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Autore: Chevalier1    01/11/2023    6 recensioni
«Compirai dodici anni questa notte, Oscar François: d’ora in poi questa spada sarà la tua spada, portala con onore e con il rispetto che si deve a un’arma capace di difendere e di offendere».
Oscar abbassò le lunghe ciglia sugli occhi azzurri incerta se essere orgogliosa o intimidita da quell’investitura che, lo capiva, segnava la fine dell’infanzia.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, André Grandier, Generale Jarjayes, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Oscar François entrò nel salone addobbato a festa nella casa paterna come si conveniva alla doppia solennità del Natale e del suo compleanno. Le due sorelle più grandi erano tornate a palazzo per l’occasione con i mariti, la maggiore in uno stato avanzato di gravidanza, le altre tre avevano lasciato il collegio per trascorrere in famiglia i giorni festivi e avevano avuto il permesso di aggiungere un cerchio alla gonna [1] . L’eleganza degli abiti di tutti rimandava a un momento giudicato importante, così come la tavola finemente apparecchiata con le suppellettili più preziose del palazzo e le stoviglie con lo stemma di famiglia.

Oscar diede l’ultimo controllo alle scarpe lucide, sapeva che il generale, suo padre, aveva un’avversione per il disordine, e poi alzando lo sguardo davanti a sé si rese conto di essere l’ultima ad arrivare: il resto della famiglia sembrava schierato ad attenderla come se il padre avesse organizzato tutto per metterla in condizioni di percorrere da sola, fasciata nel suo austero completo di velluto color della notte rifinito di broccato argentato, il lato lungo dello stretto tappeto orientale, in cima al quale il Generale Jarjayes l’attendeva reggendo con entrambe le mani, in orizzontale in una posa che aveva qualcosa di solenne, quella che Oscar avvicinandosi riconobbe come una delle spade più preziose della collezione che faceva bella mostra di sé nella sala delle armi che con la biblioteca rifletteva l’orgoglio del padre, le sue passioni, la sua raffinata cultura. Non un’arma da allenamento, ma un’arma vera dotata di filo e di punta.

Quando la ragazza che egli continuava a chiamare figlio giunse al cospetto del padre il generale prese a parlare, mentre le fiammelle del lampadario di cristallo, accese a una a una per l’occasione dalla servitù, mandavano bagliori che si riflettevano sulla filigrana oro e argento della coccia lucidata di fresco.

«Compirai dodici anni questa notte, Oscar François: d’ora in poi questa spada sarà la tua spada, portala con onore e con il rispetto che si deve a un’arma capace di difendere e di offendere».

Oscar abbassò le lunghe ciglia sugli occhi azzurri incerta se essere orgogliosa o intimidita da quell’investitura che, lo capiva, segnava la fine dell’infanzia.

Il Generale si chinò verso di lei esile e ancora molto più piccola di lui e le allacciò l’arma al fianco sinistro.

Dopodiché invitò la famiglia a un brindisi augurale e guidò tutti verso la tavola imbandita. Oscar, pur facendo del suo meglio per nasconderlo, di quella festa avvertiva soprattutto il peso per quanto ancora indefinito. Capiva che il padre di lì in poi avrebbe fatto sul serio più di quanto non avesse fatto fin lì.

Già da un paio d’anni l’addestramento si era fatto più duro: in quello che era un rito da quando era piccola, il sabato mattina il generale misurava di persona in vario modo i progressi di “suo figlio” affidato ai migliori maestri, scelti tra i più severi.

Le interrogazioni teoriche in svariate materie che andavano dall’uso delle armi alla strategia militare si erano fatte più esigenti e le incertezze meno tollerate, tanto che più di una volta già si era trovata a studiare la notte al lume di candela, temendo il padre più dei precettori, del maestro d’armi e più di quanto negli anni a venire avrebbe temuto gli esami in Accademia.

Si ricordò di quante volte nei duelli con la spada d’allenamento in tempi recenti si era trovata a fronteggiare un contrattacco inatteso quando tutto sembrava finito, a tradimento, perché imparasse a non abbassare mai la guardia.

