quattro minuti! L’umana potrebbe portarsi a casa un bonus bello sostanzioso!»
 
Ping! Ping! Ping!.. Takami proseguì la sua gara attraversando un checkpoint dopo l’altro. I phaser degli striker cadevano fitti come la grandine, e guardandoli infrangersi contro Takami mi ritrovai a sperare che la barriera raso-armatura non venisse meno proprio in quei momenti. Lanciamissili si fece strategico e cominciò a sparare le sue bordate in occasione dei colli di bottiglia e delle curve più strette. In un’occasione costrinse pure Takami a ripetere il ballet-loop. E poi...
BOOOM!
Una colonna di fumo riempì lo schermo. Si aprì un riquadro per il rallenty: un pallone nero gravitò sotto al telaio della moto e, al tocco, esplose. Il mezzo fece un doppio carpiato avanti, piombò male al suolo e strusciò sulla fiancata per svariati metri, accendendo piccole scintille arancioni contro la ghiaia.
 
«Ha-ha! Che botta, gente! Con questa addio punteggio alto!»
 
Scrutai ogni pixel sullo schermo con la massima attenzione.
Andiamo, dai.
L’hovermoto rallentò la corsa. Il propulsore gravitronico si spense.
Andiamo!
Takami rimase giù, la testa reclinata e la gamba schiacciata fra la moto e il terreno. Inquadrarono l’ibuâr, che sul volto da lucertola aveva una faccia piuttosto imbronciata. O forse delusa, a giudicare dal tono.
«Fine della gara, signori. Credo che possiamo chiamare i Death Biker a finire il loro lavoro. O magari recuperare il metallo e lasciare il resto ai leviathan – una dieta bio è ciò che serve per crescere sani e forti, no? Peccato però, la gara non era così male...»
Qualcuno lo chiamò da destra. Lo vedemmo girarsi, poi zittirsi, sgranare gli occhi e boccheggiare. «Santo magma, non ci credo. Guardate!»
 La telecamera si spostò di nuovo sul luogo dove la moto si era fermata.
Era ancora a terra, ferma sotto il checkpoint olografico... che aveva cambiato colore.
Strinsero lo zoom sulla parte bassa dell’anello. Un pugno, il piccolo pugno alzato di quel budino che chiamavo Spalla, attraversava il checkpoint.
Non avevo parole.
La guardai tirare giù il pugno, appoggiarsi sul fianco e sforzarsi di uscire da sotto il mezzo. Provò a sfilare la gamba una, due volte. Alla terza provò a spingere via la sella con le mani. Spinse con tutta la sua forza, ma la moto si mosse a malapena.
La guardai battere un colpo al suolo, e anche se non potevo sentirla, potevo percepire tutta la sua frustrazione.
«Respira Takami. Respira.» sussurrò Clank, come se ce l’avesse lì davanti. «Respira.»
E lei, sullo schermo, fu come se l’avesse sentito. Ci fu un momento di blocco, come se stesse raccogliendo le idee, poi infilò il braccio sotto la moto. Fu un movimento brusco, incurante. Ma perché? Cosa voleva fare?
E poi la moto – due quintali di ferro e componenti – cominciò a sollevarsi. Piano piano, come se una persona invisibile l’avesse presa per la sella e il manubrio e la stesse raddrizzando.
Mi tornò alla mente il finale di Catacrom, il modo con cui mi aveva trascinato fino in cima alla ziqqurat, e quando la vidi infilare sotto anche l’altro braccio intuii cosa avesse fatto.
La guardai raddrizzare il mezzo, sfilare la gamba e rimettersi malamente in piedi, affidando la moto a un equilibrio precario dato dal campo magnetico. E poi ci montò in sella.
 
«Ma siamo seri?»
 
Il propulsore si accese di rosso e di giallo. La guida iperbolica sfarfallò di azzurro quattro o cinque volte prima di rimanere stabile.
 
«Con una botta del genere non dovrebbe manco accendersi!»
 
