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Autore: Carmaux_95    24/10/2023    2 recensioni
«Signor Gojo? La contattiamo dalla scuola media municipale di Saitama Urami Est in merito a Megumi. In quanto tutore legale del bambino, potrebbe presentarsi in presidenza alla fine delle lezioni?»
«Perché? Cos’è successo?»
«È stato coinvolto in una rissa con alcuni compagni. Purtroppo, non è la prima volta che capita motivo per cui-… signor Gojo?»
Avrebbe dovuto riprenderlo più spesso quando era piccolo?
Avrebbe dovuto essere autoritario o permissivo?
O nessuna delle due opzioni?
“Insomma, non sono mica il padre del ragazzino!” Ogni tanto, nel corso del tempo, se lo era dovuto ripetere.
Non è che, da allora, avesse preso a cuore il marmocchio. Assolutamente no.
Si trattava solo di tenere sotto controllo la sua salute: dopotutto la scuola aveva sborsato soldi per l’istruzione di un futuro stregone e, insomma, non poteva mica perdere la faccia consegnando all’istituto di arti occulte un istrice rinsecchito e malconcio.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fushiguro Megumi, Gojo Satoru
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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QUANDO NON VEDI PIU’ I LINEAMENTI
 

Rispose al telefono come se in quel momento non stesse facendo niente di importante. Il preside Yaga avrebbe avuto da ridire in merito rinfacciandogli l’ennesimo esempio di mancanza di rispetto. Persino in un contesto come quello! In ogni caso, il preside non c’era quindi poco importava cosa lui pensasse in proposito.
«Pronto?»
«Signor Gojo? La contattiamo dalla scuola media municipale di Saitama Urami Est in merito a Megumi. In quanto tutore legale del bambino, potrebbe presentarsi in presidenza alla fine delle lezioni?»
Spostò il peso da una gamba all’altra. «Perché? Cos’è successo?», domandò nonostante immaginasse già la risposta.
«È stato coinvolto in una rissa con alcuni compagni. Purtroppo, non è la prima volta che capita motivo per cui-… signor Gojo?»
«Oh, sì, mi scusi un attimo». Aveva la situazione perfettamente sotto controllo ma le tre maledizioni che continuavano a contorcersi sotto la suola delle sue scarpe iniziavano ad infastidirlo. Ormai avrebbero dovuto rendersi conto che non avevano alcuna via di scampo: avrebbero anche potuto fare meno confusione, soprattutto considerando che stava parlando al telefono. E quella non era forse mancanza di rispetto? Gli bastò un gesto e un sospiro quasi annoiato per esorcizzarle.
Accostò nuovamente il cellulare all’orecchio: «Ha vinto?»
«Signor Gojo? Come dice?».
«Megumi: ha vinto o perso?»
«Non credo di capire».
«Volevo dire che sarò puntuale».
Quella promessa, comunque, non gli impedì di fermarsi lungo la strada in una caffetteria per acquistare un milkshake con extra topping di panna montata.
Bevve il primo sorso.
Quante volte si era già ritrovato in quella situazione?
Insomma, la prima volta che l’aveva visto era sì rimasto sconvolto da quanto Megumi somigliasse al padre, eppure gli era sembrato un bambino tranquillo. Invece, a ripercorrere gli avvenimenti degli ultimi anni, “era stato coinvolto” in ben più di qualche rissa. Non solo: Gojo sapeva bene che per la maggior parte era stato Megumi stesso a scatenare le zuffe. Molto probabilmente, anche in questo caso, era stato solo per gentilezza che la professoressa che lo aveva contattato si era mantenuta sul vago.
Sospirò. Quella pagina del suo manuale era ancora incompleta. Quella come tante altre, in realtà.
Avrebbe dovuto riprenderlo più spesso quando era piccolo?
Avrebbe dovuto essere autoritario o permissivo?
O nessuna delle due opzioni?
“Insomma, non sono mica il padre del ragazzino!” Ogni tanto, nel corso del tempo, se lo era dovuto ripetere.