Tutto da un po’ di tempo si era tradotto in lezione di vita, come la volta in cui stanca ormai di perdere una partita a scacchi dietro l’altra, un altro dei giochi in cui il padre allenava l’intelligenza strategica del futuro ufficiale, aveva provato a barare. Mai avrebbe dimenticato lo sguardo di disprezzo del padre, la voce gelida, appena elevata di un tono, con cui le aveva ricordato che la lealtà era la prima qualità che si chiedeva a un cavaliere degno di rispetto: «Posso accettare Oscar che mio figlio perda con onore, perché anche a un cavaliere di valore questo può accadere, ma ricordati che non accetterò mai di aver cresciuto dentro la mia casa un seguace di Gano di Maganza: il tradimento è un’onta che non perdonerò, dovesse costarmi la vita. Ricordatelo Oscar».

Senza aggiungere altro, in un silenzio carico di delusione, aveva riposto i pezzi, segno che considerava la partita terminata per diserzione, lasciando al centro della scacchiera un pedone, solo e umiliato sotto lo sguardo del re, come sua figlia rimasta a trattenere il respiro con il battito del cuore a risonarle fin dentro le tempie mentre i passi del padre si allontanavano sul parquet.

Si ricordò della paura provata la prima volta in cui l’aveva lasciata sola senza bussola a imparare orientarsi nel bosco della tenuta di famiglia, servendosi dei segni lasciati dalla natura, fucile in spalla casomai si fosse fatto avanti un cinghiale, con i sensi in stato d'allerta a trasalire a ogni minimo rumore: una prova da cui era tornata tardissimo, infreddolita e affamata, lacera per i rovi al capanno di caccia dove il padre si era fermato ad aspettarla, consapevole della difficoltà del compito assegnato, memore della stessa fatica subita da giovane a suo tempo.

Tante volte nel corso dell’ultimo inverno, l’aveva svegliata prima dell’alba senza preavviso, per insegnarle a resistere al freddo e alla fatica delle ronde di notte e alle veglie prolungate.

Oscar pensava a tutte queste cose sentendosi al fianco quella spada, della cui bellezza subiva il fascino appreso in biblioteca nello sfogliare con il padre la collezione dei libri rari d’arte militare che si arricchiva continuamente di nuove acquisizioni dal mondo, con un misto di orgoglio e di apprensione. Si rendeva conto che portare al fianco un pezzo pregiato della collezione d’armi di una famiglia d’antica nobiltà di spada significava portarne anche la responsabilità ed era ormai abbastanza grande per domandarsi quanto potesse pesare sulle sue spalle ancora esili che gli abiti maschili camuffavano ancora benissimo trasformandola egregiamente in un ragazzino solo un poco più acerbo della sua età reale.

Lo stesso orgoglio della famiglia che si godeva la festa in suo onore finiva per farla sentire al centro dell’attenzione in un modo che le parve prevaricare le sue forze. Con la scusa di un’esigenza impellente uscì dalla sala. Nascondendo, nella distrazione generale, un dolcetto in un tovagliolo corse in cucina dove sapeva che avrebbe trovato André che cenava da solo al tavolaccio mentre la servitù era impegnata in sala. Lo prese per le spalle spaventandolo e gli lasciò scivolare in mano la pasta con le mandorle e la ciliegina candita che aveva sottratto alla sua festa: «Oscar!», la rimproverò divertito, «che ci fai qui?! Non vorrai farti punire anche questa sera?».

Lei lo guardò seria, indicandogli con lo sguardo la spada avuta in dono: «No, no, tranquillo, torno subito di sopra. Volevo solo cinque minuti per me, prima che tutto quello che mi aspetta risucchi il resto della mia vita. Ho paura, André, anche se non è una confessione che si possa permettere un futuro ufficiale. Tu non dirlo a nessuno, ma sappilo almeno tu, così quando verrò a nascondermi da tutto e da tutti tu saprai il perché. Promettimi che, almeno tu, mi concederai uno spazio di verità in cui potrò essere soltanto quello che a volte ancora sono e nessuno più mi permette di essere: una ragazzina spaventata».

Il ragazzo, che un anno più grande si era irrobustito e ora la sovrastava di diversi centimetri, l’abbracciò con il fare guascone e scherzoso che avrebbe usato con un fratello minore, per incoraggiarla senza metterla in imbarazzo. Ancora non sapeva che pochi minuti dopo si sarebbe trovato per la prima volta a fronteggiare il turbamento emotivo che quel contatto gli avrebbe lasciato: «Non dirlo neanche per scherzo: tu sei una ragazza coraggiosissima e arriverai dove nessuna è mai arrivata, ma, sì, te lo prometto: qui ci sarà sempre un posto per te, sempre. Ma adesso vai, non rovinarti la festa, prima che te la rovini tuo padre».

