Non scrivo neanche troppo spesso fanfic introspettive, perché di solito mi piace qualcosa di più "movimentato", diciamo così, ma questa volta ho voluto invece insistere sull'analisi introspettiva di quello che PER ME sarebbe uno sviluppo dei personaggi coerente con le loro caratterizzazioni, e poi scrivere delle pare mentali di Idia è stato molto divertente lo ammetto.
Questa fic è ambientata ipoteticamente tra il capitolo 6 e il capitolo 7 della main story, una sorta di spin off dopo che Idia e Ortho e company sono tornati a scuola.
C'è anche una versione più integrale e più nsfw nel caso qualcuno desideri leggerla (.) Si trova su un altro sito, nel caso mandatemi un dm <3
Enjoy <3
Idia camminava, strisciando le scarpe sulle lastre piatte di pietra del corridoio esterno – quasi addossato al muro, così da non venir neppure sfiorato dalla luce del tardo pomeriggio, che disegnava gli archi e le colonne di marmo in una dimensione orizzontale. Si era attardato apposta per avere quanto più spazio possibile, e quanto più silenzio possibile: dopo le lezioni pomeridiane, tutti gli alunni della scuola erano occupati nelle varie attività dei club, qualcuno intento a studiare.
Un professore aveva lasciato aperta la porta di un’aula, Idia vide la scrivania piena di fogli e pergamene magiche, una boccetta di inchiostro che svolazzava nel vuoto come senza peso. Proseguì, per svoltare a un angolo e inoltrarsi all’interno dell’edificio. Un leggero soffio di vento lo accompagnò per alcuni metri e gli spettinò i capelli già terribili, coprendogli l’altra metà del viso. Un paio di studenti gli passò accanto, ma non parve neanche accorgersi della sua presenza; avevano una coccarda rosso acceso al braccio, l’aspetto rilassato di chi si permetteva di nuovo di sorridere e ridere, dopo una brutta disavventura.
E il suo senso di colpa svanì in fretta, appena arrivò alle macchinette delle merendine e si accorse che c’era ancora la sua barretta preferita: solo due, che avrebbe mangiato lui nel tragitto fino al club.
Indugiò prima di cliccare il numero giusto sul display, la mente affollata da mille pensieri. La normalità aveva un gusto diverso che non sapeva più di abitudine, e benché la quiete e la solitudine continuassero a piacergli, c’era una strana sensazione che gli rimaneva appiccicata alla pelle e alla coscienza, come un disagio perenne. Anche stringersi nella propria felpa, non cambiò niente.
Allora guardò dietro di sé, ma Ortho non c’era neanche quella volta. Corrugò la fronte in un’espressione contrariata – il bip della macchinetta lo colse impreparato, ma si piegò subito a raccogliere dal cesto il suo spuntino.
La barretta finì nel suo stomaco in due morsi, non vi fu traccia di alcun sapore sulla sua lingua e questo lo intristì di più. Gustarsi la seconda barretta fu più un esercizio mentale che un vero e proprio piacere, e il suo umore gli strinse lo stomaco a tal punto che qualcosa tra intestino e fegato gorgogliò in dissenso, senza dargli alcuna soddisfazione. Digrignò i denti appuntiti tra di loro, con un rumore che assomigliava a quello di lamine di metallo.
Neppure la presenza del suo tablet volante riuscì in qualche modo a rassicurarlo.
Un’ombra, alla finestra, gli fece alzare lo sguardo di scatto: un ragazzino con la sua scopa volante si era avvicinato all’edificio, faceva dei cerchi in aria assistito da un secondo ragazzino fermo a qualche metro di distanza. SI allontanarono in fretta, inseguendo il loro disco volante.
La consapevolezza di essere davvero, davvero solo, lo colpì appieno, di nuovo. Ma non era solo quello, se ne rese conto pensandoci: si era spesso trovato solo, e non era la solitudine a pesargli. Era la mancanza di qualcosa di più essenziale.
Riprese a camminare, ancora più all’interno dell’edificio. Pochi portoni più in là, e il suo club era già aperto. Azul non c’era, lo aveva avvisato che quel giorno avrebbe fatto tardi, assieme agli altri studenti di Octavinelle, a causa di una riunione di Dormitorio assolutamente indispensabile.
Dovevano cambiare il menù al mostro, a quanto gli aveva detto Floyd Leech, ma Idia non ne capiva davvero l’importanza. Alzò le spalle e sbuffò, entrando solo nell’aula deserta.
Come Presidente del club, aveva pure il diritto di scegliere a cosa avrebbero giocato tutti, appena arrivati. Si avvicinò al mobiletto dei giochi, ma più guardava i titoli più il suo malumore si acuiva, perché niente riusciva a destare in lui la benché minima voglia di fare qualcosa.
Si alzò sbuffando, gli occhi che andavano in ogni dove alla ricerca di qualcosa, di qualunque cosa che potesse calmare la sua agitazione. E la vide, la scacchiera dove l’ultima partita con Azul si era interrotta, prima che tutti quanti fossero portati alla base sotto l’oceano.
«Era il mio turno.»
Così lo aveva salutato il polpo, sul baratro dell’inferno. Ovviamente, non era vero, e Idia lo sapeva bene, ma in quel preciso momento la scacchiera era vuota e le pedine riposte al proprio posto: dopo l’attacco dei suoi agenti, il club e molte altre aule erano state ricostruite da zero, rimodernate al meglio con i soldi della sua famiglia.
Aprì la confezione delle pedine e accarezzò con i polpastrelli la cupola tonda della torre, con uno strano senso di nostalgia. Ricordava la scacchiera a memoria, perché aveva percorso la strategia vincente mille volte e più: prese le pedine una a una, e ricostruì la partita così come si era interrotta.
Per un istante, fu catapultato in un tempo perduto, dove tutto era ancora come doveva essere, dove lui non era altro che uno studente come gli altri, dove doveva solo preoccuparsi di non avvicinarsi troppo alle persone, andava tutto bene.
Il destino era cambiato senza che lui lo volesse e il suo nascondiglio era stato scoperto, strisciare contro i muri era un’abitudine ormai priva di senso perché sapevano benissimo chi fosse Idia Shroud. Chi fosse lui, e cosa facesse quando era lontano dai loro sguardi.
Si rese conto di non capire se amasse o odiasse quel tempo passato. Un tempo immobile, come ritrovarsi morto in una tomba, ma verso il quale provava un’irrefrenabile nostalgia: c’era una fiamma di piacere, anche nell’oblio, un benessere che si era costruito nel trauma con le proprie sole forze, e che lo aveva fatto sopravvivere per cinque anni.
Era stato strappato da quella tomba e catapultato all’esterno, eppure quella fiamma non si era separata da lui e non l’aveva lasciato solo.
Davvero, non era una solitudine qualunque a dargli dolore, e allora si chiese cosa fosse.
Un vociare allegro gli fece alzare gli occhi verso l’entrata del club: i ragazzi del primo anno erano finalmente giunti, seguiti da Azul Ashengrotto.
«Buongiorno, Idia-san-» Non gli sfuggì la scacchiera, e non nascose il proprio sorriso soddisfatto. «Sei di buon umore, oggi?»
Ecco, quell’attenzione ai dettagli rendeva Azul un vero animale: sempre allerta, sempre sulla difensiva, sempre in grado di cogliere il minimo cambiamento. Gli piaceva quell’aspetto di Azul, perché in qualche modo lo faceva sentire al centro della sua attenzione. Azul aveva sempre saputo quali fossero i suoi limiti, e che non li varcasse neppure in un momento dove aveva il pieno potere di fargli del male emotivamente, lo mise a proprio agio.
Sorrise, per la prima volta dopo giorni, e si sedette al tavolo della scacchiera. Il polpo lo raggiunse subito.
«È il mio turno, giusto?»
«Non ci pensare neppure, Azul! Tocca a me!»
Toccava ad Azul, in realtà: era palese alla prima occhiata.
Il polpo ridacchiò mentre Idia scosse la testa, in una cascata di capelli vispi. I ragazzi del club si erano tutti seduti ormai, e il vociare si era quietato abbastanza. Tutto tornato come prima.
Tutto, tranne una cosa.
«Ortho-san è al club di cinema, giusto?»
«Sì, Vil-shi gli sta insegnando cose strane.»
«A recitare? Non è una cosa strana.»
Bofonchiò, ma non disse nulla. Azul mosse il proprio cavallo, mossa stupida – Idia lo mangiò subito, e poi toccò di nuovo la propria torre con le dita.
Furono quelle parole a distrarlo abbastanza, finalmente si rese conto di quello che stava accadendo. Eppure, erano ormai giorni che suo fratello dormiva nella propria stanza e frequentava lezioni del primo anno, ma benché Idia fosse sempre stato capace di razionalizzare tutto, non ci era mai riuscito davvero con i propri sentimenti.
Allora alzò ancora gli occhi accanto a sé, e non lo vide neppure quella volta: si sentiva solo, perché non c’era Ortho con lui. E quel senso di solitudine ebbe finalmente il nome che meritava, e il posto giusto nel suo cuore.
Desiderava vederlo.
Si distese nel letto, schiena contro il materasso e faccia rivolta verso il soffitto alto. Lo faceva ormai da quasi un mese, ma si concesse ancora una volta di toccare, piano, le coperte che avvolgevano il suo giaciglio.
I suoi polpastrelli erano dotati di sensori tattili, perché suo fratello aveva sempre ritenuto necessario che potesse sentire il caldo e il freddo, il morbido e il duro, il sottile e lo stesso, per aiutare la scansione visiva con altri elementi, che aiutassero a prognosticare determinati problemi con precisione. I suoi occhi potevano rilevare tante cose, ma non arrivavano a calcolare la densità di un materiale o la tensione della pelle – cose che potevano determinare la presenza di un malanno piuttosto che un altro.
Di certo, a Ortho piaceva molto aiutare le persone, e guarire i loro malanni con le informazioni e il sapere in suo possesso. Mai avrebbe immaginato che il tatto potesse dargli quel tipo di piacere, in momenti intimi e solitari.
Non aveva neanche mai dormito disteso, d’altronde, e il senso di novità volteggiava attraverso i suoi circuiti cerebrali, tra la novità e la sorpresa. Sembrava quasi un bambino vero, scherzò tra sé e sé, e il pensiero fu catalogato come ironia, come piacere, come ragione per cui ridere.
Il silenzio attorno a lui portò altre sensazioni con sé. Ignihyde era quieta, ma solo in apparenza: il buio e la notte abbassavano i suoni, ma non addormentavano la vita. E lui, attraverso i circuiti, poteva benissimo vederli.
Gli schermi accesi degli studenti del Dormitorio, le lampade da notte che irradiavano luce in coni piccoli, racchiusi attorno a console e videogiochi, schermi opalescenti che vibravano ondeggiando in aria, per la miglior tecnologia possibile.
Anche se uno di loro avesse urlato, le pareti insonorizzate avrebbero reso taciuti gli schiamazzi – proprio perché ognuno era immerso nel proprio mondo speciale, nessuno aveva il diritto di interferire con il privato degli altri, o di interromperlo e disturbarlo: era una regola di Ignihyde, dopotutto.
Un pensiero catalogato come benessere attraversò la sua coscienza, e i filamenti che avvolgevano la sua museruola e il suo capo divennero più luminosi di conseguenza. Sotto la maschera di ferro, la reazione delle sue labbra fu quella di alzare gli angoli, entrambi, scavando un poco nelle guance morbide e delicate.
Quello era familiare, e rassicurante. Eppure, mancava un suono principale, ancora.
Sapeva perfettamente cosa fosse l’abitudine, per gli esseri umani. Un processo neurale, una piega del cervello dove ormoni e intenzioni e flussi di neurotrasmettitori passavano con più facilità, risparmiando all’intero organismo una fatica inutile. E Ortho aveva controllato più volte, se ci fosse una piega nei propri circuiti: nessuna delle sue spine presentava un’anomalia strana, non si poteva certo parlare di abitudine, per quanto egli avesse ripetuto determinate azioni tutte le sere degli ultimi tre anni.
Pensò allora, per la prima volta, che fosse per merito dell’anima che aveva guadagnato. Pensò, allora, che forse anche le anime fanno fatica, e che per risparmiare energie si adagiano alle abitudini, come i cervelli umani.
Per quel motivo, allora, non sentire più il respiro di suo fratello maggiore era una novità che ancora non si adagiava nel suo schema comportamentale. La sua anima trovava molto difficile concepire quel tipo di solitudine, e accettarlo.
Ma era inevitabile, perché molto era cambiato. Lo dimostravano le prese alle quali era attaccato, sopra la testa e quel cuscino inutile a cui il suo capo era appoggiato, per puro gusto di imitazione: non era umano e si divertiva a imitarli, come sempre aveva fatto. Persino la sua personalità era la rielaborazione dell’imitazione – ma il gusto e il libero arbitrio, quelli erano frutto del genio di suo fratello, ed erano stati la sua vera libertà. Poteva definirsi Ortho Shroud per l’anima che gli scaldava il petto, e perché aveva letteralmente scelto di esserlo, in tutto e per tutto.
La sua coscienza risalì le prese che lo tenevano attaccato al letto, dove la sua energia veniva ricaricata poco alla volta. Divenne per un istante un tutt’uno con la stanza, e pulsò di un cuore invisibile, che fece vibrare tutto Ignihyde, come un bug molesto.
E fu allora che si accorse che anche suo fratello era sveglio. Tre e quaranta di mattina, per la terza notte di fila, con gli esami di fine anno che si stavano avvicinando.
Aveva promesso di non occuparsi più di queste faccende, perché Idia gli aveva ampiamente dimostrato di riuscire a ottenere ottimi risultati scolastici pur mantenendo delle abitudini davvero corrosive per la sua salute già piuttosto debilitata.
Ortho non aveva più scannerizzato il suo cibo, non aveva più controllato il suo andamento scolastico, non aveva più fatto niente di tutto questo, concentrandosi invece sulla propria carriera scolastica. Era una sensazione strana, che il suo cervello catalogava come paura, come timore.
Ma timore per cosa, si chiese lui, dacché quella era la situazione che aveva sempre sperato si avverasse. Suo fratello non dipendeva più da lui, e aveva tutta la responsabilità delle sue azioni.
Glielo aveva detto già una volta, ecco la verità: che fosse preoccupato per lui, per la sua vita sociale e per il dubbio modo con cui conduceva la propria routine. E la preoccupazione era un’altra emozione umana, che nessuno gli aveva insegnato, e che era tutta sua.
La preoccupazione, si diceva Ortho, era ciò che lo legava a suo fratello maggiore, il suo creatore e persona per e grazie alla quale viveva.
Decise allora di intromettersi nel suo cellulare, e mandare un messaggio sonoro.
«Buona notte, fratello.»
Sul cellulare, Idia cominciò a digitare, e Ortho aspettò che il messaggio fosse terminato.
«Non pensavo fossi sveglio a quest’ora.»
Il piccolo robot avrebbe voluto tanto accendere la videocamera, per vederlo in faccia – come ogni notte, come quasi ogni momento della propria esistenza fino a quel momento. Pensò però a come Idia fosse sempre rimasto al buio, durante le proprie partite notturne, e non volle fargli del male agli occhi.
In un certo senso, scriversi in quel modo sembrava quasi un segreto solo per loro due, e poté crogiolarsi nella sensazione di essere, all’interno del suo cellulare, preso e afferrato dalla sua mano.
«Non posso spegnermi, perché nessuno può riaccendermi la mattina.»
«Sei ancora solo?»
«Il Direttore non ha ancora trovato qualcuno da mettere in camera con me.»
«Nessuno è all’altezza della tua tecnologia. E nessuno può metterti le mani addosso.»
«Nessuno mi tocca, fratello.»
«Bene, sono contento.»
«Hai mangiato, oggi?»
«Perché questa domanda all’improvviso? Non avevi promesso che non ti saresti più preoccupato per me? O almeno che ci avresti provato!»
«Scusa, volevo solo parlarti ancora un po’. Non devi rispondere se non vuoi.»
«Anche tu mi manchi, Ortho.»
Quel messaggio lo sorprese molto, perché ancora non comprendeva la logica umana dopotutto, e benché a scriverlo fosse stato proprio suo fratello, a Ortho mancavano i passaggi logici con cui Idia era arrivato a quelle conclusioni.
Ma a ragionarci per qualche millisecondo, si sorprese di concludere che suo fratello avesse ragione. Era davvero un genio, anche per queste cose.
«Sì, mi manchi. Ma è una sensazione che mi dà la spinta di andare avanti. I cambiamenti sono belli perché danno un sacco di informazioni nuove, esperienze nuove. E poi, fratello, io sono solo a cinque stanze di distanza. Esattamente 18,45 cm dalla porta d’ingresso.»
«Non esco da qui da cinque giorni, Ortho.»
«Lo immaginavo. Quindi non hai mangiato?»
«Mi sono fatto portare degli snack da quelli del primo anno.»
«Per favore, mangia un pasto completo oggi. E vai a lezione.»
«Va bene.»
«Me lo prometti?»
«Possiamo mangiare assieme, se sei libero.»
«Certo, posso dire a Trappola-kun e a Spade-kun che ho un impegno.»
«Ah, se sei con loro, allora lascia stare. Ti prometto che mangerò.»
«Se preferisci così, allora va bene. Ne sono felice.»
«Una di queste sere, passa da me. Possiamo ancora giocare assieme, anche se dormiamo in stanze separate.»
«Va bene, fratello.»
«Mi manchi davvero tanto.»
Ortho sentì una diversa pulsione, provenire dal calore delle dita di Idia. La temperatura dei suoi polpastrelli mutò, e il battito accelerò contro lo schermo nero.
Era fragile, dopotutto, anche se era il genio che lo aveva creato. La sua anima era debole, come debole era l’anima che riscaldava il suo stesso petto – Ortho finalmente poteva comprendere appieno quella bellezza intima degli esseri umani, che li rendeva così speciali e così delicati, forti e frangibili.
In un istante, trovò un posto libero nella routine già programmata, e poté allora avanzare una promessa. «Verrò a trovarti mercoledì prossimo. Ore 19:45, dopo cena.»
Il battito del cuore di Idia rallentò un poco: aveva fatto la cosa giusta.
«Così sembra quasi un appuntamento, Ortho.»
«Preferisci che lo dica in un altro modo?»
No, a quanto pare non lo preferiva.
«Buona notte, Ortho.»
«Buona notte, fratello.»
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Si accorse di star fissando, di nuovo, il proprio piatto, senza un reale motivo per farlo.
Aveva certamente promesso a Ortho di mangiare un pasto completo, e infatti era per questo motivo che si ritrovava in quel posto, in quel momento: schiacciato contro il muro, nell’angolo più recondito dell’intera mensa scolastica, a dieci minuti dalla fine della pausa pranzo.
Lo studente di Ignihyde seduto alla sua stessa panca non gli dava lo stesso fastidio che gli studenti dall’altra parte del grande salone, le cui chiacchiere sull’ultima lezione di Biologia delle Carpe Stellari Assassine riusciva a distinguere perfettamente – a differenza della masticazione piuttosto discreta del ragazzo con la coccarda blu, che era dotato dell’apprezzabilissima dote della discrezione, come tutti quelli del loro dormitorio.
Controllò lo schermo del proprio tablet: ancora dieci minuti di agonia e tutto quello sarebbe finito.
Si costrinse a prendere il cucchiaio accanto al piatto ricolmo di risotto allo zafferano. I fantasmi, ancora una volta, si erano mossi a una discutibile pietà per colpa delle sue guance un po’ scavate, e gli avevano donato un mestolo di cibo in più assolutamente non richiesto.
Idia giocò con il riso scotto, e tutto il suo viso si contrasse in un’espressione di sgradevolezza. Approcciare subito i broccoli nella ciotola vicino al pane non gli sembrava una buona idea, quindi preferì bere un po’ di acqua, e intanto aprirsi lo stomaco con le patatine che si era portato da camera sua.
L’ultimo sbadiglio gli allargò le labbra, espose i suoi denti aguzzi. Aveva lasciato fisicamente il letto solo qualche ora prima, ma aveva seguito le lezioni attraverso il suo tablet magico – il suo corpo non doveva aver gradito la terza notte di fila passata in bianco, e dovette ammettere che forse forse gli serviva un po’ di riposo in più.
Non c’erano campionati in corso, non doveva battere alcun record ancora non battuto, e giocare con i suoi amici era sempre divertente. La verità era che ultimamente trovava difficile dormire anche quelle poche ore a cui era abituato, e non si spiegava il perché.
O meglio, non si voleva spiegare il perché: sapeva benissimo che la soluzione a tutte le proprie domande rimaneva ancorata in uno spazio molto isolato nel suo cervello, e sapeva anche che nel momento in cui avesse affrontato la questione davvero e avesse permesso alla consapevolezza di emergere a galla, oltre la coltre di razionalità che lui usava come schermo, allora avrebbe dovuto davvero fare i conti con parti di sé che non erano mai state ascoltate fino a quel momento. Aveva questa certezza, dopo gli ultimi pensieri riguardo suo fratello minore Ortho.
Ingoiò il primo boccone di cibo con molta fatica, sapeva di formaggio e poco altro, una melma che non dava la minima resistenza contro i denti. Il suo stomaco brontolò, lui dovette in qualche modo consolarlo con la promessa di cibo vero verso l’ora di merenda, appena fosse riuscito ad approcciare di nuovo le macchinette delle merendine nel corridoio dell’ala est.
Un movimento, e il colore rosso, gli fecero girare gli occhi di scatto. Ma si ritrovò abbastanza deluso quando vide davanti a sé, che camminava tranquillo, un qualsiasi studente di Heartslabyul, e non proprio Ace Trappola.
Forse, Ortho era riuscito a convincere lui e quell’altro del primo anno a mangiare in tempo per andare a lezione senza fare tardi – quel piccolo robot aveva questo potere di persuasione terribile, su tutto ciò che incontrava.
Non che con lui avesse effettivamente bisogno di impegnarsi, per ottenere qualcosa, ma Idia aveva notato come anche con gli altri e senza la sua presenza Ortho aveva lo stesso tipo di comportamento aggraziato, che naturalmente lo portava a voler compiacere gli altri, e per questo riceverne simpatia e lodi.
Lo aveva costruito per essere il suo tramite con il mondo, per aderire a quelle norme sociali che lui aveva sempre trovato prive di senso, prima, quando tutto il mondo gli era estraneo.
Senza Ortho, avrebbe dovuto comprendere proprio quelle norme sociali che così tanto detestava, perché non poteva più nascondersi, né rifugiarsi dietro la sua schiena. Ed era proprio come aveva detto suo fratello minore: i cambiamenti portavano così tante emozioni nuove, così tante informazioni nuove. Non aveva più la forza o il potere di fermare questo cambiamento, e sentì anche di non volerlo fare.
Però, Ortho non era quel tipo di cambiamento che voleva. La distanza che si era creata lo disturbava più del dovuto, e prima di ritrovarsi a cadere di faccia nella zuppa della mensa, o peggio in qualche insalata con pomodori e zucchine, per colpa del troppo sonno, doveva fare assolutamente qualcosa.
Ma come poter cambiare qualcosa e farlo rimanere uguale, rimaneva un mistero.
Pensò a come fosse prima, a quale tipo di relazione avesse con suo fratello, e arrivò alla conclusione che non poteva essere così bello come avrebbe preferito fosse: una situazione che lo aveva portato all’overblot, che aveva esacerbato i suoi sentimenti di lutto e di disperazione, e che aveva fatto stagnare tutti i suoi traumi.
