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Autore: Soul of Paper    23/10/2023    2 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 82 - La Fame


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Mmmmm…”

 

Le sembrava di galleggiare in un mare di piombo. Pesante ma senza gravità, senza forza, senza fibra. Un dolore pulsante ad ogni singolo muscolo ma anche una strana leggerezza nel petto, che la sollevava tra tutto quel peso.

 

In una specie di dormiveglia, fra sonno e realtà, vedeva se stessa e Calogiuri al suo fianco, come sempre, fedele nei secoli, che le solleticava la mano col fiato, mentre dormiva reclinato in avanti sulla sedia.

 

Poteva essere passato un secondo come potevano essere cent’anni che stavano così, quando un rumore degno della contraerea la fece sobbalzare.


E, di conseguenza, gli occhioni di Calogiuri si spalancarono.

 

L’indolenzimento era rimasto, il piombo era diventato melassa. La porta si aprì ed entrò la ginecologa con la loro piccola, grandissima Vittoria, che piangeva a pieni polmoni.

 

Si erano sviluppati bene sicuro, almeno quelli.

 

“Tu- tutto bene?”

 

Quello che restava delle dita di Calogiuri, gonfie come zampogne, tra le sue - sì, aveva proprio esagerato!

 

“Tranquilli, i valori sono tutti nella norma. Mancano solo le ultime analisi del sangue che ci impiegano un po’ di più ma… sono ancora più fiduciosa. Mi sembra in salute e pure affamata. Molto.”

 

Un sospiro di sollievo incredibile. Una botta d’ansia a quel - e come faccio mo? - al pensiero di riuscire a sfamarla.

 

“Che c’è? Non te la senti? Sei troppo stanca?”

 

Calogiuri e quei maledetti occhioni. Avesse potuto, l’avrebbe allattata lui, lo sapeva.

 

“No, no, ci… ci devo e ci voglio provare. Ma è solo che… con Valentina non è che avessi molto latte…”

 

“Una volta c’erano anche meno conoscenze, Imma, e il latte non è facile da mantenere se la bimba non si attacca spesso. Ma vedremo. Non sono né disfattista né un’integralista del latte materno, vedremo in base a come ti senti e alle esigenze di Vittoria.”

 

Sospirò, un poco rassicurata, perché l’esperta di latte - come cavolo si faceva chiamare - che l’aveva visitata dalle suore, le aveva fatto una capa tanta sul numero spropositato di volte in cui avrebbe dovuto allattare, pena danni incalcolabili alla criatura, che aveva avuto gli incubi di diventare una mucca della centrale del latte per due notti di fila.

 

La dottoressa gliela piazzò in grembo ed il pianto si interruppe per un attimo, quei benedetti e maledetti occhioni  l’abbagliarono come i fanali che erano, la fissarono curiosi, per poi riprendere con la contraerea.

 

“Va bene, va bene, Vittò, abbiamo capito che hai fame!” sospirò, sorridendo alla reazione di Calogiuri al nomignolo per la piccoletta: come se una parte di lui fosse ancora incredula e quelle due sillabe avessero reso tutto più concreto.

 

Calogiuri, senza bisogno di istruzioni, provò ad accarezzare Vittoria, mentre lei cercava di liberare un seno.

 

Difficile dire cosa fosse più un colpo basso: se l’arrossire di Calogiuri o il modo in cui la piccoletta si mise in bocca il suo indice.

 

“Sì… c’ha proprio fame questa, e pure assai!” sospirò, riuscendo finalmente nell’impresa, “e tu che ti imbarazzi mo? Ti ricordi come l’abbiamo fatta, sì? Che va bene che negli ultimi mesi vacche magre - e mo chissà fino a quando - ma…”

 

Calogiuri lanciò un’occhiata impanicata alla dottoressa e prese a tossire. Vittò si staccò dal dito e ripartì con la sirena, finché riuscì ad avvicinarla al seno e, a tastoni, alla cieca, la piccoletta individuò l’obiettivo e ci si attaccò, che manco un cecchino era così preciso.

 

“E il rubinetto l’abbiamo trovato. Mo bisogna vedere se esce qualcosa.”

 

Manco na ventosa succhiava così forte, Calogiuri ormai bordeaux, lo sguardo basso.

 

“Calogiù…”


“Lo so… ma è che… è una cosa così intima… mi sento… di troppo…”

 

“Eh no, eh! Che devi aiutare pure tu mo! Sostegno fisico e psichico. E non mi guardare come se fossimo la madonna col bambinello, che qua di iconica c’è solo la fame della criatura. Tutto da Noemi ha preso!”

 

Almeno era riuscita a farlo ridere e, dopo essersi toccato la nuca, sebbene la venerazione negli occhi non accennasse affatto a diminuire, sembrò piano piano prendere più confidenza, toccandole il braccio e poi la spalla, massaggiandogliela pure un po’, con la mano superstite.

 

“Direi che procede tutto secondo i piani. Vi lascio soli…”

 

La dottoressa, discretissima come non erano i lavoratori delle procure italiane, svanì dietro la porta. Lasciandola con quattro occhioni identici ed innamorati - chi di lei, chi forse più del cibo - e un gran nodo in gola.

 

Le labbra minuscole ma carnose - difficile stabilire se prese da lei o dal padre - si staccarono dal seno sinistro ma ripresero subito ad ululare, cercando a tastoni l’altro.

 

“Eh, esaurita la prima riserva mo. C’hai proprio fame, piccolè! E pure mira! Calogiù, c’avessi avuto tu questa mira, col cavolo che ci finivi a Matera, nei reparti speciali d’assalto ti mandavano!”

 

Un’altra risata, sembrava mezzo ubriaco, tanto era felice ed emozionato, poi con quegli occhi rossi - altro che le cannette di Manolo!

 

Vittoria non perdeva colpi, degna del suo nome, e aveva ripreso a succhiare ancora più intensamente dal lato destro, come se non avesse mangiato avidamente fino a poco prima.

 

Il tempo non esisteva più, la sua nozione dei minuti passati era completamente andata a farsi benedire, ma infine la piccoletta si staccò.

 

Un sospiro di sollievo e-

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

“E perché piangi mo?”

 

Il suo sconforto era riflesso negli occhi di Calogiuri: provò a prenderla per farle fare il ruttino ma niente, non ne voleva sapere. Anzi, non appena intercettava le loro mani si infilava tutto l’infilabile in bocca.

 

“Ma che è? Na sanguisuga? Qua non ci sta più niente piccolè, devi aspettare che la fornitura si rigeneri e-”

 

“Ci sono problemi?”

 

La ginecologa, manco a chiamarla, tanto che si chiese se fosse rimasta fuori dalla stanza.

 

“Ha mangiato da tutte e due le parti, qua non esce più niente ma è ancora così…”

 

La dottoressa la prese per un attimo in braccio e Vittoria provò ad attaccarsi pure a lei - traditrice!

 

La ginecologa rise, Calogiuri un crusco.

 

“Direi che ha fame. Del resto è sottopeso, è una buona cosa che voglia recuperare. Vi porto qualcosa per integrare, non vi preoccupate. Meglio se glielo dai sempre tu Imma, vicino al seno, così…”

 

“Così non sbaglia la fonte?”

 

La dottoressa si limitò a ridere, a passarle quella che pareva la bimba dell’esorcista da quanto urlava - sì, la voce era proprio tutta sua! - e a lasciarli nuovamente soli.

 

Non avrebbe mai pensato di ritrovarsi un giorno a sperare di rivederla e pure presto.

 

Prestissimo.

 

*********************************************************************************************************

 

“Venite. Però magari non a lungo, che Imma è tanto stanca.”

 

“Stanca a chi?”

 

La voce, troppo flebile, la tradiva, così come gli occhi, che non ne volevano sapere di starsene del tutto aperti.

 

Era passata l’alba, la piccola idrovora si era pappata tutto il pappabile e si era pure fatta un altro pisolino.

 

Almeno lei!

 

Solo che mo si era svegliata per l’ennesima poppata e, dopo averla finita, non era crollata come da un lato avrebbe sperato. Stava lì a fissarla con la lingua di fuori, tanto che Calogiuri l’aveva sfottuta con un dolcissimo ed emozionatissimo c’ha la lingua lunga come te, dottoressa! 

 

Visto che l’infermiera aveva annunciato che c’erano visite e che straordinariamente poteva farli passare, avevano deciso di levarsi dente e dolore, sperando di poter dormire dopo.

 

Incontrò gli occhi stanchi e un po’ intimiditi di Pietro, poi Rosa, altrettanto sfatta ma decisa e infine fece capolino una Valentina stranamente esitante.

 

“Ma che vi siete fatti la notte qui?”

 

“Eh… Valentì non è voluta tornare a casa. E poi… tanto Noemi la tengono la collega tua e il capitano.”

 

“Ah, Ranieri e Irene? Ne avranno di lavoro allora! Pure se c’è quella santa di Maria!”

 

Almeno Francesco lo tenevano Melita e le suore. Altra fonte di preoccupazione pure quella. Ma era giusto provarci.

 

“Ma è bellissima!!”

 

Rosa, commossa come solo i Calogiuri sapevano essere, che ti ci trascinavano pure a te a piangere, mannaggia a loro!

 

“Eh… somiglia un poco a Valentì da piccola…”

 

La voce di Pietro era mezza rotta, capiva che fosse strano e un po’ agrodolce per lui quel momento.

 

E poi Vittoria aveva gli occhietti quasi chiusi che, quando erano aperti, solo a uno assomigliava.

 

Valentina, muta come non mai, sembrava non scollarsi dalla porta. Si chiese se fosse gelosa.

 

“Valentì, che dici? Non lo fai un saluto al nuovo acquisto della famiglia?”

 

La vide deglutire, pure peggio di Calogiuri, e fare giusto un passo, quando Rosa allungò le dita a sfiorare una manina di Vittoria.

 

Nonostante la delicatezza, quella che era sembrata un angioletto tornò a fare più casino del diavolo della tasmania, tanto che Rosa indietreggiò subito.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

L’ululato era potentissimo - ma dove la trovava tutta quella forza, che fino a poche ore prima stava ancora bella bella come un pesciolino nella placenta? - e sia lei che Calogiuri provarono a calmarla, ma niente.