Quando sentì quella piccola tempesta bionda chiudersi alle spalle la porta, André provò un velo di tristezza e di nostalgia, aveva capito anche lui che quella festa, cui non era ammesso e che era a suo modo un rito di passaggio, era la porta che si chiudeva sulla spensieratezza della loro infanzia. Senza sapere bene il perché si disse che in quell’abbraccio di un minuto prima avrebbe volentieri fermato il tempo.

Quando Oscar rientrò nella sala, la tavola, sgomberata, ornata al centro di un bouquet di rose bianche racchiuse in un nastro con il suo nome, era stata spostata in un angolo per far spazio all’esibizione del cembalista e alle danze, che il generale aveva avviato invitando con fare galante madame Marguerite.

Oscar dapprima sedette accanto al maestro di musica con cui si cimentò nella sonata a quattro mani in do maggiore pubblicata dal giovane Mozart due anni prima. Poi si alzò e invitò a danzare, come un perfetto cavaliere, la più giovane delle sue sorelle di un anno più grande di lei ma che Oscar con il suo corpo filiforme e scattante sovrastava già di un poco. Decise che almeno quella sera avrebbe reso suo padre orgoglioso del lavoro svolto. Avrebbe rimandato a dopo la messa di mezzanotte le preoccupazioni per il futuro.

La ragazzina che Oscar aveva di fronte, con cui non aveva confidenza, enormi occhi chiari che sembravano usciti da un dipinto di Sofonisba Anguissola, arrossì lievemente a quella riverenza che nessun cavaliere aveva mai riservato ai suoi 13 anni, ancora troppo acerbi per quel corsetto a stecche di balena, fasciati in un ricco abito di broccato dorato rifinito a pizzo candido sull’orlo delle maniche a campana e alla sommità della scollatura non ancora sfacciata. Oscar si chiese se fosse quella la modestia che le monache insegnavano alle educande, costrette e camminare nelle uscite domenicali per la messa nelle strade secondarie al fine di evitare ogni distrazione, in grigie divise a guisa di piccole novizie senza esserlo, intimidite, una volta fuori, al punto da arrossire financo all’inchino di una sorella minore, ancorché cresciuta come un cavaliere. Mentre Oscar la conduceva in quel ballo, poco spontaneo ma tecnicamente pregevole, si chiese se quella piccola dama in erba fosse ansiosa della vita contraddittoria che la voleva mondana e al centro dell’attenzione nei salotti ma moglie e madre remissiva dentro casa, o se invece avrebbe fatto volentieri cambio con lei, con i suoi pantaloni, con il suo sguardo fiero educato a guardare negli occhi chiunque.

Rivolse la stessa domanda a sé stessa e si rispose che in astratto no, non avrebbe cambiato la sua insolita sorte con quella delle ragazze cosiddette normali, anche se si rendeva conto di non aver ancora calcolato l’intero prezzo della propria strada segnata, di cui aveva conosciuto solo in parte l’onore e il sacrificio, mentre qualcosa di indefinito dentro di lei le suggeriva che lo avrebbe compreso fino in fondo soltanto il giorno in cui si fosse scoperta a desiderare di danzare con un cavaliere. Ma a 12 anni da compiere, in un corpo che aveva appena iniziato a evolvere, era una domanda che le parve di là da venire, astratta.

La lunga e paludata celebrazione della messa di mezzanotte, per Oscar abituata ad addormentarsi sui libri, sfinita dalla fatica del suo impegnativo addestramento, si rivelò superiore alle sue forze, dovette durare fatica a non lasciar crollare la testa sulla spalla del padre con il rischio di prendersi un ceffone nel bel mezzo della funzione che celebrava la nascita del Salvatore, invidiò André già sotto le coperte con una tazza di latte caldo da un bel po’.