Decisamente, non la situazione migliore.
Allora forse non aveva davvero bisogno di Ortho – ma scosse la testa con forza, da solo, e persino lo studente di Ignihyde lo guardò male, il piatto ormai vuoto.
Idia aveva bisogno di Ortho più che mai, in un modo diverso da quello di prima. Poteva vivere senza di Ortho, ma non voleva vivere senza di Ortho. Suo fratello, il suo supporto psicologico, erano definizioni che avevano poco senso di fronte a quello che realmente sentiva.
E si rese conto che caricarlo di quell’importanza emotiva poteva solo che scatenare l’ennesimo circolo vizioso senza fine. Doveva rimanere calmo, persino davanti a Ortho, e dominare per prima cosa i propri sentimenti, e poi affrontarli con lui.
Ma non poteva farlo da solo, perché da solo non era mai riuscito a fare niente. I suoi genitori erano persone adorabili, ma non erano mai stati in grado di penetrare la sua psiche e il suo cuore, e poi quale adolescente pieno di drammi e traumi sarebbe andato a piangere dai propri genitori.
Idia si rese conto che, oltre a Ortho, non aveva davvero molte frequentazioni. A parte Azul Ashengrotto, e la sua espressione si contrasse ancora al pensiero di chiedere aiuto proprio a lui, la cosa meno umana all’interno di quella scuola.
Magari, per le questioni amorose, umani e pesci avevano gli stessi sentimenti. Idia sospirò, forse a quel punto era meglio chiedere direttamente a Riddle Rosehearts, ma con quale coraggio lo avrebbe avvicinato per fargli domande simili, solo sulla base del fatto che si era appena fidanzato con il suo solo amico.
«Scusami se ti disturbo, ma stiamo chiudendo la mensa…»
Idia fece un balzo sulla propria sedia, vedendosi all’improvviso accanto non uno, ma ben due fantasmi. Balbettò qualcosa. «S-sì, scusate- scusatemi, mi sono perso nei miei pensieri e- e allora-»
Uno dei due fantasmi provò a toccarlo, e la sua mano trasparente gli passò attraverso, facendolo rabbrividire. «Vuoi portare via il tuo pranzo? Non hai mangiato che due bocconi!»
«N-no, io-» Ma il suo stomaco gorgogliò, colorando di imbarazzo capelli e viso. «S-sì, forse sì… grazie…»
I due fantasmi sorrisero e sparirono in una nuvoletta magica, per tornare poi l’istante successivo con un sacchettino e due scatoline di plastica, piene dei suoi avanzi.
Idia chinò il capo e ringraziò, prese il sacchettino e scappò via, inseguito dal proprio tablet volate.
Urgeva davvero trovare una soluzione a tutto quello.
Un sonoro sbuffo, e poi uno sbadiglio, le mani alzare a sgranchire un poco i muscoli indolenziti delle spalle. Ace Trappola strizzò gli occhi, deformando il bel cuore che aveva sullo zigomo. «Non ne posso più! Questa giornata sembra davvero infinita!»
Nel posto accanto a lui, Deuce Spade era spiallato sul banco da scuola, e si lamentava con borbottii contrariati. «E sono solo le 15:30…»
«Questa è una tortura bella e buona! Con questo sole, dovremmo essere fuori! All’aria aperta!»
«I prati in fiore… le gare di moto… la spiaggia…»
Ace, preso da compassione, gli afferrò la spalla e cominciò a scuoterlo con vigore. «Deuce, non vaneggiare! Rimani con noi!»
Gli occhi di Ortho si illuminarono di colpo, facendo sobbalzare sul posto entrambi i ragazzi. «Corteccia cerebrale affaticata, si consiglia di assumere liquidi e sali minerali, per non sovraccaricare ulteriormente.»
«Vale a dire?»
Il piccolo robot ridacchiò: si dimenticava spesso come gli esseri umani non avessero un’enciclopedia incorporata nel loro cervello. «Un succo di frutta di sicuro ti aiuterebbe!»
L’idea del succhino sembrò risollevare il loro umore. Si alzarono senza troppa resistenza, e raccattarono quel che rimaneva di libri e quaderni per metterlo in borsa. L’aula era ormai vuota, ma loro non si affrettarono a raggiungere i compagni nei corridoi.
Per fortuna, le macchinette erano a pochi metri di distanza, e poco affollate.
Ace approcciò la prima macchinetta per primo. «Me lo prendo anche io, me lo merito. Almeno mi distraggo un po’!»
«La prossima lezione è storia della magia. Il professore non apprezza i ritardi.»
«Fermarci cinque secondi non ci farà attardare a lezione, te lo prometto!»
«Io dopo volo, siete voi che dovete correre.»
Ace staccò gli occhi dal vetro della macchinetta per sorridergli, con quel sorriso furbo e sghembo da birbante. «Sei sempre piuttosto mordace, Ortho!»
Il piccolo robot ridacchiò ancora, e si chinò lui per prendere il succo di Ace.
Deuce era ancora incerto, invece. «Mor-mordace-?»
«Le sue battute, sono pungenti.»
«Oh!» Deuce prese il succo di Ace, senza pensarci, e rimuginò su quanto aveva appena appreso. «Mordace…»
Per sedare l’irritazione nascente dell’altro ragazzo, Ortho avvicinò la propria mano al display della macchinetta, e pagò con i soldi della famiglia Shroud un succo alla pesca. «Anche il fratellone dice spesso questo. Anche se usa altri termini.»
Nessuno dei due gli chiese che termini usasse Idia e lui non approfondì: avrebbe usato quell’informazione come arma di ricatto per un’altra volta.
Ma per qualche motivo, lo sguardo d Deuce Spade si addolcì.
«Come va’, a proposito?»
«Non capisco la domanda.»
«A stare in una stanza tutta tua.»
Ace si intromise, con un piede già nella direzione del corridoio. Bevve il suo succo in un sol sorso, e buttò con mano distratta la confezione vuota – centro nel bidone, senza neanche guardare.
«Che invidia, vorrei anche io avere una camera privata! Invece la devo dividere con questo qui e altri-»
«Puoi sempre dormire fuori dalla finestra, sai?»
Ortho svolazzò sopra le loro teste e li precedette, roteò in aria e si capovolse, con la faccia alla loro altezza, ma il corpo che ondeggiava in aria sopra di loro.
«Penso bene!»
«Pensi?»
«Lo sconvolgimento emotivo è normale, in periodi di grandi cambiamenti. Devo ancora assimilare le nuove abitudini per far sì che le mie funzionalità riprendano al loro massimo potenziale. Badare a sé stessi è molto più complicato di quanto la teoria descriva.»
I due ragazzi si guardarono di sfuggita. «Insomma…»
«Ti manca tuo fratello.»
«Beh, dopo aver vissuto praticamente attaccato al suo culo per tutti quegli anni… è normale.»
Ace alzò le spalle, passandogli accanto. I circuiti di Ortho sfrigolarono, nel tentativo di cogliere il significato delle parole che il giovane aveva detto, ma si arrese all’evidenza che non aveva capito. «Non vivevo attaccato al culo di mio fratello. Le natiche di mio fratello sono una parte del suo corpo con cui non sono mai entrato in contatto fisico.»
«È… è una metafora, Ortho.»
«Oh! Chiedo scusa, manco ancora delle capacità linguistiche per comprendere appieno le figure retoriche.»
Deuce si mise dall’altra parte, invece, e finalmente Ortho tornò con il corpo verso il pavimento, come i due esseri umani. Le sue gambe non potevano camminare, ma ormai il suo lieve ondeggiare non dava loro alcun fastidio, e seguivano i suoi movimenti con gli occhi.
Deuce continuava a sorridere piano. «Vai a trovarlo ogni tanto?»
«Ultimamente mi sono ritrovato sovraccaricato per le lezioni, e in necessità di un maggior recupero.»
Il giovane sembrò capire, Ace invece sbuffò. «A voi fratelli bastano davvero pochi giorni in cui non vi vedete per entrare in crisi.»
Arrivarono al portone d’ingresso, superarono due compagni appoggiati allo stipite di legno per entrare in un’aula grande, con i banchi allineati in file precise. Compagni sparsi qui e là, che chiacchieravano e bisticciavano – Deuce dovette piegare la testa per evitare un astuccio in volo, non si scompose più di tanto.
«Il professore non è ancora arrivato in classe.»
«Starà inseguendo il gatto!»
«Lucius si è arrampicato di nuovo sugli alberi?»
«Chi lo sa!»
In fondo a sinistra: quello era il posto che Deuce e Ace avevano dal primo giorno di scuola, e quello era il posto che Ortho era stato invitato a prendere.
Il piccolo robot si sedette piano, aprendo un piccolo tubo metallico sopra il banco: lo schermo del tablet di aprì in luci colorate, illuminato delle ultime spiegazioni del professore e degli ultimi appunti presi. Ortho piegò quindi le gambe sopra la sedia, in una discreta imitazione delle gambe sedute.
Tutto, senza parlare.
«Ti manca davvero tanto, non è vero?»
Guardò Deuce con curiosità: quel suo sorriso morbido non era ancora sparito.
Gli esseri umani erano strani. Straordinari per la comprensione di certe cose, così lenti e deboli per quella di altre. E dove il suo intelletto non arrivava, ecco che invece sopperivano loro – era un gioco di incastri e di completarsi a vicenda, qualcosa che adorava fare con Idia.
Loro la chiamavano amicizia, in un qualche strano modo.
Allora provò a esprimere i propri pensieri. «Non saprei quantificare l’intensità dei sentimenti che provo. Spiegarmi nella lingua umana è difficile. So solo che la mia volontà mi spinge verso di lui, e la mia… anima, soffre di questo. Ma la soluzione logica è quella di non tornare da lui, o torneremmo alla condizione di dipendenza emotiva che ci legava prima.» Strabuzzò gli occhi. «Detta in questi termini, sembra a tutti gli effetti un dilemma morale.»
Impiegò qualche secondo appena a rileggere tutta la narrativa basata su quello specifico trope, e ritrovò le stesse dinamiche che stava vivendo al proprio interno. Il paragone era lampante e chiaro, e se la sua esperienza poteva fermarsi entro determinati limiti, la sua conoscenza poteva amplificarla con l’esempio di molti altri. Ma nonostante questa rassicurazione, non riusciva a trovare una soluzione che lo soddisfacesse davvero.
Ace e Deuce si erano seduti entrambi, e avevano atteso che finisse quanto avesse da dire.
«Hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a capire cosa vuoi davvero, Ortho. Così a me pare tutto molto… ingarbugliato!»
«E dev’essere qualcuno che sappia parlare di sentimenti e cose varie.»
«Ace?»
«Ah, ma io mica ho questo rapporto con mio fratello! Mi spiace, ma non posso aiutarti proprio.»
Alzò le spalle così da allontanare da sé ogni pretesa.
La folla degli studenti si mosse: qualcuno aveva visto avvicinarsi il professore dal fondo del corridoio, e aveva dato l’allarme.
Un po’ in disordine, gli studenti raggiunsero i propri posti e prepararono il materiale da disporre sui propri banchi.
Lucius entrò per primo, con il pelo ancora decorato delle foglie della vecchia quercia del giardino – Ace ridacchiò, ma non fu abbastanza svelto da coprirsi la bocca, perché il professore lo vide.
E finalmente, Ortho ricordò. «C’è qualcuno che mi può aiutare, invece.»
*********
Il tablet azzurrino si richiuse in un pop silenzioso, tornando a essere un minuscolo cilindro di metallo nelle sue mani. Idia adocchiò sottecchi ancora l’enorme parete a vetro alle sue spalle, dove ombre gigantesche roteavano su se stesse e i lembi di infinite alghe dondolavano ai fluttui silenziosi del mare, come enormi mani. Spaventoso, impressionante, terribile: si chiese come potessero le sirene vivere in un ambiente dove qualsiasi cosa si muovesse era un costante pericolo di morte.
Qualcosa si avvicinò a lui, facendogli fare un sobbalzo sulla poltroncina di pelle.
«Eccoti, Idia-san. Offerto dalla casa.»
Sorriso smagliante, camicia bianchissima allacciata fino all’ultimo bottone – ma nessuna cravatta – occhiali splendenti, e un vassoio con due bicchieri sottili: uno con un liquido ambrato, uno con un liquido blu fosforescente, e una cannuccia con una piccola palma. Il polpo gli allungò il secondo.
«La tua generosità mi insospettisce, Azul-shi.»
«L’amicizia non ha nessun costo, Idia-san.»
«Sì, ma che mi dici del fatto che questa roba non si trova sul menù?»
Azul si sedette senza neanche un rumore, leggero come la spuma del mare. Smosse un poco le spalle, forse per stiracchiare i muscoli; aveva addosso quel solito profumo di salsedine, che fece arricciare il naso a Idia.
«Non pensavo avessi avuto tempo di controllare il menù. Ti ho lasciato solo per due minuti da che sei entrato al Mostro.»
«Me ne basta mezzo. Mi stai usando come cavia, per caso?»
«E dire che come ospite mi sembrava di averti trattato con il giusto riguardo. Oh, gli esseri umani sono davvero ingrati, ma se preferisci non bere nulla, allora questo lo posso prendere io-»
Ma come Azul allungò i suoi tentacoli umani alla sua bevanda, Idia strinse le proprie dita attorno al corpo del calice e lo avvicinò a sé, per decretarlo come suo.
Lo guardò male, espressione sghemba e capelli tutti arruffati.
«Sono le nove di sera, Azul. Non dovresti avere tutte queste energie per parlare.»
«Tu, piuttosto. Mi sorprende che non sia in camera tua a fare… qualsiasi cosa tu faccia di solito in camera tua.»
«Stasera non ne avevo voglia.»
«Certo, tuo fratello non c’è e ti senti solo.»
Quelle parole ebbero uno strano effetto su di lui – Idia reagì abbastanza piccato, quasi lo avesse davvero offeso.
«Non sono mai solo. Ho un sacco di amici online. Amici veri! Mica come quelli che si trovano qui!»
«Scusami, hai ragione. Sei pieno di amici veri con cui intrattenerti. Eppure, sei qui con me.»
«Per migliorarti la serata, Azul-shi. Perché sennò?»
«Già. Perché, sennò?»
Idia aprì la bocca, ma nessuna risposta pronta uscì dalle sue labbra. Si rese conto di non essere pronto a dire la verità, e a confessare ad Azul il reale motivo di quella visita improvvisa.
Almeno, aveva avvisato prima di arrivare, e gli aveva promesso come forma di pagamento un software per tenere meglio conto di fatture e scontrini e piccoli debiti, ma neanche in quel modo riusciva a trovare la spinta giusta per chiedere quello che doveva chiedere. Non aveva neanche voglia di capire se fosse imbarazzo o vergogna, o entrambe le cose.
Invece, fissò l’artiglio color corallo che reggeva la sfera luminosa in mezzo al tavolo, con insistente curiosità.
«I tuoi scagnozzi?»
«Si sono guadagnati una serata libera, dal momento che il Mostro è momentaneamente chiuso. A quanto pare, essere chiusi per una giornata alla settimana fa crescere i guadagni, perché intensifica e alza le vendite nelle giornate restanti.»
«Chi l’avrebbe mai detto che il capitalismo funzionasse in questo modo.» Bevve un piccolo, piccolissimo sorso della bevanda che Azul gli aveva gentilmente regalato, senza neanche accorgersene: il disagio che provava era tale che sentire il sapore aspro della bevanda sulla lingua fu quasi una sorpresa. Però, si accorse dello sguardo fisso di lui. «Ho qualcosa in faccia?»
«Per ora ancora no, stai tranquillo.»
Guardò male il suo sorriso tronfio, maledetto infido polpo umano.
«Comunque, questa cosa è scialba.»
«Dici?»
«Manca di… contenuto. Di sapore. Di corpo!»
«Fai assaggiare.» Azul si sporse verso di lui e quasi gli strappò di mano il calice, lasciandolo più che sorpreso, immobile al suo posto. Idia guardò la sua espressione deformarsi, sorso dopo sorso, mentre la lingua analizzava meglio di qualsiasi computer che avesse mai costruito la struttura molecolare di quella bibita. «Uhm, hai ragione. C’è qualcosa che non si combina bene. Dev’essere la nota di tamarindo di troppo. Oppure… oppure aggiungere una fragola, che bilanci il tutto. Fragola e agrumi sono sempre una perfetta combinazione.»
Gli sfuggì un sospiro. «E le combinazioni vincenti non si cambiano mai…»
«Già.» Altro sorso, e un’occhiata sfuggente. «Come te e Ortho-san.»
I suoi capelli si illuminarono all’improvviso. «Lo dici sul serio?»
Ma Azul sorrise, e lui si rese conto di aver fatto una pessima mossa a rilevarsi in quel modo.
«Allora ti manca davvero.»
«Sì, ma no. Cioè-» Gesticolare non lo aiutò affatto, invece si sdraiò sopra il tavolo e si lamentò contro la superficie orizzontale, in lunghi lamenti bassi. Capelli sparsi ovunque, fronte contro il duro laccato di nuovo. Guardò il polpo umano attraverso una fessura tra i nodi dei suoi capelli di fiamma, sperando che quella posizione riuscisse in qualche modo a nascondere un poco la sua vergogna. «Lo vorrei ancora, ma non come prima. Mi capisci?»
«No. È ovvio che non possa essere come prima. Quindi nel riaverlo, non sarebbe per niente come prima.»
«Cosa intendi?»
«I cambiamenti sono irreversibili, Idia-san. Prendi me, per esempio. Io non posso dimenticare come si cammina. Sfortunatamente.»
Aveva una sua logica, in qualche modo.
Idia si rialzò a sedere, e i capelli tornarono al proprio posto. Ormai, la bevanda color azzurro era terminata, e lui non aveva proprio nulla con cui distrarsi, o con cui tenersi occupato.
Ma le domande fondamentali non erano finite. Se era vero che lui e Ortho erano una combinazione vincente, e che comunque non sarebbero stati mai più quelli di prima, le incertezze non erano svanite, ma si erano trasformate.
Idia ci riprovò.
«E- e cosa abbiamo imparato noi, che non può essere dimenticato?»
«Questo dovresti saperlo tu, Idia-san. E comunque, per ottenere una cosa basta prendersela. Come io con Riddle-san.»
«Cosa hai fatto a quel povero ragazzo? Lo hai assalito?»
«Non dire sciocchezze! Mi sono dichiarato, e lui non ha potuto resistermi.»
«La sola idea di immaginarmi la scena mi fa tremare di disgusto.»
Il polpo alzò le spalle, vagamente offeso. «Dì quello che ti pare, Idia-san. Io e lui ora stiamo assieme, ho ottenuto quello che volevo.»
E alzò il mento in aria, per chiudere il discorso.
Idia un po’ lo invidiò. Quella sua sicurezza non era solo apparenza, e lo aveva portato al successo che lui faticava persino a immaginare, e che mai sarebbe davvero riuscito a raggiungere.
Non seppe dire perché, per un attimo pensò se stesso come Azul, Ortho come Riddle – cacciò via quell’ipotesi dalla propria testa, l’immagine fantasiosa che ne aveva tratto, perché niente di tutto quello aveva a che fare con sentimenti romantici.
Niente.
Forse.
Scosse ancora la testa, prendendo il calice con il liquido ambrato: la faccenda era abbastanza complicata così, senza aggiungere ulteriore difficoltà.
«Quindi… basta prenderla…»
Sorseggiò, e un sapore amaro gli invase la bocca.
Sputò per i successivi due minuti, incapace di formulare qualsivoglia pensiero – ecco, quello era un ottimo metodo per annichilire ansia e preoccupazioni.
La gabbia si chiuse con un cigolio molto sinistro, e subito il prigioniero ne afferrò le sbarre di fumo e spalmò il proprio viso tra le fessure, cercando con lo sguardo un poco di pietà nei volti dei propri carcerieri. Le scimmie a pochi metri di distanza lo guardano inespressive, dondolando le spalle grottesche e le lunghe criniere dietro le orecchie. La musica di sottofondo si alzò e tutto il resto tacque, così da sancire la fine della scena.
Il registra guardava invece lui, con lo sguardo, e subito dopo anche Vil – bastò un cenno della testa del giovane, perché tutto si fermasse davvero.
«Taglia qui!»
Qualcuno sospirò, i ragazzi degli effetti speciali finalmente si rilassarono, e la prigione buia delle scimmie scomparve alla vista, come l’illusione che era. I carcerieri diventarono umani, e la gabbia salì in fumi opalescenti fino al soffitto del grande teatro, svanendo poco a poco.
Il carcerato avanzò di qualche passo, si teneva le mani tra le dita e aveva lo sguardo abbassato, eppure così lucente. Dal ritmo del battito del suo cuore, si poteva facilmente intuire quanto fosse emozionato.
«Com’è andata questa volta, Schoenheit-senpai?»
Anche il piccolo robot guardò il giovane, in attesa del suo responso.
Vil non si scomodò dalla propria poltrona, e fece ben finta di ignorare il copione che aveva lasciato sul sedile del posto accanto al suo, ancora aperto su quella specifica scena. Rivolse invece il proprio sguardo a lui davvero inespressivo – neanche il suo cuore tradiva la benché minima reazione, davvero un attore egregio.
«Tu che ne pensi, Ortho?»
Qualcuno dei suoi ingranaggi squillò di sorpresa, forse un secondo di ritardo di troppo. «Io?»
«Se dovessi dare un giudizio sulla base del confronto con il film di Jhon C, Il pianeta delle scimmie intelligenti, cosa diresti?»
Ortho recuperò immediatamente il testo in questione, perché gli era facile accedere a qualsiasi archivio messo in rete. E dopo averlo analizzato, il suo cervello formulò un’idea precisa, che modulò con quanta più attenzione possibile. «La particolarità delle scimmie della pellicola del 1975 è il lavoro sulla mimica facciale, secondo le parole del critico cinematografico P. Se si dovesse traslare le parole del signor Archimedes direi che la rappresentazione manca di scimmiosità.»
Il ragazzo davanti a loro non sembrava aver tuttavia capito. «Scimm… scimmiosità?»
Vil si mosse appena, e questo catturò subito l’attenzione di entrambi gli interlocutori. «Hai sentito quello che ha detto. Lavora su questo, per la prossima volta.» I suoi capelli danzarono al vento, spargendo molecole di profumo che Ortho riuscì a classificare come lavanda secca, muschio e un pizzico di giglio. Prima che però riuscisse a trovare nei propri archivi anche il nome di quel profumo, Vil aveva cambiato espressione. «Ora mi merito un succo di frutta, senza zuccheri aggiuntivi.»
«Subito, Schoenheit-senpai.»
Il ragazzo si allontanò in fretta, raggiungendo gli altri sul fondo del teatro.
E solo a quel punto Vil si permise di sorridergli.
«Sei migliorato molto.»
Ortho aveva ben imparato l’emozione generata dalla gratificazione, non vi fu alcuna falsità nella sua espressione felice. «Ricevere un complimento da Schoenheit-san significa aver raggiunto un livello ben oltre la media.»
«È davvero così. La tua capacità di giudizio si sta affinando sempre più.»
«Ho osservato da vicino le tue tecniche, e le ho assimilate al meglio. Sono sicuro di riuscire a simulare lo schema mentale di Schoenheit-san.»