 

“Non dirmi che vuoi ancora mangiare, piccolè…” sospirò, perché altro che la centrale del latte, manco tutte le malghe di caciocavallo podolico sarebbero state dietro al suo fabbisogno.

 

“Ma come si spegne? Non ce l’ha l’interruttore? Francesco in confronto è chill!”

 

Ci fu un motivo, uno solo, se si morse la lingua sia sul chill che sul parli proprio te che c’hai scassato le orecchie per due decadi! che le stava proprio lì lì sulla punta.

 

Vittoria si era azzittita, di colpo, e si era voltata verso la zona dove stava Valentina. Aveva pure spalancato gli occhi, con la curiosità di famiglia.

 

Valentina, a sua volta, si era paralizzata e si stavano fissando, studiando, in un modo che altro che groppo in gola!

 

“Ha riconosciuto la voce melodiosa di famiglia! Fuori come dentro la pancia!”

 

Valentina sospirò con un, “pure questa con gli occhi da gatto di Shrek? Ma è una congiura!” che però suscitò solo un vagito curioso nella piccoletta.

 

“Vuoi provare a prenderla?” domandò Calogiuri, così, come se fosse la cosa più ovvia del mondo e Valentina, incredibilmente, annuì.

 

Trattennero il fiato mentre Calogiuri se la portava al petto, tra qualche calcetto di protesta, e la sistemava tra le braccia di Valentina, i cui occhi erano sempre più scuri e lucidi.

 

Altri due vagiti, le manine e i piedini che si muovevano ma, come Valentina parlava, la sorellina si fermava incantata ad ascoltarla, roba che manco Diana con gli audiolibri di Alessio Boni.

 

“Ti riconosce proprio…”

 

Pietro, colpito, se in bene o in male, difficile dirlo.

 

Valentina deglutiva fin troppo, ma poi ironizzò, “e se senti le urla di Francesco che fai, allora? Stai zitta o ti unisci alla protesta, picco- ma ce l’ha un nome alla fine?”

 

Le venne da sorridere, così come a Calogiuri. Un cenno d'intesa e annuirono.

 

“Sì… lo abbiamo trovato insieme. Era talmente ovvio… scontato, no, Calogiuri? Non poteva che chiamarsi così.”

 

“Sì… e poi inizia anche lei per la V, come te, ma-”


“Se l’avete chiamata Veloce, chiamo i servizi sociali!”

 

Scoppiarono a ridere.

 

Pure se in effetti…

 

“Veloce Calogiuri… mica male come nome, ma questa mica ha bisogno di incentivi, anzi. Mi pare già fin troppo attiva!”

 

“E allora, com’è che si chiama? V come-?”

 

“Vendetta!” si inserì Pietro, con quel suo umorismo goffo.

 

“Hai letto troppi fumetti, Piè!” sospirò Rosa, affettuosamente esasperata come il fratello con lei.

 

Si guardò con Calogiuri ed esclamarono insieme un “Vittoria!” così potente che si bloccarono tutti.

 

Valentina studiò la sorellina ancora per qualche secondo e poi annuì, “sì, Vittoria ti sta bene. Mi piace. E poi meglio che Brunella o…”

 

“Maria Carmela…” sospirò Calogiuri, con l’aria di chi meno si ricordava di avere una madre e meglio era.

 

“Per la carità di dio!” si fece il segno della croce Rosa, ricordandole di nuovo Diana.

 

“E come-?”

 

Valentina non riuscì mai a terminare la frase perché un “dov’è cucinetta?!” forte e chiaro più di un ordine militare, risuonò fino alle loro orecchie.

 

“Noemi…”

 

Calogiuri sorrideva incredulo, quanto lei, Rosa e Pietro invece le parvero mortificati.

 

Bussarono alla porta.


“Avanti!” urlò, ritrovando il cipiglio da sostituto procuratore, cosa che peggiorò l’imbarazzo di Rosa e Pietro.

 

Poteva ancora divertirsi un poco, no? E che cavolo!

 

La porta si aprì, centimetro dopo centimetro, e spuntarono due occhi scuri e una marea di capelli ricci.

 

“Bianca?”

 

Non si aspettava di vederla lì.

 

Il “vedi cucinetta?” che proveniva da oltre l’uscio invece era non solo prevedibile ma pure adorabile.

 

Bianca si spostò a lato dell’entrata, regale come al solito, e comparvero Irene e Ranieri, intenti a cercare di trattenere un uragano di nome Noemi.

 

“Scusateci ma… non stava più nella pelle…”

 

Irene, l’aria di chi avrebbe voluto sprofondare.

 

Avrebbe potuto tenerli sulle spine, ma le venne da ridere, come a Calogiuri.

 

“Sappiamo che Noè è… difficile da contenere…” sospirò, anche se era proprio per quello che l’amava tanto.

 

“Tata!!”

 

“Lasciatela pure,” confermò Calogiuri e Noemi non perse tempo a correre tra le braccia dello zio, che ormai era esperto nel placcarla e placarla.

 

“Dov’è cucinetta?” domandò, guardando verso il letto, confusa, ma poi Calogiuri la voltò verso Valentina e il viso di Noemi si illuminò più di tutti i led di Times Square.

 

“Cucinetta!!”

 

Valentina aveva l’aria di questa è una gabbia di matti!

 

Vittoria, invece, stranamente, non protestò per le urla, anzi, si voltò verso la cucinetta e, di nuovo, si studiarono, incantate, entrambe con una manina in bocca.

 

“Allora, che dici? Ti piace la cuginetta?”

 

La domanda di Calogiuri non avrebbe potuto essere più retorica di così, perché Noemi pareva aver appena visto un mare di leccalecca e pastiere.

 

“Bea- bella bella! Tanto tanto! Posso?”

 

Calogiuri le concesse di avvicinarsi e prendere la mano libera di Vittoria che, di nuovo, non protestò, anzi, se la strinsero come due gemelline.

 

“Beissima! Ma piccola! Anche io così piccola?” domandò a sua madre, curiosissima.

 

“Tu pesavi un po’ di più, mi sa, ti è sempre piaciuto mangiare…”


“Pure a questa, solo che… è stata troppo veloce a uscire!”

 

“Si vede che voeva giocare! Però sta bene, vero?”

 

E che le doveva dire? Si stava commuovendo.

 

“Sì, sì, sta bene, non ti preoccupare,” la rassicurò Calogiuri.

 

“E… e come si chiama?”

 

“Vittoria.”

 

“E che ha vinto?”

 

Scoppiarono tutti a ridere: Noemi non si smentiva mai.

 

“La fortuna di avere tuo zio come papà,” si lasciò scappare, perché Calogiuri era davvero santo.

 

“E te come mamma, dottoressa!”

 

“Non ricominciamo col diabete, per favore!” sbuffò Valentina, facendo sobbalzare leggermente la piccoletta, “sarà pure leggera ma pesa. Qualcun altro vuole l’onore?”

 

“IO! IO!” ululò Noemi, che si chiese se non li avrebbero buttati fuori dal reparto.

 

“Lei non riesce a reggersi da sola come Francesco, è molto delicata. Quando crescete un poco, va bene?”

 

Sì, Calogiuri era proprio perfetto: dolce ma deciso sulle cose importanti.

 

La faccina delusa di Noemi era adorabile ma annuì.

 

“Allora cressi presto, cucinetta, anzi, Vittò!”

 

Vittoria rispose con un paio di vagiti e agitando i piedini.

 

Con la coda dell’occhio, Imma notò Bianca, ancora in un angoletto, ma super concentrata sulle bimbe. Le fece una tenerezza immane.


“Bianca, che ci fai lì? Non ti vuoi avvicinare?”

 

Bianca fece un mezzo salto ma poi sorrise, con quel sorriso timido e bellissimo e, al suo cenno di farsi più vicina, la raggiunse.

 

“Ti va di tenerla un poco? Che tu hai già l’esperienza con Francesco. Perché non ti siedi qua e proviamo? Se ti va, eh.”

 

Bianca era emozionatissima, Irene ancora di più, che lo vedeva che si tratteneva ma aveva gli occhi lucidi. Noemi sbuffò un poco ma ai “lei è più grande!” di Calogiuri, si rassegnò. Il rispetto delle regole di buon senso era forte da quel lato della famiglia.

 

Bianca si sedette accanto a lei e Calogiuri le mise Vittoria in grembo, in modo che la testa fosse retta dal busto della bimba.

 

Ma manco sarebbe servito, perché Bianca era attentissima al collo della piccola, precisa, e la accarezzava con una delicatezza incredibile.

 

“Sei bellissima, Vittoria!” proclamò, per poi guardare lei da Calogiuri e aggiungere un, “sono proprio felice che abbiate una bimba tutta vostra! Visto che è andato tutto bene?” che era un colpo al cuore, sapendo i precedenti.

 

E sì, Irene si stava strozzando a giudicare da come tossiva.

 

“Ma Francesco?”

 

“Dalle suore, meglio che prenda le misure piano piano con la sorellina. Magari è un poco geloso, no?” chiarì Calogiuri, accarezzandole i ricci.

 

“Ma perché? Che è così bello avere una sorellina o un fratellino! Almeno non sei mai sola.”

 

Tra Irene e Ranieri era difficile dire chi stesse per tirare gli ultimi per primo.

 

“Vi dovete dare da fare mi sa…” li sfotté, perché il suggerimento poco velato di Bianca e il modo in cui li aveva guardati, speranzosa, era da manuale.

 

“Ma il capitano qua tra un po’ ha una squadra di calcio. O di calcetto… non credo che…”

 

“Con te ne farei pure un’altra!”

 

Eccallà: doveva essere una cosa dei carabinieri, quella di fare le dichiarazioni disarmanti. Sia in senso positivo che negativo, bastava pensare a Lamacchia.

 

“Ma io no! Cioè, con calma!” esclamò Irene, l’aria spaventata, per poi cedere a un rapido bacio sulle labbra.