Dal buco sul telaio piovvero scintille come da un fuoco d’artificio. La moto fece un rumore grattato, orribile. Lepton Leroy aveva ragione.
 
«Cosa cazzo stai facendo, Spalla! Resta giù! Fa’ spettacolo!»
 
Takami fece un rapido controllo dei comandi a manubrio, poi avviò il levitore. La guida iperbolica s’illuminò di indaco (pessimo colore, parola mia), i due quintali di ferraglia si sollevarono dal suolo… e si sollevarono… e si sollevarono…
Ottanta centimetri buoni. Un metro, forse, e col levitore di quel colore era semplicemente impossibile.
La guardai riprendere il tragitto. Le altre mine che Frombola aveva lanciato in giro si attivarono, com’era prevedibile, ma non riuscendo a levitare così in alto finirono per formare un trenino dietro al retrotreno.
Oddio no.
Tenni gli occhi sullo schermo contando alla rovescia gli anelli mancanti: 10… 9… 8…
Se una sola mina aveva fatto il botto di prima, tutte insieme...
7… 6… 5…
Sarebbe stato qualcosa di maestoso e stra-potente. Un’onda d’urto che potevo immaginarmela bruciarmi il pelo.
4… 3… 2…
C’era una curva a gomito. Takami lasciò il manubrio con una mano per allungarla verso il fulcro della curva, come se si volesse ancorare a qualcosa.
1…
Uscì dalla curva e fece un colpo di frusta all’indietro col braccio. La moto accelerò e poi lo schermo si riempì di rosso, giallo, bianco, fuoco e fumo. Ma cosa cazzo...?
 
«Kaa-Boom Baby!!! Ha ha ha!»
 
La gara si spostò in un riquadro piccolo; mentre lo schermo fu riempito dal rallenty: Takami fece quel gesto col braccio e in concomitanza una palla, un sasso o qualcosa di tondo passò rasente la moto per schiantarsi contro la mina di coda.
 
«Questo! Questo è un modo bello per disfarsi di certi inseguitori! Questa Spalla è come un cannone al magma auto-costruito: rozzo ma col potenziale! Merita una scommessa su di lei!»
 
Vedemmo l’esplosione cominciare, poi il riquadro della diretta tornò a campeggiare a tutto schermo. Il goal era attivo; il suo campo olografico che teneva a bada i rimasugli dell’esplosione. La moto era dentro, sbragata sulla carena, e Takami era in piedi lì vicino, coi pugni tremolanti rivolti al cielo.
«Vado a prenderla.»
«Riuniamoci in una delle celle e cerchiamo di mettere insieme i pezzi. E...Ratchet? Non aggredirla appena la vedi—»
Il resto della frase fu soppresso da Al, che spense il collare con malagrazia. «Vediamoci nella nostra cella.» borbottò. «Io raggiungo Clank e vi aspettiamo là.»
Gli feci un okay e lui mi allungò il collare-comunicatore. «Per favore.» mugugnò a denti stretti. Il resto della richiesta lo intuii.
«Vado.»
* * * * * *
Venti minuti più tardi
Base DreadZone di Sarathos, infermeria
 
