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Autore: Nejiko    16/09/2009    1 recensioni
“C’è soltanto una cosa che può guarire le ferite dell’anima.
Però è una medicina complicata, che si può ottenere soltanto dagli altri.
E’ l’amore.”

Una piccola One Shot dedicata a Gaara, ai suoi pensieri, pochi istanti prima dello scontro con Deidara.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sabaku no Gaara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una piccola One Shot dedicata a Gaara, ai suoi pensieri pochi istanti prima dello scontro con Deidara.
Spero vi piaccia^^
Buona lettura.


Amore, la mia medicina.



Il sole filtrava debole dall'ampia finestra; la luce rossa del tramonto regalava leggeri riflessi rosati alle candide pareti della stanza.
Se ne stava seduto alla scrivania, con la testa che affondava pesantemente nella comoda poltrona e lo sguardo perso nel vuoto da diversi minuti.
Si sentiva strano, come infastidito dal silenzio tombale che regnava fra quelle quattro mura; eppure la solitudine era sempre stata la sua inseparabile compagna, credeva d'essere abituato alla sua ingombrante presenza.
Si lasciò andare ad un lungo sospiro prima di alzarsi svogliatamente e dirigersi verso l’infisso. Volse lo sguardo all'orizzonte, attraverso la vetrata, osservando ciò che restava di quella sfera infuocata solita ad ardere in cielo indisturbata e che ora, lentamente, scompariva sotto la sabbia bianca. Mentre il sole moriva, i suoi occhi vennero catturati dal riflesso della sua immagine che, gradatamente, prendeva corpo lungo il vetro. Fissò quel viso che, a poco a poco, iniziava a farsi sempre più definito: i lineamenti delicati, le labbra sottili, gli occhi chiari e le immancabili occhiaie a contornarli. Esitò un istante alla vista di quel marchio rosso sangue sulla fronte; le sue labbra s'incresparono leggermente finendo per disegnare una piccola smorfia sarcastica.
Troppo difficile dimenticare, troppo dolorosi i ricordi legati a quella piccola incisione, quelli che, ogni volta, cercava inutilmente di ricacciare indietro, di sotterrare nel profondo della sua anima. Impossibile non avvertire nuovamente quella dannata sensazione di vuoto che l’aveva accompagnato per la maggior parte della sua esistenza, così come gli risultava impossibile non sentire ancora una piccola parte di quell'odio scellerato che l'aveva contraddistinto per anni.
La solitudine è il peggiore dei mali aveva detto una volta, non aveva mai cambiato idea.
Diverse cose possono ferire un uomo; in una vita come quella degli shinobi si deve essere pronti a tutto, persino alla morte. Ma nella sua breve esistenza, nulla era stato in grado di ferirlo più del nulla che l’aveva sempre circondato. Analizzando le sue poche esperienze, era facilmente giunto alla conclusione che non esisteva cosa peggiore di ritrovarsi soli quando la vita si prende gioco di te. Nulla poteva far più male che cadere a terra, respirando la polvere e, una volta alzato lo sguardo, non trovare alcuna mano a cui aggrapparsi per risollevarsi.
Chi poteva saperlo meglio di lui… Isolato dai suoi stessi fratelli, odiato, temuto; detestato dagli abitanti del suo stesso villaggio, evitato e definito “mostro”. Persino suo padre, lui che aveva scelto di fare del suo stesso figlio il contenitore per un demone, aveva dato ordine d’ucciderlo.
Erano passati anni, ma il dolore era restato; una ferita difficile da sanare e non ancora completamente rimarginata, non fisica, nulla da cui la sabbia avrebbe potuto proteggerlo.
Non aveva dimenticato le sue continue richieste d’affetto, quel desiderio incessante di non restare solo, quella necessità di essere accettato che, da bambino, lo faceva soffrire davanti ai continui rifiuti. Vedere i suoi coetanei fuggire gridando quella maledetta parola, mostro, o gli sguardi carichi di disprezzo dei suoi stessi fratelli, gli aveva permesso di capire il significato di quella parola a lui sconosciuta, dolore. Nulla poteva ferirlo fisicamente, ma il suo cuore sanguinava ugualmente.
Ciò che più gli fece male, quello che gli fece spalancare gli occhi mostrandogli la sua completa solitudine e frantumò definitivamente ogni sua infantile speranza, non fu l’odio di queste persone, nemmeno il desiderio del padre di vederlo morto, bensì il tradimento dell’unica persona a cui credeva potesse importare qualcosa della sua esistenza, Yashamaru.
Non l’avrebbe mai dimenticato...