 

“Questo diabete è una forma contagiosa…” sospirò Valentina, che li fissava appoggiata al muro con l’aria di chi avrebbe fatto a tutti un TSO.

 

“Ma che è tutto sto casino?”

 

La caposala, con un’espressione al cui confronto suor Giuditta era una tenerona.

 

“Va bene le visite straordinarie ma pensavo per due o tre persone. Non tutta questa folla! Ma quanti siete in famiglia?”

 

“Pochissimi di sangue. Ma… abbiamo una famiglia molto allargata. Molto.”

 

“Per fortuna, che se aspettavamo quelli di sangue…”

 

Strinse la mano di Calogiuri e ci piazzò un bacio. Non c’era rimpianto nel suo sguardo o nelle sue parole, solo una consapevole amarezza.

 

Ma poi, mentre l’infermiera faceva uscire tutti, gli bastò raccogliere Vittoria dalle braccia di Bianca per tornare ad avere quel sorriso e quello sguardo innamorati, che forse Valentina avrebbe definito ebeti, ma che lei non avrebbe cambiato per niente al mondo.

 

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“Vittò, ma che non ce l’hai un po’ di male alla bocca? Stanchezza alla mascella?”

 

Per tutta risposta, le fu puntato contro uno sguardo talmente adorabile e disarmante, le manine strette a pugno lungo i fianchi, da far svanire ogni traccia di stanchezza o nervosismo.

 

“Mannaggia a te!”

 

La risata di Calogiuri, a cui ripeté un altro “mannaggia pure a te! E pensare che Valentì era così schizzinosa. Questa tutta da Noemi ha preso!”

 

“Beh… pure tu sei una buona forchetta, dottoressa, e le ricette di Valentina ce le dimentichiamo? O quelle di…”

 

“Di?” lo esortò a continuare, anche se aveva già capito benissimo.

 

“Di tua madre…” ammise lui, con lo sguardo di chi temeva di aver appena fatto un’enorme gaffe.

 

Staccò per un attimo una delle mani dal fianco della piccola idrovora - che tanto col cavolo che si muoveva - per stringergli le dita.

 

“Eh… mia madre c’aveva fame, Calogiù, la fame vera, di chi il cibo in tavola era un’incognita se ce l’avevi o no.”


“E anche tu.”

 

“Sì… ma già meno… e pure tu allora.”

 

“Si vede che la fame l’abbiamo trasmessa anche a te. Vero, Vittoria?”

 

Un mugolio nel poppare e basta: nulla poteva distrarla dal suo obiettivo.

 

“Chissà cos’avrebbe pensato… a vedermi qua impicciata così, alla mia età. Credo mi avrebbe detto che mi sono rinscimunita, poi probabilmente si sarebbe convinta che pure lei si chiama Brunella… però… credo che sarebbe stata felice di sapermi con il bello giovane, alto alto e bello come a Garibaldi.”

 

Calogiuri arrossì e si schernì, toccandosi il collo: adorava quando faceva così e si chiese se lo avrebbe fatto anche la piccoletta o se, come lei, sarebbe stata senza vergogna o quasi.

 

“Veramente, le piacevi tantissimo, lo sai.”


“Eh… è che non ha fatto in tempo a conoscermi bene, dottoressa.”

 

“Ma io sì!” esclamò, tirandogli la mano e allungando il collo per centrargli le labbra.

 

Finalmente un bacio, un bacio vero, nonostante stesse lì con la latteria attaccata, ma almeno non ci stava più la buoncostume e-

 

“Ehm ehm…”

 

Chi osava mo?!

 

Calogiuri si staccò subito, ancora più rosso, e il suo campo visivo registrò lo scocciatore.

 

Anzi la scocciatrice.

 

Chiara.

 

Latronico.

 

Per qualche assurdo motivo, sentì anche le sue guance farsi calde, manco fosse stata beccata da sua madre con il ragazzetto in cameretta a fare chissà che.

 

O da tua sorella?

 

La voce della coscienza, quando si parlava di sorellanza, non poteva essere che quella di Diana.

 

“Non chiedo se disturbo: sarebbe una domanda retorica.”

 

Le venne da sorridere.

 

“Ma su quelle siamo specializzati in famiglia, vero, Calogiù?”

 

“Verissimo!” esclamò lui, tirandosi in piedi con un, “allora… vado a prenderci qualcosa al bar. Ordinazioni speciali, dottoressa?”

 

“Tutto quello che non potevo mangiare in gravidanza ma posso mo con l’allattamento. Pure se il bar fa parecchio schifo, quindi non esagerare.”

 

Tanto lo sapeva benissimo che era una scusa, per lasciarla da sola con Chiara.

 

“Volete qualcosa anche voi, dottoressa?” chiese, rivolto alla Latronico.

 

“Che mi dai del tu e mi chiami Chiara. Che ogni volta che non ci vediamo per un po’ regrediamo. Per il resto sono a posto. Anzi, a sapere avrei portato io qualche dolcetto buono. Ma Imma, posso anche tornare quando hai finito di allattare.”

 

“Sì, accomodati, che se no ti posso dare appuntamento direttamente a dopo lo svezzamento, figurati! Questa non molla!”

 

Chiara sorrise, occupando la sedia, e Calogiuri si dileguò, come al suo solito.

 

Vittoria concentrò l’attenzione verso la nuova venuta, anche se non la poteva realmente osservare. Ma almeno non sembrava disapprovare del tutto, se no si sarebbe fatta sentire, pure fra le poppate.

 

“Ma è bellissima, è-”

 

“Tutta Calogiuri?”

 

“No, no. Cioè gli occhi sono i suoi, ma… mi ricorda un po’ te da piccola, quando ti ho visto con tua madre e anche nelle vecchie foto che abbiamo trovato.”


“Vedremo… per intanto di sicuro mangia più di tutti noi messi insieme.”

 

“E come va? Ti danno gli integratori? Riesci a mangiare? E ti fanno le aggiunte?”

 

“Dovrò farti parlare con la mia ginecologa, ma diciamo che si tira avanti, pure se sono stanca. Ma Calogiuri mi sta molto vicino e… non vedo l’ora di potermi alzare, anche se c’ho molta paura di non sapere manco più come si fa a camminare.”

 

“Dai, vedrai che basterà un po’ di fisioterapia e presto tornerai a correre sui tacchi.”

 

“Ma magari, guarda, magari!”

 

Vittoria fece un gorgoglio e si lanciò in qualche calcetto, che non sapeva se fosse di approvazione o di paura che il suo buffet prendesse il volo.

 

“Ha un bel caratterino, eh?”

 

“Puoi dirlo! Capa tosta, di famiglia.”

 

“A proposito di famiglia… non so per quanto ancora dovrai stare qua, ma… mi piacerebbe venirti a trovare, dovunque finirai tra qualche mese.”

 

“A Milano?”

 

“A Milano, sì. Poi è pure comoda da Roma, che cercherò di fare la nonna più spesso che posso.”

 

“E mica devi chiedere il permesso a me. A Milano sei la benvenuta, anzi, magari ti troviamo pure un bel meneghino, possibilmente non troppo bauscia, che se no agli eventi in famiglia chi lo sopporta? A parte che ormai a Milano sono tutto tranne che milanesi e-”

 

Si fermò perché Chiara era diventata più fucsia di Calogiuri nei momenti peggiori. E, va bene che con gli uomini forse praticava poco negli ultimi tempi, ma la reazione da educanda le parve spropositata.

 

A meno che…

 

“C’è qualcosa che devi dirmi?”

 

“Ti ricordi… l’agente della scorta?”

 

“Greco? E certo! Se lo ricorda pure Calogiuri, sicuro,” sorrise, ripensando ai giorni spensierati, prima che tutto precipitasse, “e allora? Ci sono novità?”

 

L’espressione di Chiara era identica a quella di Valentina quando veniva colta in fallo - forse in tutti i sensi, in questo caso - proprio vero che si somigliavano.

 

“Non proprio ma… forse ci saranno.”

 

“Cioè? Che ti devo fare l’interrogatorio? E su, che qua c’ho da conservare le energie per la baby sanguisuga.”

 

“Lo hanno trasferito a Roma per le terapie e… mo che sta un poco meglio e sono a Roma pure io… mi ha invitato a uscire. Domani sera. Ma… non so se sia una buona idea e-”

 

“E perché? Che altro c’hai di così importante da fare domani sera?”

 

“A parte aiutare mio figlio e la mia futura nuora con la gravidanza? Niente ma-”

 

“E allora che aspetti? Che quella starà in gravidanza pure prima e dopo l’appuntamento. Ma hanno deciso di sposarsi quindi?”

 

“Non ancora ma… conosco mio figlio e penso che le farà la proposta, forse a Natale, chissà.”

 

“Col bambinello che ancora deve uscire e tutto il resto appresso, bene!” esclamò, realmente felice per loro, nonostante lo scenario da diabete, come avrebbe detto Valentina, “ma tu allora? Mi prometti che ci vai? Se no, se continui a fare la suora laica, ti scateno contro le suore vere.”

 

“Le suore?”

 

“Ah, già che non hai avuto l’onore di conoscerle. Ma sono peggio dei carabinieri, molto peggio!”

 

“In effetti non sono poi così male i carabinieri…”

 

Scoppiarono a ridere, senza più imbarazzo.

 

“Nostro padre davvero si rivolterà nella tomba…”

 

“Mi fa sempre strano sentirtelo chiamare così, Imma.”

 

“Anche a me. Ma alla fine, almeno qualcosa di buono è venuto fuori da sta parentela. Oltre che gli occhioni azzurri di Vittò che sì, ha preso tutto da papà suo ma… non fosse stato per i geni recessivi del… nonno biologico, fosse stata ad aspettare a Rocchino Tataranni e famiglia… col cavolo che ti venivano sti fanali da denuncia, signorina.”

 

Era la prima volta che ci pensava, che lo realizzava, vocalizzandolo, ma era vero. Vittoria protestò con un’altra serie di calcetti e un gorgoglio, prima di riprendere a concentrarsi sul procacciamento di cibo.

 

“Pure i tuoi non scherzano… specie quando la guardi.”