«Ora stai peccando di hybris.»
«Solo perché ho avuto te come maestro.»
«Piccolo demonio.» Il ragazzo era tornato, ma aspettava il suo consenso per avvicinarsi più di due metri. Vil gli fece un cenno, ed ebbe finalmente il suo succo tra le mani. «Prendetevi anche voi una pausa. Fra cinque minuti riprendiamo le prove, tutti assieme.» Di nuovo soli, Vil si prese il primo sorso del suo meritato succhino, e la tensione delle sue membra si dissolse, il ritmo del suo cuore rallentò in una calma sincera. «Questo recital mi sta mettendo a dura prova.»
«Il ruolo di Jane ha poche battute, ma una grande teatralità. Parole del critico P.»
«Occorre quindi un’enorme presenza scenica, per occupare lo spazio di parole non dette. I sentimenti e le emozioni devono essere più che mai visibili, armonizzati nella mia intera figura.»
Fece un gesto con la mano, in aria, che ricordò quello che il suo personaggio doveva fare nell’atto VI, scena sei, dopo il climax principale dell’intero arco narrativo.
Ma Ortho era concentrato su altro, in quel momento, e non poteva che occupare tutti i suoi ingranaggi con quei pensieri vorticosi. I gesti non potevano parlare, e il corpo di Vil era così sotto controllo che doveva ben sforzarsi di comprendere cosa stesse dicendo.
Gli venne il dubbio che Vil non fosse l’unico a saper fare una cosa simile, e il suo apparato sonoro fu più veloce di qualsiasi ritrosia.
«È in questo modo che gli esseri umani comunicano normalmente?»
Vil abbassò la mano e bevve un altro sorso del suo succo, impegnato in chissà quali ragionamenti. Ecco una delle cose che irritava maggiormente Ortho, non saper leggere la loro mente. Gli esseri umani rimanevano un mistero, anche se poteva leggere l’attività cerebrale nei minimi dettagli.
Eppure, le loro anime erano affascinanti proprio per quello, e l’anima di Vil Schoenheit era tra le più raffinate che conoscesse. Aveva fatto bene ad affidarsi a lui.
«Credo che tuo fratello ti abbia abbondantemente spiegato quale sia la differenza tra finzione e realtà, Ortho, ma credo che questa domanda implichi anche altro. È da prima che reagisci lento.»
«Mezzo secondo più lento del solito.»
«L’ho notato, sai?»
«Simulare le emozioni partendo da un esempio è molto semplice, Schoenheit-san. Trovare una definizione ai propri sentimenti, non lo è. Anche se si posseggono nel proprio cervello tutti i dizionari del mondo.»
«Non c’è bisogno di definire i propri sentimenti. Bisogna permettersi di viverli.»
Primo dubbio, perché Ortho non aveva mai sentito parlare di questa differenza, e trovava molto difficile applicare gli studi psicologici sugli esseri umani a se stesso. Non sapeva se poteva permettersi davvero di paragonarsi a loro.
I suoi ingranaggi squillarono. «Ma la conoscenza è potere.»
«Non in questo genere di cose. Gli esseri umani non possono comandare i propri sentimenti.»
«Io non sono umano.»
«Lo sei.» Vil si sporse dalla poltrona di velcro porpora, e allungò la mano al suo petto. Lo sforò in punta di dita, dove la fiamma ora calda brillava nella penombra, dove c’era il vero Ortho Shroud, rannicchiato dentro di lui. «Qui dentro, lo sei.»
Aveva fatto davvero bene ad affidarsi a lui – perché poteva credere alle sue parole, senza ombra di dubbio: Vil Schoenheit era abbastanza autorevole nelle cose umane da poter parlare con molta verità.
Si sedette in aria, e appoggiò le proprie piccole mani sulle ginocchia. «Sono diviso da due sentimenti, che mi porterebbero a due conclusioni diametralmente opposte. Ho da sempre la facoltà di decidere per me, ma questa volta mi preoccupare l’effetto che avrebbe sulle altre persone.»
Lo guardò ancora a lungo, soppesando le sue parole come se fossero davvero importanti, pregne di valore. «Pensa alla tua felicità, Ortho. Se vuoi una cosa, non è pensabile rinunciarci. Questo significa vivere i propri sentimenti.»
«La mia felicità?»
«Sei mai stato felice?»
«Sì, spesso. Conosco bene la sensazione. Ma basta davvero questo?»
«Cercare di ottenere la felicità è il modo più umano di condurre la propria esistenza.»
Ortho squillò ancora. Quelle parole avevano un significato molto profondo per lui, ma lo ponevano davanti a molti altri quesiti, cui non sapeva ancora la risposta. Chiedere a Vil delle soluzioni facili non gli sembrava la soluzione adatta, non in quel momento almeno.
Ma bastava così, perché aveva calcolato all’istante le mille probabilità che gli si ponevano davanti, e aveva scelto quella per cui avrebbe raggiunto il più alto grado di felicità personale.
«Cinque minuti sono passati, Vil Schoenheit-san.»
«Accidenti.» Vil si alzò dalla propria poltrona, e cominciò a battere le mani con grazia: tutti si voltarono verso di lui, spauriti e terrorizzati. «Forza, forza! Riprendiamo, è finita la pausa!»
*****
Mosse gli occhi verso sinistra, e il tablet ricevette l’ordine: la console attaccata al maxischermo che si rifletteva sulla parete nuda della sua stanza cominciò a illuminarsi lentamente, con quella luce blu neon con la quale l’intero dormitorio di Ignihyde ormai era un tutt’uno.
Tastò sotto il proprio letto, e constatò che la scorta di patatine e chips multigusto era ancora lì, dove l’aveva lasciata negli ultimi giorni. Ma si rifiutò di guardare per la quinta volta l’orologio a lato dello schermo del tablet, perché poteva calcolare da solo quanti minuti fossero passati dall’ultima volta che lo aveva fatto.
Solo tre.
E per verificare se avesse ragione, guardò l’ora. Erano passati davvero solo tre minuti.
Imprecò e si maledisse. Ordinò al tablet di volare sopra la scrivania, trovando spazio tra i libri di scuola e le custodie dei videogiochi che aveva accumulato per la serata. Cercò di distrarsi fissando lo schermo della console che aveva finito di accendersi, ma neanche quel metodo funzionò.
Era agitato perché in pochi minuti Ortho sarebbe entrato da quella porta. Tempo addietro avevano definito assieme che cosa fosse il tempo e che valore dargli – cosa significassero idiomi come “dopo cena” o “dopo pranzo”, perché il libero arbitrio di Ortho finiva dove cominciava l’ansia di Idia nel ritrovarselo di fianco a un minuto dalla fine della pausa pranzo – e Idia avrebbe anche potuto contare i secondi che gli sarebbero mancati, ben sapendo che questo avrebbe soltanto accresciuto l’agitazione che aveva in corpo.
Ma di solito, Ortho calmava la sua agitazione. Era stato costruito per questo preciso motivo, perché potesse acquietare le sue più intime fragilità, quindi era più che ironico che in quel momento ne fosse la causa.
Scomodo sul proprio letto, Idia stiracchiò le gambe e si mise a sedere; i lunghi capelli gli caddero davanti, coprendogli il viso e l’espressione contratta.
Perché stava accadendo tutto quello, si domandò.
Era stanco, si disse, e pieno di aspettativa per quell’incontro. La medesima sensazione di quando si decide di giocare a un vecchio gioco, e la memoria faceva brutti scherzi e colorava il passato di soli elementi positivi.
Però, quella sera era il suo cuore a fargli brutti scherzi, perché Ortho non era un gioco – stupido lui ad avere anche solo osato pensarlo.
Era forse felicità, allora. Quella cosa strana, che non sentiva con nessun altro se non con lui. Andato via e tornato tra le sue braccia, ancora e ancora, Ortho non aveva consolato solo il suo doloroso lutto, ma anche la sensazione che sempre aveva avuto di essere solo contro l’intero universo, fragile e debole.
Il suo piccolo eroe.
Alzò lo sguardo alla porta, e tutto si fermò. Tre, due, uno.
Zero.
«Nii-san, sono qui! Ora entro!»
Idia balzò in piedi nello stesso istante in cui il robottino entrò nella stanza, come aveva fatto tutte le sere per due lunghi anni. Idia sentì le proprie labbra stirarsi a forza, si rese conto che non aveva sorriso nell’ultima settimana, e subito lui lo notò.
«Oh, nii-san! Balzare in piedi troppo in fretta ti fa male alla pressione! Per favore, cerca di fare più attività fisica, o la tua massa muscolare si ridurrà così tanto da non riuscire a tenerti dritto!» Occhi luminosi come fari, tornò in sé in qualche millisecondo. «C’è un buon 43% di incidenza in tutta la popolazione maschile gamer! È terribile! Devi fare davvero molta attenzione ed esercitarti di più!»
Avrebbe volentieri riso, se non fosse che gli aveva appena dato della lumaca morente.
«Ciao anche a te, Ortho…»
Il robot sembrò realizzare cosa avesse appena detto e ridacchiò, il suo senso dell’umorismo si era raffinato molto ultimamente. Idia allargò le braccia, istintivamente, per un abbraccio, ma si ritrovò a non riuscire a fare neanche un passo: lo avrebbe raggiunto, altrimenti, e lui all’improvviso non sapeva se voleva davvero prenderlo, oppure no. Non era così semplice decidere, allora.
Ortho, però, ridacchiò ancora, e completò il passo per lui. Lo abbracciò con le braccia metalliche, facendo attenzione a non stringere troppo. «Ciao, nii-san.»
Era bella però, la sensazione di essere preso.
Abbassò le braccia alle sue spalle, ricambiando l’abbraccio.
Lo schermo divenne nero per un istante, per poi esplodere di colori nella metà di destra, esplodere di tristezza e grigio nella metà di sinistra. Suo fratello sogghignò, mentre lui alzava il joystick in aria, guardandolo truce.
«Se potessi connettermi alla console sarebbe tutto molto più semplice.»
«Negativo, Ortho! Devi usare le tue mani, altrimenti è troppo facile per te!»
«Ma così non c’è competizione.»
«Mi stai dicendo che non ti fidi di un macchinario?»
Sogghignarono in due. «Finché è costruito da te, mi fido. Ogni oggetto ha la sua scadenza, e sono abbastanza sicuro che i tasti di questo controllo non funzionino a dovere.» Il suo sguardo si illuminò, e vide tutto, aveva ragione.
Idia non sogghignava più troppo. «Va bene, va bene! Per questa sera puoi connetterti alla console e giocare da dentro! Ma solo perché il joystick non funziona bene…»
Ortho trillò felice, in piccoli suoni acuti. «Possiamo cambiare gioco se vuoi, nii-san!»
Lui alzò le spalle, abbassando lo sguardo. «No, va bene questo… ma prima-» Si allungò a prendere il pacchetto di patatine all’anice e liquerizia che aveva lasciato pieno a metà. Gli tornò il buon umore, per qualche istante.
Fu quando si mise a sedere come prima che Ortho se ne accorse: le loro cosce erano sempre rimaste attaccate, ma lui non aveva percepito niente. Benché potesse vedere la sua temperatura e misurare tutti i parametri vitali che servivano a decretare se fosse al sicuro oppure no, non poteva neanche fare quello, sentire il calore corporeo di suo fratello in altra zona che le mani.
Preso da questi pensieri e da queste riflessioni, abbassò la mano alla sua coscia, e allora lo sentì.
Idia sobbalzò per la sorpresa e fece cadere sul pavimento diverse patatine. «Ortho?»
Era caldo e morbido, un po’ troppo morbido e un po’ troppo soffice per essere il muscolo di un ragazzo sotto i vent’anni, ma era così caldo che Ortho non riuscì davvero ad allontanare la propria mano. Chiuse appena pollice e medio, segnando come una grande C, e scese verso il ginocchio per chiudere le dita attorno alle ossa, stuzzicare la loro sensibilità.
«Ortho!»
Nel suo cervello scattò un piccolo allarme, perché il tono della voce di lui era decisamente troppo alterato. Alzò lo sguardo e lo vide attonito, stordito – dal battito del suo cuore, forse anche un po’ impaurito. Allontanò subito la mano da lui. «Scusami.»
Si era perso nelle proprie sensazioni, alla ricerca di quella che poteva essere definita felicità. Era la prima volta che gli capitava una cosa simile, forse perché prima non aveva un’anima umana, e tutto il suo essere verteva su uno scopo che altri gli avevano dato.
Scegliere il proprio, di scopo, era quantomai difficile, specialmente se i propri errori poi avevano quell’effetto. Forse Vil Schoenheit aveva sbagliato, o forse la felicità che tanto anelava aveva un’altra forma.
Per fortuna, sul viso di suo fratello tornò ben presto il solito ghigno.
«Allora, cominciamo?»
Ortho squillò felice, e si voltò verso la console. Chiuse gli occhi, la sua coscienza fluì velocemente all’interno del marchingegno e il suo viso apparve sulla metà schermo di sinistra, sorridente.
«Forza, nii-san! Fai partire una nuova corsa!»
Scelse la macchina azzurra, come sempre, e si mise dietro al traguardo di byte luminosi, in attesa del via.
In quel mondo di meccanica, non c’era alcuna sensazione a turbarlo, e i suoi sensi erano codificati in dati freddi e sistematici.
Ciononostante, percepiva distintamente la propria delusione, e il desiderio che aveva ancora di toccarlo e di sentire il suo calore.
*******
Un piede fuori dalla sala degli specchi, e la brezza notturna già gli scombinò tutti i capelli di fiamma, spiaccicandoli contro il suo viso e facendoli finire nella sua bocca aggrottata nell’ennesima espressione scocciata.
Idia avrebbe alzato gli occhi al cielo notturno, se solo avesse potuto. Invece, tentò di raccogliere la propria chioma tra le mani, fece una palla di quello che riuscì a tenere tra le dita e lo mise all’interno della propria giacchina luminescente.
La frangia era ancora un disastro, ma almeno il suo snack serale non sarebbe stato fuoco fatuo e forfora.
Si chiuse in un abbraccio stretto a se stesso, nella vana speranza di non aggravare il suo principio di polmonite cronica, e quindi si incamminò: per arrivare alla scalinata del Night Raven ci avrebbe impiegato almeno quindici minuti, poi altri quindici di scalinata, altri venti per arrivare alle macchiette, e poi doveva tornare indietro.
E di notte, nessuno studente poteva salire su una scopa – o un qualsiasi altro mezzo di volo – salvo permessi specifici. Stupide regole e stupida scuola, non si sarebbero frapposte tra lui e le sue barrette ai frutti di bosco.
Una nuvola nera passò veloce sulla luna, ma poi il chiarore della luce notturna illuminò la strada di acciottolato, e i suoi capelli brillanti. Idia poteva vedere solo un cono attorno a lui, perché non c’erano lampioni accesi.
Si incamminò spedito, la fame nervosa aveva liberato le sue membra di qualsiasi traccia d stanchezza.
Sentì il frusciare dei fluttui del fiume di Octavinelle, sotto il ponte che portala al viale principale, e l’odore della salsedine salata gli pizzicò il naso. Rispetto al suo Dormitorio, il silenzio esterno era pieno di piccoli rumori fastidiosi: foglie e animali, i sassi sotto le sue scarpe, persino il vento tra i capelli produceva un piccolo sibilo continuo.
Si sorprese a sospirare con più leggerezza del dovuto.
Eppure, davvero poco era cambiato. Anche quando divideva la stanza con Ortho sgattaiolava fuori da Ignihyde per marciare verso il castello principale, la dove c’erano le macchinette meglio rifornite. Ricordava anche le volte in cui il fratello robotico lo aveva quasi convinto a chiedere al preside di poter avere le stesse macchinette in Dormitorio, ma poi la sua ritrosia aveva fatto cadere il discorso, e lui si era condannato a scontare la propria ingordigia con un’ora di passeggiata serale. Ogni. Singola. Volta.
Si fermò però all’inizio del viale delle sette statue dei Grandi, all’ombra della gonna della Regina di Cuori. Non c’era stato alcun Ortho a tentare di fermarlo, e non c’era alcun Ortho ad aspettarlo in camera: ecco cosa cambiava tutto. Non c’era alcuna ansia nel suo cuore, né quel senso di furbizia e riscatto per essere riuscito a farla persino a un robot che poteva quasi vedere attraverso le pareti.
Quando sarebbe tornato, sarebbe stato solo, a gustarsi la sua merenda in santa pace. Nessun rimprovero, nessuna ramanzina, nessuno che gli ripeteva quali fossero i valori nutrizionali delle praline di cioccolato che mangiava regolarmente come stuzzichino mentre giocava.
Sogghignò, nel riprendere a camminare. La brezza gli sembrò trasportare un profumo di fiori, quei pochi che erano rimasti nei campi dopo l’intervento della sua organizzazione. La fame divenne più accesa e il suo stomaco gorgogliò, arrivò a superare anche l’ultima statua e dovette virare un poco a sinistra, per seguire il viale principale che lo avrebbe condotto alla scalinata.
Il profilo dello stadio di volo si stagliava compatto nel cielo. Ebbe un brivido di freddo che lo costrinse a stringersi un poco di più nel proprio stesso abbraccio, mentre nelle sue orecchie fischiava il ricordo del suono delle scope in volo.
E anche il leggero trillo che producevano gli ingranaggi di Ortho quando si alzava sopra la sua testa, e gli svolazzava attorno.
Si maledisse e imprecò. Per quanto potesse sforzarsi, non riusciva davvero a liberarsi del pensiero di lui, quasi come se avesse la sua ombra incollata addosso, nonostante la distanza. Ma mai una volta aveva provato l’impulso di spegnerlo, neppure quando era stato particolarmente noioso: quel tipo di potere sconfinava oltre quello che aveva sempre definito per sé, perché Ortho era stato per lui un individuo molto prima di avere quel qualcosa che lo rendesse quasi umano.
Una macchina con una propria volontà e una propria consapevolezza del mondo era quanto di più vicino all’essere umano uno scienziato potesse immaginare.
Idia pensò a quanto gli avesse detto sul ciglio del baratro, definendolo solo un mero strumento di conforto. Era stato un momento di disperazione, ma rimpianse quel momento, perché aveva ecceduto nella paura. Sperò soltanto che anche Ortho l’avesse davvero capito, e che non avesse preso le sue parole alla lettera.
Sospirò: era molto improbabile.
Cominciò a salire la scalinata della scuola, addossandosi quanto più possibile alla parete di roccia per ripararsi dal vento crescente. Il suo stomaco gorgogliò ancora, forse per spingerlo a fare più in fretta.
Il suo cellulare vibrò, contro la coscia magra. Idia non voleva leggere le notifiche della chat comune, non durante la serata della partita in comune alla quale non partecipava, ma quella vibrazione gli fece ricordare l’esatto momento in cui suo fratello lo aveva toccato.
E finalmente realizzò quanto tutto quello non fosse molto normale. C’era qualcosa di davvero insolito nel fatto che Ortho occupasse così tanto i suoi pensieri. Forse il senso di mancanza che sentiva acuiva la sua necessità di lui, iniziata con quel senso di nostalgia e il desiderio di riaverlo ancora vicino, per poi scoprire un’astinenza indomabile.
Pensò alla serata che avevano trascorso assieme, nel tentativo di trovare una soluzione alla propria crisi, e la brutalità con cui di solito si interfacciava con gli altri gli si ritorse contro, facendogli constatare che era stato un disastro sotto molti punti di vista.
No, non era riuscito a prendere Ortho – e non era neanche riuscito a farsi prendere da Ortho, in un certo senso, benché l’altro ci avesse provato. La paura lo aveva fermato, e questo poteva essere un grosso ostacolo anche nel futuro.
Finalmente, arrivò davanti all’entrata della scuola, e i suoi capelli azzurri illuminarono il portone aperto, l’atrio di pietra umida e fredda.
Doveva chiedere a Azul un’altra strategia, prima di perdere definitivamente una partita che non aveva ancora iniziato a giocare. Il solo pensiero di rinunciare a Ortho, scoprì, lo faceva star male abbastanza da voler prendere qualsiasi altra soluzione, ma se non era stato neanche capace di abbracciare di nuovo suo fratello, dubitava davvero di riuscire anche solo a pensare a fare qualcosa di diverso.
Recuperò il proprio cellulare e cliccò sull’applicazione del suo fondo monetario. Sì, poteva permettersi un’altra visita al Mostro Lounge quella settimana. Sospirò, e poi ghignò: vedeva in fondo al corridoio la sua amata macchinetta delle merendine.
Molecole di dittamo nell’aria, con una densità di fumo del 55%: il tempo perfetto per inserire anche il succo di horklumpo, 67 g alla volta.
La pozione di Wiggenweld era di livello A per quanto riguardava la reperibilità degli ingredienti, tuttavia presentava difficoltà di livello C nell’esecuzione. Se non si eseguivano i giusti passaggi e non si rispettavano le giuste tempistiche, invece che guarire le ferite superficiali poteva avere sgradevoli effetti indesiderati.
Gli occhi di Ortho ruotarono su se stessi e si mossero verso l’esterno del viso, giusto per constatare che non c’era alcun lambicco e alcuna pozione.
«Ah- giusto…» Deuce fece un’espressione mortificata, e abbassò lo sguardo. «Me lo avevi detto prima, ma-»
«Ma litigare con Ace Trappola-san ti ha distratto troppo. Come sempre.» La ventola impiantata nel viso del robot produsse un suono fin troppo simile a un sospiro. «Volo a prenderla io. Tu continua a mescolare.» I suoi occhi brillarono quando il giovane umano afferrò il lungo manico di legno, muovendosi a una velocità superiore al richiesto del 5%.
Gli prese entrambi i polsi e, seguito dagli occhi sgranati di lui, mimò l’esatto movimento che avrebbe dovuto compiere. Deuce non fece alcuna domanda, ma dopo un paio di giri osò soltanto ripetere quello che l’altro gli aveva implicitamente suggerito, a quell’esatta velocità.
Ortho lo fissò solo per due giri, perché di più non poteva permettersi: aveva ancora pochi secondi per recuperare il succo, altrimenti avrebbe sprecato l’ultima ora di lavoro.
Gli ingranaggi dei suoi piedi sfavillarono, dandogli velocità di volo. In mezzo a calderoni e fuochi magici dai colori sgargianti, fluttuò quasi senza peso, fino a raggiungere l’armadio degli ingredienti. Non gli serviva alcuna bacchetta per recuperare il flaconcino di succo riposto al settimo piano: si alzò da terra di quattro metri e lo prese con le proprie dita.
Poi una parabola perfetta, e tornò al proprio calderone. L’aria che sollevò fece alzare i lembi del camice bianco di lui, e alzò persino la frangia fracida di fumi appiccicata alla sua fronte.
Ortho stappò il flacone – pesò tara e contenuto con il proprio palmo, al millilitro – e ne versò quanto doveva dentro il calderone.
La soluzione reagì subito, Deuce tentennò.
«Non fermarti, o scoppia tutto.»
Deuce non tentennò più.
La pozione cambiò colore, riempiendosi di bolle dense e pesanti. La densità di molecole di dittamo nell’aria aumentò per una frazione di secondo, per poi scomparire completamente, e quello era il segnale che la pozione stava reagendo come doveva.
Secondo versamento di succo, il colore cambiò ancora.
«Deuce Spade-san, non mescolare per 25 secondi. Poi riprendi.»