Lui lo aveva solo sottratto alla famiglia Zen’in e per un po’ tanto gli era bastato: era stata una gran soddisfazione che ancora adesso gli faceva nascere un sogghigno sul viso. Ma il moccioso aveva rivelato un gran potenziale e, non secondario, un caratterino che aveva subito stuzzicato Gojo in modo così insolito da spingerlo a chiedere consiglio. Lui, il più grande stregone dell’epoca moderna!
«Ai bambini servono delle regole per crescere bene e vivere insieme agli altri».
Certo. In fin dei conti che genere di risposta si sarebbe potuto aspettare da Nanami? Regole, regole e ancora regole.
Aveva reclinato la testa e sbuffato: «Che palle!»
«I bambini hanno bisogno di regole chiare, precise e adeguate alla loro età», aveva ribadito Nanami sfogliando un giornale.
«Ha sei anni e, ormai, ha imparato a cavarsela da solo: non prenderebbe mai sul serio qualsivoglia regola mi venisse in mente di imporgli».
«I bambini prendono sul serio chi è coerente».
Essere coerenti, allineare pensieri e azioni. D’accordo.
Su questa base, il primo cambiamento che Gojo Satoru aveva avuto l’intelligenza di istituire era stato una rivoluzione della dieta: “Che mangino brioche!”.
«Non mi piacciono».
In tutta onestà, quella era una risposta che mai si sarebbe aspettato da un bambino che in occasione dell’annullamento della sua vendita ad una famiglia problematica si vede offrire un vassoio intero di prelibatezze di pasticceria. Ancor meno da uno che, abbandonato insieme alla sorellastra, se la cavava quotidianamente con poco più di un pezzo di pane. Effettivamente, soprattutto nei primi mesi, Gojo aveva pensato spesso che fosse un po’ troppo magro.
«Non fare l’antipatico!», lo aveva ripreso Tsumiki.
«Sono troppo dolci: non mi piacciono!», e così Megumi aveva rifiutato la prima di una lunga serie di brioche.
Ma la colazione era il pasto più importante della giornata, giusto? Di conseguenza, Gojo si era sentito in dovere di riempirgli lo stomaco – a forza se necessario – ogni mattino mentre lo accompagnava a scuola. Finché, finalmente, era riuscito a trovare un compromesso gastronomico che andasse incontro ai suoi gusti.
E così, la prima pagina del suo manuale per babysitter single era stata scritta e siglata sulle briciole di un pan brioche allo zenzero.
Non è che, da allora, avesse preso a cuore il marmocchio. Assolutamente no.
Si trattava solo di tenere sotto controllo la sua salute: dopotutto la scuola aveva sborsato soldi per l’istruzione di un futuro stregone e, insomma, non poteva mica perdere la faccia consegnando all’istituto di arti occulte un istrice rinsecchito e malconcio.
In merito all’alimentazione era stato bravo a riportarlo sulla retta via: a lungo andare aveva preso l’abitudine – giusto per controllarlo, non certo per il piacere della sua compagnia – di passare a casa sua la sera e preparare la cena per lui e la sorella. Non che fosse esattamente uno chef ma a qualche mese di distanza si sentì sufficientemente fiero di sé da affermare che, sebbene il bambino fosse ancora magro, non era più scheletrico come quando lo aveva conosciuto.
In quanto a quella testa da porcospino… beh, francamente a Gojo non era mai importato niente delle regole e dei codici di abbigliamento scolastico. E aveva sempre preferito di gran lunga quei ciuffi ribelli e caotici ad un taglio più ordinato: il fatto che Megumi, con i capelli pettinati, fosse ancora più simile al padre era sempre stato di secondaria importanza. Dettagli!
Inoltre, era particolarmente gradevole poter nascondere un’arruffata provocatoria in quello stile erratico. Megumi non aveva mai fatto nulla per nascondere quanto quel gesto lo irritasse e, di conseguenza, Gojo aveva fatto in modo di scompigliargli i capelli ogni qual volta fossero stati a sua portata di mano. Forse la gente non aveva poi torto a dirgli che sapeva essere davvero immaturo, ma non era colpa sua: era colpa di quel bambino! Ogni volta che gli scoccava uno sguardo in tralice qualcosa scattava in Gojo ed era come se la sua mano agisse per conto suo, affondando fra quei capelli neri.