 

“Non diciamolo troppo forte, però: c’ho una reputazione da mantenere!”

 

“Eh appunto…”

 

“In che senso?”

 

“Che ci faccio in giro con uno che non ha manco trent’anni? Mi vergogno!”


“E che ci fai? Ti diverti!”

 

Chiara rise, tornando rossa.

 

“Chiara, credimi, il bello di Roma è che non gliene frega niente a nessuno di ciò che fai e non fai. Tranne se sei me e Calogiuri, che allora ti sbattono sui giornali, ma Coraini mo sta al gabbio, come dicono qua e-”

 

TOC TOC

 

“Chi è?”

 

Calogiuri. Il fatto che bussasse era adorabile e frustrante insieme. Ma anche strano: di solito avrebbe aspettato che Chiara uscisse. Avrebbe aspettato perfino che uscisse Diana, dopo una di quelle conversazioni delle sue, che erano più monologhi infiniti.

 

“Tutto bene? Hai portato i rifornimenti?”

 

“No, cioè sì, ho preso qualcosa ma… volevo farti vedere questo.”

 

Avanzò nella stanza, un sacchetto in una mano e il cellulare nell’altra, che le porse.

 

Vittoria per la dottoressa Tataranni e il baby capitano

 

Fiocco rosa in casa Tataranni

 

La panterotta è nata, Vittoria!

 

L’ultimo titolo era di Zazza, ovviamente.

 

Eccallà! Come non detto!

 

“Ma chi gliel’ha detto a questi?”

 

“Eh… dottoressa… le notizie corrono, lo sai. Poi l’ospedale è enorme…”

 

“Sì, ma noi saremmo pure sotto protezione. Se becco chi passa le notizie! Ma poi ti pare il caso di farci i fotomontaggi con le nostre facce e le tutine leopardate?”

 

“Come se non stessi aspettando solo di uscire da qua per farne scorta…”

“Eh mo solo una di scorta c’abbiamo, Calogiù, la peggiore!” sospirò, pure se riusciva sempre a strapparle un sorriso, perché sì, anche se i vestitini per i bambini erano lo spreco peggiore, qualche completino leopardato, mo che non aveva una suocera rompiballe a impedirglielo - o meglio, ce l’aveva ma a chilometri di distanza - gliel’avrebbe preso sicuro alla piccoletta.

 

Ma pure zebrato, pitonato, tigrato, perché scegliere?

 

Ecchecavolo!

 

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Un soffio lieve che virava sul russare.

 

Anzi due.

 

Pure con gli occhioni chiusi quei due facevano il dolby surround.

 

Calogiuri, nonostante le insistenze che si trovasse una brandina o si stendesse accanto a lei, si era addormentato nella sua solita posizione, seduto, riverso in avanti, la testa appoggiata sulle braccia, vicino al suo.

 

Si divertiva a farle venire la pelle d’oca col fiato, il disgraziato!

 

La piccola idrovora invece, si era accasciata sul suo petto dopo l’ennesima poppata. Anche lei con le braccine protese in avanti, il viso leggermente girato di lato, proprio come papà suo, ma con un dito in bocca.

 

Parevano due micini sonnacchiosi.

 

Avrebbe dovuto spostarla, lo sapeva, metterla in culla. Non solo, ma avrebbe dovuto essere già crollata dal sonno.

 

Ma un po’ l’adrenalina, un po’ le endorfine che sì, erano veramente la droga più potente al mondo, ma non le riusciva ancora di dormire.

 

Non quando aveva quella specie di quadro davanti agli occhi.

 

E non solo per la piccoletta che tenerla così vicina, cuore a cuore, la faceva sentire viva come mai prima, le ricordava che, nonostante una gravidanza terribile, era lì e non andava da nessuna parte. Non senza ettolitri di latte ad accompagnarla, almeno.

 

Ma anche per Calogiuri. Perché, se l’innocenza purissima di Vittoria era normale, in fondo, quella di Calogiuri no, era un miracolo.

 

Erano mesi che non lo vedeva così rilassato, così aperto, nemmeno nel sonno. Sicuramente dall’annuncio della gravidanza, ma a maggior ragione dopo gli agguati. Dormivano tutti con un occhio aperto e uno chiuso, quasi letteralmente.

 

E mo invece, rieccolo lì, l’appuntato di Grottaminarda, a fare capolino quando le difese erano sguarnite e non doveva essere l’uomo deciso e consapevole che era diventato.

 

Se c’era qualcosa che si augurava in quel momento, era di addormentarsi o svegliarsi sempre con quell’espressione davanti agli occhi, pure quando avrebbero avuto entrambi la dentiera sul comodino ad aspettarli.

 

Lei indubbiamente prima di lui.

 

Stava per cedere alla tentazione di accarezzare il viso a padre e figlia, quando alcune urla dal corridoio le fecero fare un salto.

 

E mo altro che quadretto!

 

Vittò, sensibile come papà suo, si era svegliata e aveva preso a strillare, spaventata, con la delicatezza di casa Tataranni.

 

Calogiuri era balzato sulla sedia, pure prima del pianto della bimba, e la pace era bella che evaporata, per far posto all’adrenalina dell’azione.

 

Gli cercò la mano, per calmarlo, mentre con l’altra provava a rabbonire la piccola sirena e tendeva le orecchie per capirci qualcosa.

 

“Non può stare qui!”

 

Uno dei ragazzi della scorta, il toscano, il più sveglio.

 

“Si allontani subito, questa è un’area riservata.”

 

Altro della scorta.

 

“Ma… ma… non capite… io…”

 

Una voce familiare e che la riportava di nuovo indietro alle origini del rapporto con Calogiuri. L’incertezza, il tremore, il tono.

 

“Modesto?”

 

L’avevano pronunciato insieme, lei e Calogiuri, che si era alzato ed era andato verso la porta, a passo un po’ sbilenco e non solo per le posizioni assurde in cui era rimasto in quei giorni.

 

Lo vide socchiudere la porta e chiedere un “che succede?” dal tono indefinibile.

 

“Ippà! Diglielo pure tu, che sono tuo fratello!”

 

Le spalle di Calogiuri si rilassarono visibilmente, pure se mo era aggrappato all’angolo della porta e si voltò per lanciarle uno sguardo, di chi non sapeva se era appena successo un miracolo o una disgrazia.

 

Gli sorrise per incoraggiarlo, mentre la piccoletta finalmente si quietava e, tanto per cambiare, cercava l’unico suo oggetto del desiderio.

 

Se davvero la produzione di latte era direttamente proporzionale al numero di attacchi al seno, tra un po’ avrebbe potuto produrre intere forme di parmigiano reggiano, per quanto disgustose.

 

*********************************************************************************************************

 

“Ippà?”

 

Distolse l’attenzione dalla visione meravigliosa che erano Imma e Vittoria, voltandosi verso quello che, dalla voce, avrebbe dovuto essere suo fratello.

 

Non fosse stato per quello e per gli occhi, non lo avrebbe riconosciuto.

 

Pareva un cinquantenne, smagrito all’inverosimile, due occhiaie che manco lui quando si era lasciato andare, dopo che era finita con Imma e si era rintanato in quegli squallidi hotel.

 

I vestiti di almeno una taglia troppo larghi, la stempiatura che era al limite della calvizie, pareva un reduce di guerra. Notò lo zaino che portava a spalla e che non poteva contenere più dello stretto necessario.

 

“Che ci fai qua? Come sei arrivato? A quest’ora poi…” gli chiese, facendo cenno ai ragazzi che era tutto a posto.

 

“Ci scusi, ma dobbiamo essere prudenti…” 

 

L’accento toscano e la mortificazione lo fecero sorridere e li rassicurò con un “avete fatto bene!” che era più da Imma che suo.

 

Sempre se ormai fosse possibile una netta separazione tra dove finiva lui e iniziava lei.

 

“Ho saputo dai giornali dove stavate e… e ho preso la macchina. Se ce l’hai con me lo capisco ma-”

 

“Ma che è successo?”

 

“Non so se lo sai ma… ma io questo fine settimana mi dovrei sposare.”

 

“E tanti auguri!”

 

Sì, era sempre più Imma, ma gli era uscito di getto.

 

“Non so come fare, Ippà…”

 

La disperazione di Modesto gli fece malissimo: pareva essere un bimbo e un vecchio al tempo stesso.

 

“Dai, entra,” gli fece cenno e Modesto, più timido e remissivo di lui quando era arrivato a Matera per la prima volta, varcò la soglia.

 

Lo vide fare un mezzo salto e diventare fucsia, lo sguardo buttato sul pavimento: Imma stava allattando di nuovo. La piccoletta era insaziabile.

 

“Eccallà! Siete proprio fratelli! Guarda che mica c’è niente da scandalizzarsi.”

 

“No, no, ma è che… è un momento così intimo…” balbettò Modesto e Imma rise talmente forte che pure la piccoletta si staccò un attimo per lanciare un paio di gorgoglii.

 

Modesto era mortificato e Calogiuri si affrettò a spiegargli, “no, è che ho detto lo stesso. Stai tranquillo, che questa mangia sempre. Accomodati.”

 

“Sì, non fare i complimenti, pure se per voi Calogiuri è andare contro al vostro DNA.”

 

“Tranne la piccoletta, lei complimenti proprio non ne fa, dottoressa,” le ricordò e scorse benissimo la commozione in quegli occhi scuri che amava tanto.

 

“Eh… quello è il lato Tataranni che vuole predominare. Dai, Modesto, rinnega il tuo nome e non ti preoccupare, che siamo in famiglia.”


“Eh… è proprio quello il problema… la famiglia…” sospirò suo fratello, alzando finalmente lo sguardo.

 

E si bloccò. Probabilmente non per il “il contesto con il più alto tasso di omicidi!” di Imma ma perché era fisso, ipnotizzato su lei e la piccoletta.

 

Fosse stato chiunque altro, forse sarebbe stato geloso, ma la venerazione, che per un attimo ringiovaniva il volto scavato del fratello, gli provocò un rimescolamento vicino al cuore, mentre si chiedeva se anche lui le guardasse così.