Deuce si bloccò all’istante, come congelato. Quando il giovane arricciò il naso, Ortho capì che l’odore tipico della pozione era arrivato a compimento, ed era ora di versare il resto del succo.
«Ora riprendi.»
Deuce eseguì, quasi come un automa. Ortho si limitò a sghignazzare divertito dalla scena, ma non infierì ulteriormente.
La magia era solo un flusso di dati – perché la sua, di energia, era composta da dati. Pozione come incantesimi, storia come volo, erbologia e linguistica delle razze magiche. Ortho era affascinato dal principio della conoscenza, e di come l’apprendimento di ogni più piccola nozione nuova avesse un tale cambiamento sull’individuo, umano e non.
Il cervello umano addirittura cambiava la propria forma, durante il procedimento, e questo era prova di quanto il mondo esterno influisse sull’interno degli esseri umani. Le sensazioni e le emozioni avevano una valenza biologica, non solo psicologica, sulla vita delle persone.
Se ripensava a come fosse lui stesso appena acceso, non c’era paragone con quello che era in quel momento. Il suo cervello era cambiato nella complessità man mano che suo fratello aveva potenziato o aggiunto nuove funzionalità; più o meno come l’apprendimento per gli umani, anche lui era cambiato in virtù di un sapere sempre più grande, e capacità sempre più raffinate.
Sapeva parlare, sapeva come muoversi, sapeva come interpretare certi dati. L’esperienza dei pochi anni di vita che aveva vissuto gli aveva dato una certa sicurezza che nessuna matematica avrebbe potuto dargli.
E così, si era creato il suo carattere.
La fiamma sul suo petto brillò: la pozione era terminata.
«Ora dovremmo… spegnere il fuoco-?»
La domanda di Deuce venne interrotta da un urlo, proveniente da poco distante. Ace Trappola non solo aveva fatto bruciare l’ennesimo calderone, ma ora era coperto da capo a piedi del residuo appiccicaticcio e violaceo della pozione andata a male.
«Per fortuna oggi ero con te…»
La voce di Deuce Spade non nascondeva il proprio divertimento, così come non nascondeva la propria rassicurazione. Ortho fece un cenno con la testa, e squillò. «Per fortuna davvero.»
«Ortho, scusami se te lo chiedo, ma… oggi sei di malumore?»
Il robot si girò di scatto, e Deuce sobbalzò sul posto. «Sei più… mordace del solito.»
«Sono più mordace?»
«Direi più scocciato? È un po’ strano per un robot avere sbalzi d’umore, o no?»
«Ma io non sono solo un robot. Lo ha detto Vil Schoenheit-san.»
«Beh, allora…» Deuce sospirò e alzò la mano guantata alla testa, per grattarsi i capelli. «Allora non è strano. Com’è andata con tuo fratello?»
Ortho squillò ancora. La soluzione in fondo al calderone si era addensava e aveva smesso di bollire, così il robot prese un mescolo dal carrellino in mezzo al corridoio e una boccetta piccola.
«Abbiamo giocato fino all’alba, e poi ho obbligato mio fratello a mettersi a letto. L’attività della sua corteccia cerebrale mi stava preoccupando.»
«Uh-uhm. Quindi ti sei divertito?»
«Direi di sì. Sono stato…» E si bloccò, perché il suo cervello aveva creato una frase non veritiera, qualcosa che non rappresentava appieno la realtà. Non si trattava di mancanza linguistica, quella volta, perché si rese conto di aver quasi detto una menzogna, senza sapere perché.
Oh, sì: stava imitando il comportamento di quella tipologia di personaggi degli anime che suo fratello chiamava “tsundere”.
«Ortho?»
Il robot gli sorrise, riconoscente. «Sono stato bene, ma mi manca ancora.»
«Beh, è normale che succeda-»
«Non è normale che influisca così tanto sul mio umore.»
Deuce sospirò. «No, non è normale. Non ti ho mai visto… agitato.»
Ortho prese un poco di liquido con il mescolo, e lo versò pian piano dentro la boccetta. Avere delle dita prensili dava una dimensione a tutta la realtà davvero particolare, e gli piaceva molto.
Ma non era abbastanza, davvero non era abbastanza.
«Non riesco a capire cosa ci sia di sbagliato in questa formula. Dovrebbe essere tutto uguale a prima, eppure sebbene gli ingredienti sono gli stessi, perché il risultato cambia così drasticamente? Sbagliamo qualcosa nel processo?»
Un passo alle loro spalle. «Avete finito di chiacchierare, voi cagnolini?»
Ortho si voltò verso il professore con un sorriso, e la boccetta piena di pozione. «Ecco, professore! Il nostro progetto è finito!»
*******
Floyd afferrò l’enorme padella per il manico, con una sola mano, si voltò di scatto e si sporse verso il polpo umano. Non sembrava affatto contento. «Ora com’è?»
Azul recuperò dal bordo della padella il piccolo cucchiaio di legno e assaggiò ben due chicchi di riso, prima di fare un’espressione schifata. «Ci hai messo due milligrammi di sale in più-»
«Oh, ma sta zitto! Va bene! Se qualcuno si lamenta, gli faremo uno sconto sulla bibita!»
«Dovrai passare sul mio cadavere prima che questo accada-»
Jade, per fortuna, interruppe il diverbio tra i due, comparendo all’improvviso alla porta e facendolo sobbalzare sulla sedia. «Azul, sono finite le patate!»
Idia vide benissimo che gli occhi di Azul ebbero quei due secondi di vuoto, prima di riuscire a parlare di nuovo al più maligno dei gemelli. «Terminiamo le ordinazioni degli hamburger.»
«Sono solo le 20.55-»
«Mi sembra una situazione disperata già così, quindi! No! Hamburger! Per! Stasera!»
La murena umana alzò le spalle e scosse la testa, senza più provare a fare resistenza. Intanto, Floyd aveva cominciato già a impiattare, e staccò uno a uno gli ordini che aveva terminato: due primi piatti di risotto ai frutti di mare, un piatto di linguine al pesto e uno di maccheroni al formaggio, e un filetto di trota salmonata.
Poi, si strappò di dosso il grembiule, lo appallottolò e lo buttò in faccia a Idia – marciò verso la dispensa, forse per raccogliere la poca verdura rimasta, e ringhiò fino a far tremare le pareti.
Idia stropicciò il grembiule tra le proprie dita, piuttosto impressionato. «Le vostre cucine sono sempre così animate?»
Azul lo fulminò con lo sguardo. «Hai scelto il momento peggiore per venire, Idia-san. Davvero il peggiore!»
A dir la verità, Idia non si sentì affatto in colpa, ma si sentiva un po’ a disagio in tutto quel trambusto. Nessuno badava a lui, così occupati a correre da una parte all’altra della cucina, per recuperare qualsiasi cosa sarebbe servito a soddisfare i clienti esigenti del piccolo Lounge.
Si curvò in avanti, verso il bancone accanto al quale si era seduto. «Insomma, volevo dirti che-» I fornelli si colorarono di una fiammata improvvisa, quando Floyd accese il fuoco; Idia spostò la propria sedia di dieci centimetri di lato, e riprese a parlare. «Che le cose non sono andate come dovevano.»
Gli occhiali di Azul scintillarono, senza alcun apparente motivo. Forse per il male che aveva dentro in quel momento.
Il polpo umano si avvicinò al suo stesso tavolo, prese il plico di comande e intercettò il cameriere di corsa che passava dietro di lui: appoggiò sul suo vassoio, con una maestria di coordinazione e riflessi, tutti i fogli in ordine.
Senza sbattere neanche le palpebre, e senza staccargli gli occhi di dosso.
«Spiegati meglio, Idia-san-»
Sussurrò. «Non sono riuscito a prenderlo.»
Persino Floyd si fermò, a quelle parole – e Idia era abbastanza certo che Jade fosse appena fuori dalla porta, a sentire quello che stava dicendo. Azul non lo aveva avvertito del pericolo quando gli aveva chiesto una consultazione privata all’ultimo minuto, benché pagata, ma se era arrivato a parlare al suo compagno di scuola in una ambiente del genere, forse era davvero troppo disperato.
Azul recuperò il controllo della situazione, circa. «V-voi continuate a lavorare. Non fermatevi.» Si sbracciò finché tutti i camerieri non ebbero ripreso a fare il proprio lavoro, e adocchiò male la schiena di Floyd. «Non sei riuscito a fare cosa?»
D’impeto, Idia schiacciò il grembiule tra le sue mani sul tavolo che li divideva. Tutto era così frustrante. Sussurrò e borbottò, le parole che diventavano una fiumana senza senso, il rantolo di una gola profonda contro cui sbattevano onde violente. «A prenderlo! A prendere Ortho! Non- mi sono bloccato a metà, è stato lui ad abbracciare me. Come uno stupido, patetico inetto. Non sono riuscito a fare proprio niente neanche questa volta, eppure non era così difficile-»
«Calmati, Idia-san.»
Non servì che Idia ripetesse, Azul sospirò avendo già intuito tutto. «Beh, comunque vi siete incontrati e avete trascorso del tempo assieme-» Il tentativo di Azul di essere diplomatico, e di scegliere parole adeguate da dire, si sgretolò quando vide un ragazzo con una zuppa di piselli. «Cos’è questa ciotola straripante? Ti pare un piatto da presentare ai clienti? Rifallo!» Tornò da Idia, come se non avesse appena minacciato di morte qualcuno con il semplice sguardo. «Voglio dire, l’importante è il risultato, no? Ti fai troppi scrupoli morali a riguardo, Idia-san.»
Idia si rannicchiò sulla propria sedia, abbracciando le proprie gambe e nascondendo il viso contro le ginocchia. In un certo senso, tutto quel fracasso lo isolava, e lo distraeva dalle proprie emozioni. Solo un poco. «Non riesco a non pensarci.»
«Ci pensi più a quanto pensi ai tuoi giochi on-line?» Idia lo guardò oltre la barriera spessa della frangia, Azul intuì ancora qualcosa. «Oh per i sette mari, Idia-san, questo è davvero preoccupante.»
«Lo so!»
«Non pensavo che la situazione fosse così drastica.»
«Lo so!»
«Però vi trovate la sera, no? Come due fratelli normali.»
Idia fece una smorfia e guardò di lato, verso i fornelli – era abbastanza sicuro che il gemello in questione avesse sentito buona parte del discorso. «Floyd Leech. Come ti sentiresti se ti separassero a forza da tuo fratello?»
E Floyd non fece neanche finta di essere sorpreso di essere stato interpellato. «Una favola! Finalmente libero!»
In quell’esatto momento, quasi non avesse aspettato altro per tutta la serata, comparve di nuovo Jade Leech accanto al gemello. «Ma non eri tu quello che aveva fatto una scenata alla cerimonia dei Dormitori perché eri finito in un posto diverso da me?»
Floyd divenne paonazzo. «Sta zitto! Non mentire! Non è mai successo!»
«Sì, ma tu non-»
Un cameriere arrivò trafelato dalla sala. «Dov’è il mocio? Un cliente ha vomitato sul pavimento nell’atrio!»
Jade era sparito di nuovo, all’improvviso, lasciando tutti quanti soli, e Floyd si rifiutò categoricamente di lasciar solo il suo risotto alle zucchine.
Quando un altro cameriere lasciò la stanza e aprì la porta verso il corridoio che portava al Lounge, Idia sentì una leggerissima musica delicata, qualche nota di paradiso in mezzo a quell’inferno di fuoco e odori. Un’altra fiammata esplose sui fornelli, quella volta il cuoco stava combattendo contro una salsiccia di cavallo.
Azul si sistemò gli occhiali sul naso. «Hai provato a chiedere al Dirigente di farvi tornare nella stessa stanza?»
«E privarlo della sua libertà? Mai!»
«E cosa pensi di fare, allora?»
Idia borbottò. «Non lo so, sono qui per chiedere a te! Sei tu quello bravo nel capire le persone!»
«Idia-san, non capisco di cosa hai paura.»
«Non lo so neanche io, a questo punto. Non capisco più niente. So solo che…» Strinse l’abbraccio alle proprie gambe, sul limite delle proprie vere emozioni. «So solo che non voglio separarmi da lui.»
Azul lo ignorò per qualche istante, interessato a un altro dei suoi camerieri.
Era quella la verità, dunque. Così semplice e banale, e a tratti così mortificante. Che fosse un bisogno nato dal conforto che Ortho gli aveva sempre dato o che fosse nato da altro, poco cambiava, perché quelli erano i suoi veri sentimenti e i suoi reali bisogni.
Necessitava di Ortho, più che mai.
Azul tornò nel suo campo visivo. «Posso provare a darti un consiglio.»
«Spero migliore di quello della volta scorsa.»
«Non lamentarti! Ci sono certi desideri che soddisfatti perdono di intensità. Prova a incontrare Ortho-san tutte le sere, e il tuo bisogno si acquieterà, forse diventerà persino fastidio!»
Jade si chinò verso di lui, all’improvviso, e lo spavento fu tale che Idia strillò: la murena gli stava porgendo un piatto di tartine avanzate dalla serata, per un piccolo snack.
«Come quando mangi il tuo cibo preferito fino ad averne la nausea, e poi non lo vuoi mangiare più.»
Con il terrore di venire mangiato da quei denti aguzzi, Idia si servì di ben due tartine dai colori alquanto discutibili: scoprì che erano ricoperte di paté al salmone e alle olive, ma non osò lamentarsene.
«Potrei provare…»
Ma persino lui avvertì il pericolo quando l’ultimo cameriere entrò in cucina, con un piatto pieno di riso. Azul lo fermò subito.
«Cosa ha questo piatto?»
«Hanno detto che era troppo salato…»
Idia scivolò a terra, contro il tavolo, prima che la guerriglia esplodesse, e prima che Floyd Leech lanciasse ormai fuori controllo la padella piena di tagliatelle al ragù.
«Visto, Floyd? Io te lo avevo detto-!»
Si chiese come sarebbe stato avere una pelle non sintetica, e percepire la carezza del vento senza elaborarla in un sistema numerico. Ortho sapeva che gli esseri umani avevano molti limiti naturali, e non invidiava affatto il loro fisico flaccido e molliccio, debole.
Ma per una volta, solo per provare quell’esperienza che i suoi circuiti erano in grado unicamente di simulare, avrebbe voluto essere davvero reale.
Virò di violenza attorno a una nuvola bassa.
Il mare all’orizzonte era dipinto dei mille colori del tramonto, e stava fagocitando anche l’ultimo pezzo di sole primaverile. I suoi primi ricordi di androide riguardavano il mare aperto, e i giochi di luci variopinte con cui sole e stelle e luna giocavano assieme al mare.
Tornò con la mente a suo fratello, come sempre.
Virò ancora e cominciò a scendere verso la spiaggia, dov’erano rimasti i suoi compagni di classe.
Una piccola gita assieme, così aveva detto Ace Trappola. E l’esperienza scolastica si arricchiva sempre più, Ortho era grato di poter fare tutto quello.
La sabbia si sparse ovunque, appena atterrò accanto ai due ragazzi; un ragazzino poco distante lo guardava ammirato e invidioso, ma il genitore apprensivo lo strattonò via e si allontanò in fretta con lui.
Ace Trappola gli si avvicinò. «Sai? Un po’ ti invidio. Tu puoi volare pure senza scopa.»
«Ace Trappola-san, posso far volare anche te senza scopa!»
Deuce, accanto all’altro, non avvertì il benché minimo pericolo nella sua proposta, e allargò gli occhi con molto entusiasmo. «Davvero potresti?»
«Non credo che però ti possa piacere il suo metodo, Deuce…»
Ortho alzò il dito e descrisse visivamente una parabola, che partiva dalle sue mani e finiva in mare aperto. Certo, così avrebbe volato senza scopa, e secondo i suoi calcoli sarebbe rimasto in aria per ben 10,53 secondi. «Dipende se sai nuotare. Ma la vostra struttura muscolare dovrebbe essere in grado di tenervi a galla.»
Ace rabbrividì per entrambi. «Il mare mi piace ma non fino a quel punto, grazie…»
Ortho rise, si sollevò ancora in aria e fece una piroetta con i motori dei piedi accesi.
Sentì la sabbia muoversi, le onde del mare che si ritiravano sui granchi nascosti. Ace e Deuce lo seguirono sghignazzando e ridendo assieme a lui, calpestando i sassi che il giorno aveva lasciato roventi.
Altri ragazzi giovani erano sparsi lungo la spiaggia, qualcuno in mare a concedersi l’ultimo bagno. Un gruppetto di studenti del Collage stava giocando a Pallavolo magico, con le bacchette sguainate a inseguire un pallone volante.
I tre raggiunsero uno scoglio e lo superarono. Apparve quindi alla vista la terrazza di un piccolo bar di legno e decori floreali, piano di gente.
I due ragazzi non si trattennero. «Oh, hanno aperto un locale nuovo! Sembra un posto molto carino!»
«Sulla spiaggia, ma abbastanza appartato rispetto alla strada principale…»
«Con tutte quelle luci e quelle piante piene di fiori…»
Ortho impiegò un millisecondo a cercare la locandina in internet, e la sua voce divenne quella di un autoparlante. «”Sun Paradise, il posto ideale per passare momenti speciali coccolati dai migliori tè del Regno delle rose – venite a scoprire la nuova collezione degli infusi ai fiori, con la vostra persona speciale”»
Deuce annuì. «La vostra persona speciale…» Lanciò un’altra occhiata ai camerieri ben vestiti, e ai loro vassoi sempre pieni di dolci e bevande. Ortho registrò l’aumento del suo battito cardiaco, un desiderio ben poco celato. «Certo non sarebbe male, devo dire. Sempre che il prezzo delle torte non sia esagerato-»
«Fetta di cheese cake ai frutti rossi, 15.000 galeoni. Fetta di cheese cake alle fragole, 13.000-»
Ace intervenne, assolutamente scandalizzato. Strano a dirsi, ma tutti quei fiori colorati avevano perso di fascino, per lui. «15.000? Assolutamente no! Neanche per mia madre verrei qui! Tutto questo è fuori di testa!»
«Io, per mia madre… forse, un giorno…»
Guardò male l’amico. «Non farti strane idee! Mica vorrai portare tua madre a un appuntamento!»
«Perché no? Si merita certo tutte le fette delle migliori cheese cake del mondo!»
E fu sempre Deuce a notare come Ortho si fosse zittito, e fosse stranamente immobile a guardare la piccola terrazza. «Ortho?»
Ortho allargò i grandi occhi dorati, nel guardarlo. «Stavo ragionando sul significato della parola “appuntamento”, perché come ogni cosa, voi umani date un’interpretazione personale alle parole.»
«Significa… fare qualcosa con le persone a cui vuoi bene.»
«Che tipo di persone?»
«La tua fidanzata, per esempio.»
E Ace aggiunse, accanto a lui. «O il tuo fidanzato.»
Ortho rimuginò qualche secondo sulle loro parole. Era sempre più difficile interpretare le parole di un essere umano, piuttosto che elaborare tutte le informazioni trovare sul web. «Uhm, quindi, rientra nella categoria di “dare un valore al tempo”?»
I due ragazzi parlarono allo stesso tempo, con risposte molto simili.
«Beh, sì. Detta in modo molto semplice direi di sì.»
«Il nostro tempo non è infinito, come decidiamo di spenderlo forma le persone che siamo, e ci dà un significato. Io penso…»
Ortho percepì l’odore dei dolci, il vociare un pochino più concitato di una bimba entusiasta, nascosta dietro la felce di un grande vaso. Vide la madre chinarsi di lato, gesti pieni d’amore in mani e braccia.
Aveva così tante domande, e difficile era scegliere quali scegliere per cominciare un discorso che gli avrebbe dato delle vere risposte.
«Che significato può avere voler passare del tempo con qualcuno in particolare?»
I due ragazzi si lanciarono un’occhiata un po’ preoccupata, e Deuce fu il primo a tentare di dare una soluzione. «Che tu dai molto valore a quella persona?»
«Come un fratello?»
«Anche, ma non necessariamente. Sono… tipi di amori diversi, per noi.»
«Interpretazione personale della parola amore.»
Ace si ribellò all’implicito messaggio di quelle parole, e si rivoltò contro lo stesso Deuce.
«Io non amo mio fratello!»
«Ma io amo mia madre!»
«Sei tu quello strano tra di noi!»
Ortho ridacchiò al loro battibecco, ma la realtà è che tutto quello lo confondeva. Nella scienza, difficilmente c’erano due risultati plausibili per la stessa formula, e la relatività non era mai di buon auspicio. Bianco o nero, sì o no, uno o zero.
Provò a riformulare lo stesso concetto. «Sono diversi tipi di amore, ma hanno la stessa definizione.»
Ace però non aveva la stessa pazienza del compagno, e intervenne prima che Deuce potesse dare un’altra risposta conciliante. «Forse certe volte i sentimenti non sono semplici da definire e basta, e non si deve neanche farlo! Ognuno ha un proprio modo di vivere, alla fine, e non c’è sempre una risposta univoca.»
«Quindi esistono certe cose che sono inspiegabili, e va bene così?»
«La scienza non può spiegare davvero tutto tutto! Anche se sei un robot, i tuoi sentimenti non sono dei numeri! Non esistono definizioni che vanno bene a tutti! Persino tu sei un’eccezione a qualsiasi tipo di regola!»
«In realtà-»
«No, non accetto risposte a questo!»
Sbuffò e tirò un calcio alla sabbia, che andò sopra la scarpa metallica di Ortho – e bruciò sotto le fiamme dei suoi piedi, che lo tenevano sollevato in aria. La sua espressione era piuttosto buffa.
Ma a quel punto, avevano cominciato ad attirare l’attenzione dei clienti del locale. Per evitare altre figure molto imbarazzanti, Deuce fu il primo ad allontanarsi e gli altri due lo seguirono.
Ortho volò sopra di loro, e il giovane alzò la testa per poterlo guardare in viso.
«Stai ancora pensando a tuo fratello, non è vero?»
«Temo sia inevitabile.»
Ace sospirò sconfitto. «Ah! Ogni discorso con te finisce sempre lì! Sei un po’ ossessionato!» Si rese conto da solo di aver alzato un po’ troppo la voce, si imbarazzò molto. «Ah, non volevo… forse ho…»
Ortho ridacchiò. Volò e gli si mise accanto, imitando quello che fu una sorta di occhiolino – a cui Ace arrossì, suo malgrado.
«Mi piace stare con voi. Anche voi date un senso al mio tempo.»
«Non intendevo questo…»
Deuce tornò dove era stato interrotto. «Vuoi portare qui lui?»
Ortho comprese subito come quella domanda fosse scomoda, per lui, perché ancora una volta era messo di fronte alla possibilità di mentire, e una parte di lui desiderava farlo. Deuce pure era un ragazzo molto sensibile, per quanto in modo diverso da Ace – meno diretto e meno brutale.
Il piccolo androide decise di rispondergli con una verità. «Un po’ di sole gli farebbe molto bene, ma mangia sempre dolci su dolci. Sono molto preoccupato per la sua salute.»
Ace sospirò ancora. «Sei un po’ un fratellino-chioccia.»
Anche Deuce sospirò, forse per imitarlo.
Ortho prese il volo e superò in altezza persino il sole, immergendosi nel cielo libero: da lassù, poteva vedere l’intera isola, e tutto l’oceano attorno. Eppure, in basso, quel pezzo di spiaggia sembrava ancora così luminoso.