Un altro lieve sospirò abbandonò le sue labbra, andando ad appannare leggermente il vetro, annebbiando quel volto.
Tornato alla realtà, lo shinobi osservò la miriade di puntini luminosi che iniziava a prendere vita nel cielo sempre più cupo. Lentamente anche la Luna aveva iniziato a fare la sua comparsa; piena, esattamente come quella notte.

Yashamaru… credeva gli volesse bene, invece…

Avrebbe preferito morire, essere trafitto da quei kunai piuttosto che vedere il volto celato sotto la maschera di quell’assassino. Purtroppo però, la sabbia lo aveva protetto, gli aveva salvato la vita come sempre, ma non poté nulla contro il dolore della scoperta. Non aveva dimenticato la tremenda fitta che gli aveva squarciato il petto quando i suoi occhi tremanti avevano incontrato il suo viso.

 “Vi ho sempre odiato…

Ho cercato disperatamente di amarvi come

foste l’ultimo ricordo di mia sorella…

ma non ci sono riuscito”.

 
Yashamaru…

“Il vostro nome l’ha scelto mia sorella.

Gaara significa demone che ama solo se stesso.

Voi non siete mai stato amato”.

 Quella sera tutto cambiò e quell’ideogramma rosso sangue era lì a ricordaglielo. Se prima cercava con tutto se stesso l’affetto degli altri, dopo quel tradimento, dopo quelle parole e il conseguente dolore, Gaara iniziò ad odiare tutto e tutti. Seguendo il significato del suo stesso nome, decise che avrebbe amato solo se stesso, senza fidarsi più di nessuno, uccidendo per poter provare il brivido di sentirsi vivo, per sopravvivere, trovando nell’assassinio del prossimo la sua unica ragione di vita.

“Lottare soltanto per me stesso e

vivere amando solamente me stesso”.

 
Era difficile da ammettere, ma in cuor suo sapeva che non era stato solo il demone custodito dentro di sé a renderlo un mostro. Per quanto le persone incolpassero Shukaku per la maggior parte delle sue azioni, solo lui poteva sapere che ogni volta in cui aveva deciso di porre fine all'esistenza di qualcuno, l'aveva fatto di sua spontanea volontà.

 
“Un combattimento è uno scontro mortale

fra la propria essenza e quella dell’avversario…

Esisto per uccidere tutte le persone eccetto me”.


La solitudine, il dolore derivante dalla completa mancanza d’amore, ecco cosa l’aveva trasformato in un mostro. Non era stata la reliquia della sabbia a renderlo un pluriomicida, ma l’odio e il risentimento verso chi l’aveva lasciato solo.
Il continuo cadere nel vuoto delle sue richieste d’affetto, quel dolore lancinante al petto che non lo abbandonava mai e, soprattutto, quell’ultima ferita…

Yashamaru...

 
“Dalle ferite del corpo esce sangue…

…Col passare del tempo il dolore sparisce naturalmente.

Invece le ferite dell’anima sono quelle più problematiche.

Non c’è nulla che guarisca con maggior difficoltà…

…Per quest’ultime non esistono medicinali e

capita che non guariscano mai”.

 
Forse la sua era proprio una di quelle che non sarebbero mai guarite. Forse non sarebbe mai riuscito a cancellarla del tutto, ma ora che i suoi occhi erano stati aperti, ora che la gente aveva pian piano iniziato ad accettarlo, avrebbe fatto del suo meglio per trovare quella medicina…

 
“C’è soltanto una cosa che può guarire le ferite dell’anima.

Però è una medicina complicata, che si può ottenere soltanto dagli altri.

E’ l’amore.”

 
Per anni aveva creduto che solo l’odio avrebbe potuto garantirgli la sopravvivenza, che solo il risentimento e la cattiveria fossero in grado di farlo sentire vivo, di donargli la forza di continuare ad esistere. Perché senza uno scopo, la vita è inutile.
Se non fosse stata per quella battaglia a Konoha, se non fosse stato per quel ragazzo, lui avrebbe continuato ad essere un mostro.