 

“Ma è bellissima!” si lasciò sfuggire Modesto, diventando poi ancora più fucsia e rivolgendosi ad Imma con un “cioè… non lei!”, ormai il colore era prugna, “cioè non solo lei, anche lei è bella, ma la bimba è bellissima, cioè entrambe e-”

 

Imma rise, intenerita.

 

“Quando vi incartate siete uguali…” proclamò, mentre Vittoria si esibiva in una serie di altri calcetti e mugolii, “anche lei è d’accordo. E guarda che ti puoi avvicinare. Mica mordiamo. Pure se lei c’ha molta fame.”

 

Modesto fece qualche passo verso il letto, come in trance.


“Vittoria, giusto?”

 

“Sì, Vittoria. Se vuoi toccarla fai pure. Ti direi di prenderla in braccio ma mo vuole mangiare e chi la sente.”

 

Modesto allungò una mano un po’ tremante e sfiorò la schiena di Vittoria. Che non si mise a urlare ma lo guardò per un attimo, prima di riprendere a ciucciare, agitando una manina nella sua direzione.

 

“Sei bellissima, Vittoria… e voi… e voi siete fortunati. Io purtroppo una fortuna così non potrà mai avercela, a meno che…”

 

Si zittì, anche perché Imma gli abbrancò una mano, prendendolo in contropiede, come solo lei sapeva fare.

 

“Senti, Modè, esistono pure le adozioni, gli affidi. Magari qui in Italia per ora non è possibile, ma le leggi possono anche cambiare. E intanto, se vuoi, c’hai qua una nipotina di cui occuparti, che noi non vediamo l’ora di appioppare allo zio. Vero, Calogiù?”

 

Annuì, perché che altro poteva fare? Modesto cominciò a singhiozzare.

 

“Modè, se non la vuoi basta dirlo, noi capiamo…” ironizzò Imma e Calogiuri si affrettò a passargli un fazzoletto e mettergli una mano sulla spalla.


“Davvero… veramente mi permettereste di occuparmi di lei qualche volta?”

 

“E certo! Cioè, mo dovremmo anche darti litri di latte o sono guai, ma quando vuoi, pure tutte le notti, noi non ci lamentiamo, anzi, ci sacrifichiamo volentieri per la famiglia. Vero, Calogiù?”

 

Rise, piazzando la mano libera sulla spalla di Imma, in una specie di strano abbraccio a tre, anche se a distanza di sicurezza.


“Che pensi di fare con il matrimonio?”

 

Imma. Tornata seria, serissima e dritta al punto.

 

Menomale che aveva lei… che per lui mica era facile, specie con Modesto, che le parole gliele dovevi cavare di bocca, da sempre.

 

“Non lo so… non so come uscirne… forse ormai è troppo tardi.”


“Eh no! Se sei qua è perché vuoi uscirne e finché non hai firmato i documenti non è troppo tardi. Va beh che pure dopo ci stanno annullamento o divorzio, ma meglio risparmiarsi il pensiero.”

 

“Imma ha ragione… e poi… e poi mica devi fare coming out, se non te la senti. Puoi annullare il matrimonio e rimanertene qua a Roma. Che per ora ci siamo sia noi che Rosa.”

 

“In che senso per ora?”


“Che presto finiremo a Milano. Ma se vuoi puoi venire pure lì. Più opportunità di lavoro e mia figlia mi dice che, se non sei etero, è la città migliore in Italia. Se ti vai a fidare di Valentina, ovviamente!”

 

Modesto fece un accenno di sorriso ma poi sospirò.

 

“Ma è anche la città più cara e… io non so fare niente, se non coltivare la terra.”

 

“E… diciamo che per un po’ abbiamo bisogno di una babysitter fidata. Ma pure un babysitter va benissimo. E poi qualcosa trovi, figurati! No, Calogiù?”

 

L’idea che Modesto si occupasse di Vittoria quando loro non c’erano era talmente bella da lasciarlo senza parole. Sarebbe stato come quando erano piccoli.

 

“Hai cresciuto a me, vuoi non riuscire a crescere a questa? Fino a che non trovi un lavoro tutto tuo e solo se ti va.”

 

“Ma… ma non posso accettare soldi dalla famiglia… e-”


“E se non li spendessimo per te, li spenderemmo con qualcun altro. Pensaci. E mo, il nostro appartamento è libero, credo ormai lo abbiano risistemato. Altrimenti con Rosa una sistemazione per ospitarti qua a Roma la si trova.”

 

“Ma… ma Rosa ha la sua vita… e… e anche voi uscirete da qua, no?”

 

“Sì, ma non è detto ci rimandino lì. E poi… al peggio ci sta il divano letto.”


“Sì, che io sul divano letto non ci voglio più stare,” intervenne, non solo per dare manforte alla sua dottoressa, ma anche per lanciarle un messaggio.


“Vedrai quando questa strillerà tutta la notte quanto lo vorrai usare, Calogiù!”

 

Stava per risponderle, ma l’abbraccio di Modesto, per quanto mingherlino fosse diventato, gli levò il fiato.

 

Braccia da agricoltore, altro che i culturisti!

 

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“Se la cava proprio bene. Ma voi Calogiuri sapete fare tutto.”

 

Sorrise al sussurro di Imma, seduta accanto a lui sul letto ad osservare suo fratello intento a cullare Vittoria che gorgogliava e faceva dei versetti stupendi, anche se si vedeva fosse prossima al sonno.


“Se riesce a tenerla lontana dalla fonte per qualche ora gli faccio un monumento qua a Roma e pure uno a piazza del Sedile.”

 

E che doveva fare con lei? Se non approfittare della venerazione di Modesto per la piccoletta per levarle il fiato con un bacio come si doveva?

 

Il sorriso di lei sulle labbra e un mugugno soddisfatto. Quanto gli era mancato poterla toccare, baciare e abbracciare senza pensieri, senza paura di farle male.

 

“Guarda che manco prima mi rompevo, Calogiù…”

 

Si stupì di non stupirsi ormai più di quanto sapesse leggergli nel pensiero. Stava per cedere al bis - e pure al tris, se Modesto continuava a distrarre la piccolina - quando bussarono alla porta.

 

La caposala che guardò Modesto, un po’ stupita.

 

“Lui è lo zio,” spiegò Imma, con un sorriso.

 

“Mio fratello…”

 

La caposala alternò lo sguardo tra lui e Modesto, ancora più sorpresa, ma poi annuì. Effettivamente la loro somiglianza non era mai stata così flebile.

 

“Devo portare Vittoria a fare alcuni controlli,” chiarì e Modesto le passò la piccoletta con una tenerezza che manco con lui e Rosa era stato così.

 

Vittoria, ovviamente, prese a strillare.

 

“Vittò, e su, fai la brava che poi doppia razione di latte. Un po’ artificiale che sei peggio di un’idrovora.”

 

La piccoletta smise di piangere e sbattè i pugnetti, come a dire sarà meglio! e si lasciò portare via dall’infermiera.

 

Silenzio.

 

Modesto si tormentava le mani, nervosamente, ora che non c’era più Vittoria a distrarlo si vedeva che era in imbarazzo.

 

“E non stare lì impalato, che mi ricordi Calogiuri i primi tempi: i corazzieri dovevate fare voi Calogiuri! Accomodati, dai!”

 

Modesto esitò ma poi si avviò verso la seggiola indicata da Imma. Fece per sedersi quando un urlo li fece saltare tutti.

 

“Disgraziati! Disgraziati site! Tengo che trasire!”

 

Sospirò. Modesto era diventato quasi verdognolo. Imma, dopo la sorpresa iniziale, strinse gli occhi, pronta alla guerra.

 

“Sei sicura?” le chiese, tanto non servivano altre parole.

 

“Prima o poi la dobbiamo affrontare. Modesto, animo, ci pensiamo noi, va bene?”

 

“Non ti devi agitare troppo però, dottoressa, o prima butto fuori nostra madre e poi ti faccio visitare subito.”

 

Per tutta risposta, quegli occhioni castani fissarono il soffitto e poi gli fece segno di muoversi.

 

Giusto in tempo, perché stavano bussando alla porta.

 

“Scusate, ma qua c’è una signora che sostiene di essere vostra madre, capitano.”

 

L’accento toscano, nel panico, era ancora più buffo. Tutto il resto no, purtroppo.

 

Aprì la porta, mettendosi a barriera nello spazio che si era creato, onde evitare una carica che, al confronto, quella degli gnu nel Re Leone era stata delicata.

 

“Disgraziat’! Che scuorn’! Dove sta quell’altro disgraziato di frateto? Sta accà, o vero?”

 

“Siamo in un ospedale. O ti calmi o ti faccio scortare fuori. Ci sono altri pazienti oltre a Imma.”

 

“Carmè… e dai… Ippà tiene ragione: senti che mo strillano tutte le criature?”

 

Guardò verso suo padre, sorpreso: era un miracolo sentirgli la voce.

 

Ma, effettivamente, a Vittoria si era unito un vero e proprio concerto polifonico di pianti.

 

Lo spintone in petto che si beccò lo colse di sorpresa e forse per quello, o per la stanchezza, traballò all’indietro e sua madre ne approfittò per superarlo, prima di riuscire a fermarla.

 

“Mamma!” gridò, provando a prenderla per un braccio, ma Imma alzò la mano, come a dirgli che andava tutto bene.

 

“Signora, che piacere vederla!”

 

Nonostante le circostanze, gli venne da sorridere, ripensando a quel momento nel suo ufficio, quando Matarazzo li aveva interrotti, al ritorno da Roma, prima che riuscisse ad esprimere quello che avrebbe voluto ma non sarebbe mai stato in grado di confessare a Imma.

 

Un milione di vite fa.

 

“Per me no, è ‘na disgrazia! Tutta la famiglia m’hai pigiato e-”

 

“Plagiato, mà, plagiato!”

 

“Statte zitt’ tu, che prima tengo che pensare a quell’altro disgraziato e-”

 

“Carmè… forse è meglio se ce ne stiamo un poco calmi. Che insomma… con una criatura… e poi la dottoressa ha partorito da poco e-”

 

L’intervento di suo padre, il secondo in pochi minuti, poteva essere uno dei segni dell’apocalisse, come avrebbe detto Imma, ma sua madre gli assestò una manata sul coppino.