Megumi, dal canto suo, era sempre stato fin troppo serio per la sua età. Avrebbe dovuto ridere di quel gesto di sfida.
Avrebbe dovuto giocare, divertirsi…
Avrebbe dovuto sorridere. Almeno una volta. Anche solo per sbaglio.
“Come si fa a far sorridere un bambino?”
Già all’epoca meditabondo su quei pensieri, Gojo aveva ricevuto la prima telefonata dalla scuola elementare: “Megumi ha litigato con alcuni compagni e la situazione è degenerata. Potrebbe presentarsi e bla bla bla”. Quella sera aveva raccattato dal cortile scolastico un Megumi estremamente malridotto.
«Vedo che qualcuno si è dato alla pazza gioia, oggi», aveva commentato osservandolo dall’alto: il visetto sporco di terra e pieno di graffi, un gomito scorticato, un ginocchio sbucciato e un pollice ormai violaceo. Doveva aver sferrato un pugno con il dito ripiegato nel palmo della mano. Gojo aveva silenziosamente tirato fuori il cellulare e con un lampo di flash aveva immortalato quella scena. «Vuoi raccontarmi un po’ che hai combinato?»
Il bimbo aveva risposto che non erano affaracci suoi e Gojo non aveva insistito.
“Dopotutto, non sono mica il padre del marmocchio!”.
Ma poi, quando il piccolo si era rimesso in piedi e aveva raccolto le sue cose per tornare a casa, si era accorto di un leggero zoppicare.
«Di questo passo, non per fare battute, non arriverai a casa».
Aveva sospirato, gli aveva sfilato la cartella dalle spalle e l’aveva afferrato per il colletto della giacca, sollevandolo di peso senza dargli modo di replicare. Trovava sempre divertente il modo in cui la gente si dimenava quando sentiva mancare il terreno sotto i piedi.
Se l’era adagiato in braccio e Megumi, le manine appoggiate sulle sue spalle per tenersi a debita distanza, non era riuscito a respingerlo in alcun modo, non coperto di lividi e dolorante com’era.
Immerso nei suoi pensieri, Gojo nemmeno aveva sentito i suoi strepiti: “Forse non si sarebbe ridotto così se suo padre, con tutta la forza bruta e i muscoli che si ritrovava, avesse fatto almeno la fatica di insegnargli a tirare un pugno”. Anche se, a rifletterci, forse era stato giusto così: “Un papà non dovrebbe insegnare queste cose ad un figlio, giusto? Dovrei… farlo io? Solo in quanto futuro stregone, ovviamente: imparare il corpo e corpo è importante ma lui è ancora troppo piccolo. Ma… se capitasse di nuovo e si facesse ancora male?”
I bambini, in linea generale, erano sempre pieni di energia ma una giornata del genere, soprattutto se coronata da una scazzottata, sarebbe stata sfiancante per chiunque: le lamentele, infatti, si erano affievolite relativamente in fretta. I borbottii erano andati avanti ancora qualche minuto ma, una volta riconosciuta la sconfitta, Megumi si era ridotto al silenzio e la stanchezza si era impossessata delle sue membra, solleticata dall’andatura cadenzata di Gojo.
Quando ormai erano a pochi minuti da casa, lo stregone aveva sentito la testolina del bambino abbandonarsi sulla sua spalla. Per un attimo aveva pensato di dargli una scrollata e svegliarlo ma quando aveva sentito il suo respiro stanco e pesante contro il collo aveva desistito. Invece di lasciarlo sull’ingresso per concedergli l’autonomia di entrare in casa propria (e di sbattergli la porta in faccia come faceva spesso e volentieri) aveva varcato la soglia e lo aveva messo a letto. Si era premurato che non si fosse rotto il pollice e aveva approfittato della sua sonnolenza per medicarlo alla buona, riempiendolo di cerotti colorati anche dove non era necessario prima di rimboccargli le coperte.