Così, provò a immaginare suo fratello sorridente, per una volta. E non fu difficile ammettere, davvero non lo fu per niente, che quell’immagine gli piaceva molto. E non c’era nessuno ad ascoltare la sua confessione.
«Però, se lo facesse felice, lo porterei volentieri...»
******
Spense la console, sbuffando sonoramente – ma le pareti assorbirono anche quel rumore, e tutto fu silenzio ben presto, di nuovo.
Si guardò attorno cercando ispirazione, qualcosa che potesse agire sul suo animo. Scorse con lo sguardo tutte le custodie originali dei videogiochi che più amava, ma niente lo accese abbastanza da farlo alzare e fargli prendere un’altra console per continuare a giocare.
Eppure, erano solo le due di notte. Grugnì irritato.
Strisciò verso il proprio letto, con le ginocchia sul tappeto morbido e blu scuro. Schiena contro la struttura del letto, portò la testa all’indietro e guardò il soffitto, perdendosi nei propri pensieri.
Non voleva parlare con nessuno. Non voleva giocare a niente. Non voleva vedere niente.
Ortho, però, era sempre presente, e annullava ogni altra cosa; questa incidenza dei fatti cominciava a dargli alquanto fastidio.
Sbuffò e si dimenò da solo, agitando le mani nell’aria, quasi dovesse picchiare un essere immaginario.
O afferrare invece Ortho e tenerlo tra le proprie braccia – preferiva la seconda opzione, in effetti.
Prima era tutto così semplice, perché non c’erano pensieri. C’erano solo lui e Ortho, a vivere in quella dannata stanza, e nel momento stesso in cui il suo fratello meccanico si era allontanato, ecco che lui aveva riempito quel vuoto con i suoi pensieri e le sue paure e le sue ansie.
Una volta, tanto tempo addietro, avrebbe riempito quel vuoto con il proprio dolore; almeno, riconosceva di aver fatto passi in avanti.
Anche se non era per niente abbastanza.
Provò a guardare la pila dei manga che non aveva finito di leggere. Shonen, Shojo, Seinen, di tutto. Allungò anche una mano per prenderne uno, ma appena lo aprì si rese conto che i suoi occhi non riuscivano a leggere un solo baloon, e ogni suo tentativo sarebbe stato vano.
Ripose il volume sulla pila e si girò col viso verso il letto, per affondarlo tra le coperte.
Non aveva neanche sonno e quindi sarebbe stato inutile mettersi a dormire.
«È normale che un genio come me si annoi… tutto il mondo è noia…»
Adocchiò lo spazio vicino alla propria scrivania, dove fino a un mese prima c’era la pedana di Ortho. Si domandò cosa facessero i comuni mortali quando erano annoiati, prima di andare a dormire, perché se non riusciva ad avere soluzioni geniali, poteva anche accontentarsi di soluzioni normali.
La risposta gli venne alla mente quando adocchiò di nuovo i propri manga, e riuscì a intravedere il titolo di un hentai particolarmente disturbante che non era riuscito a leggere, la settimana prima.
Certo, quella era una possibile soluzione. Gli hentai gli avevano ampiamente spiegato come un orgasmo potesse aiutare a rilassare nervi e muscoli, e indurre sonnolenza oltre che piacere. Se niente riusciva a fare altrimenti, poteva comunque ricorrere a quello.
Si arrampicò sul letto e si mise disteso, comodo tra lenzuola e cuscini. Alzò le cuffie che aveva al collo, e con dita veloci selezionò un asmr erotico in una playlist intitolata “Suoni bagnati”. Non indagò molto, scelse solo quello più lungo.
E si scoprì avere un udito sensibilissimo dopo appena mezzo secondo: la voce di quel ragazzo penetrò ogni sua sensazione e fece formicolare il suo intero corpo. Era il suono di un bacio, forse, particolarmente intenso.
Il suo pisello rispose immediatamente a quell’immagine sonora, e premette contro i pantaloni. Idia abbassò anche l’intimo e cominciò subito a massaggiarsi.
Provò a seguire il ritmo del suono. Veloce quando era veloce, lento quanto era lento, per mimare un’immedesimazione più profonda.
E dopo il bacio, venne il sesso orale. Sesso orale sottolineato da una lunga sequenza di gemiti, suoni umidi delle labbra e della lingua di lui.
Idia era abbastanza frastornato da tutto quello, perché mai nella vita si era immaginato una vulva vera, senza pixel di censura, e certo non era intenzionato a cominciare proprio in quel momento – lo salvò però immaginare che quei rumori potessero essere prodotti anche dal sesso orale su un uomo, da parte di un uomo.
E il suo pisello rispose in maniera così pronta e vivace che gli piacque molto.
Non poteva dubitare che quei suoni fossero quantomeno verosimili, ma poco importava. Non si era mai chiesto come due piselli potessero entrare in una vagina assieme a un dildo tentacoluto, quindi sospese il proprio giudizio anche in quel frangente.
Si scoprì molto più eccitato di quello che avrebbe immaginato. Il suo corpo tremava, accaldato, e le sensazioni erano tutte concentrate sul piacere e sul tatto.
Qualcuno venne nel suo orecchio e lui boccheggiò; il bacino ebbe uno spasmo meccanico, ma ancora niente gli bagnò le mani. I muscoli si tesero ancora di più, per quel mancato rilascio, e il piacere si intensificò nell’insoddisfazione.
Provò a seguire ancora il flusso del suono. Dopo il sesso orale, il protagonista aveva indotto la ragazza a mettersi carponi, con voce suadente e due complimenti di numero; sollevata la gonna, aveva cominciato ad accarezzarla, e a quel punto Idia aveva smesso di immaginare.
Perché non gli piaceva immaginare il sedere di una donna mentre si toccava. Non gli piaceva immaginare neanche il sedere di un uomo, a essere sincero.
Il suo istinto lo guidò di prepotenza, a quel punto, frustrato tanto da essere indomabile, e quindi si ritrovò a immaginare il sedere di Ortho. La faccia di Ortho, le gambe di Ortho, persino il pisello di Ortho.
La sua mente sorvolò sul fatto che l’androide era fatto di metallo, perché era semplice immaginarlo morbido al tocco, coperto da una pelle sintetica che la ragione avrebbe faticato persino a immaginare. Non gli importava che di una cosa, e si abbandonò a quello specifico pensiero.
Allora, fu tutto più facile: raggiunse l’orgasmo in pochi secondi, appena il protagonista fu completamente dentro il corpo dell’amante.
Era stato lui, a prendere Ortho.
Si tolse le cuffie di scatto e le lanciò via, senza il minimo riguardo. Con il piacere appagato, erano riemersi subito tutti i dubbi e tutti i pensieri, e le paranoie erano diventate senso di colpa.
Come aveva potuto, si chiese, fare una cosa del genere.
Lui aveva creato e cresciuto Ortho, lui gli aveva dato vita. Eppure, era innegabile che avesse goduto così tanto nel pensarlo coinvolto in certe attività, assieme a lui.
L’orrore si calmò, la parte razionale cominciò a emergere di nuovo in lui. Cercò di convincersi che era una reazione normale, dacché Ortho era stato il solo supporto emotivo che aveva sempre avuto, e che aveva riempito vuoti sentimentali che neanche i suoi genitori erano riusciti a colmare.
Ortho era sempre stato suo, emotivamente e sentimentalmente.
Ma la ragione non riuscì a spiegare come mai anche il suo desiderio si fosse ancorato al piccolo androide e ne avesse fatto il centro delle proprie attenzioni.
La mitologia antica era piena di divinità che avevano generato i propri amanti, anche se Idia faticava a paragonarsi a Gea, per quanto potesse essere arrogante.
Arrossì fino alla punta dei capelli e si arrotolò tra le coperte, sbuffando e ringhiando. Piacevole, ma così tanto piacevole. Non aveva davvero bisogno di altri problemi, dopo tutte quelle dei giorni passati.
Si ritrovò però a pensare che forse era proprio quella, l’origine di ogni cosa. Il fatto che lui fosse attratto anche fisicamente da Ortho, ed emotivamente, gli forniva una spiegazione logica alla malinconia che provava.
Il fatto che lo avesse sempre avuto vicino era stata una fonte di sicurezza su tutti i piani del suo essere, e perderli da un giorno con l’altro era umanamente impossibile da sostenere.
Ma se le cose stavano veramente così, il problema era molto più grande di quel che aveva preventivato.
Come avrebbe fatto a dirlo ad Azul, per chiedere consiglio.
Come avrebbe fatto poi a dirlo anche a Ortho – no, a Ortho non doveva assolutamente dirlo, o sarebbe tutto finito in una catastrofe. L’androide non aveva proprio il senso della morale, e se anche lui avesse ricambiato i suoi sentimenti-
Idia si fermò, allucinato da sé stesso. I sentimenti erano come una droga per la sua mente, perché al dolore ci era abituato, ma non lo era altrettanto per le cose come felicità ed eccitazione.
Si scoprì desideroso, speranzoso che Ortho ricambiasse i suoi sentimenti, perché se l’androide non aveva morale, poteva non averla neanche lui. Nessuna legge umana e divina aveva mai regolato i rapporti tra umano e cibernetico, e non avrebbe chiesto a nessun oracolo il permesso di averlo per sé.
Ma quel senso di colpa lo stava dilaniando dall’interno, perché tutto era sbagliato. Ortho era nato come suo fratello, non come una bambola gonfiabile. Forse, quei sentimenti che Idia stava provando, gli mancavano di rispetto, e tutto Idia voleva tranne che offendere il suo Ortho.
Ringhiò ancora, frustrato, e per fortuna a quel punto la sua tempia pulsò, sull’orlo del collasso per il sonno: era vero, quindi, che l’orgasmo rilassava il corpo.
Alzò gli occhi al soffitto, e ordinò alle luci di abbassarsi. Volente o nolente, avrebbe trovato in un altro momento le risposte che cercava.
Sperò soltanto – o forse no – di non fare sogni bagnati sull’androide, altrimenti si sarebbe poi rifiutato di guardare ancora negli occhi Ortho.
Vil fece molta fatica a non alzare gli occhi al cielo: il battito del suo cuore tradiva la sua irritazione molto più dell’espressione modellata perfettamente sul suo viso.
«Ortho, c’è un motivo per cui continui a ronzarmi attorno e interrompi le prove?»
Gli ingranaggi del piccolo androide squillarono. «Mio fratello mi sta evitando da due giorni e non mi vuole dire il perché. Sono preoccupato.»
«E questo cosa ha a che vedere con le prove e con me?»
«Ti chiedo di andare in camera sua e di trascinarlo fuori, come hai già fatto!»
«E a che titolo?»
«Come Capo Dormitorio, naturalmente!»
Un ragazzo vestito da albero si avvicinò a loro, seppur in modo molto esitante. Vil gli riservò un’occhiataccia molto scocciata, cui seguì un silenzio imbarazzato e un gridolino di paura.
«Perché non lo puoi fare tu, Ortho? Mi risulta che lo hai fatto come routine base per mesi.»
«Ma ora è diverso-»
«No, non lo è. Vai e sfonda quella porta da solo. Questa situazione è del tutto ridicola.» Alzò la mano prima che il robot potesse replicare, e lo zittì appoggiando un dito sopra la sua maschera. «Ora, dobbiamo lavorare. Quindi fai silenzio.»
Ortho squillò minaccioso, con gli occhi brillanti. Si alzò in volo sullo spalto e si sedette sull’impalcatura che sosteneva le grandi luci, con le gambe a penzoloni.
Vil battè le mani e la scena riprese da dove si era interrotta. Contro l’albero, il re delle scimmie si avvicinò all’esploratrice, camminando carponi e saltellandole attorno; interpretava bene gesti di curiosità e delicatezza, ma Ortho già sapeva che a Vil quello non sarebbe bastato, perché per una grande storia d’amore serviva niente di meno che una interpretazione magistrale, specialmente se c’erano ben poche parole.
Il tecnico sopra l’impalcatura mosse la luce verso l’eroina in gonnella, e qualcuno alzò la musica melodrammatica – tempo due secondi, e Vil interrompeva tutto, con cipiglio davvero irritato. Ma quello che sorprese di più Ortho fu che il giovane umano alzò a un certo punto il viso a lui.
«Ortho, vieni qui.»
Tutti lo guardarono, spaventati e incuriositi. Ortho si sorprese di non essere molto contento d’essere stato interpellato, ma non aveva molte alternative. Vil aveva più anni di lui, e un’implicita autorità a cui doveva sottostare.
Controvoglia, l’androide si alzò di nuovo in volo e lo raggiunse, circondato dagli altri ragazzi del club.
«Dimmi Ortho, perché la scena del primo incontro è così importante?»
Ortho scorse tutti i blog di critica letteraria per trovare la risposta alla sua domanda. «”Il primo incontro tra il re delle scimmie e l’esploratrice sancisce la connessione tra i due mondi, sia all’esterno che all’interno del protagonista. È il punto di svolta, il midpoint nell’arco di trasformazione del personaggio, dopo il quale niente sarà più come prima. Il primo passo per la riscoperta della sua umanità”»
Vil allargò gli occhi e fece un ampio gesto con la mano, verso il resto dei ragazzi. «Ecco le parole chiave. Riscoperta della sua umanità. Perché ha vissuto per anni come una bestia, ma è sempre stato uomo. In voi non c’è niente della bestia né di umano. Dovete sentire dentro l’istinto e il dramma.» Guardò il re delle scimmie, un bestman con le orecchie da giaguaro. «Ti senti bestia?»
La domanda sembrò molto poco delicata, dato il frangente, ma nessuno ebbe il coraggio di farglielo notare, tantomeno l’interpellato. «Beh… un po’-»
«Non è abbastanza.» Guardò Ortho. «Recupera qualche documentario sui gorilla. Potrebbe aiutarci.»
Tempo qualche minuto, e tutti i ragazzi del teatro erano seduti sugli spalti a guardare documentari naturalistici di qualche decennio prima. Gli occhi di Ortho si erano adattati a far da proiettore, e le casse dell’audio si erano agganciate con lunghi fili al suo corpicino minuto. Tutto meraviglioso, a parte la voce metallica del conduttore che di tanto in tanto flippava e diventava uno stridio acuto.
Ortho, come sempre, aveva il privilegio di stare seduto accanto a Vil, e neppure quella volta perse l’occasione di sfruttarlo.
«Schoenheit-senpai.»
«Cosa non ti è chiaro del fatto che questa è una punizione per come ti sei comportato?»
«Ho capito. Ti chiedo scusa per come mi sono comportato.»
«Molto bene, bravo bambino.»
«Ti devo comunque chiedere una cosa.»
Ci fu un lungo momento di silenzio, che Vil interruppe con un altrettanto lungo sospiro. «Non mi lascerai in pace fino a che non ti do retta, vero?»
«Potrei seguirti fino in camera tua se questo-»
«No, non ti avvicinerai a Pomefiore se non su esplicito invito.»
Un gorilla rubò il proprio figlio alla madre, per poi scappare con quello fino a nascondersi, e coccolarlo in pace. Un padre molto devoto e felice, come se ne vedevano davvero pochi in giro. Qualcuno nel pubblico elargì un sospiro di commozione e tenerezza.
«Schoenheit-senpai, cosa provi quando mi tocchi?»
Lo sentì muoversi con non poco disagio sulla propria poltroncina. «Perché questa domanda?»
«Perché quello che provi tu potrebbe provarlo anche mio fratello, e io desidero capire.»
«Non credo che quello che provo io sia lo stesso che prova tuo fratello.»
«Ma i sensori tattili sono gli stessi.»
«Sì, ma come elabori l’informazione è la tua personale sensibilità. Non puoi chiedere a me qualcosa che può sapere solo lui.»
Ma Ortho non demorse affatto. «Sono duro?»
«Beh, sì. Sei di metallo-»
«Sono freddo?»
«Anche questo sì.»
Lo sfarfallio dei suoi ingranaggi diminuì appena, un poco più calmo.
Vil si mosse ancora accanto a lui, posizionando meglio le proprie gambe. «Non dovresti paragonare il tuo corpo a un corpo di carne, Ortho. Tu sei unico così come sei.»
L’androide fece un gesto con il capo, d’accordo, e questo fece traballare l’intero schermo di proiezione.
«L’intimità tra esseri umani è sancita dalle condivisioni tattili, non solo emotive. Io sto imparando cosa siano le emozioni, ma con questo corpo non posso ancora imparare cosa siano i sensi, né farne esperienza. Per questo voglio…»
Fece una piccola pausa, Vil si sporse verso di lui, in attesa.
«Voglio chiedere a mio fratello di potenziare i miei sensi. Per avere questo contatto così importante.»
«Vuoi diventare un piccolo ometto, quindi.»
Voleva guardarlo, ma non poteva. Lo cercò con la mano, e Vil rispose stringendogli le dita. Ecco qual era la differenza tra lui e suo fratello: Vil aveva in sé molti meno sentimenti compromettenti e complicati, e non gli era difficile mettersi in gioco.
O forse, aveva una maturità che Idia non aveva ancora raggiunto, per merito della sua storia personale.
«Mio fratello conosce già il linguaggio con cui mi esprimo. Me lo ha insegnato lui. Ma forse, se io imparo davvero la lingua implicita degli umani, posso comunicare meglio con lui.» Sorrise. «Voglio essere un umano anche fuori, non solo dentro. E forse, io e mio fratello potremmo diventare veri uomini assieme!»
Anche i gorilla si abbracciavano, per comunicare vicinanza. Era un tipo di linguaggio elementare, le cui prove aveva visto in mille film. Lui stesso aveva registrato le reazioni fisiche di Idia, quelle poche volte che lo aveva abbracciato.
E capirlo nel profondo avrebbe intensificato il loro rapporto, ne era più che sicuro.
«Se questo può farti davvero felice, Ortho, penso che tu abbia il diritto di pretenderlo.»
«Sì, penso proprio che questo possa rendermi felicissimo.»
Vil accarezzò la sua testa di metallo, sotto i capelli oleografici. Era caldo, e il suo cuore era così veloce.
«Bravo ragazzo.»
******
Idia lasciò andare di scatto il joystick che teneva in mano e si voltò verso la porta: aveva decisamente perso traccia del tempo. Tentennò, rimanendo immobile per diversi secondi, indeciso se muoversi oppure fare finta di niente – ma Ortho avrebbe facilmente rivelato la sua bugia, entrando prima o poi nei circuiti della sua console e guardandolo dal grande schermo con i suoi occhi meccanici. Arreso all’evidenza che non poteva scappare da quella serata, si alzò e per prima cosa inciampò nella borsa piena di libri di scuola, per seconda cosa invece riuscì ad arrivare alla porta e ad aprire.
Suo fratello volteggiava a pochi centimetri di distanza, guardandolo con occhi grandissimi. Si rese conto di aver sentito la sua mancanza, in quei pochi giorni in cui non l’aveva visto. Forse un po’ troppo; le punte dei suoi capelli si colorarono di un leggero imbarazzo. «Oh- Ortho…» Abbassò gli occhi subito, per non incrociare quelli di lui. «Sei arrivato in anticipo…»
«In anticipo solo di quattro minuti, ventisette secondi e quattro decimi. Schoenheit-senpai dice sempre che sotto i cinque minuti non è maleducazione.» Ma come aveva aspettato che Idia gli aprisse la camera, così Ortho non aspettò che gli desse l’effettivo permesso di entrare. La sua individualità poteva terminare lì. Quindi volò più alto della sua spalla e lo superò, fece una piroetta in aria quasi toccando il soffitto e atterrò con garbo, accanto al letto. «Aspettavi gli ultimi tre minuti per riordinare camera tua?»
Idia chiuse la porta, offeso; almeno poteva distrarsi con un’altra emozione che non fosse la vergogna. «Cos’ha che non va camera mia?»
«Io volo, ma tu inciampi su questo tappeto. E non ho idea di come tu faccia a dormire lì.»
La sua occhiata al materasso, adibito a seconda scrivania molto più comoda e morbida, lo ferì molto. «Neanche camera tua sarà ordinata! Sei mio fratello!»
«Non ho bisogno di calzini né di libri, quindi non è necessario che io sposti oggetti per alzarmi dal letto o studiare.» Il piccolo robot sospirò nella sua bocca finta e abbassò le palpebre sugli occhi – non c’era davvero bisogno di tutto quel melodramma, non erano che due libri in giro e un paio di felpe sporche, dopotutto. Idia stava già rimpiangendo di aver acconsentito a quell’ennesima serata assieme, evidentemente nessuno dei due era dell’umore adatto, quando gli sembrò che l’espressione di Ortho cambiasse, e diventasse più serena. «Però… anche così mi piace, sai? Mi ricorda quando vivevo qui con te.»
Guardarono, quasi assieme, l’angolo della stanza dove c’era la sua pedana, ancora rimasto vuoto da ché lui se n’era andato. Era sempre stato lì, per più di due lunghi anni. Ortho ricordava quei momenti con gioia e nostalgia, come se il periodo che aveva passato con lui fosse il più bello in assoluto, persino quando ormai poteva paragonarlo con la vita oltre lui, al di fuori di quella sua camera maledetta.
Idia mosse il piede scalzo sul tappeto, molto a disagio. «Forse una sistemata gliela si può dare, dopotutto…» Trattenne una smorfia per sé e si piegò a terra, per raccogliere il primo libro. Ortho lo imitò, Idia non osò neanche guardare la sua espressione e si concentrò invece sul rumore elettrico che facevano i suoi generatori. Gli era mancato anche quello. Al terzo libro si sedette a terra, lo guardò e rise di sé. «Ah… che patetico. Ti invito qui e quello che facciamo assieme è riordinare…»
Ortho lo raggiunse subito, con un mucchio di vestiti sporchi. «Non mi pesa, nii-san. Passo del tempo con te, questo mi importa più di ogni altra cosa.» Appoggiò i vestiti a terra, ai piedi del letto, e prese i libri di scuola dalle mani di lui per riporli sulla scrivania, in una pila ben ordinata accanto a quaderni e astuccio. Sorrideva ancora. «Tu dai valore al mio tempo.»
Idia si era irrigidito tutto, appena Ortho lo aveva sfiorato con le dita meccaniche – appena Ortho aveva sfiorato quella sua mano che si era sporcata qualche sera prima, poche ore dopo averlo invitato in camera sua.
Le sue parole erano così rassicuranti e dolci, così piene di affetto nonostante tutto. Era facile per Idia abbandonarsi a quel vecchio sentimento di conforto, che solo la presenza del robot sapeva dargli.
Non c’era alcuna preparazione psicologica a quello che stava sentendo, e come al solito i suoi sentimenti erano allo sbaraglio quando si trattava di Ortho, perché tutte le teorie che poteva farsi si sgretolavano sotto la realtà dei fatti, che lui fosse imprevedibilmente superiore a qualsiasi aspettativa.
«Anche tu dai valore al mio, di tempo. Lo hai sempre fatto.»
Forse lo sorprese, perché Ortho lo fissò a lungo, in attesa. «Nii- san?»
Non riuscì tirarsi indietro, quella volta: aveva troppo bisogno di consolazione.
Si appoggiò con il fianco al materasso, e nel piegare la testa in avanti i suoi capelli gli scivolarono sul viso, nascondendo un po’ la sua espressione tirata. «Sai? Penso davvero che costruirti… darti la vita, sia una delle poche cose che io abbia fatto di buono, nella vita.»