 

“Qua di criature non ce ne stanno. Ci sta solo ‘na vecchia, per non dire altro! Che poi, mettersi a fare figli all’età sua… chissà che ta-”

 

“Mamma!” la abbrancò per un braccio, una furia e un’indignazione che gli montavano in petto come mai prima, “se sento ancora una sola parola contro Imma quella è la porta, è chiaro, sì? A costo di farti portare fuori dalla scorta!”

 

Sua madre strattonò via la presa e strinse labbra e occhi, ma poi sospirò e si rivolse a Modesto con un “e mo pure tu!”, che non prometteva nulla di buono.

 

Suo fratello si ritrasse nella sedia.

 

“Accà stai? Che tieni altro a cui pensare: ci sta da organizzare la serenata, poi don Vito ve vuliva verè per le prove e…”

 

“E dì a don Vito che le prove non servono. Non mi sposo.”

 

“Ma che vai ricenn’? Ma che sì scem? Sta tutto pronto: le bomboniere, la sala, domani arrivano pure e’ sciure, i confetti…”

 

“E per i fiori sei ancora in tempo a fermarli. Per il resto pagherò fino all’ultimo centesimo, stai tranquilla, ma non ci sarà nessun matrimonio.”

 

“Tu sabato ti devi sposare, sabato. Furniscila con sta pazziata ja!”

 

“L’unica pazziata sarebbe sposare una donna che non amo e che non mi ama. Non me lo merito e non se lo merita neanche Enrica: non potrei mai darle la vita che desidera.”

 

“E se ne vulivi n’ata bastava che dirlo! Ma tu niente, capatosta proprio, nun ti piace mai a nisciuna!”

 

“E non ti sei mai chiesta perché non mi piace mai nisciuna?”

 

Sua madre si bloccò, la bocca spalancata, così come gli occhi. Modesto deglutì, terrorizzato, mentre Calogiuri sentiva il cuore battergli all’impazzata: forse aveva capito finalmente?

 

“Non dirmi che pure te ne tieni a una sposata!”

 

La risata di Modesto, amarissima, fu peggio di un pugno allo stomaco. Si scambiò un’occhiata con Imma e sapeva che stavano pensando la stessa cosa: se per loro era stato difficile… per Modesto…

 

“Ma magari! Sarebbe tutto più semplice e probabilmente persino tu lo preferiresti alla verità.”

 

“Ma sì scem’ proprio, ma non esiste! Figurati se ti preferisco co’ una come a chista che-”

 

La mascella materna si era richiusa con un CLAC udibile, per poi tornare a spalancarsi.

 

La mano le tremava mentre faceva segno di no, prima con le dita, poi con la testa. Un altro sguardo a Imma che, dopo un cenno d’intesa, mise una mano sulla spalla di Modesto, come per fargli forza.

 

“No. No. No.”

 

Sua madre pareva un disco rotto e sì, aveva capito, ancor prima di dire, “non è vero, non… non sarai mica uno di quelli… di quelli…”

 

“Sì, mamma, sono uno di quelli! Sono gay. Sono gay! SONO GAY! E finalmente riesco a dirvelo, dopo quasi quarant’anni che me lo tengo dentro.”

 

Un suono strozzato e sua madre barcollò, sorretta appena in tempo da suo padre, che anche lui alla fine la forza ce l’aveva eccome. Solo fisica, purtroppo.

 

“Ma sei ascit’ pazz’? Non è o ver’, chista è solo un’idea che ti si messo ‘nda capa toja. Tu sei sempre stato normale e-”

 

“E infatti sono normale. Sono gay, mica malato.”

 

“L’omosessualità non è più considerata una malattia dal 1990, signora, forse dovrebbe aggiornarsi.”

 

Sua madre si voltò proprio verso Imma e schiumava di rabbia.

 

“Eccallà! Ecco chi v’ha messo ‘ste idee malate ‘nda capa! Sempre chista, chista, chista zo-”

 

“Mamma!” urlò, afferrandola per il braccio non trattenuto da suo padre, prontissimo a buttarla fuori.

 

“Ma se è da quando ero adolescente che lo so. La dottoressa manco sapevo esistesse, non c’entra nulla!”

 

“L’unico problema qua sei tu mamma: tu e le tue idee arretrate!” intervenne, perché non ne poteva più, “ci hai costretto ad allontanarci, a tutti noi, per poter essere liberi. E stiamo bene. Fatti due domande.”

 

Sua madre si liberò della loro presa e lo fulminò, ormai una maschera di furore, “e infatti da mo io figli non ne tengo più. Siete stati la disgrazia della vita mia, ma mo basta! Iamuninni, Michè!”

 

Tutti voltarono lo sguardo verso suo padre che, nonostante sua madre lo stesse tirando, non solo non si mosse ma anzi, scrollò via le mani di lei. Si rivolse a Imma.

 

“Io mia nipote la vorrei conoscere. Dov’è la bambina? Vittoria, giusto?”

 

Imma, inaspettatamente, sorrise: il tono di papà era deciso come non l’aveva sentito mai, ma proprio mai mai. Al nome della piccola, però, si era fatto dolcissimo, come quando parlava con Noemi.

 

“Sta con l’infermiera mo. E menomale, viste le urla, pure se di famiglia c’è abituata.”

 

Il padre ricambiò il sorriso, toccandosi la nuca, imbarazzato. Proprio come faceva sempre lui.

 

“E vorrei conoscere pure quello adottivo-”

 

“In realtà è in affido ma… se non temete le suore si può fare. E se Calogiuri è d’accordo, naturalmente.”

 

Il voi. Invece che il lei dato a sua madre. Tutta lì stava la differenza.

 

Imma…

 

“Carmè,” esclamò suo padre, di nuovo con quel tono perentorio, “io non voglio più perdermi i miei nipoti, i miei figli. Da qui a poco sarà di nuovo Natale e n’ata vota la casa senz’a nisciun… io voglio festeggiare con la famiglia meja, u’ presepe e voglio vedere a crescer’ i criatur. Mo basta.”

 

“Ma che sei uscito pazz’ pur tu? Non pazziare ja, e jamme ja!”

 

Di nuovo sua madre provò a strattonarlo, di nuovo suo padre rimase fisso coi piedi piantati sul pavimento, come una roccia.

 

“Ma non lo vedi che sono felici? Forse… forse non è na pazziat’. Forse è giusto accussì. Pure se non è alla moda nostra, ma basta che stanno bene. Che ne vulimm’ savè nuje di com’è vivere mo? Ci siamo fatti vecchi, Carmè. Il futuro è o loro.” 

 

“Miché. Jamm’ ja o furnisc’ sul divano quanto è vero iddio!”

 

“E no che non ci finisco. Perché io da qua non mi muovo, Carmè. Se tu vuoi perdere a tutti, padrona e signora, ma per me mo basta. E avanza pure. E da mo.”

 

Sua madre barcollò, manco avesse preso uno schiaffo, e toccò a lui sorreggerla, prima di dover ricoverare pure a lei.

 

Si scansò, manco l’avesse contaminata, e fissò suo padre con una rabbia, anzi uno scuorno, come avrebbe detto lei, infinito. Il tradimento le bruciava. E per lei l’insubordinazione del suo soldatino capo era altissimo tradimento.

 

“La tua ultima parola?”

 

“Nun tengo altro che dicere…”

 

I pugni di sua madre erano stretti talmente forte che temette li volesse menare a tutti. Ma poi lasciò cadere le spalle, riprese la borsa da terra e, come un uragano, sparì oltre la soglia. Sbattendo la porta alle spalle con una forza tale che il concerto polifonico di bimbi riprese, più forte di prima.

 

Imma era a bocca aperta, come lui e Modesto. Suo padre invece guardava la porta, malinconico, ma senza spostarsi di un centimetro.

 

"Papà…"

 

Gli poggiò una mano sulla spalla e Modesto lo imitò. Era la cosa più vicina a un abbraccio a cui fossero mai giunti con loro padre.

 

Gli occhi lucidi paterni si alternarono tra loro, per poi concentrarsi su Imma, che gli sorrideva in quel modo che concedeva a pochissimi.

 

"Mo ho capito da chi lo ha preso il carattere suo figlio, quando serve."

 

"No. So' io che agg' avuto che imparare da Ippà. E da Rosa. E mo pure da te Modè. Pur' se troppo tardi mi so’ scetat'."

 

"Non è mai troppo tardi. Basta iniziare," lo incoraggiò Imma, tendendogli una mano.

 

Suo padre esitò, ma poi si avvicinò e le prese le dita. Un'esclamazione di sorpresa quando lei lo trascinò in un abbraccio, godendosi il suo sconvolgimento.

 

La sua dottoressa non cambiava mai.

 

TOC TOC

 

Il pianto potentissimo, che era tutto Imma, precedette la porta che si aprì e Vittoria, scalmanata in braccio all'infermiera.

 

"Tutto a posto, tranquilli, ma ha-"

 

"Fame?" esclamarono all'unisono lui ed Imma.

 

Suo padre fissò Vittoria, mentre l’infermiera la poggiava in braccio a Imma, con una contemplazione tale da rivaleggiare con quella di Modesto.

 

Un altro sguardo con Imma. Un suo sorriso bellissimo, anche più di quello sdentato della piccoletta.

 

“Vittò…” la chiamò Calogiuri, mo che si era un poco calmata - e come non capirla, che stava in braccio a Imma?

 

Un gorgoglio felice, misto a un singhiozzo di suo padre.

 

Vittoria, che oltre alla voce pure l’udito teneva finissimo, si voltò nella sua direzione.

 

“Vittò, hai visto chi c’è? Che è arrivato il nonno…”

 

Quella parola pronunciata da Imma gli causò un nodo in gola infinito. Forse perché ormai non ci sperava più che la piccoletta ce li avrebbe avuti dei nonni. Seppe che anche per Imma era lo stesso, da come le si era scurita la voce.