L’ambiente era la fotocopia di quello sulla stazione spaziale: pareti bianche, piastrelle ovunque, arredi cromati. L’unica differenza era lo spettacolo fuori dagli oblò: terra putrescente al posto del vuoto cosmico.
L’unico rumore era quello dell’olovisore, immancabilmente collegato sul canale di Vox. Non c’era nessuno: il bancone era incustodito; tutte le sedie vuote. Gli unici sorveglianti erano due telecamere col lumino rosso acceso.
La porta di fianco al bancone sbuffò e si aprì. Takami fece due passi nella stanza. Aveva gli occhi lucidi, le pupille dilatate e il volto arrossato, tonalità che metteva in evidenza il grosso cerotto sulla sua guancia.
«Hey.»
Takami spostò lo sguardo su di me. Era sempre così nervosa, e ora quello sguardo era così placido. Mi puzzò.
«Abbiamo visto la gara.» Attimo di silenzio. Nessuna reazione particolare. Mi domandai se fosse drogata. «Come stai?»
Fece “così così” con la mano.
«Ti hanno dato – ehm – delle medicine?»
Annuì. A gesti mi fece capire che le avevano messo dei cerotti e dato delle gocce. Poi prese a gesticolare in un modo che non riuscii a comprendere.
«Aspetta, vai più piano. Okay... qualcosa di basso... corre... con un fiore in testa? No. Okay, senti, prova con questo.» E le allungai il collare.
Lei se lo mise e non fece nemmeno le prove audio. «Come sta Clank?»
Glielo descrissi. Non lesinai sugli aggettivi né sui termini tecnici, e guardare la sua testolina incassarsi pian piano fra le spalle mi diede soddisfazione. Volevo che si sentisse in colpa perché ero certo che, qualsiasi cosa fosse successa, Clank si era messo in mezzo per salvarle il culo.
«Però è ancora vivo...»
«Non grazie a te.»
«Sì che è grazie a me.»
Scettico, alzai un sopracciglio.
«Non te l’ha detto Clank quello che è successo?»
Le dissi di no e spiegai anche quella parte lì. Lei abbassò gli occhi.
«Allora te lo dico io—»
«Ma non ora. Vieni con me.»
Come d’accordo con Al, andammo alla loro cella. Takami mi seguì camminando mezzo passo indietro, sempre con quell’aria trasognata. Quando entrammo, individuò subito Clank e andò ad abbracciarlo, ignorando i miei richiami e girando bene al largo da Big Al.
«Volevi ammazzarti, per caso?» cominciò il kerwaniano. La bambina sollevò Clank sopra la testa e ne studiò il bacino mezzo deformato.
«Servono punti. Taaanti punti.» Rimise Clank sulla sua sedia. «Davvero non ti ricordi?»
Lui scosse la testa. «Puoi raccontarci tu però. Vieni, siediti.» E fece pat-pat sulla sua sedia. Lei però preferì spostare qualcosa e sedersi sul banco da lavoro, in modo da guardarci tutti.
«Eravamo nel Padiglione Tre; guardavamo le armi nel negozio perché Clank era curioso di vedere una cosa. Dopo un po’ è entrato Conundrum Dynamo arrabbiatissimo e ci ha urlato di tutto» e cominciò a contare: «che siamo ladri... luridi... merdosi... idioti... e che non sappiamo contro chi ci siamo messi. Ha detto che è colpa nostra se lui ha perso ventimila punti, che su Catacrom dovevamo morire e basta. Ha detto che quei ventimila punti glieli dobbiamo restituire, e quando Clank ha provato a dirgli di no lo ha tirato su per l’antenna e gli ha strappato una gamba.»
Immaginai la scena. L’umano grosso che arriva, sbraita e tira su Clank come si tira su una carota dal campo.
«Clank ha fatto un suono, e Conundrum Dynamo gli ha strappato l’altra gamba. Credo che è stato lì che Clank si è spento, perché ha smesso di fare quel suono. Comunque lui non si è fermato. Quando ho visto che stava per strappargli un braccio mi sono messa in mezzo e gli ho detto che va bene, che glieli diamo i suoi punti e che non volevamo derubarlo. Gli ho detto che gli facevo anche un favore se non rompeva Clank, e allora mi ha picchiato con i suoi pezzi, poi mi ha tirato su per la maglia e mi ha detto che oltre ai suoi punti vuole che gli porto dell’akelite. Dieci chili già raffinata, ha detto, o la prossima volta ci stacca la testa a tutti quanti. Poi ci ha buttato nel compattatore, dove ho battuto la testa contro uno striker rotto. Quando mi sono ripresa ho preso i suoi pezzi e sono venuta da voi, ma mi faceva male dappertutto e ci ho messo tantissimo tempo.» Si girò verso Clank e fece un’espressione dispiaciuta. «Forse la tua memoria è rimasta danneggiata perché ci ho messo troppo tempo...»