“Regola n° ?? del “Manuale per babysitter single firmato Gojo Satoru”: avere sempre a portata di mano almeno tre pacchi di cerotti. INDISPENSABILI!”.
Prima di andarsene, per la prima volta gli aveva accarezzato i capelli con gentilezza e affetto.
Era stato grazie a quei cerotti che aveva scoperto quanto gli piacessero gli animali: la mattina dopo, tra un insulto e l’altro, Megumi si era strappato dal viso, dalle braccia e dalle gambe cerotti rossi, rosa, gialli, blu e con le macchinine, ma aveva risparmiato proprio quelli con su disegnati gli animali.
Prestandogli più attenzione, nel corso del tempo si era reso conto che a Megumi piacevano tutti gli animali, conigli, serpenti o cani lupi che fossero. La prima volta che aveva visto un sorriso deformare il visetto del bimbo era stata proprio una sera che lo aveva trovato a saltellare nell’erba imitando le ranocchie che avevano invaso il cortile sotto casa. Ranocchie che aveva raccolto, accarezzato e che aveva provato, invano, a far apprezzare anche a Tsumiki.
Quella era stata la prima volta che, guardandolo, aveva visto per davvero un bambino.
Non un orfano arrabbiato, non un futuro stregone attorniato da ombre. Solo un bambino.
Quella sera un’altra foto scattata a tradimento aveva fatto capolino nella galleria del suo cellulare.
Sorrise a quel ricordo. Finì di bere il suo milkshake ed entrò a scuola.
 

 
*

 
Megumi non aveva aperto bocca per tutto il tempo che erano rimasti nell’ufficio del preside e ancora in quel momento camminava silenziosamente al suo fianco con lo sguardo basso.
«Vuoi parlarne?»
«Non proprio».
Una delle regole era che era meglio non forzare una conversazione se Megumi non se la sentiva. Monitorare sì, costringere no. Non sarebbe servito a niente ma, al contrario, lo avrebbe fatto chiudere ancora di più in sé stesso. Megumi era silenzioso ma non sempre il suo mutismo era segno di malessere: si dovevano riconoscere i segnali e, semplicemente, rispettare i suoi tempi.
Questo non significava, comunque, sfuggire al confronto: se preso per il verso giusto, anche poche sillabe potevano essere esaustive.
Il suo manuale era diventato un po’ troppo specifico, a pensarci bene.
«Volevi fare colpo su quella ragazza?», la prese alla larga, con il sorriso sulle labbra.
A quanto pareva la lite era cominciata quando alcuni ragazzi avevano preso a tormentare una compagna di classe per non avergli permesso di copiare i suoi compiti. La lite era finita una decina di minuti dopo con Megumi che, trionfante, aveva preso posto su un trono umano di studenti che, la prossima volta, ci avrebbero pensato due volte prima di prendersela con qualcuno. Insolita, persino per lui, tutta quella rabbia.
Quanto meno aveva imparato come farsi valere: a parte una manica della divisa scolastica leggermente strappata, l’unico segno evidente del fatto che aveva riempito di botte i bulletti della scuola erano le sue nocche arrossate.
Megumi alzò gli occhi al cielo: «Non mi interessano le ragazze».
«Oh, beh… quello è un altro tipo di discorso, allora», gli diede di gomito.
«Non intendevo quello».
«Sicuro?»
Il ragazzo scrollò le spalle: «Non mi interessa». Dopo alcuni attimi di silenzio decise che valeva la pena elaborare: «Insomma, ragazzi o ragazze: non ho particolari preferenze».
Gojo sorrise: un gran bel passo avanti se ripensava a quando bastava chiedergli come stava per sentirsi mandare a quel paese.
Un bel passo avanti se ripensava a quando gli aveva insegnato come evocare i suoi primi shikigami e, imbarazzato degli iniziali insuccessi, lui lo aveva spintonato perché non gli stesse troppo addosso.
Un ulteriore passo avanti rispetto a quel pomeriggio in cui, mentre Megumi faceva i compiti, aveva provato ad indagare se, in quei primi mesi di scuola, si fosse ambientato.