 

Suo padre tossì, per coprire un altro mezzo singhiozzo, e Vittoria lo guardò ancora più intensamente, ma senza piangere.

 

“Vuoi andare un poco in braccio a nonno? Che tanto la fonte qua sta e non scappa!”

 

“Ma non so se… è così piccirilla…”

 

“Eh va beh, papà, se sei riuscito a tenere Noemi, riesci pure con lei.”

 

Imma annuì e lo aiutò a prenderla in braccio correttamente. Vittoria lo studiò con occhioni ancora più spalancati, poi aprì la bocca, che Calogiuri temette la contraerea - come la chiamava Imma - ma Vittoria si limitò a un gorgoglio e a stringergli la barba con una manina.

 

Suo padre rise, come non aveva riso mai.

 

“Tiene proprio la cazzimm’. E non l’ha presa da te, Ippà. N’ata che comanda in famiglia!”

 

“Eh beh, è giusto… no, dottoressa?” le fece l’occhiolino.

 

“Diciamo che qua teniamo un nucleo di comando, democratico, pure se mo tengo potere di veto, specie finché c’ho la latteria qua.”

 

Avrebbe così tanto voluto baciarla, ma con suo padre presente non osava.

 

Imma sorrise di nuovo, avendo capito tutto, come sempre.

 

“E mo che pensi di fare, papà?” domandò, sforzandosi di tornare ai problemi seri e concreti, “che davvero vuoi lasciare a mammà a tornarsene da sola a Grottaminarda?”

 

“I mezzi li tiene e voglio starmene qua a Roma almeno doje jurne. Tiene ca pigliare nu poco di strizza. Poi vediamo se si ripiglia e ragiona o se no… io a vuje ve voglio verè. Almeno alle feste comandate. Ma pure di più, si vulite.”

 

“E certo che vogliamo. Magari senza vostra moglie, se non cambia atteggiamento, con tutto il bene eh.”

 

“Mi facc’ nu poco di vacanza pur’ io, dottoressa.”

 

“Imma va benissimo.”

 

“Solo se mi chiamate Michele. O Miché. O pure Lino, va bene uguale.”

 

“Sì, ecco, basta che non vi aspettiate che vi chiami papà, anche perché credetemi, non vi conviene, e non solo per l’età anagrafica.”

 

Scoppiò a ridere, insieme a Modesto, e anche suo padre sembrò più a suo agio.

 

Poi però Modesto tornò serio.

 

“Papà… a me non dici niente?”

 

Loro padre lo guardò in un modo strano, né bello né brutto, ma strano.

 

“E che t’agg a dicere, Modè? All’epoca mia e di vostra madre… non ci si sposava per amore o per pazziare, ma perché toccava farlo per campare. Ma mo i tempi sono cambiati. E, pure se nu sacc’ bene come ti fanno a piacere i quaglioni, con tutte le quaglione belle che ci stanno… se piacciono a te. Meglio ‘nu bravu quaglione c’a vita cu’ mammeta.”

 

Si chiese, non per la prima volta, se fosse stato un matrimonio combinato. Se si fossero mai amati o voluti bene. Se la sopportazione di suo padre fosse sempre stata solo vigliaccheria o una forma d’amore, sia verso di loro che verso loro madre.

 

“Però come facciamo col paese? Coi campi?”

 

“Io al paese non ci torno pà. Calogiuri e la dottoressa-”

 

“Imma!”

 

“Im-ma mi hanno offerto ospitalità. Starò con loro qua e a Milano. Farò il babysitter a Vittoria, finché non trovo un altro lavoro.”

 

L’orgoglio con cui lo diceva, come se stesse annunciando di essere stato eletto presidente del consiglio, amplificava solo il nodo in gola.

 

“Ma io da solo come facc’, Modè? So’ viecchio, o sai.”

 

“E… se tanto io mo avrò il mio stipendio e dovete mangiare solo tu e mamma potete assumere un bracciante, no? Ve ne cerco uno bravo io, se volete, un po’ di gente la conosco in paese.”

 

Loro padre sembrò addolorato ma annuì, mentre Vittoria calciava manine e piedini, in segno di approvazione.

 

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Che ci faccio qui?

 

La domanda non l’abbandonava, seduta ad un tavolo un po’ appartato di un ristorantino a Testaccio. Né troppo economico, né troppo caro, aveva insistito, anche perché era già tanto per lo stipendio di un carabiniere.

 

Solo che era pure in ritardo, di dieci minuti, e cominciava a chiedersi se non si fosse reso conto lui per primo che fosse tutta una follia e le avesse dato buca.

 

Lo avrebbe perfino capito.

 

Un altro sorso d’acqua - forse avrebbe avuto bisogno di un po’ d’alcol entro fine serata, comunque fosse andata - e poi il rumore della porta principale che si apriva ed un accento calabrese che avrebbe distinto tra mille.

 

Come il numero di battiti al minuto. Si levò lo smartwatch, prima che la tradisse, segnalando l’attacco di tachicardia non solo a lui ma pure a tutto il locale.

 

Suole in gomma che strisciavano sul pavimento e lo vide, appena girato l’angolo. Ancora un po’ troppo magro, ma dal colorito normale, una rosa in mano ed i capelli di chi si era preso l’acquazzone.

 

Fece per alzarsi ma lui si avvicinò a passo fortunatamente abbastanza fermo, nonostante non fosse ancora tornato quello che ricordava da quei giorni al mare.

 

“Dottoressa… Chiara… scusa il ritardo,” esordì, mortificato, porgendole la rosa un poco sciupata, “è solo che… non posso ancora portare il motorino e con la pioggia… qua i bus fanno quello che vogliono.”

 

Sorrise, dandosi della scema per non aver proposto da subito di condividere un taxi, anche se non sapeva esattamente dove stesse lui. Accettò la rosa, cercando di darsi un tono e contenere il tremore alle dita.

 

Una scossa quando si sfiorarono e si chiese se lui, fradicio com’era, l’avesse percepita di più o di meno.

 

Ma che domande ti fai? Goditela e basta!

 

La voce di Imma, ovviamente.

 

Per levare la tensione, tra uno sguardo imbarazzato e l’altro, prese il menù e cominciò a consultarlo, mentre Greco faceva lo stesso.

 

“Forse meglio evitare i secondi, per il fegato. Un primo leggero non c’é? E-”

 

Una mano sul suo polso, un’altra scossa.

 

“Non sei il mio medico, no?” le ricordò, con un sorriso, ma anche una punta di avvertimento.

 

Le sembrò di avere un forno al posto delle guance.

 

“Scusa… deformazione professionale.”

 

“E poi il fegato va meglio e la dieta so come gestirla. N’altro poco e potrò mangiare come tutti i cristiani, finalmente.”

 

Ordinarono, lui una cacio e pepe e la cicoria ripassata, lei provò a imitarlo.

 

“Ma non prendi neanche un antipasto? Un fritto? Qua fanno dei carciofi che sono la fine del mondo: me li ricordo ancora da quando ci venivo con un onorevole a cui facevo la scorta.”

 

“Ma… non so… non ti volevo tentare e-”

 

“E quello è impossibile…”

 

Non avrebbe saputo dire se fosse stato più il tono o l’occhiolino, ma si sentì ancora più calda e si affrettò ad ordinare sti benedetti carciofi alla giudia, mentre si beveva un sorso di vino per mascherare il fiato che le mancava.

 

Ci sapeva proprio fare! Altro che ventenne!

 

“Allora, che pensi di fare? Potrai riprendere il servizio attivo?”

 

“Ci vorrà ancora qualche mese, purtroppo ma per fortuna, anche.”

 

“In che senso? Ti piace fare fisioterapia e passar carte?”

 

“No, ma… vuol dire che per qualche mese sarò qua a Roma… quando nasce tuo nipote?”

 

Tossì e le toccò bere un altro po’ di vino.

 

“Sì… magari per allora ti sarai già stufato. E comunque nasce a febbraio.”

 

“Bene… e poi vorrai fare per un po’ la nonna, no? Anche se sei troppo giovane e ti scambieranno tutti per la mamma…”

 

“Non fare l’adulatore, Greco!”

 

Per tutta risposta, si limitò a sorriderle e a farle un altro occhiolino, mentre arrivavano i suoi antipasti e la cicoria di lui.

 

“Com’è? Pure senza peperoncino…”

 

“Il peperoncino stasera sarebbe molto pericoloso per me, quindi va benissimo così!”

 

L’ennesimo colpo di tosse, il disgraziato, come avrebbe detto Imma!

 

E che fai? Ti ci diverti!


Altro che divertirsi! Mannaggia pure a lei. Aveva il cuore in gola, a tal punto che avrebbe bruciato di sicuro tutta la cena e-

 

E chissà come la bruciamo sta cena!

 

SI strozzò col vino, tanto che Greco, preoccupato, le diede una pacca sulla spalla che peggiorò la situazione.

 

Doveva levarsi la voce di Imma dalla testa. Levarci il dio Greco, invece, sarebbe stato molto più difficile.


Sempre se voleva levarselo… pure se prima o poi le sarebbe toccato farlo, lo sapeva.

 

Goditi il momento! Non ci pensare! - sempre Imma.

 

Se non muoio di crepacuore prima, sorellì!

 

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“Grazie, ma non dovevi!”

 

Le aveva aperto la porta del taxi e l’aveva fatta passare. Ogni tanto emergeva il lato galante da uomo del sud, sebbene fosse molto più sveglio del suo futuro cognato e molto moderno per certe cose. Fin troppo.

 

“Figurati… e poi già che dividiamo il taxi…”

 

Aveva insistito per pagare il conto lui, almeno sul taxi avrebbe dato lei.

 

“Tu dove stai? Sempre in caserma?”

 

“Sì, vicino al Colosseo. Non è tanto distante da qua. Però permettimi di accompagnarti che è tardi. Così sono più tranquillo…”

 

“Ma il mio hotel è in zona Spagna, poi devi tornare indietro di un bel pezzo.”

 

“E va beh… che problema c’è? Tanto a quest’ora c’è poco traffico, no?” chiese al tassista che annuì distrattamente, con un “allora, signò, qual è sto hotel che qua er tassametro core e tra un poco stacco il turno?”