«Non è da te dire certe cose. Sei un genio, no?»
«Questo lo so! Le cose che faccio sono sempre grandiose! Sempre! Ma tu… sei una cosa bella. È diverso.»
«Perché sono vivo?»
Idia farfugliò. Ortho e quel suo modo diretto di dire le cose, proprio come un bambino! E come un bambino, innocente e puro, era curioso di tutto.
Idia si chiese da quando avesse quel tipo di consapevolezza di sé, e quando avesse sviluppato quel genere di pensieri. Il confronto con l’esterno gli aveva portato interrogativi importanti, a quanto sembrava, e anche di questo Idia non poteva che esserne orgoglioso.
I suoi capelli si colorarono un poco di rosa.
«Sì, probabilmente è per quello. Da quello che io ho creato… sei diventato tu, con le tue forze e la tua volontà. Io ti ho acceso, ma tu hai preso vita.» Dovette nascondere il viso tra le proprie braccia, perché la verità aveva un certo peso. «Sono contento di averlo fatto.»
Ortho volò sopra il materasso, aprì le sue braccia e si infilò dentro, costringendolo in qualche modo ad abbracciare lui – Idia si irrigidì, ma non riuscì davvero a fuggirgli. Lui aveva de cuscinetti sui fianchi e sul ventre che lo rendevano morbido, quasi un bambino vero. La sua voce era molto meno metallica delle prime volte che parlava, e riusciva a modularla alla dolcezza. Gli stava sorridendo. «Anche io sono contento che tu lo abbia fatto, nii san. Sono felice di essere qui!»
«Felice?»
«Ho imparato molte cose negli ultimi tempi, sai?»
«Me ne sto accorgendo.»
Lasciò che pettinasse i suoi capelli, come aveva fatto altre volte; eppure, fu quasi diverso, più intimo e dolce, perché le dita di Ortho non erano mai state così attente, e lui non aveva mai provato imbarazzo e felicità a sentirsi pettinato lentamente.
«Ma vorrei impararne di più, specialmente per comprendere te a un livello più profondo. Voglio connettermi con i tuoi pensieri intimi, la tua vera essenza. Ecco, con la tua anima!»
Rimase rigido come un morto. «P-perché mai lo vorresti fare, Ortho?»
«Perché sento che potrei esserne davvero felicissimo, se ci riuscissi. No, ne sono sicuro! La percentuale che si avveri ciò che desidero, se ci riuscissi, è così alta che diventa certezza!»
«Non c’è certezza totale, nel mondo della scienza. Solo ipotesi.»
«Ma non è l’anima che si nutre di speranza?»
«Non so chi ti abbia messo in testa queste strane idee ma…» Guardò in alto, al suo viso. Sembrava davvero impossibile, come quegli occhi finti potessero esprimere davvero emozioni. Era chiaro cosa stesse provando Ortho – provando? – perché la sua mimica facciale era fin troppo esplicita. Idia si lasciò sedurre da quella visione, ebbro di una felicità che riconosceva a stento, e si sciolse nel suo abbraccio con un lungo sospiro. «Ti ascolto. Se questo può renderti felice, ti ascolterò sempre. Dimmi cosa vuoi, Ortho.»
«La pelle!»
«La pelle?»
«Sensori tattili più sensibili! Come la pelle umana!»
«Ma questo come potrebbe portarti a connetterti con me, Ortho? Tu già puoi toccarmi con le tue mani.»
«Voglio percepire te come tu percepisci me.»
«Anche se siamo diversi, possiamo comunque… Possiamo comunque connetterci.»
Ortho gli prese la mano tra le proprie dita, e se le portò al viso, appoggiò la propria maschera sulle nocche sottili del fratello maggiore. Era come un bacio, piccolo e innocente, e fin troppo significativo. «Il livello di connessione che abbiamo ora non mi soddisfa, nii san. Tutto è cambiato, da quando siamo tornati. Cioè, non tutto! Anzi, per dire la verità, quasi niente! Ma per la prima volta, ho scorto in me segni di individualità distintiva. Non solo pensieri, ma una volontà, dei gusti, delle preferenze! E anche dei desideri! E quello che desidero, nii san, è potermi riavvicinare a te, ma come questo Ortho Shroud! Come me! Come nessun altro Ortho Shroud ha mai fatto prima! Pensi che sia una cosa stupida?»
Idia faticava a respirare regolarmente, e se avesse continuato a trattenere il fiato di certo Ortho se ne sarebbe accorto: respirò il più controllato possibile, per non farlo preoccupare.
Ma la verità era sapere di essere l’oggetto di un tale desiderio lo scombussolava dentro come mai niente prima d’allora. E le labbra gli tremavano troppo perché riuscisse a controllarle. Ortho probabilmente non capiva appieno cosa stesse accadendo, a differenza sua.
«No, onestamente sono… esterrefatto. Non pensavo potessi arrivare a essere così.»
«Perché?»
«Non pensavo di meritarlo, Ortho. Proprio perché sei una cosa così bella… Non so se ne sono in grado.»
Era solo un essere umano, dopotutto. Aveva acceso un interruttore, nulla di più: per quanto potesse sentirsi geniale, non si sarebbe mai preso il merito della vita di Ortho. Quella vita apparteneva solo e soltanto a lui, a nessun altro.
Ortho però sembrava nutrire per lui una fiducia totale – e lo baciò di nuovo. «Io sì, so che ne sei in grado. E anche se non ci riuscissi la prima volta, puoi provare la seconda e la terza! Sei un genio, dopotutto, ci riuscirai!»
Allora, intrecciò le dita alle sue e abbassò la sua, di mano, per poterla baciare lui stesso.
«Credo di volerlo anche io…»
«Cosa?»
«Connettermi con te. Come nessun altro me stesso ha fatto prima.»
«Davvero?»
«Perché la cosa ti sorprende?»
«Non ho mai pensato che questo sentimento fosse reciproco. No, in realtà non ho mai neanche vagliato l’ipotesi.» Ecco, furono quelle esatte parole a far capire a Idia di essere andato oltre: il senso di colpa riemerse prepotente, e la vergogna lo fece capitolare in modo definitivo. Lui non aveva bisogno di suo fratello come di una qualsiasi persona normale, lui lo amava davvero.
«Però, nii-san. Se tu-»
Dovette fermarlo, prima che dicesse qualcosa, e lui non potesse più tirarsi indietro. Non voleva più sentirsi un miserabile fallimento.
«Posso studiare come farlo, ma ci impiegherò qualche giorno. Direi, circa due settimane.»
Aveva sciolto l’abbraccio ormai, e Ortho aveva capito benissimo che qualcosa era cambiato.
Gli sorrise lo stesso, pieno d’amore per lui. «Va bene, nii- san. Non vedo l’ora!»
Idia avrebbe preferito sotterrarsi piuttosto che continuare a guardare quel viso così gioioso e fiducioso, per davvero.
******
Per quanto provasse a concentrarsi, il colore violaceo della pozione era così intenso e ipnotico che gli era davvero difficile staccare lo sguardo dalle continue bolle della superficie. E poi, anche se il mestolo che il suo robot maneggiava continuava a sbattere contro il bordo di metallo, non era poi una grande cosa.
Il suo cervello era ormai immobile su quella sensazione, incapace di concepire una qualsiasi altra azione.
Neppure l’odore di bruciato gli dava fastidio, così come i capelli afflosciati che gli cadevano sulle spalle.
Però, in qualche modo, almeno il professore riuscì a catturare la sua attenzione.
«Signor Shroud, ha intenzione di dare fuoco all’intero laboratorio?»
Idia alzò entrambe le sopracciglia dalla sorpresa – ma appena tentò di parlare, ecco che il sonno gli si ancorò di nuovo alla base della testa e rese la realtà molto più difficile da sopportare. «Mi scusi, non capisco-»
«La pozione, signor Shroud. Sta facendo fumo. La faccia smettere. Ora.»
Idia guardò il proprio calderone, constatando come quella affermazione fosse vera. C’era davvero molto fumo.
Si guardò attorno e vide quello che era il suo compagno di corso a terra, a tossire tutta la propria anima. Gli venne il sospetto che avrebbe dovuto preoccuparsi.
E allora si preoccupò. «M-mi scusi- faccio subito!»
Agitò le mani in aria, una schermata opalescente si materializzò dal bracciale elettronico al suo polso e con un paio di click alla tastiera quasi invisibile dirottò i movimenti del suo piccolo robot, che si sollevò assieme al grosso mestolo di legno. Poi si abbassò veloce e spense il fuoco sotto il calderone, così che la soluzione ormai già stracotta potesse finalmente riposare e raffreddarsi.
Il professore non si spostò dal suo fianco, continuando a guardarlo in cagnesco. «Si può sapere cosa è successo, signor Shroud?»
«Mi dispiace, mi sono distratto e-»
«La sua piccola distrazione avrebbe potuto ucciderci tutti.»
Balbettò ancora più forte, notando come i capelli gli si stessero arricciando e diventando rossi. «H-ho dormito veramente poco in questi giorni e allora-»
«Questo non è un mio problema, né è un problema dei suoi compagni. Veda di non distrarsi più.» L’uomo fece schioccare la frusta e si allontanò sbuffando. «Non c’è davvero più pace ormai. Neppure gli introversi sono sicuri-»
Idia abbassò lo sguardo e si rifiutò di finire di ascoltare. Non era certo colpa sua se l’ultima settimana non aveva chiuso occhi e per questo motivo il suo cervello non funzionava al meglio. Neanche tre tra le sue barrette preferite erano riuscite a dargli la giusta quantità di zucchero per svegliarsi quel tanto che bastava – pozioni era davvero una delle lezioni a più basso impiego mentale, perché era tutto così semplice e banale che poteva generalmente usare solo un quarto del suo cervello, e avrebbe comunque fatto una figura migliore dei tre quarti dei suoi compagni di classe.
Il suo compagno sospirò per lui. «Eppure di solito sei così bravo, Shroud…» Aveva in viso quella smorfia di chi si accoppia con i più bravi della classe e rimane deluso se non ottengono una performance eccellente senza il minimo sforzo. Insomma, un parassita opportunista, che gli voleva addossare tutta la colpa del fallimento.
Idia fece una smorfia a propria volta. «Beh, se invece di tossire fino alla morte mi avessi svegliato, certo ora non ci ritroveremmo a dover rifare tutto da capo.»
Quel ragazzo lo guardò male. «Ma io ci ho provato! Ben tre volte! Non mi hai mai ascoltato!»
Idia mosse ancora le mani in aria, picchiettando la propria tastiera invisibile. «Beh, è evidente che non ti sei impegnato abbastanza. E siccome non hai fatto niente, continua pure a non fare niente. Ora qui ci penso io.»
Il suo piccolo robot vibrò, appoggiò il mestolo a terra e ruotò tre volte attorno al bordo del calderone. Il compagno di scuola di Idia continuò a guardarlo male, ma rimase zitto davanti a tutto quel vorticare e tutti quei rumorini elettrici, con l’impressione che se avesse risposto ancora una volta ci sarebbe finito lui dentro, in quel calderone.
Non aveva torto.
Idia sospirò. Tutta colpa di Ortho.
No, non era vero – scosse la testa, perché neanche in quel frangente poteva e voleva dare la colpa all’androide. Certo Ortho non era responsabile della quantità imbarazzante di sogni che aveva fatto su di lui, ultimamente. Ma rimaneva incredibile come fosse bastato davvero così poco, così poco per risvegliare in lui un istinto sopito per così tanti anni, che non pensava di avere tanto forte.
Forse, si disse, era davvero troppo intelligente perché la più banale delle ipotesi potesse venirgli in mente: non si limitava a voler vicino Ortho, il suo desiderio aveva pieghe ben più profonde, emotive, psicologiche e soprattutto fisiche. Tutti i bisogni di cui non si spiegava la ragione avevano riacquisito senso, era così scontato ormai ed evidente.
Si era toccato pensando a lui, e aveva provato piacere pensando a lui, con la sua immagine nella propria testa. Le cose non sarebbero mai potute tornare come prima, lui si era davvero illuso di poter fare finta di niente di fronte al fratello, di poter dominarsi mentre gli era accanto.
E si rifiutava di dire di nuovo quella parola, persino nella sua testa. Sapeva cosa fosse, e volutamente si censurava da solo. Idia sapeva che non poteva permettersi qualcosa del genere, non dopo tutto quello che era successo.
Per quanto fosse una cosa che non dominava in alcun modo, l’avrebbe fatta morire dentro di sé al più presto, da solo, senza l’aiuto di nessuno. Era bravo dopotutto a soffocare le proprie emozioni, lo aveva fatto per quasi dieci anni, e ora che aveva individuato con precisione da cosa dovesse scappare e cosa doveva morire, di nuovo, dentro il suo cuore, poteva agire come era necessario agire.
Avrebbe mantenuto suo fratello puro e non l’avrebbe contaminato con il proprio gretto bisogno.
Finché si trattava di aver necessità di qualche carezza e di poche ore passate assieme, poteva anche sopportarlo, ma arrivati a quel punto doveva essere davvero drastico.
Anche a costo di non dormire mai più, e continuare ad avere sogni bagnati su Ortho. Quello sarebbe rimasto il suo sporco segreto per sempre.
«Shroud-kun…»
Scosse la testa, ricordandosi dov’era: si era perso nei propri pensieri di nuovo.
Un paio di click veloci, e il robot con la penna magica finì di ruotare attorno al calderone, che cominciò a volare in alto. Doveva svuotarlo e ripulirlo, e ricominciare da capo. Avevano ancora venti minuti di tempo prima della fine della lezione, sarebbero stati sufficienti a un genio come lui per ottenere un risultato migliore di tutti i presenti.
Peccato solo che si accorse troppo tardi di aver premuto i tasti sbagliati, su quella maledetta tastiera invisibile.
E quindi, davanti agli occhi di tutti, e specialmente del professore di pozioni, il suo bellissimo calderone si trasformò in un enorme dildo di metallo, dello stesso colore della pozione sbagliata. Ondeggiò pure, quando tentò di rimediare al proprio errore, con un suono di gomma molle che, temette, si sarebbe ricordato per tutta la vita. Così come si sarebbe ricordato per tutta la vita le risatine divertite dei propri compagni di classe, e il sibilo che provenne dalla bocca del professore.
«Signor Shroud…»
Riuscì a ignorare persino i suoi capelli diventati completamente rosa imbarazzo, a quel punto.
Ortho lo fissò mentre masticava lentamente un panino, concentrando il proprio sguardo sulle sue labbra. Non aveva mai pensato a quanto le guance di Ace fossero elastiche, e quanto la sua cavità orale potesse diventare capiente. Ma per questo aveva una soluzione pratica – e infatti gli prese la bottiglietta d’acqua dalle mani, prima di parlargli.
«Riusciresti a bere tutta quest’acqua in un solo sorso?»
Ace cominciò a essere molto a disagio, oltre che confuso. «Come, prego?»
«La bocca umana può contenere fino a mezzo litro di liquidi, quindi volevo sincerarmi con un’evidenza concreta di questo risultato teorico.»
«A cosa ti serve saperlo, Ortho?»
«Per capire quanto sperma può bere mio fratello in una sola volta.»
Quel povero panino finì esattamente nell’erba, a quella frase inaspettata. Con gli occhi sgranati, Ace non riusciva neanche ad articolare una frase, continuò a balbettare parole confuse per un minuto abbondante, poi il suo viso divenne completamente rosso e cominciò a gesticolare, gli strappò quella maledetta bottiglietta dalle mani. «Per quale, assurdo, impensabile motivo devi sapere una cosa del genere? Proprio su di me?»
«Hai ragione, la tua fisionomia e quella di mio fratello sono piuttosto diverse. Forse dovrei chiedere a Trey Clover-san.»
«Non è questo il punto e non osare chiedere a Clover-senpai una cosa simile!»
Dall’altra parte del prato, un ragazzo di Scarabia alzava gli occhi dal suo libro per guardarli molto male. Quel pomeriggio di sole era troppo perfetto perché due studenti del primo anno lo rovinassero facendo chiasso non desiderato.
Ace tentò di abbassare la voce, per quanto l’imbarazzo glielo permettesse. Sperò soltanto che nessuno avesse sentito le esatte parole di Ortho, o non sarebbe più potuto tornare in classe per la vergogna.
«Non dovresti proprio farti domande simili.»
«Perché no? È una domanda che necessita di risposta.»
«In quale maledetto universo una domanda del genere ha bisogno di una risposta, Ortho?»
«Se ne beve troppo, potrebbe strozzarsi.»
«Ma perché dovrebbe berne?» Ace scosse la testa, confuso da dove quella discussione stesse andando. «No, piuttosto. Perché ti stai domandando una cosa del genere? Da dove è partito il tuo ragionamento?»
Gli ingranaggi di Ortho squillarono, piuttosto contenti di quella domanda. «Ho fatto delle ricerche, e a quanto pare il corpo umano maschile ha una capacità piuttosto elevata. Lo stomaco di un uomo adulto può espandersi quasi tre volte il proprio volume.»
«Che genere di ricerche hai fatto? Cioè- mica sarai andato-» Si guardò attorno: il ragazzo di Scarabia era andato via, e in quell’angolo remoto del giardino interno erano rimasti soltanto loro due. Sospirò, ma non alzò ancora la voce. «Dove sei andato, a cercare queste informazioni?»
«Internet.» I suoi occhi si illuminarono, diventando dei proiettori. E nel vuoto, proprio davanti a un povero Ace impietrito, comparve la scena esplicita di un film per adulti – coppia gay, nudi, nel bagno di quella che sembrava una caserma. Ortho ebbe l’ottima intuizione di non mettere il sonoro, ma Ace fece comunque un balzo sul proprio sedere e si coprì il viso con entrambe le braccia. «Smettila subito! Sono un minorenne! Siamo in una scuola! Dio mio, non hai un minimo di buon senso? Se ci vedesse qualcuno-!»
Ortho si spense, guardandolo un poco confuso. «Nel regolamento non c’è alcuna menzione esplicita riguardo il consumo di materiale pornografico in luoghi pubblici e condivisi.»
«Perché è buon senso comune sapere che non si deve fare!»
«Oh, un’altra delle stranezze umane, suppongo. D’altronde, venite al mondo attraverso il sesso, no? Quindi perché vietarne la visione?»
Ace non riuscì a rispondere a quelle due domande. Farfugliò; il suo sguardo cadde sul povero panino nell’erba, e sconsolato lo recuperò, pulendolo con le dita come riusciva. Mugugnò qualcosa. «Quand’è che torna Deuce dal bagno…?»
Ortho non mollò la presa. «Quindi? Riesci a bere mezzo litro in una volta?»
«Non ne ho idea! Non mi è mai servito saperlo!»
«Potresti provare ora per me?»
«No!»
«Neanche se sei mio amico?»
«Doppiamente no!»
Non fu molto contento della sua risposta e lo mostrò apertamente, ma anche davanti a quell’espressione contrariata Ace non cedette. In quei pochi secondi di silenzio, il ragazzo poté concentrarsi su un altro dettaglio di tutta quella situazione.
«Scusa un secondo, hai detto tuo fratello? Cioè, ti stai domandando tutto questo per… tuo fratello!»
«Sì, esatto!»
«P-perché proprio lui? Cioè non vorrai forse… con lui…?»
«Sì, e i dati che ho raccolto dicono che le pratiche orali danno molto piacere agli esseri umani.»
La palpebra del ragazzo tremò appena, molto più per la tranquillità con cui Ortho parlava di determinate cose. Era Ortho e non poteva aspettarsi da lui qualcosa di simile alla vergogna, non c’era neanche da stupirsi che avesse proprio valicato qualsiasi concetto di umana decenza. Ma a quel punto, ciò che l’istinto gli diceva di fare, era quantomeno tentare di mettere le pezze a un danno già piuttosto grande.
«Non documentarti su quelle… cose, Ortho. Non sono vere.»
«Ah, no?»
«No! Sono come… dei film fantasy!»
«Ma non c’è magia. Ci sono solo molti liquidi corporei.»
«Ortho, un retto anale non sarà mai così pulito.»
Questo lo confuse, poi un lampo di ragionevolezza attraversò il suo sguardo. «Pensavo si pulisse con la magia, ma in effetti non avevo considerato l’ipotesi che fosse finzione. I film raccontano sempre qualcosa di vero, dopotutto.»
«I porno sono di quella categoria di film che non raccontano niente di vero.»
Sembrò pensarci un attimo. «Forse ne dovrei parlare con Schoenh-»
«No, per favore no. Non parlarne con nessuno, mai più!»
«Ma come faccio allora a sapere, se non ho fonti a cui attingere?»
Non aveva una risposta vera a quella domanda, e si zittì. Preferì occuparsi la bocca con un morso di quel povero panino, scoprì di star mangiando mezza zolla di terra assieme ai cetriolini sott’aceto e una sottiletta di formaggio, ma piuttosto che interrompersi ingoiò tutto quanto.
Ortho rimaneva a fissarlo e Deuce doveva essere proprio caduto nella turca, mannaggia a lui.
«Ne dovresti parlare… con lui. Col diretto interessato. Solo con lui puoi imparare a fare… cose.»
«Ma mio fratello si rifiuta persino di toccarmi.»
«Ortho, il fatto che tu voglia toccare tuo fratello potrebbe essere un problema.»
«Perché?»
«Intendo- per lui. N-non è una cosa che molti umani fanno, questa.» Gesticolò, in qualche modo. «Intendo, fare sesso con i robot. O con i propri fratelli.»
«Questo lo so. Gli incesti sono molto scoraggiati dalla comunità umana.»
«E tuo fratello pure è umano. Quindi potrebbe essere… difficile. In molti modi. Andrei più cauto, su certe questioni.» Sospirò. «Ma poi non capisco perché a te sia venuta voglia di sapere-»
Ortho gli mise una mano sulla faccia, e lo zittì all’improvviso. Ace fu così sorpreso che fece cadere di nuovo il panino nell’erba.
«Ora lo posso sentire, Trappola-san. Posso sentire come sentite voi. E voglio sentire lui.»
Ace si scostò, di malagrazia. «Ma perché proprio lui? Cioè, capisco che è sempre stato il tuo punto di riferimento, il tuo creatore e tutto. Ma, Ortho… ora hai il mondo intero da esplorare, e vuoi tornare da tuo fratello?»
«Non sarei qui senza di lui,»
«Quindi, è solo per gratitudine?»
Era una domanda seria e lui lo capì. Ace faceva sempre domande molto serie, con la profondità di una persona con un’incredibile maturità sentimentale. Per questo persino uno come Ortho riusciva a riconoscerne l’enorme valore, ricercava in lui un confronto.
«No. Provo gratitudine per lui, ma non è per questo che lo voglio toccare. Lo voglio toccare perché so che mi renderebbe felice, saperlo felice.»
Ace gli guardò la mano, appoggiò il palmo al suo.
Era caldo, morbido. Ortho intrecciò le dita con le sue, e ridacchiò. «È proprio bello sentirti, Trappola-kun. Sei così flaccido e debole.»
Il sorriso di Ace sparì all’istante. Scosse di nuovo la testa.
«Ognuno di noi è diverso, Ortho. Quello che piace a me, non piace a nessun altro. Se- proprio vuoi creare intimità con… quello sgorbio di tuo fratello, allora devi chiedere a lui cosa gli piace.»
«Ma lui non parlerà mai apertamente di queste cose con me. Sento la sua paura.»