Quando Oscar rientrò nella sua stanza il freddo della notte avvolta in una coltre di neve era penetrato ben al di sotto delle sue vesti eleganti: avrebbe pagato per un abbraccio. La luce che si consumava nella lampada a olio, ormai fioca, le aveva impedito nell’immediato di accorgersi del regalo che l’attendeva sul letto: una vestaglia da camera morbida e calda confezionata dalle mani amorevoli di nanny con legata alla cintura la spada di legno di quando lei e André erano bambini con un bigliettino: “Per quando ti viene freddo e ti torna la voglia di giocare, Nanny e André”: si disse che per quanta paura del domani avesse non si sarebbe sentita davvero sola finché c’era qualcuno che le leggeva nel pensiero così.

Si avvolse nell’abbraccio di quella stoffa soffice e cedette al sonno, sollevata dal fatto che il giorno dopo, ancora festivo, sarebbe stato un sabato meno impegnativo del consueto.

Solo qualche mese dopo avrebbe compreso appieno il valore e l’insidia del dono ricevuto quella sera: un sabato mattina di tiepida primavera mentre Oscar si stava allenando con il padre nel parco della tenuta di famiglia.

Il generale, tenendo per sé l’arma d’allenamento per la sicurezza di lei, l’aveva invitata perentoriamente a proseguire, come ormai faceva spesso, l’assalto con l’arma ricevuta la notte di Natale. Fu nel corso di una parata e risposta che la lama di lei sfiorò l'avambraccio destro del genitore.

Non se n’era accorta subito, perché il generale pur avendo avuto un sussulto insolito non si era lasciato disarmare, ma si ritrovò in preda al panico quando ne vide la manica destra con una lacerazione presto macchiata di sangue: si fermò pietrificata, il cuore a pulsarle nelle orecchie e nelle tempie incapace di reagire.

«Che fai, lì impalato, Oscar, muoviti, aiutami».

Tuonò il genitore che nel frattempo si era fermato. Il tono era fermo e imperioso ma non alterato e non concitato, non voleva che pensasse che fosse adirato per la ferita e glielo fece capire, voleva soltanto scuoterla: «in un duello vero saresti già morto o sarebbe morto dissanguato il tuo avversario se fosse una cosa seria, muoviti».

Le lanciò una piccola fiaschetta di liquore poco pregiato che teneva all’occorrenza nella tasca interna: «Sbrigati, versane un po’ sulla ferita e poi lega stretto con questo», le disse tendendole con l’altra mano il fazzoletto pulito che teneva in tasca.

«Ma farà male».

«Naturalmente farà male, ma molto meno che morire di infezione, credimi. Forza fa’ quello che ti ho chiesto».

Lo fece come un automa, con le mani un po’ tremanti, sapeva per esperienza che un’arma era fatta per ferire, le era capitato di tagliarsi un dito maneggiando un coltellino, ma mai niente che richiedesse alcun intervento serio, conosceva la sensazione fisica, ma si rendeva conto che mai fino a quel momento aveva fatto i conti, davvero, con il peso e con la responsabilità che comportava maneggiare un’arma vera e servirsene per il suo scopo: versare il sangue altrui. Ne prese coscienza in quel momento e ne provò un turbamento profondo. Scopriva a sue spese che avere nelle mani il destino degli altri era più difficile che essere responsabili del proprio.

Nel mentre videro passare lo stalliere diretto con il carro a rifornirsi di fieno in una delle case coloniche dei dintorni: «Antoine», lo fermò il Generale, «portaci per favore velocemente alla villa del dottore Lassone, all’imbocco del primo villaggio sulla strada per Parigi».

«Ma siete ferito. Salite in fretta, non sarà comodissimo, ma non c’è tempo da perdere. Che vi è successo?», chiese frustando i cavalli da tiro.

«Niente di che, incidenti del mestiere, non è una cosa seria, si risolverà presto».

Oscar mortificata si accomodò sulle assi a occhi bassi di fronte al padre, che la guardava non visto senza parlare e ne intuiva il tumulto interiore perché c’era passato alla sua età.

«Perdonatemi, padre». Sussurrò alzando lo sguardo per indovinarne l’espressione.

«Non hai niente da farti perdonare, Oscar. Hai fatto il tuo, potrei prendermela con me stesso perché mi sono distratto o perché forse ti ho sottovalutato, e invece constato che cominci a saperci fare davvero con la spada».

Ma Oscar era troppo avvilita per riconoscere quello che nelle consuetudini tutt’altro che smancerose del Generale era un complimento non da poco e per provarne lusinga.

«Fa molto male, padre?», mormorò.

«Non molto».

«Non ditemi che vi siete lasciato ferire di proposito».