 

Imbarazzata, Chiara fornì nome ed indirizzo dell’hotel. Greco spalancò gli occhi, sembrandole altrettanto mortificato: in effetti era un hotel di lusso, ma non voleva certo sventolargli in faccia la sua ricchezza.

 

Gli sventoleresti altro in faccia!

 

Imma. Che sicuramente nella realtà non sarebbe stata così esplicita, ma la sua fantasia lo era. Eccome se lo era. Sempre se si ricordava ancora come si facesse.

 

Ma più percorrevano il lungotevere verso nord, più il battito accelerava e più le sudavano le mani. E pure il resto del corpo non è che stesse molto meglio. Ogni tanto lanciava uno sguardo a Luca che deglutiva fin troppo spesso, un muscolo della mascella che gli si contraeva ritmicamente.

 

Il taxi andava tanto veloce che prese un incrocio bruscamente. Gli finì addosso, braccio contro braccio, ed arrossì ancora di più.

 

Fece per rialzarsi ma lui ne approfittò per cingerle le spalle. E che doveva fare? Ritrarsi?

 

Un po’ suora sì. Scema no.

 

E così, col cuore che le martellava in petto, arrivarono infine davanti all’hotel. Una frenata che brusca era dir poco, il cuore in gola, anche per il modo in cui la teneva incollata al sedile.

 

Se il buongiorno si vedeva dal mattino, anzi dalla sera…

 

“Io… io sono arrivata…”

 

Ma che sei scema che ribadisci l’ovvio? - sempre Imma, implacabile. Chissà lei come era stata più a suo agio con Calogiuri ai tempi, ce la vedeva, decisa e quasi spregiudicata. Anche se era pure timida, a volte.

 

“Sì… l’hotel ce l’ho presente. Quando facevo la scorta sempre al famoso onorevole, veniva spesso qua. Anche se ho visto solo il foyer e mai le stanze…”

 

Un altro colpo di tosse, seguito da un mezzo rantolo: ormai era tutta un rossore. E che doveva fare?

 

E che dovrai mai fare? Invitalo a salire, no? O vuoi continuare con i messaggini tipo gli adolescenti?

 

Ma forse era troppo azzardato, alla fine l’uomo era lui e lei…

 

“Quindi signò, scende?”

 

Il tassista. Lo avrebbe ucciso.

 

“Sì, io scendo e…” 

 

Lo guardò, senza dire nient’altro, ma gli prese la mano, con un coraggio che non sapeva da dove veniva.

 

“Al bar ricordo che facevano dei cocktail buonissimi. Ti va il bicchiere… come si dice?”

 

“Della staffa. Della staffa. Dai, Greco, vieni!”

 

Il sorriso di lui, come quello del gatto che si era appena mangiato il topo, non fece che peggiorare il calore. Passò i soldi al tassista un poco a casaccio, ma che si tenesse la mancia, prima che cambiasse idea.

 

Correndo ancora mano nella mano sotto la pioggia, come due ragazzini, entrarono nel foyer.

 

Il receptionist di notte le lanciò un’occhiata ma non disse nulla. Chiara si avviò verso il bar: doveva esserci stata una convention di qualche tipo, perché era pieno di uomini d’affari con delle signorine in abiti molto succinti e un po’ troppo giovani per-

 

Parli tu, parli?

 

Un’occhiata a Luca, una sola e poi, forse per il casino, forse per il coraggio dato dal vino già bevuto, forse che associarsi a quelli non le pareva il caso, ma le uscì, quasi senza pensarci, “anche il minibar è molto fornito…”

 

Luca serrò la mascella più forte, deglutì, sorrise, soddisfatto, ma pure con l’aria di chi non se lo aspettava del tutto.

 

Gli fece strada, senza bisogno di altre parole.

 

I secondi in ascensore le sembrarono interminabili, finché arrivarono al piano. Gli riprese la mano, anche un po’ per farsi forza, e a passo di marcia arrivarono davanti alla sua stanza. Aprì la pochette, cercando la tessera magnetica, che non ne voleva sapere di uscire, finché lui con un “posso?” gliela estrasse dalla borsa con un sorrisetto che sì, altro che sornione!

 

La passò sulla serratura magnetica, le fece cenno di entrare per prima. Chiara sentì la carta infilarsi nella fessura, la porta richiudersi alle spalle e poi-

 

E poi mani sulle sue di spalle, fisicamente, altro che figurativamente, che la fecero girare. Due occhi furbi e due labbra sulle sue a toglierle il fiato.

 

Dio mio!

 

Non c’era più abituata, proprio più, tanto che le sembrò di andare a fuoco, tra le labbra, le mani, sue e di lui, che levavano i vestiti. Sentì qualche bottone cadere a terra, tanta era la foga, e si trovò buttata sul letto, più nuda che vestita, un corpo forte e giovane sopra al suo, tutto tranne che deperito.

 

Non ci capiva più niente, l’ultimo pensiero razionale fu: altro che ti ci diverti, Imma! Mannaggia a te!

 

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“Perché sorridi?”

 

Un sussurro nell’orecchio, flebilissimo, ma che le causò un piccolo brivido, nonostante tutto quello che avevano passato.

 

O forse proprio per quello.

 

Calogiuri si era infine convinto ad infilarsi a letto con lei, fianco a fianco, mo che non doveva più stare ferma immobile di schiena.

 

Le era toccato tirare più latte della mucca di una nota pubblicità - quello della Imma! avrebbero potuto dire mo - ma Modesto aveva fatto loro un regalo meraviglioso: si era preso la piccoletta, crollata dopo l’ultima poppata, e se n’era andato in un’altra stanza, coccolato dalla caposala, che con lui era tutta una gentilezza.

 

Illusa! Di Calogiuri etero uno ne esisteva e già era un miracolo così!

 

“Prima di tutto, perché finalmente mi abbracci davvero e non come se fossi fatta di swarovski. Secondo, perché è la prima volta che siamo da soli da… non so più manco io quando…”

 

“E manco io, dottoressa…”

 

Un bacio sulla guancia ed una stretta ancora più salda.

 

“E terzo… perché Chiara non mi ha chiamata.”

 

“In che senso? Temevi che ci interrompesse? Che qua… purtroppo almeno per ora… si può fare ben poco.”

 

“Almeno per ora, Calogiù, almeno per ora. Che non mi hanno dato i punti e… conto di tornare al servizio attivo il prima possibile, capitano!”

 

Calogiuri arrossì, arrossì sul serio. Gli piantò un bacio sulle labbra perché era l’unica risposta possibile. Che si trasformò ben presto in un vero e proprio limone, come avrebbe detto Valentina, anzi in una spremuta di agrumi.

 

“Ma perché doveva chiamarti Chiara? Ma è successo qualcosa?” le chiese Calogiuri, senza fiato, staccandosi nel chiaro tentativo di recuperare il controllo.

 

Ma gli faceva ancora effetto! Altroché. E, finché erano da soli, che poteva non approfittarne?

 

E che cavolo!
 

“Diciamo che… se non mi ha chiamata forse qualcosa è successa davvero. Beata lei! Anzi, beati loro!”

 

“Cioè?”

 

“Doveva vedersi con Greco a cena. Io ero la scusa pronta, in caso l’appuntamento fosse un fiasco e si volesse liberare prima… ma qua mi sa che… altro che volersi liberare!”

 

Calogiuri spalancò la bocca, tossì, poi sospirò con un “vuoi proprio farmi impazzire, dottoressa?”

 

“Sempre!”

 

“E comunque… se Greco si comporta male… gli posso fare un bel discorsetto. Che se non ha intenzioni serie…”

 

“Sei troppo gentiluomo, Calogiuri! E poi Chiara ha proprio bisogno di divertirsi un po’. E non farmi quella faccia scandalizzata!”

 

“Va bene… ma… ha pure sofferto tanto e non merita di essere presa in giro… quindi, se serve, io resto a disposizione…”

 

“Sì, capitano, agli ordini! Mo però devi restare solo ed esclusivamente a disposizione mia, tutta la notte.”

 

“Ma dovresti riposare, Imma…” le ricordò, con la faccia di chi manco ci credeva più alle sue stesse parole.

 

La conosceva troppo.

 

“E va beh… ci riposeremo dopo… c’è tempo. Per intanto, che dici se ci facciamo un bel ripasso dell’udienza preliminare, in attesa di poter arrivare al corpo del reato, non appena qua sotto non sembrerà che mi abbiano aperta in due come un tacchino?”

 

Calogiuri rabbrividì, terrorizzato, ma poi scoppiò a ridere: sentiva la sua risata tra i capelli, dove le piantò un altro bacio.

 

“Forse non ci siamo capiti, capitano?”

 

“Ci siamo capiti eccome, dottoressa!”

 

E sì, il bacio con cui la travolse, prima che le riuscì di piazzarsi sopra di lui, come erano mesi che non poteva fare, e poi sotto di lui, com’era ancora più tempo che Calogiuri non osava nemmeno pensarlo, le confermò che era capitano mica per niente.

 

Pure se maggiore sarebbe stato più adatto, lo sottoscriveva dopo ulteriore perizia.

 

Lo avrebbe messo pure su carta bollata.

 

E che cavolo!


Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, al termine del capitolo 82, dopo una stagione dal finale al cardiopalma. Spero che questo capitolo ed i prossimi che mancano aiutino ad alleviare l’attesa e quel pizzico di nostalgia tipiche di questo periodo.

Vi ringrazio tantissimo per tutto il supporto che mi avete dato e continuate a darmi. Per i vostri messaggi e le vostre parole. Un grazie enorme a chi impiega un po’ del suo tempo per farmi avere una recensione: per me sono davvero preziosissime per capire come procede.

Per il resto, il prossimo capitolo avrà ancora qualche evento clou, mentre ci avviciniamo sempre di più al finale.

Mi auguro che la lettura si mantenga piacevole e non noiosa, in ogni caso ogni commento è utile, sia positivo che negativo.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 12 novembre, impegni permettendo.

Grazie ancora!

 
   
 
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