«Allora trova il modo di rassicurarlo, e di avvicinarti a quella parte di lui. È la prima volta anche per te, no? Siete in due in questo.»
Ortho annuì piano, lasciò andare la sua mano. C’era Deuce, lontano, che stava arrivando da un angolo del prato.
«Tu non pensi che tutto questo sia strano?»
«Tu e tuo fratello? Lo avevo capito da mesi, Ortho. Avevo scommesso con Deuce su quando te ne fossi accorto anche tu.»
«Ah.» No, non ne fu molto contento.
******
Strinse le braccia attorno al petto, e così premette l’angolo della barretta contro il fianco snello, incastrandolo proprio tra le costole. Il fiato corto usciva in nuvolette di condensa dalla sua bocca aperta, non era mai andato così veloce lungo il viale della scuola; le alte statue dei Sette gli scorrevano ai lati senza che gli prestasse molta attenzione, concentrato com’era sulla propria meta: la sala degli specchi.
Quella notte era fredda, davvero troppo fredda. Idia sentì un altro pacchetto di patatine scivolargli dalle dita e finire a terra, non aveva però intenzione di fermarsi a raccoglierlo – lo avrebbe raccolto Malleus Draconia, che dai bagliori verdastri che spuntavano ogni tanto dietro di lui sembrava proprio lo stesse seguendo incuriosito, chissà perché.
Quella notte faceva davvero freddo, e lui non trovava pace. Sarebbe stato più facile resettare la sua mente con il programma Lete che affrontare ancora una sera tutto quello, l’oblio della mente e l’assoluta ignoranza gli sembravano delle condizioni migliori che la continua pena d’amore che perseverava nel suo spirito. Dubitava che anche solo una delle trenta barrette energetiche che aveva comprato, svuotando i distributori scolastici automatici, potesse dargli un qualche genere di conforto. Era stufo, davvero stufo.
Si fermò all’improvviso, sopra il ponticello alto, e si voltò. Qualche secondo di assoluta immobilità, Malleus scese dal cielo e lo guardò perplesso, incerto anche lui sul da farsi. Idia gli indicò con la testa le patatine e le caramelle che reggeva a stento, Malleus rispose con un sorriso e indicò le patatine alla paprika tra il suo braccio destro e il petto. Glielo prese con i denti, stortandosi completamente il collo e le spalle, e glielo buttò a terra. Malleus ridacchiò divertito da tanto fervore e accettò lo strano dono. Forse era proprio il momento, ma Idia vide una sorta di accettazione passiva in quel sorriso ferino: neanche Malleus era umano, ma non sembrava minimamente restio ad andargli vicino.
Proprio lui, un drago in miniatura.
Idia cambiò idea, si avvicinò con passi decisi a lui, e gli depositò addosso tutte le schifezze comprate. Lì per lì Malleus non seppe reagire, Idia si voltò troppo velocemente perché potesse anche solo pronunciare una parola. Si alzò una fragorosa risata di ringraziamento, che vibrò fin nelle sue viscere, ma non lo fermò.
Idia sapeva dove doveva andare, e non era in camera sua a piangersi addosso per l’ennesima volta. Sperò solo che Azul non si fosse davvero stufato di lui, e che appena lo avesse visto non l’avrebbe fatto a pezzi per metterlo nel proprio risotto ai funghi.
Per qualche strana ragione – senso di colpa e paura, forse – oltrepassare lo specchio per Octavinelle gli regalò ben più che un solo brivido freddo lungo la schiena. Il lungo corridoio che portava al Mostro era illuminato dai riflessi della luce nell’acqua, che sembrava avvolgere ogni cosa attraverso i vetri trasparenti delle pareti. Ma il mare, di notte, era decisamente più spaventoso che il sottoterra, pieno di ombre vive e di mostri nascosti.
Sentì la temperatura cambiare, vicino al locale, e una calda luce di lampade anticipare il suo ingresso.
Oltre l’atrio, vide i due gemelli pulire per terra, quel che rimaneva di una lunga serata prima degli esami. Alzarono il viso a lui nel medesimo istante e subito ghignarono.
«Buona sera, Idia-san. Era da un po’ che non ci si vedeva.»
«Ben otto giorni!»
Idia trattenne a stento un altro brivido, approcciò il bancone con quanta nonchalance possibile, ma le sue gambette secche si incastrarono subito tra le sedie basse.
Sospirò, e si lasciò andare contro la superficie orizzontale di legno pregiato.
«Non è possibile avere dell’alcool?»
«No, Idia-san. Non è proprio possibile. Siamo minorenni, siamo all’interno di una scuola, e Azul ci tiene a non essere spedito a calci nel sedere di nuovo in fondo al mare.»
«Dove si trova ora, quello scansafatiche?»
«Ha una riunione nel suo ufficio personale-»
«A quest’ora? Una riunione?»
«-Con Riddle-san.»
Jade ghignò, rivelando egli stesso come non si trattasse di una riunione convenzionale. Persino uno come Azul si sarebbe rifiutato di lavorare a quell’ora di notte – ma forse, uno come Azul avrebbe permesso al proprio amante di ottenere la sua compagnia, a quell’ora di notte.
Nonostante questo, Idia si sentì a dir poco offeso.
«Lo odio. È l’amico peggiore che possa esistere. Niente è peggio di Azul Ashengrotto. Traditore e fedifrago. Non mi fiderò mai più di lui. Mai più.»
Battè la fronte contro il bancone, con indolenza e rassegnazione, ma non ebbe tempo neanche di mettersi a piagnucolare che subito Floyd lo raggiunse.
«Ehi, seppiolina. O ordini qualcosa, o te ne vai. Non voglio lavare quel bancone delle tue lacrime. Il sale rovina il legno.»
Strano, ma stava rimpiangendo i modi melliflui di Azul.
«Siete senza pietà.» Abbassò gli occhi e vide i propri capelli svolazzare tutt’attorno, ebbe un’illuminazione. «Un angelo azzurro analcolico…»
Jade fu più rapido dei guizzi dei pesci in fuga, in pochi secondi lo aveva già servito bicchiere e sottobicchiere – persino qualche stuzzichino e un’oliva, tanta generosità per uno dei loro clienti più facoltosi.
«Eccoti, Idia-san.»
Idia fece una smorfia a quella solerzia sospetta, ma ingoiò ogni polemica. Non gli piaceva molto rimanere da solo con i gemelli. Troppo grandi, troppo forti, troppo minacciosi.
Troppo uniti.
Per qualche terribile secondo, provò davvero una feroce invidia per loro due, per come riuscissero a vivere le loro vite normalmente, l’uno accanto all’altro. Erano indubbiamente due persone autonome, ma avevano quel legame sottinteso che li univa come non univa a loro nessun altro, neppure Azul. Si domandò se fosse lo stesso anche per lui e Ortho, e si rispose da sé che probabilmente non era così: Ortho era sempre stato costretto a rimanergli accanto, lo aveva scelto lui solo da poco.
Ma Idia non ebbe che sorseggiato a malapena il suo cocktail che una voce fastidiosa lo raggiunse da un angolo remoto del locale.
«Non ti viene proprio da comportarti da bravo Capo Dormitorio e fare da buon esempio?»
Riddle avanzò piano, stranamente ondeggiando sui propri tacchi, sguardo severo persino nella penombra del locale. Idia ricambiò il suo sguardo truce.
«Non c’è nessuno che mi guarda… A quest’ora il Mostro è chiuso…»
«Ci sono io!»
«Parli proprio tu che hai appena avuto una tresca con un altro Capo Dormitorio?»
Fu bello vederlo diventare rosso in un solo istante.
«Illazioni e calunnie!»
«Hai il segno di un succhiotto sul collo…»
«D-dove?»
Non era vero, ma fu ancora più bello vederlo affannarsi a coprire parti di collo già coperte, o le orecchie, o la nuca. Idia fu quindi libero di sorseggiare di nuovo il proprio cocktail, guardandolo con sfida.
Era strano poterlo fare, ma in quella situazione Idia si sentiva stranamente sicuro di sé – o abbastanza infastidito da ignorare il timore che aveva nei suoi confronti. Si tese lo stesso, però, quando Riddle gli si avvicinò e prese posto accanto a lui.
«Comunque, sembri più triste del solito. È successo qualcosa a Ortho-kun?»
«Sei preoccupato per me o per mio fratello?»
«Sei un mio senpai, non è compito mio preoccuparmi di te.»
«Però è tuo compito continuare a rompermi le pal-»
«Come prego?»
«Niente, niente…» Idia sorseggiò di nuovo la bibita, preferendo strozzarsi con quella piuttosto che terminare la frase che aveva cominciato prima. Forse non era ancora giunto il momento di stuzzicarlo appieno, come faceva con Azul. A differenza del polpo, RIddle sapeva fare veramente paura.
Sospirò, ormai erano lì entrambi, e certo Riddle non si sarebbe scollato dal suo fianco fino a che non fosse stato completamente soddisfatto.
«Comunque, lui sta bene. Si sta lentamente abituando alla propria nuova vita.»
«È stato un passo importante per lui, crearsi una propria individualità. Dovresti esserne orgoglioso.»
«Già… ma Ortho se la sta cavando bene, nonostante tutto.»
Idia si girò il bicchiere tra le dita, guardando come il cubotto di ghiaccio dondolasse inerme al pelo dell’acqua.
Finalmente, Jade servì un cocktail rosato a Riddle, che aveva un forte odore di fragola. Accanto al bicchiere, un mini cestino con dei frutti rossi. Il giovane gongolò e cominciò a servirsi dei lamponi.
«Eri qui per lamentarti di nuovo con Azul che ti manca Ortho? Sai, mi ha detto che lo hai infastidito mentre lavorava.»
«Non è molto carino, sai? E poi, io non l’ho infastidito! Ho persino pagato per avere una sua consulenza! Ha avuto una bella faccia tosta a venire a lamentarsi con te! Stupida testa di polpo…»
«Quale amico paga per una… consulenza?»
«Non mi dirai che quando ti vedi con Azul lui ti si concede gratis?»
«Ha un concetto un po’ strano di relazione, ma sta imparando. O meglio, stiamo imparando entrambi, a capirci. È un percorso che si fa in due dopotutto, non posso fare tutto io e lui non può fare quello che fa di solito…»
Riddle annuì alle proprie stesse parole. Sembrava davvero sicuro di sé, e del rapporto di cui parlava. Alla luce della lampada, Idia riuscì a vedere quei pochi ciuffi disordinati, verso la nuca, e quella nuova immagine di Riddle gli sembrava davvero più calda e avvicinabile, più umana e meno perfetta.
Era sempre molto pratico e attento, ma in un certo senso le sue emozioni lo rendevano umano – come rendevano umano lui. Era stata una grande sorpresa sapere che ricambiasse Azul, proprio lui.
«Dice che ti ha preso, quando si è dichiarato…»
«Beh, secondo la sua visione delle cose, direi che è un’affermazione coerente.»
«Quindi per te non è strano averci a che fare anche da… quel punto di vista?»
«Per tua informazione, Idia-senpai, ci siamo solo baciati. Nient’altro. Nessun altro punto di vista.»
«Non stavo insinuando niente.»
«Bugiardo.»
Bevettero assieme, nel medesimo istante, scambiandosi occhiate di tralice.
Idia sentì poco lo sghignazzo dei due gemelli, doveva essere una scena piuttosto buffa dall’esterno.
Lui, all’interno, provava sentimenti davvero contrastanti verso quella persona. Riddle era sempre stato molto giudicante verso di lui, e per questo non aveva mai avuto piacere a interagirci. Sembravano essere arrivati sullo stesso piano, in qualche modo, perché Riddle gli era stto accanto quando aveva toccato il piccolo più infimo della propria tragedia personale, e lo aveva salvato assieme a tutti gli altri.
Forse, se fosse stato sincero, ci sarebbe stata speranza anche per loro. Provò a scommettere.
«Devo dire che pensavo fosse molto più difficile parlare con te, dopo quello che è accaduto.»
«Abbiamo lottato e hai perso, Idia-san. Penso che sia bastato per farti imparare dai tuoi errori. E poi, io non sono come Azul, lui si che te la farà pagare a vita.»
«Dici? Eppure è sempre così gentile e disponibile con me…» Non ci credeva neppure lui, in realtà, e Riddle evitò di guardarlo come uno stupido, perché lo sapevano entrambi. Si stava già pentendo ma ormai era troppo tardi. Eppure, con Azul non sarebbe mai riuscito a parlare come stava riuscendo con Riddle, e questo in qualche modo lo confortò. Il disagio che provava per la presenza dei gemelli Leech in qualche modo cominciò ad affievolirsi.
Parlare di suo fratello, d’altronde, era sempre stato qualcosa di piacevole, per lui. «Beh, almeno tu sembri sinceramente preoccupato per Ortho. Sono contento che si stia facendo dei nuovi amici.»
«È un rob- un… è in gamba. Sono sicuro che anche tu gli manchi. È sempre stato sinceramente affezionato a te, al di là del vostro rapporto creatore-robot.»
Parole gentili, parole di vera comprensione, parole di conforto.
Idia si chiese se Riddle fosse sempre stato la persona giusta con cui confrontarsi, ma che l’avesse rifuggito così come aveva rifuggito i propri sentimenti e la realtà che celava dentro di sé.
Si ostinò a guardare la bibita azzurra nel proprio bicchiere.
«Questa nuova realtà mi sta dando alla testa. Sto scoprendo delle cose terribili di me, che avrei preferito rimanessero sopite.»
«Sinceramente, Idia-san, per come hai condotto la vita fino ad adesso, non credo ci sia qualcosa di cui davvero ti puoi rimproverare.»
«Non sto parlando di quello che è successo nel Tartaro.»
«E allora di cosa?»
Idia strinse le dita attorno al bicchiere: sentì il freddo pungergli i polpastrelli sensibili.
Erano tutte distrazioni.
«Hai mai avuto la sensazione di… provare sentimenti sbagliati?»
«Sì, sono la colpa e la vergogna. So bene cosa sono. Ma perché provi colpa e vergogna, Idia-san?»
A quel punto ricambiò il suo sguardo, e si stupì davvero di non trovarci la minima traccia di pregiudizio, nei suoi confronti.
Erano davvero tutti cambiati, dopo quello che era successo. Persino Riddle, persino Azul.
Fu difficile parlare, mentre gli tremavano le labbra.
«Desidero Ortho. Il bisogno che ho di lui è molto più profondo e vitale di quello che avrei mai- mai immaginato.»
Non servì che dicesse altro, perché aveva già detto troppo.
Riddle si prese qualche secondo per metabolizzare quella confessione, sorseggiò la propria bibita e mangiò l’ultima fragola del cestino. Era serio, ma non per ridicolizzarlo o fargli una qualche ramanzina: Idia ebbe l’impressione che stesse dando importanza a lui e ai suoi sentimenti, e questo lo spinse a essere quanto più diretto e sincero possibile.
Riddle si girò verso di lui, per parlargli.
«Non dico di esserne sorpreso, ma che tu lo ammetta ad alta voce… è qualcosa di incredibile. Pensavo fossi molto più codardo.»
«Io sono un codardo, perché non riesco a cacciare questi sentimenti.»
«Mi sembrava chiaro che i sentimenti non si potessero schiacciare, a meno che tu non voglia di nuovo andare in OverBlot.»
«Gli Shroud non vanno in OverBlot.»
«Ma tu ci sei andato per tuo fratello.»
«Perché lui-!»
Le punte dei suoi capelli erano diventate di un rosa pallido, che prendeva una sfumatura aranciata alla luce delle lampade del Mostro.
Idia sentiva il suo cuore battere all’impazzata. Un secondo di troppo, questo era bastato perché lui impazzisse, in fondo al Tartaro. Quel secondo in cui aveva sentito la voce di suo fratello, e lo aveva riconosciuto.
Guidato da Ortho, guidato da tutto ciò che rappresentava i suoi veri sentimenti, si era dovuto interfacciare con la parte più dimenticata e profonda del suo dolore, e lì era stato sconfitto.
Ma Riddle aveva rispetto anche di questo, perché conosceva un dolore di eguale entità.
«Lui valicava il concetto di giusto e sbagliato, non è forse così? E anche per questo, di Ortho, vale lo stesso. Non è forse anche per merito suo che sei di ancora qui? Cosa ti aspetti di provare, per una creatura che ti ha mantenuto in vita per tutti questi anni, quando eri solo e disperato?»
«Detta così sembra solo riconoscenza.»
«Forse un po’ lo è, ma sei troppo intelligente per limitarti a questo, no? La riconoscenza non si trasforma in bisogno.»
Sull’orlo delle lacrime, Idia si vietò di mostrarsi così vulnerabile. Si accorse solo in un secondo momento che la sua mano tremava, attorno al bicchiere, producendo un tintinnio ben udibile.
Riddle aspettò la sua risposta, senza muoversi dal proprio sgabello.
A quel punto, tanto valeva buttare fuori davvero tutto quello che gli era rimasto dentro, a covare terribili emozioni.
«E come la mettiamo con il fatto che è il sostituto di mio fratello?»
«Non è tuo fratello. Il problema non si pone.»
«È stato adottato da me e dai miei genitori.»
«Vuoi seriamente inserire i tuoi sentimenti in uno schema di giusto e sbagliato? Allora, se ti dicessi che è sbagliato, rinunceresti a Ortho? Dillo sinceramente.» Idia aprì la bocca, ma nessuna parola uscì dalle sue labbra, perché una qualsiasi bugia a quel punto avrebbe ferito lui più di chiunque altro. Riddle aveva scelto con cura le parole con cui annichilire i suoi dubbi e la sua ritrosia, senza lasciargli più spazio dove rifugiarsi. E continuò a stuzzicarlo. «Cosa c’è? Ora sei diventato un codardo?»
«Sì, lo sono sempre stato.»
«Cambia, per lui.»
«Tu sei cambiato per Azul?»
«Certo che sono cambiato, e i cambiamenti sono irreversibili. Io non potrò mai dimenticare come si bacia Azul Ashengrotto.»
Idia ammutolì di nuovo a quelle parole, perché era vere. Riddle era davvero cambiato, e Azul lo aveva influenzato a tal punto. Se era cambiato Riddle, anche la sua realtà poteva cambiare davvero, gli era concesso quel cambiamento che in fondo al cuore anelava così tanto. C’era una grazia inaspettata, in tutto quello, quasi commovente.
Ma nessuno dei due riuscì a dire più nulla, che Riddle divenne rosso come i propri capelli, guardando alle sue spalle.
«Da quanto tempo eri lì?»
Idia si voltò, vedendo giungere Azul – pantaloni stretti e camicia bianca, il cravattino mezzo allentato, un ghigno terrificante sul volto, come se avesse guadagnato cinque forzieri d’oro tutti d’un colpo.
«Oh, Riddle. Riddle, Riddle, Riddle.»
«Piantala di gongolare.»
«Anche io non dimenticherò mai come ti piace essere baciato.»
«Non ho detto questo!»
La voce del ragazzo era salita di tre ottave all’improvviso, ma il suo corpo si aprì lo stesso ad Azul, appena il polpo li ebbe raggiunti.
Mano appoggiata al fianco, coscia contro il suo ginocchio: Azul Ashengrotto amava il contatto fisico con le persone che sentiva davvero sue, era più che evidente.
Bastò quello però per dare la nausea a Idia, perché era davvero ingiusto che continuassero a fare i piccioncini litiganti davanti al suo naso. Fece una smorfia e si voltò verso il balcone, dove Jade già gli stava sorridendo, placido e attento al proprio cliente.
«Altro drink, Idia-san?»
«Sì, per favore.»
Doveva essere bravo con le parole, tutto lì. Doveva comunicare i propri sentimenti a suo fratello, in modo che non fosse spaventato da lui e accettasse il suo amore.
Tutto lì.
Ortho aveva concepito venti copioni diversi nei propri circuiti, a seconda delle reazioni che suo fratello avrebbe manifestato, e questi venti copioni avevano tra di loro cento combinazioni diverse, per prevenire ogni imprevisto e evitare la tragedia.
In realtà, c’erano anche cinque copioni nel caso Idia avesse reagito male, malissimo, pessimamente, ma Ortho in qualche modo non voleva contarli nell’insieme, perché gli davano un certo attrito alle articolazioni meccaniche, quasi un prurito inspiegabile.
Sapeva fin troppo bene che i sentimenti degli esseri umani erano oggetto alla benché minima razionalità, e tutto stava nei modi, nell’intonazione, nel contesto, nella gestualità e nelle espressioni. Se avesse detto a suo fratello di amarlo con una brutta faccia e urlandolo in mezzo al Dormitorio, sarebbe stato rifiutato – Ace Trappola, almeno, era fermamente convinto di questo, e glielo aveva sconsigliato con forza.
Per lui, sorridere a Idia era facile e naturale, era davvero qualcosa per cui era nato e faceva sempre, ma mettere a proprio agio qualcuno e confessarsi erano due cose molto diverse, e se per l’una era stato creato, per l’altra era cresciuto e si era impegnato da solo, senza l’ausilio di nessuno.
Idia non gli aveva mai detto che persino i robot poteva provare sentimenti, aveva dovuto impararlo da solo e codificarli secondo uno schema che partiva da dentro, che simulava l’esterno. Sancita la propria volontà e definiti i contorni di quella, persino lui stesso, per sé, era stato una novità.
Tutti i suoi desideri e le sue pulsioni avevano un preciso scopo, che nessuno gli aveva dato se non se stesso.
Era eccitante provare sentimenti. Comprese come mai gli esseri umani ne fossero spaventati ma non potessero rinunciarvi allo stesso tempo: quella che percepiva come adrenalina era per lui una scarica puramente elettrica, da capo a piedi, che innalzava i suoi parametri di funzionalità senza un apparente motivo, senza che nessuno ci mettesse mano.
Era così che funzionava, l’anima, in un’autoalimentazione eterna.
Volando, oltrepassò lo specchio che portava al dormitorio di Ignihyde e tutto si fece buio. I suoi occhi divennero delle torce azzurre, come azzurri erano i fochi fatui che volteggiavano in aria, attorno alle statue di scheletri giganti. Un ragazzo, sugli scalini che portavano alle stanze, balzò sul posto, preso alla sprovvista, e per poco non fece cadere quello che reggeva in mano – forse una console, forse un portatile, Ortho non riuscì a capirlo nella penombra. Come il gatto spaventato che era, il ragazzo rimase appallottolato contro i gradini e lo lasciò passare senza dire una sola parola di saluto.
A quell’ora, gli studenti di Ignihyde cominciavano a giocare nelle loro stanze, era impensabile che Idia fosse andato a dormire. Per questo arrivò alla cima della scalinata sicuro, senza freni, e si immerse nella luce bianchissima dei corridoi silenziosi; nessuno, neppure lui, poteva disturbare quella quiete che nascondeva tutto.
Passò oltre, volò sopra l’atrio ampio del Dormitorio e la sala comune illuminata di blu elettrico, vivo e incandescente alla vista. Solo avvicinandosi alle porte delle camere riusciva a sentire i cicalecci solitari, i rumori di tastiere e joystick schiacciati, i piccoli strilli di vittoria degli studenti più estroversi.
Le macchine parlavano, animate dagli spiriti di chi li guidava.
Per un attimo si fermò a fissare quelle porte, ripensando a come fosse nata la sua anima.