«Non direi», rise il Generale, «non sono masochista fino a questo punto, ma almeno fa’ tesoro di quel che si può imparare».

Oscar abbassò lo sguardo, senza dire niente, era tesa, turbata.

Attraversata la campagna giunsero alla villa del dottore e saltarono giù: «Grazie Antoine, quando rientri a palazzo mandaci a riprendere con la carrozza».

Il dottore, amico stimatissimo di famiglia, li accolse con la bonomia consueta: «Accomodatevi Generale», gli disse indicandogli il gabinetto ancor prima di chiedere che cosa fosse accaduto: «Madamigella Oscar, per cortesia, attendete fuori».

«No, entra Oscar, assistimi». Replicò il generale con un tono vagamente militaresco.

Il dottore guardò il Generale alla cui riservatezza schiva era abituato da sempre con aria interrogativa, comprese che una lezione stava avvenendo sotto i suoi occhi e cercò di non interferire.

Lassone fece spogliare il generale fino alla cintura per poter lavorare senza intralci e ripulì la ferita: «Non è niente di grave, non cortissima ma poco profonda, qualche punto vi rimetterà a nuovo, Generale».

«Dammi un fazzoletto pulito Oscar, lo trovi nella tasca interna della marsina».

La ragazza lo tese al padre, cercando di nascondere l’ansia. Vide il generale infilarselo ripiegato tra i denti per scaricare lì la tensione e non rischiare di romperli: un gesto che negli anni avrebbe imparato a ripetere per sé.

Vide il padre resistere senza sussulti, solo la mano che stava stringendo la sua comunicava il dolore inevitabile che lo stava attraversando mentre il dottore parlava del più e del meno per distrarlo. Comprese che le stava mostrando come si comporta un ufficiale, si chiese se ne sarebbe mai stata all’altezza.

«Abbiamo quasi finito, Generale. Resistete ancora un attimo».

Il Generale si sfilò di bocca il fazzoletto: «Guarda bene quello che avviene, Oscar, perché da domani toccherà a te rifarlo».

La ragazza sgranò un attimo gli occhi in un’espressione inconsapevole comune al padre quando qualcosa li stupiva: vide il dottore versare un filo di alcol sulla sutura fresca: «So bene, Madamigella Oscar, che vostro padre gradirebbe che tamponassi subito, anziché lasciar asciugare all’aria come sto facendo, ma in questo modo è più efficace anche se più doloroso». Evaporata la sostanza alcolica, prese a fasciare la ferita mostrandole come fare perché non fosse troppo stretta ma neppure lenta.

Oscar guardava e ascoltava con il cuore che batteva.

«Potete rivestirvi, Generale, abbiamo fatto un lavoretto così preciso che non vi resterà neppure la cicatrice, potete lasciarmi un attimo solo con vostra figlia?».

«Obbedisco».

«Accomodatevi», la invitò il dottore indicandole la sedia di fronte alla scrivania e tendendole un bicchiere d’acqua.

«Grazie», rispose Oscar in un soffio, sorridendogli grata di quella premura certa che l’uomo avesse intuito la sua gola secca.

«Siete per l’ennesima volta sotto esame, ragazza mia. Ma siete una donna tosta, imparerete presto a convivere anche con quello che ora vi mette ansia. Vorrei che sapeste che è normale che accada: gestire la sofferenza altrui, o peggio infliggerla, se si è persone perbene, non è un esercizio di poco momento, anche se talvolta è uno sporco lavoro che qualcuno deve pur fare: vale nel mio mestiere e in quello che state imparando voi, anche se nel mio ruolo è più semplice, perché è più facile che lo si accetti a fin di bene. Soccorrere richiede freddezza e lucidità, anche un ufficiale deve saperlo fare per sé stesso e per altri, ma guai se imparaste con questo l’indifferenza. Dovrete trovare la giusta misura, imparare a tenere insieme distacco ed empatia: ci vorrà tempo, è una faccenda che richiede maturità e che si apprende vivendo, perché mette in gioco le persone che si è. Vostro padre vi sta chiedendo molto, ma fa bene a insegnarvi anche questo, prima che la vita s’incarichi di mettervelo sulla strada senza preavviso. Tra l’altro potrebbe tornarvi molto utile anche in frangenti comuni: sapete quanti incidenti domestici finiscono male perché i presenti non sanno come agire e intervengono in modo inappropriato? Non è un uomo semplice, vostro padre, ma sono certo che non vi addosserebbe mai una croce che non fosse sicuro che possiate portare. Da domani fate quello che avete visto fare a me alla fine, ogni mattina per una settimana, poi tornate da me e vi renderò vostro padre come nuovo. Non angustiatevi per quella ferita che avete involontariamente provocato, se farete quello che vi ho detto non avrà conseguenza alcuna, non è nulla di grave: chiuderla è stato necessario, ma serve soprattutto a guarirla presto e a evitare che lasci un inutile bruttissimo segno».