Aveva preso una penna dal suo astuccio e aveva iniziato a giocarci battendola ritmicamente sul tavolo. «Ti sei fatto qualche amico?».
Il ragazzino, infastidito, gliela aveva strappata di mano e lanciata sul divano per allontanarla dalle sue grinfie: «Perché questa domanda?».
Privato della penna, Gojo aveva dirottato la propria attenzione su un righello. «Beh, sai, hai passato le elementari solo in compagnia dei tuoi Cani di Giada».
Anche il righello era subito finito a fare compagnia alla penna, sul divano. «E cosa c’è di male?».
L’astuccio sempre più vuoto, Gojo aveva preso un pennarello e aveva scarabocchiato un disegnino in un angolo dell’eserciziario dello studente. «Non sarebbe male se lasciassi un po’ da parte i tuoi amici a quattro zampe».
«Gli animali sono molto più genuini delle persone».
«Forse, ma-», anche il pennarello, insieme all’eserciziario, avevano raggiunto in volo il divano.
«Si può sapere perché ti importa se ho degli amici?»
Alle strette, aveva rubato l’ultimo oggetto rimasto sul tavolo: una gomma, con la quale aveva preso a cancellargli per dispetto i compiti di matematica appena svolti. «Così. Mi sono semplicemente chiesto se con quel brutto caratteraccio che ti ritrovi fossi riuscito a trovare qualcuno che ti sopportasse».
Megumi gli aveva strappato anche la gomma ma aveva aspettato prima di farle percorrere la medesima traiettoria. Invece la aveva tenuta in mano, osservandola mentre rifletteva su come rispondere.
«Non ho trovato nessuno al quale avvicinarmi…».
«Potresti iscriverti a qualche club».
«Non devo già allenarmi per diventare stregone?», gli aveva scoccato un’occhiata annoiata ma Gojo aveva capito che il suo addestramento era parte del motivo per cui era restio a stringere amicizia: nessun ragazzo normale avrebbe potuto essere reso partecipe di quella parte della sua vita. E allora a che serviva avere “amici” con i quali non poteva essere sé stesso?
«Nulla ti vieta di fare entrambe le cose».
«E nulla ti vieta di farti i fatti tuoi».
Gojo aveva ridacchiato di fronte alla poca convinzione di quell’ultima frase. «Non c’è mica niente di male ad essere selettivi. E poi, non tutti possono essere l’anima della festa e osannati dal mondo come me».
«A dire il vero la signorina Utahime ti odia».
«Ma se mi ama!».
«Anche il signor Nanami non ti sopporta».
«In realtà mi ama anche lui. Insomma, guardami: sono favoloso! Ma comunque, Nanami è più piccolo di me: perché chiami lui “signore” e me no? Allora?»
E tanto aveva fatto e tanto aveva detto che Megumi aveva dovuto sbatterlo fuori di casa per poter concludere i compiti per il giorno successivo.
Questa volta, tuttavia, Gojo sapeva che non sarebbe finita con l’ennesima porta in faccia: «Volevi fare colpo su qualcuno?», tornò a domandare.
«Sarebbe un modo idiota di “fare colpo”».
«Beh, se fossi stato quella ragazzina e un ragazzo mi fosse venuto a salvare, allora-»
«Non l’ho fatto per lei! Però se lo meritavano».
«Cosa c’è di diverso questa volta?».
Perché c’era qualcosa di diverso nello sguardo di Megumi. Lo aveva capito con una sola occhiata, nel momento stesso in cui era entrato nell’ufficio della preside. Ci doveva essere un motivo se si era sfogato in quel modo esagerato.
Gojo aveva impiegato fin troppo tempo per studiare come esasperarlo senza oltrepassare il limite. Adesso che aveva quattordici anni non si sarebbe fatto prendere in braccio né rimboccare le coperte né tantomeno ricoprire di cerotti.
Fu con consapevolezza che gli appoggiò una mano sul capo: «Ehi, non ignorarmi».