Clank avvicinò la sedia e le fece pat-pat sulla mano, rassicurandola. Io mi ritirai in religioso silenzio.
«Quando sono arrivata da voi vi siete arrabbiati tantissimo, o preoccupati tantissimo, e per fortuna avete cominciato a curare Clank, e quando Coco mi ha aiutato a tornare qui, che le ho raccontato cos’era successo, mi ha chiesto se davvero volevo rubare l’akelite per Dynamo. Le ho detto di sì, e allora mi ha proposto un patto: se rubo per lei un pochino di akelite in più, tipo mezzo chilo, di buona qualità, lei riforgia le gambe a Clank, buone come nuove. Ho accettato. Così mi ha dato un pezzettino di sonnifero per aiutarmi a calmarmi, ché ero agitatissima, e quando mi sono svegliata qui, che non c’era nessuno, mi sono andata a iscrivere alla gara con l’hovermoto. Le gare a cronometro sono le meno pericolose, e io coi mezzi me la cavo, quindi ho pensato che potevo cominciare a prendere qualche punto per Conundrum Dynamo in questo modo.»
«Ma perché iscriverti senza supporto?» domandò Clank. «Potevamo—»
«Tu eri rotto e il signor Al non mi aiutava di sicuro.»
«C’era Ratchet.»
«Che mi credeva colpevole della tua rottura. No, non mi aiutava neanche lui.»
E quello, più o meno, chiuse la conversazione. Non che non dicemmo più nulla, ma lei – vuoi per i farmaci vuoi per il calo d’adrenalina – cominciò a seguire sempre meno e a chiudere gli occhi sempre più spesso. Dieci minuti dopo dormiva con Clank in braccio.
E noi tre rimanemmo a discutere il da farsi.
«Non daremo un solo punto a quello stronzo di Dynamo.» borbottai. «E non gli daremo nemmeno un grammo di quella dannata roccia.»
«Ma ce lo ritroveremo contro dappertutto!» obiettò Al. «Se lui è medio-alto in classifica può comprare favori.»
«Appunto: ventimila punti non significano nulla per lui. Ma per noi fanno una differenza enorme: se chiniamo la testa ora dovremo chinarla con chiunque verrà dopo di lui. No, non lo faremo.»
«A questo proposito mi trovo d’accordo con Ratchet.» dichiarò Clank. «Però se vogliamo perseguire questa linea dobbiamo essere uniti, compatti e accorti.» Mi fissò: «Niente più sbolognarmi Takami,» fissò Al: «niente più azioni alle spalle degli altri,» fissò il suo piccolo pugno chiuso: «niente più rancori di sorta. La mano destra deve sapere cosa fa la sinistra, o ci mangeranno vivi.»
«Perché voi credete che cominciare una faida del genere adesso ci lascerà illesi?» obiettò ancora Al. «Non abbiamo abbastanza forza per reggerci sulle gambe e già vuoi fare il figo. Per favore, non fatevi prendere dal sentimento di pancia. Prima ci serve una squadra forte.» e mi scoccò un’occhiata torva.
«È ancora per la storia di Takami? Pensavo di essere stato chiaro.»
L’antennina di Clank baluginò di rosso. «Che storia?»
Continuai a guardare Al. «Io non la mollo nello sterco.»
«Due robot sarebbero nettamente più efficienti.»
«Takami conosce le piste a menadito.»
«Ma ha il terrore ogniqualvolta indossa l’armatura. Ti rallenta, e la sua abilità è incontrollabile.»
«Però la indossa, quell’armatura. Si sforza di proseguire, anche quando trema. Vuoi dirmi che tu faresti altrettanto?»
«Di sicuro non ti ho ucciso!»
«Tu a Silver City hai sminchiato la griglia di protezione durante l’attacco dei tirannoidi per giocare un olofumetto di Qwark! Potevo creparci con migliaia di altre persone! Eppure non ti ho criminalizzato a questa maniera!»
«NON OSARE!!!» Paonazzo, mi puntò il dito contro. La sua espressione baluginava come una tempesta. «Non osare paragonarmi a lei. Non osare cambiare discorso. Non osare sfidare quell’umano. Ingoia quel cazzo di orgoglio, per una volta, e pagalo
* * * * * *
Presente. 21 Febbraio 5408-PF
Metropolis, attico del Khelith Building
 