Un poco esitante Oscar osò la domanda che le urgeva: «Voi conoscete da sempre mio padre, pensate che ce l’abbia con me? Ha reagito in modo strano: è stato brusco ma non adirato come pensavo...».

«No, non ce l’ha affatto con voi e sono convinto che sappia che cosa state provando. Ma sa anche benissimo che non gli è accaduto niente di che e ha certo sopportato di peggio nella vita, non è tipo che si scomponga per questa piccola cosa. Credo che abbia semplicemente colto l’occasione per insegnarvi qualcosa di utile, anche se come sempre lo ha fatto senza convenevoli, buttandovi nell’acqua a cavarvela. È faticoso imparare a nuotare nella vita in questo modo, richiede prontezza di spirito, ma ha il vantaggio di non darvi il tempo di avvitarvi in ansie preventive», rise il dottore, «e se, a un certo punto, non vi andasse proprio di fare l’ufficiale prima di tornare a far la civetta per i salotti venite a trovarmi, magari scopriamo che avete la stoffa per fare il medico».

«Meglio che far la dama sicuro, ma mi sa che mi viene meglio fare il soldato». Rise lei di rimando rinfrancata.

«Così vi voglio. Può darsi che abbiate ragione, ma in entrambi i casi servono lucidità e pragmatismo, coltivàteli».

«Grazie, dottore».

Lassone le cedette il passo in corridoio dove li attendeva il Generale, cui non dispiaceva che il dottore si accollasse la parte di spiegazioni che a lui veniva difficile, abituato com’era a dare ordini più che a persuadere: «Vi aspetto entrambi tra una settimana, come state Generale?».

«Meglio che nelle vostre mani, dottore».

Una risata sciolse tutti e tre.

Sulla carrozza del ritorno l’aria era più distesa, ma Oscar continuava a sentirsi sulle spine.

«Sentite dolore, padre?».

«Poco e quel poco passerà nel giro di qualche giorno. Ti aspetto domattina alle 9 nel mio studio». «Bene padre».

Oscar François de Jarjayes quella notte dormì male, il compito che le era stato affidato dava più ansia a lei che a suo padre cui pure toccava la scomoda parte della cavia. Ripensò al sentimento indefinito di infanzia finita che aveva provato ricevendo la spada la notte di Natale: sentirsi il sangue altrui sulle mani le diede la misura della responsabilità che sarebbe gravata su di lei il giorno in cui avesse assunto il primo incarico vero. Calcolò che due anni facevano presto a passare e si sentì piccolissima.

Al rintocco delle nove bussò allo studio del padre come convenuto. Trovò il padre seduto, in abito da casa, alla scrivania, spalle alla vetrata che dava sul parco, con un libro davanti. Sembrava molto tranquillo, di gran lunga più di lei che avrebbe voluto nascondergli la tensione benché sapesse che il padre le leggeva nel cuore meglio che nelle pagine che teneva aperte davanti.

«Vieni Oscar, chiudi la porta. Nel primo armadietto a destra sotto il primo scaffale della libreria troverai una scatola, la tengo sempre lì a portata di mano, nella casa di un Generale è necessario: al suo interno troverai quanto ti serve».

La ragazza aprì l’anta e la scatola: conteneva un assortimento di garze e bende pulite e una bottiglia di liquore privo di pregio ma piuttosto forte. Prese quanto serviva e si avvicinò titubante alla scrivania.

«Stai tranquillo Oscar», la incoraggiò il Generale slacciandosi la manica destra, «non è un compito difficile. Ti insegnerò come fare e non c’è nulla che potrai sbagliare. Anche questo fa parte dell’addestramento».



[1] Omaggio all’Amica di nonna Speranza di Guido Gozzano.

   
 
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