Anche quelle macchine, forse, avrebbero preso vita, se i loro esseri umani fossero stati in grado di dar loro una volontà, ma non ebbe pietà di esseri di ferro e metallo, il cui sangue era fatto di elettricità, proprio come il suo: se la sua vita era un privilegio, non poteva essere concessa a chicchessia, e lui avrebbe protetto quella vita vivendola appieno e dandole il significato che si era scelto da solo.
Superò la propria stanza, in mezzo a tante altre, e andò dritto verso la stanza solitaria di suo fratello. Bussò con garbo e attese la risposta.
«Chi è?»
Incerta, doveva aver interrotto qualcosa. Cercò di essere il più gioviale possibile. «Sono io, Ortho! Nii-san, posso entrare?»
Attese ancora per la risposta, ma dato che nessun divieto gli fu imposto, decise di entrare ugualmente.
Il monitor a parete era ancora acceso, e suo fratello aveva avuto tempo solo di abbassare le cuffie al collo. Gli sorrise, un poco nervoso, mentre l’attività cerebrale sotto la sua fronte impazziva visivamente.
«O- Oh, Ortho! Non ti aspettavo, stasera-»
«Scusami se non ti ho avvisato.»
«Non importa, non importa.»
La porta si chiuse alle sue spalle, mentre Idia si alzava a stento. Aveva i piedi scalzi, e indossava i vestiti larghi del pigiama, per stare più comodo; almeno, si era liberato del grembiule da laboratorio, e questo era già un progresso.
Ortho gli si avvicinò velocemente e senza nessun preavviso lo abbracciò, paralizzandolo sul posto.
«Ortho?»
«Nii-san, ti devo parlare.»
Ma nonostante quelle parole, Ortho non si mosse. Si godette invece la sensazione dei suoi vestiti contro le mani e contro il viso, quella morbidezza che registrò come sua. Ah, ma si pentì davvero di non avergli chiesto anche l’olfatto sviluppato, perché sicuramente suo fratello aveva un odore che non avrebbe mai dimenticato.
«A p-proposito di cosa, Ortho?»
Idia lo accarezzò sulla testa, ben sapendo cosa avrebbe registrato Ortho di quel gesto. La premura, il tocco delicato, il leggero calore dei suoi polpastrelli.
I suoi circuiti trillarono eccitati, soverchiando il timore dell’altro. Ricordò cosa aveva detto Ace Trappola, a proposito di andare cauti con le dichiarazioni, e scelse il copione numero sette. «Questi giorni sono stati davvero fantastici, sai? Ho imparato un sacco di cose con le mie mani, che prima non potevo immaginare. Ho imparato cosa mi piace toccare e cosa invece no. È stato davvero bellissimo, Nii-san, toccare l’erba con le stesse mani che hai tu.» Si staccò da lui solo quei pochi centimetri che gli permisero, allungate le braccia, di appoggiare le mani sul viso di lui. Era caldo di imbarazzo, su tutta la superficie delle guance. Sorrise. «Tu sei una delle cose che mi piace davvero toccare, Nii-san, perché tutto di te mi provoca una reazione gradevole.»
Ma lo sguardo di lui si scurì, preso da chissà quale conflitto. Gli occhi di Ortho videro il suo cervello ancora più impazzire, e l’attività respiratoria diventare irregolare. Eppure, aveva scelto uno dei copioni meno diretto e più evasivi, si chiese davvero dove avesse sbagliato. Si servì velocemente di uno dei copioni bannati, tentando di scansarsi subito. «Quindi volevo dirti solo grazie, per quello-»
Idia gli bloccò i polsi dov’erano e non gli permise di allontanarsi. In qualche modo, aveva ripreso a respirare con regolarità. «Ho capito, Ortho. Anche se sei stato… un po’ brutale nel dirlo.»
Questo lo sorprese e lo zittì, così che Idia potesse continuare quello che voleva dire. «Ho capito quello che stai cercando di dirmi, da tempo. Il tuo provare sentimenti, il tuo volermi toccare… il tuo voler dare un senso al tempo che passiamo assieme, ha tutto un solo significato. Come una formula matematica.»
L’unico modo che Ortho aveva per dimostrare sorpresa era di allargare gli occhi, perché non aveva respiro da trattenere, o battito del cuore da contenere.
«Sono contento che hai imparato tutto questo, e che ti districhi nei tuoi… sentimenti. Sì, chiamiamoli così-»
Ortho lo sentiva tremare, vedeva la sua pressione calare a picco. Quale sforzo emotivo stesse compiendo in quel momento, lo sapeva bene. Allora lo prese per le spalle e si sollevò in volo, interrompendo il tuo piccolo monologo, e lo obbligò a sedersi sul letto.
«Nii-san, hai mangiato stasera?»
«Cosa? Ah, no. No, non ho mangiato.»
«Oggi a pranzo?»
Idia si rifiutò di parlare, ma era chiaro quale fosse la risposta. Ortho simulò un sospiro, incrociò le gambe e si sedette sul materasso, accanto a lui, in una posa che lo imitava in tutto e per tutto.
«Certe volte, i sentimenti umani sono davvero troppo forti.»
Idia si calmò, in qualche modo. Si voltò verso di lui e incrociò le gambe a propria volta, parlandogli sul viso.
«Noi Shroud non siamo molto abituati ad avere a che fare con i sentimenti. Non ci insegnano a farlo.»
«Neanche ai robot insegnano a farlo! È stato tutto nuovo anche per me, in queste ultime settimane!» Ortho ridacchiò. «Però mi è piaciuto, devo dire.»
«Questo perché non hai ancora avuto modo di provare sentimenti forti…»
«Non dirlo neanche per scherzo! Certo che ho provato sentimenti forti! Li provo tutt’ora!»
«Tanto da dimenticarti di mangiare?»
Idia lo stava stuzzicando, per vedere fin dove poteva arrivare, fin dove il limite poteva giungere a spingere, a prendere parti di lui. Nessuno dei due era davvero una macchina, avevano cuore e anima fatte della stessa materia caldissima – come i fuochi fatui, che bruciavano in eterno sottoterra, e trascinavano le anime vagabonde.
«Non ho certo bisogno di mangiare io, Nii-san, ma so distinguere quando una cosa è logica e quando non lo è. Che i miei ingranaggi reagiscano a determinate cose, è solo per una questione di preferenza, e di come io concepisco il piacere e il dispiacere.»
«Una questione mentale, quindi.»
«Non è stata una scelta preferire le cose morbide a quelle dure, eppure ora mi piace accarezzare le mie lenzuola.»
Idia ridacchiò, senza riuscire a trattenersi «Le lenzuola?»
«Sì, le lenzuola del mio letto!»
«È per questo che volevi la pelle sensibile?»
«No, in realtà-»
Si fermò, e anche Idia smise di ridacchiare. Quando si chinò in avanti, i suoi capelli gli scivolarono sul viso, e gli coprirono lo sguardo; fu Ortho a spostarli, ciocca dopo ciocca, dietro il suo orecchio freddo. Indugiò a toccarlo con l’indice e il pollice – Idia arrossì a quel tocco, e divenne caldo ovunque.
Quello, specificatamente quello, gli fece scordare ogni inutile raccomandazione di Ace Trappola. Non poteva usare altre parole che non la verità.
«Tu mi piaci, Nii-san. È te che vorrei toccare.»
Idia abbassò gli occhi, poi li alzò e li riabbassò, infine riuscì a tenerli alti, per guardarlo. Spostò il viso di lato, e gli diede un piccolo baciò sulla mano.
I sensi di Ortho impazzirono, a quel contatto inaspettato. Delicato e caldo, unico – sapeva benissimo che le labbra fossero una delle parti più sensibili del corpo umano, suo fratello lo aveva baciato col preciso scopo di provocare in lui quel tipo di reazione, e ci era ben riuscito.
«Devo dedurre che anche a te io piaccio, Nii-san?»
Non gli rispose, abbassò lo sguardo.
Ortho era così preso dalla propria felicità che fu preso alla sprovvista, totalmente, da quello che venne dopo.
«Credo di… aver paura.»
«Perché dovresti?»
«Non ho mai provato niente di simile.»
«Gli studi dicono che gli esseri umani raggiungono la maturità emotiva e sessuale nei primi loro primi vent’anni di vita, e che solo una persona su tre conosca il vero amore.»
«Sai, non dovresti credere a tutto quello che c’è su internet.»
«E come faccio allora a conoscere le cose?»
Sospirò, si mosse piano sulle proprie ginocchia, affondando nel materasso morbido del proprio letto.
«Ho paura dell’amore che provo per te. Perché… perché non ho mai conosciuto una cosa così bella, e penso di non volerla davvero, di non meritarmela e che potrei finire per distruggerla, con quello che sono io.»
«Un discorso davvero poco logico.»
«Non c’è niente di logico, nell’amore. Lo hai detto anche tu. Per questo fa così paura.»
«Ma provare sentimenti fa parte della tua natura, Nii-san.»
«Per questi sentimenti le persone uccidono e si fanno del male. Noi Shroud siamo… diversi.» Si toccò distrattamente i capelli. «Non potremmo gestire il Tartaro altrimenti.»
Quel risvolto, Ortho non l’aveva previsto in nessuno dei suoi cento copioni. Tentò allora di organizzare un discorso in pochi attimi, cercando nel film e nei telefilm qualcosa che potesse essere simile a quella situazione. Parlò, però, con il suo cuore.
«Pensi di potermi fare del male?»
Idia tremò. «Non voglio dividerti con nessuno, e non voglio rinunciare a te.»
«Non devi fare nessuna delle due cose, Nii-san. E poi, anche io provo esattamente lo stesso. Perché l’idea che qualcuno voglia toccarti come voglio toccarti io, mi fa arrabbiare.»
Aveva gli occhi lucidi. «Davvero? Davvero tu… provi, lo stesso?»
«Non c’è niente di logico in questi pensieri, eppure sono miei e solo miei. Quindi, immagino siano i miei sentimenti. Siamo uguali anche in questo.»
«E che mi dici della gelosia?»
«Hai rinunciato a me tempo fa, per rendermi libero. Io questa libertà scelgo da me come spenderla.»
Ortho gli toccò il ginocchio, piano, gli toccò ancora l’orecchio e aprì la mano alla sua guancia, perché vi ci rifugiasse. Era molto chiaro cosa significassero, quelle parole e quei gesti, persino a un robot come lui.
Idia si schiarì la gola, nel tentativo di dire qualcosa, Ortho aspettò che trovasse veramente il coraggio per farlo.
«Quando dici che vuoi toccarmi, cosa intendi?»
«Senza vestiti.»
«O-oh…» Dalla sua gola uscì un suono strozzato, come se gli stessero rubando il fiato. «Era per questo quindi-?»
«Sì, era per questo!»
«Non essere così diretto! È imbarazzante!»
«Perché è imbarazzante? Voglio che tu sappia cosa desidero. La comunicazione fa parte della vita di coppia.»
«Ora non ti allargare, noi non siamo una coppia.»
«Hai appena detto che mi ami e che mi vuoi per te, e io ricambio. Cosa non fa di noi una coppia?»
«È-è complicato-»
«In effetti capire certe dinamiche umane è più difficile che capire cosa si prova.»
L’altro gorgogliò, davvero in imbarazzo. Non aveva spostato la mano dalla sua e continuava ad avere difficoltà nel guardarlo in viso.
«Per ora non credi che abbiamo già fatto abbastanza passi in avanti?»
«Se non definiamo esattamente cosa siamo, non vorrei che poi avessi un’altra crisi d’identità, nii-san.»
«Non ne ho mai avuta una!»
Ortho ghignò, Idia sospirò. «A ogni modo, non c’è fretta di fare tutto adesso, davvero. I-io credo di essere abbastanza contento così, per ora. Non voglio altro.» Gli strinse la mano e socchiuse le palpebre. «Sono stanco di correre dietro ai miei sentimenti, Ortho. È sfiancante, voglio solo avere te.»
Il robot impiegò due secondi netti a valutare tutte le implicazioni di quella proposta, e quindi si buttò addosso a lui.
Si sdraiarono, abbracciati, tra le coperte morbide del letto. Idia lo avvolse con braccia e gambe, stringendo il suo capo al proprio petto, e Ortho infilò le mani sotto la sua maglia larga, per accarezzare la pelle calda.
Liscia liscia, si arrotondava solo attorno alle ossa sporgenti, morbida. Sentì il calore maggiore vicino ai fianchi e sul collo, registrò le curve dei muscoli piatti, i piccoli avvallamenti all’altezza dei reni.
Il cuore di Idia batteva così forte.
«Nii-san, mi dispiace di averti dato tanti problemi.»
«Non sei stato tu a darmi problemi.»
«Non capivi cosa provavi perché ti confondevo.»
«Non è esattamente-» Idia gemette, quando Ortho lo toccò sulla nuca, e per un momento tutto si fermò. La voce di lui tremava, quando tornò a parlare. «Ho chiesto consiglio alle persone sbagliate, tutto qui. A quanto pare, nell’amore non c’è niente di complicato, ma chiederlo a una creatura marina te lo rende assolutamente incomprensibile.»
«Hai coinvolto Azul Ashengrotto-san?»
«È l’unico amico che ho qui a scuola! Non posso certo chiedere ai miei bros di internet qualcosa del genere!»
«Per questo ti ho sempre detto di uscire di più e conoscere altre persone.»
«Ma anche tu hai chiesto consiglio a qualcuno o sbaglio? Certe cose non puoi averle pensate da solo!»
«Oh, sì! Ma almeno i miei erano umani! E mi hanno consigliato un ottimo posto per un appuntamento!»
«Sei un po’ troppo entusiasta, Ortho...»
Ortho ridacchiò contro di lui – e gli sembrò davvero che il cuore di Idia rispondesse al suono della propria voce.
Era stato tutto così semplice, quella sera, che davvero si voleva chiedere come mai ci avevano impiegato così tanto. Un robot e una persona insolitamente incapace a gestire le proprie emozioni, erano un’accoppiata davvero terribile, e se non fossero stati attenti a come si muovevano, tra di loro, sarebbe finita ben presto.
Ortho avrebbe imparato ad amarlo e gli avrebbe insegnato l’amore, questo era certo. Avrebbe calmato dell’ansia e quella paura che gli mordevano il cuore, giorno dopo giorno, con la pazienza di chi ha un tempo infinito per ottenere quello che voleva.
E c’era qualcosa che, quella sera, era indispensabile fare.
«Nii-san?»
«Uhm?»
«Penso che il semplice tocco non basti.»
Idia si irrigidì. «Cosa intendi, con questo?»
«Ho guardato dei video, su internet.»
«Che genere di video?» Ma dal terrore nella sua voce, Idia sapeva già benissimo la risposta a quella domanda.
Ortho si allungò fino ad arrivare col viso all’altezza del suo, di viso, e gli sorrise. «Vorrei fare l’amore con te. Come quelle persone nei video. Posso?»
«Non credo che quelle persone stessero facendo l’amore-»
«Non ignorare la mia domanda.»
Si zittì, il cuore che batteva a mille. Fu lui però a togliergli la maschera, e a denudare la sua bocca dai denti aguzzi, le labbra pallide che gli aveva costruito tanto tempo addietro. Non fu la sensazione di pelle sensibile, ma il calore e il significato del gesto, a rendere quel primo bacio così speciale.
Gli respirava addosso fiato pesante e si muoveva piano, quasi avesse paura di romperlo e di far sgretolare l’incanto con un gesto appena meno delicato.
«Ho fatto gli stessi pensieri tuoi, e mi sono vergognato da morire.»
«Sì?»
«Sì, perché questo- provare desiderio per te, mi sembrava sbagliato. Ma non è una cosa che posso dominare-»
«Non devi.»
«Ma tu non provi piacere. Non lo puoi provare, e questo sbilancia tutto quanto.»
«Perché?» La domanda fu secca e fece calare il silenzio, per qualche lunghissimo secondo.
Ortho cercò di non guardare, con i propri scanner oculari, tutto quello che stava accadendo nel suo cervello. Anche in quel modo, mai avrebbe capito che tipo di tormento potesse scuotere l’anima di suo fratello, quindi era assolutamente inutile.
Il suo sguardo e il suo respiro, invece, erano più interessanti, perché comunicavano qualcosa che solo nel linguaggio umano e non nel linguaggio della scienza aveva senso.
Lo baciò lui, quella volta. «Non posso provare piacere fisico, ma il mio spirito lo proverebbe nel momento in cui tu lo provi. Non pensi che questo bilanci tutto? Io di un orgasmo non me ne faccio niente, non mi serve davvero a nulla, ma vederti venire mi renderebbe la creatura più felice di questa terra.»
Ecco, Idia era arrossito, e i suoi occhi avevano abbandonato la paura per abbracciare la speranza e il desiderio. Aveva una smorfia che sembrava di pena e di dolore, perché erano così forti i suoi sentimenti che deformavano i lineamenti del suo viso, e i capelli che erano sparsi ovunque si colorarono di un rosa intensissimo.
«Quanti video hai guardato, per imparare a dire queste cose?»
«Mezzo milione circa.»
«Quan-?»
Cacciò giù in gola un’imprecazione, e Ortho ridacchiò ancora. «So tutto, su questo argomento.»
«Non ne dubito…»
Un bacio sul mento e uno sul collo, Idia si tese in attesa di altro.
«Quindi posso?»
Quanto batteva forte, il suo cuore, e quanto gli tremavano le dita.
«Per favore…»
Il robot dondolò in avanti – anche quello, di sicuro lo aveva imparato da qualche parte, e lo aveva unito al suo desiderio illimitato, libero e assoluto.
Quello lo fece a pezzi, smontandolo e rimontandolo all’interno. Idia non si chiese più se tutto quello fosse giusto o fosse sbagliato. Era loro, e nient’altro che loro, e a quel mondo maledetto era tutto ciò che importava.
Tutto il dolore passato aveva senso culminando in quel momento intimo tra di loro, e aveva assunto il preciso significato di averli condotti ad amarsi ancora e ancora, fino a consumar loro la ragione che tanto rendeva gli Shroud orgogliosi e superiori a tutti.
Idia non era superiore a nessuno, in quel momento, ebbro dei propri sentimenti e sconquassato dalle emozioni più turbi, viscerali. Ed era contento, era felice e gioioso di non essere nient’altro che un essere umano – per e grazie a Ortho.
*********
Azul gli si mise davanti, come se non avessero appena fatto un viaggio di venti minuti dalla scuola alla fermata in piazza in mezzo a venti altri studenti vestiti in borghese, in uno sgangherato e puzzolente minibus. «Prego, Riddle-san. Seguimi.»
Tese un braccio in avanti, per far strada. Il suo essere ossequioso era quasi ridicolo, in un certo senso, ma Riddle col passare del tempo aveva cominciato a trovare in quel suo atteggiamento punte di sincera attenzione, e lo riteneva adorabile.
L’urlo di un gabbiano gli fece alzare il viso in cielo. «Al mare?»
«Sulla spiaggia, per la precisione. L’acqua, non la toccheremo neppure.» No, certo che no. Azul non toccava l’acqua neanche se costretto. Riddle tese appena le labbra in un sorriso, e lo seguì senza più dire nulla. La piccola cittadina era vivace di persone e di suoni, in quel bel giorno di fine Primavera. I negozi avevano cominciato a rimanere aperti più a lungo, e si vedevano i bambini giocare nelle piazzole col pavimento di pietra, mentre rincorrevano le luci del sole alto.
Azul era sempre al suo fianco, lo conduceva sulla passeggiata tra la sabbia. «Eccitato? Vedrai, ti porterò in un bel posto.»
«Mi fido del tuo gusto, Azul.»
«Ma?»
«Ma, cosa? Non c’è più nessun “ma”.»
«Mi fa piacere saperlo.»
Riconobbe qualcuno degli studenti di Heartslabyul, che giocavano a lanciarsi sulla punta delle bacchette un’enorme palla di plastica rosata. Un disco volante, incendiato di luce magica, sfrecciò all’altezza delle loro teste, e Azul sobbalzò sul posto – Riddle riconobbe nei suoi borbottii una o due parole in polpese, ma non seppe dire se fosse un’imprecazione o una maledizione. Poco cambiava.
Gli si avvicinò di più.
«Pensi che potrebbe rovinare la tua perfetta immagine, se ti prendessi la mano.»
«Assolutamente, Riddle-san. Le persone con un certo contegno non si stringono le mani in pubblico.» Piegò il braccio con faccia seria, e lo sollevò dal fianco con un invito. «Si prendono a braccetto.»
Riddle sentì il volto riscaldarsi di piacere. Prese il suo braccio senza indugio, anche se Azul non lo guardava negli occhi: erano timidi entrambi, ancora.
«Ok, ok. Allora… lascia che ti offra, questa volta. Per ripagare!»
«Non potrei mai!»
Gli sorrideva, come sorrideva a tutti i propri clienti. Mellifluo, elegante, gentile. Ma dolce, solo per lui.
Il profilo di una cupola di vetro, con gli archi elegantemente decorati di fiori e di luci colorate, si stagliava oltre il profilo di uno scoglio, man mano che proseguivano. «Quasi quasi ci credo, se fai quella faccia-»
E si bloccò, intravedendo una innaturale chioma azzurra. Anzi, due.
«Cosa c’è?» Azul, preoccupato, seguì il suo sguardo. «Oh, gli Shroud. Sono qui anche loro.»
Rallentarono entrambi d’istinto. «Ci metteremo in un angolino appartato, vero? Non voglio farmi vedere da loro. Idia-senpai non la smetterebbe più di prendermi in giro.»
«Concordo.»
«Certo, vederli assieme nonostante quello che tu hai fatto…»
«Ho cercato di aiutarli per tutto il tempo.»
«Senza capire niente.»
«Non è colpa mia se voi umani siete complessi e non riuscite neanche a codificare i vostri stessi sentimenti.»
«Disse il polpo che impiegò un anno e cinque mesi per dichiararsi.»
Alzò gli occhi al suo viso, Azul era arrossito, alla maniera degli esseri umani. Però, aveva occhi davvero belli, anche se tentava di nasconderli dietro quegli occhiali sottili.
«Mi sono innamorato dopo, di te.»
Riddle si scoprì di credergli, senza il minimo indugio.
Si poteva permettere quel piccolo appuntamento, con una fetta di torta e un tè alle rose. Gli avrebbe preso la mano, intrecciato le dita con le sue e si sarebbe goduto le sue reazioni più imbarazzate, perché anche se si baciavano spesso, Azul non riusciva ancora bene a sopportare la gentilezza, e ogni gesto dolce lo metteva a dura prova. Lo avrebbe abituato al suo amore, e avrebbe imparato ad avere pazienza per lui.
Mentre si accomodava al tavolo, su invito della cameriera, lanciò un’ultima occhiata al tavolo degli Shroud. Idia sedeva con un ratto, mentre Ortho volteggiava sopra la propria sedia; ed erano così felici, così felici che non si accorgevano davvero di nient’altro attorno a loro. Non si accorgevano neppure che a qualche tavolo di distanza, a malapena dietro due menù troppo piccoli, erano seduto Ace e Deuce, intenti a spiarli.
Un po’ li invidiò, ma poi sentì la voce di Azul.
«Riddle-san!» Gli mostrò, tutto felice, la torta alle fragole che c’era sopra il menù, assolutamente sicuro che sarebbe stata la sua preferita.
Anche Riddle si sentì abbastanza felice da poter dimenticare tutto il resto del mondo.