«...E lei non sa che vaffanculo avrei voluto tirargli. Lo so che Al parlava per paura, che il suo discorso aveva una logica e che l’istinto di autoconservazione non è il mio forte, ma... be’, quel modo di fare mi rodeva il fegato.»
Ratchet incrociò le mani dietro la testa e si lasciò cadere contro lo schienale del divano, il mento in alto e lo sguardo apparentemente sul soffitto.
«Perché le ha impartito un ordine?» pungolò Riklis, aggiustandosi una grinza inesistente sulla camicia.
Il lombax storse la bocca. «Perché Al è uno di quelli che se trova un randagio per strada come minimo gli dà da mangiare. Là dentro era diventato una carogna.»
Ah, eccoci di nuovo. – Tutto quel patema col kerwaniano ormai gli pareva uno di quei polpettoni infiniti in cui Lance e Janice si narravano le loro disgrazie in tono pieno di pathos.
«Ma poi, al netto delle vostre discrepanze, il furto è avvenuto oppure no?»
Ratchet non gli rispose subito. Lasciò vagare lo sguardo ancora per qualche istante, come se i pensieri fossero scritti sul soffitto, dopodiché allungò un mezzo sorriso.
* * * * * *
Passato. 6 Novembre 5401-PF, svariate ore dopo la riunione
Base DreadZone di Sarathos
 