Ormai il ragazzo aveva rinunciato a inveire contro di lui quando gli scompigliava i capelli: solo quando erano in compagnia si sottraeva ancora, nascondendo il viso come tutti i teenager messi in imbarazzo dai propri genitori.
«Ero già arrabbiato, tutto qui».
Le dita fra i suoi capelli gli lasciarono una carezza, invitandolo silenziosamente ad approfondire.
«Mi avevi detto… che quando avessi voluto sapere qualcosa di mio padre avrei potuto chiedertelo».
Gojo annuì: glielo aveva promesso… ma come avrebbe affrontato l’argomento ora, dopo tutto quel tempo? Certo, magari non nello stesso modo in cui stava per farlo al loro primo incontro. «Cosa vuoi sapere?»
«Non me lo ricordo più».
«Quello che volevi sapere di lui?»
«No… lui. È che… oggi mi sono reso conto che non ricordo più il suo viso», mormorò.
A Gojo non sfuggì il modo in cui, la fronte corrucciata, Megumi si portò una mano al viso, sfiorandosi un angolo della bocca: che l’ultimo suo ricordo, forse inconsapevole, di Toji fosse solo la cicatrice in quel medesimo punto?
Fece scivolare la mano dalla testa alle sue spalle. «La mia era una promessa: puoi chiedermi quello che vuoi».
Megumi esitò a lungo prima di rispondere. «No, non mi importa».
Lo aveva detto anche al loro primo incontro, tanti anni prima, forse per apparire più grande o forse per nascondere le proprie insicurezze di fronte ad uno sconosciuto.
Gojo, all’epoca, non se ne era curato: non era il più empatico degli stregoni e certo ben poco gli interessava dei sentimenti del figlio dell’uomo che aveva spedito all’altro mondo Riko e quasi mandato lui e Suguru a farle compagnia.
Affezionarsi a lui non era mai stato nei suoi piani… né arrivare a volergli bene.
Aprì la bocca per rispondere ma Megumi lo anticipò: «Andiamo a fare la spesa per la cena?».
Non poteva affermare di conoscere fino in fondo cosa provasse ma sapeva che l’adolescenza era un periodo critico. Forse quella rissa era stata solo una scusa, un espediente; quella rabbia repentina e drammatica – in fondo non poi così strana – doveva essergli servita per esorcizzare l’intreccio di interrogativi, aspettative e sentimenti contrastanti che gli frullavano per la testa.
«No, non mi importa».
Questa volta, Satoru ci credette: non stava cercando di mostrarsi più forte e coraggioso di quanto non fosse e forse si era anche sentito in colpa nel rendersi conto che davvero, dopo tutto quel tempo, non gli importava nulla del suo vero padre.
Ma, ora che la nebbia si era diradata, anche il suo tono di voce gli sembrò più leggero.
«Certo!», esclamò. «Ehi! Mi è appena venuta un’idea fantastica: perché non ceniamo con-»
«Il gelato non è una cena».
«Che guastafeste che sei!»
«Qualcuno dovrà pure fare l’adulto».
Gli fece il verso, poi tirò fuori il cellulare e chiese aiuto a internet. «Abbiamo del mirin a casa?»
«Mi sembra di sì».
«Potremmo preparare dello shogayaki».
«Allo zenzero?»
Sorrise.
“Regola n°… chi lo sa – ormai ne aveva stilate così tante – del “Manuale per padri single firmato Gojo Satoru: i pasti sono momenti da condividere in famiglia”.
 
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Angolino autrice:
 
“Non vedi più i lineamenti, vedi l’amore. Ecco spiegata in pochissime parole l’adozione”.
 
Era da una vita che volevo tornare a scrivere in questo fandom ^^ ed era da altrettanto tempo che volevo scrivere qualcosa su Gojo e Megumi perché il loro rapporto mi fa sempre stringere il cuore ♥♥♥
In realtà non so cos’altro aggiungere. Spero che sia stata una lettura piacevole!
Ringrazio chiunque sia arrivato fin qui ^^
Alla prossima!
Un bacione!
Bea
  
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