I suoi occhi si mossero osservando il villaggio addormentato; il riflesso dei candidi raggi della Luna rendeva la sabbia ancora più bianca. Da quel palazzo che si stagliava alto, nel centro di Suna, la vista era magnifica. Se da bambino gli avessero detto che un giorno quell’ufficio sarebbe stato suo, non c’avrebbe mai creduto.
Quinto Kazekage del Villaggio della Sabbia…
Forse il sogno di Naruto Uzumaki era contagioso; forse il suo calore era contagioso.
Probabilmente quel ragazzo biondo dagli occhi color del cielo era la medicina che aveva sempre cercato, l’amore…
Era stato quello stesso sentimento che legava il giovane shinobi di Konoha ai suoi compagni di team a permettergli di diventare così forte da poterlo battere, l’aveva fatto mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza. Nonostante anch’egli avesse conosciuto l’odio e il disprezzo, nonostante fosse sempre stato solo, Naruto non si era mai lasciato abbattere, aveva continuato a lottare per guadagnarsi il suo posto all’interno di quello stesso villaggio che lo detestava, sino ad arrivare a dare la sua stessa vita per proteggerlo. Uzumaki Naruto era riuscito a cambiare il suo destino, a cambiare persino lui, facendo sì che anche i suoi occhi potessero vedere la luce in fondo al tunnel in cui l’odio e il rancore l’avevano rilegato da tempo.
Per anni aveva disprezzato i suoi stessi fratelli, soggiogandoli con il terrore; aveva goduto osservando i loro occhi spaventati, sentendo l’odore della loro paura. Li avrebbe uccisi senza provare il minimo rimorso, ma dopo quell’incontro, dopo aver conosciuto quel ragazzo così simile eppure così diverso da lui, aveva finalmente capito che non era l’odio a rendere forti, non era la morte la giusta ragione di vita, ma bensì l’affetto.
Il giovane shinobi della foglia era diventato un esempio per lui, per questo aveva deciso di impegnarsi a fondo per assomigliargli il più possibile. L’amicizia e il sorriso di quel ragazzo l’avevano contagiato, scaldando quel cuore freddo e solo, riuscendo ad alleviare quel profondo dolore che l’aveva perseguitato per anni.

La medicina stava facendo effetto, Yashamaru aveva ragione…

Spostò lo sguardo sull’ampia scrivania in rovere scuro, sulla cornice posta sull’angolo destro.
Una foto lo ritraeva il giorno della sua nomina a Kazekage, stretto nell’abbraccio di Temari e sotto lo sguardo fiero di Kankuro alle loro spalle. Non poté far altro che lasciarsi andare ad un lieve sorriso constatando quanto le cose fra loro fossero cambiate.
Finalmente non era più solo, pian piano era riuscito a diventare importante per qualcuno. Gli occhi dei suoi fratelli non erano più velati dall’odio o dal terrore, ma sembravano quasi sorridere sinceri.
Si avvicinò piano, senza staccare lo sguardo da quell’immagine, afferrando la ruvida cornice in legno per poter osservare meglio quei volti. No, non v’era più segno del reciproco disprezzo che per lungo tempo aveva contrassegnato i loro rapporti: l’ampio sorriso di Temari e quelle braccia che lo circondavano amorevolmente, i suoi occhi lucidi quasi a voler sottolineare la gioia e l’orgoglio di quel momento, tutto sembrava così perfetto, quasi incredibile.
Riappoggiò lentamente la cornice al suo posto e tornò ad osservare il cielo di Suna.
Un’ampia e stupenda stellata cullava i sogni dei suoi abitanti, uno stupendo spettacolo disturbato unicamente da un grande uccello bianco e da un mantello nero a nuvole rosse… Akatsuki.
Erano venuti per lui, per Shukaku, e quel mostro avrebbe messo di nuovo in pericola la vita di persone innocenti; non poteva permetterlo.
Poggiò il soprabito sulla poltrona e afferrò la giara, incamminandosi verso la porta.
Prima di uscire, posò nuovamente lo sguardo sulla foto che sino a qualche istante prima teneva fra le mani. Ora che era riuscito a dare un nuovo significato alla sua esistenza, ora che aveva finalmente trovato la sua medicina, avrebbe protetto i suoi fratelli, la sua famiglia, il suo villaggio anche a costo della sua stessa vita.

 

Fine.

 


 

   
 
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