Il padiglione Z si sviluppava ai piedi della scarpata dove gli addetti gettavano le carcasse dei leviathan morti. Era più in basso rispetto al resto della struttura e sulle planimetrie non risultava.
«Quindi come lo raggiungiamo?» domandai a Takami, che mi faceva strada attraverso i corridoi.
«Come i robot delle pulizie.» rispose, guardando avanti. «Il teletrasporto pizzica un sacco, ma i loro tracciati non interessano a nessuno.»
«E sei sicura che i collari non si attiveranno?»
«Se non hanno messo adesso gli allarmi no, non lo fanno.»
Così ci avvicinammo a uno sportello contrassegnato da un triangolo azzurro. Piccole scintille brillarono attorno alla mano destra di Takami quando l’appoggiò al lettore di tessere, poi la porta slittò verso sinistra. Entrammo in un bugigattolo pieno di spazzoloni, spugnette e detergenti. Poco oltre c’era una piattaforma ottagonale grande abbastanza per un inserviente col suo carrello. Takami si concentrò sui comandi, mentre a me cadde l’occhio su due camici che pendevano dalla parete.
«Potremmo prenderli in prestito...» ragionai sottovoce.
«È meglio che li prendiamo dall’altra parte.» mi fece eco la bambina. «Il teletrasporto è più pizzicoso sennò.»
«Com’è possibile?»
Lei fece spallucce e mi fece un cenno frettoloso di raggiungerla. L’attimo prima di smaterializzarci mi strinse forte la mano.
Arrivammo dopo qualche istante in uno sgabuzzino pressoché identico a quello appena lasciato. Mossi un passo avanti e provai un pizzicotto tremendo al tendine d’achille; poi dai talloni salì un’ondata di crampi che arrivò allo sterno e tornò indietro. Mi ficcai un pugno alla bocca dello stomaco, morsi il labbro a sangue e soffocai un urlo. Takami mi strinse la mano ancor più forte e si morse l’altro guanto per resistere. Poi, con gli occhi lucidi, quando l’onda si fu placata mi disse: «Stai bene?»
Arricciai il naso e storsi la bocca. «Diciamo che stavo meglio prima...» La studiai. «Tu stai bene?»
Si accorse di starmi tenendo ancora la mano e si affrettò a lasciarmela. «Sì. Ora sì.»
Saltò giù dalla pedana e sparì nell’anticamera. Io ci pensai bene prima di muovere di nuovo il piede, temendo altri... diciamo “sintomi”. Provai solo un leggero formicolio ai polpacci, del tutto rassicurante, così la raggiunsi. Stava rovistando fra i camici: li apriva, guardava il taschino e li lasciava andare.
«Cosa dobbiamo cercare?»
«Ci serve una forma tipo questa» e tornò indietro per farmi vedere un cartellino con un tetraedro in prospettiva. «Solo che deve avere dodici lati.»
Immaginai che intendesse dodici facce. Un dodecaedro, quindi. «Va bene.» e mi misi a guardare la fila di camici appesi di fronte.
Ce n’era uno solo. Takami mi fece segno di prenderlo. «Con questo possiamo entrare dappertutto. Mettilo tu.»
«E tu?»
Sopra i camici c’era una mensola piena di maschere O2. La bambina si allungò sulle punte dei piedi, con le braccia tese e le dita aperte verso quella fila di visiere oscurate. Ne puntò due con i lacci in vista, ma non riuscì ad afferrarle nemmeno stando sulle punte. Così cominciò a saltare, pendolando le braccia sempre di più per darsi lo slancio. Quando tornò a terra col suo bottino rispose: «Sono la Spalla; va bene uno a caso.»
Con le visiere oscurate sulla faccia e i camici a coprire le tute, ci lasciammo alle spalle lo sgabuzzino e ci inoltrammo fra i corridoi di linoleum del Padiglione Z.
Chaos era stata abbastanza precisa. Sulla parete sinistra si alternavano porte vetrate a lunghe finestre, e dietro di esse il panorama era sempre il medesimo: lunghi banchi, alambicchi, fuochi da banco e piccole forge portatili. Sulla parete destra, a venti metri una dall’altra, quattro porte recitavano “Laboratori di produzione” con altrettanti numeri. Dato che la donna di fumo aveva parlato di magazzini puntai subito le porte di destra e accennai a Takami la penultima. Lei annuì.
Strisciai sul pad la tessera appuntata sul mio camice e la porta sparì verso l’alto con un leggero sbuffo.
«Ah...»
Il disappunto nella sua voce fece eco al mio. Laboratorio un cazzo, proprio! Era un archivio, quello, con tanto di maniglioni a ruota per spostare gli scaffali!
«Dimmi che hai indicazioni precise...»
«So solo che è una vecchia scatola senza etichetta.»
Il che, in centinaia di metri di scaffalature piene di casse, era come cercare un ago in un pagliaio.
* * * * * *
Presente. 21 Febbraio 5408-PF
Metropolis, attico del Khelith Building
 
«...Però, a parte l’immensa rottura di palle del tempo perso a controllare ogni singola scatola senza etichetta, non incontrammo altri problemi. Quando trovammo la scatola che ci interessava, la svuotammo di tutto il suo contenuto e la riempimmo con altre pietre prese un po’ qui e un po’ là.»
Riklis guardò il lombax con faccia da poker. Sul serio stava ammettendo la dinamica di un furto così candidamente?
Nascose il desiderio di prendersi la faccia fra le mani e scoppiare a ridere. Invece prese il blocco degli appunti e fece finta di osservarlo. Un nome risaltò fra gli altri. Ah già.
«E per quanto riguarda la parte di Conundrum Dynamo?»
«Non gli volevo prendere neanche una pietra, ma Takami protestò così tanto che gli presi qualcosa. Sembrava akelite di buona qualità, così tanto che ingannò anche lei che ne aveva appena viste delle casse, ma la scatola diceva altro.»
Pausa tattica. Ratchet guardò lo xarthar e fu contento di vedere che, alla fine, aveva catturato la sua curiosità.
«E cosa?»
Mimò le virgolette con le dita. «”Sinto-akelite. Esperimento fallito. Resistenza infima”.»

 

 

   
 
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