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Autore: _Layel_    05/11/2023    0 recensioni
Hawks viene trasferito in una piccola e strana cittadina dove gli verrà chiesto di indagare sulla scomparsa di un certo Todoroki Touya.
Questo ragazzo, però, è circondato dal mistero, quasi come se non fosse mai esistito.
[Police Officer!Hawks x Ghost!Dabi] [No Quirks AU]
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Dabi, Hawks, Izuku Midoriya, Shouto Todoroki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Si trovava su uno di quei treni dimenticati da tutti tranne che dal tempo. Sedeva su un sedile consunto e macchiato dagli anni, solo, ad eccezione di un altro passeggero che osservava il paesaggio con sguardo vuoto. L’aria era pregna dell’odore di caldo stagnante e di sudore. Pareti e pavimenti erano sudici e il metallo degli ingranaggi gridava ad ogni frenata. Takami Keigo teneva le braccia strette attorno al suo zaino, ben lontane dai braccioli del sedile, e contava i minuti che lo separavano all’arrivo.

Dire che gli era stato affidato un compito ingrato era un eufemismo. Keigo era stato il migliore in accademia e ad oggi era il poliziotto con più casi risolti a ventiquattro anni; aveva davanti a sé una carriera brillante. Ma i suoi superiori dovevano aver notato che stava salendo troppo in fretta, quindi appena se n’era presentata l’occasione, l’avevano trasferito il più lontano possibile dalla città; anche se temporaneamente, finchè lo sceriffo in carica non fosse tornata dalla maternità, passare mesi in un minuscolo paese sperduto in cui non accadeva nulla avrebbe inciso sul suo rendimento.

La voce robotica che annunciava la stazione di arrivo disse il nome che Keigo stava aspettando da un’ora e mezza. "Finalmente." Recuperò le sue borse e si diresse verso la porta dello scompartimento. Il treno si fermò con un cigolio tremendo. Mentre scendeva i gradini ebbe la sensazione di essere osservato; questa persistette mentre scaricava le pesanti borse che contenevano tutti i suoi averi, mentre posava i piedi sulla piattaforma dell’unico binario che c’era. Venne avvolto da un profondo senso di inquietudine; continuò a guardarsi alla spalle, ma l’unica cosa che vi trovava erano le buie porte del treno. Rimase immobile, l’orecchio teso per captare ogni rumore sospetto, senza riuscire a distogliere gli occhi dal quel vecchio mostro di metallo. Il treno emise un fischio acuto prima di riprendere la sua lenta marcia. Quando i finestrini della sua carrozza gli passarono davanti, il cuore di Keigo mancò un battito. Il passeggero lo stava fissando intensamente, gli occhi vacui spalancati e il labbro tremante; non distolse lo sguardo finché Keigo non fu fuori dalla sua vista.

Appena il treno lasciò la stazione Keigo tornò a respirare. “Ma che diamine voleva quello? Ci credo che nessuno vuole venire qui se i turisti vengono guardati a quel modo.” Tentò di guardare la strada su Google Maps, ma in quel punto non aveva segnale. “Perfetto. Già amo questo posto.”

Prese l’unica strada che c’era nella speranza di trovare segnale o almeno qualcuno a cui chiedere indicazioni. Stava camminando da mezz’ora su quella desolata strada di campagna, circondato da campi di mais, insetti, e poco altro, quando raggiunse un incrocio. Tre strade identiche si profilavano davanti a lui, l’asfalto crepato e scolorito dal sole, senza alcun cartello o indicazione che potesse mostrargli la via. Il suo cellulare era ancora senza segnale. Il frinire di grilli e cicale era assordante, mosche grandi quanto la sua falange gli ronzavano contro, come infastidite dalla sua presenza. Rivoli di sudore gli scendevano dalla fronte, sentiva il collo bagnato e le mani appiccicose; l’unica cosa che voleva in quel momento era un posto all’ombra e un sorso d’acqua.

Il suo sguardo era fisso all'incrocio, ma doveva essersi distratto, perchè nel centro esatto sedeva un gatto nero che Keigo non ricordava aver visto arrivare. Il gatto lo osservò con espressivi occhi azzurri prima di avviarsi per la strada sulla destra; dopo pochi passi si fermò, come per aspettare che Keigo lo raggiungesse. Keigo, al momento, non aveva migliore alternativa, quindi si mise a seguire il gatto per la tortuosa strada.

Dopo altri trenta minuti raggiunsero l’entrata del paese, dove il suo telefono aveva due miracolose tacche, e Keigo si riparò immediatamente sotto la tenda di un negozio. Assaporò il fresco riparo prima di voltarsi a ringraziare il gatto, ma questo era già scomparso. Che se lo fosse immaginato? In fondo, un gatto-navigatore suona alquanto impossibile. Decise che era un problema da esaminare a mente lucida e dopo una lunga doccia. Entrò nel negozio di abbigliamento sotto cui si era riparato e chiese indicazioni per raggiungere l’unico hotel del paese.

+

La hall era deserta, poco illuminata e dava l’impressione di non essere stata pulita negli ultimi cinque anni. Sul banco della reception si era depositato un sottile strato di polvere, interrotto qui e là da impronte di dita e mani; solo uno dei quattro candelabri funzionava, proiettando lunghe e contorte ombre sul pavimento di marmo rosa e nero. Dall'ufficio proveniva la luce chiara e violacea di una TV, ma non si sentiva suono. Keigo attese qualche momento, continuando a ripetersi che sarebbe dovuto rimanere solo quattro mesi, prima di schiarirsi la gola. Quando non ricevette risposta provò con un “Buonasera?”

Nessuna risposta, nessun rumore. “C’è qualcuno?”

Fece qualche passo nella hall, guardò la strada dalle finestre sporche e notò che i posaceneri sui tavoli erano pieni di mozziconi. I divanetti di pelle nera non sembravano particolarmente sporchi, magari avrebbe potuto dormire lì. Prima che prendesse la drastica decisione un bagliore attirò la sua attenzione; un campanello scintillava sulla reception, nuovo e lucido. Chissà perché non l’aveva suonato prima? Gli diede un leggero colpo con la mano e attese.

L’umidità stava penetrando sempre di più nella stanza, gli si appiccicava alla pelle e rendeva il caldo ancora più intenso. Keigo si passò una mano tra i capelli e li trovò bagnati. “Ma cosa—”

“Buonasera,” annunciò una voce fredda alla sue spalle. “Cosa posso fare per lei?”

L’uomo che Keigo si trovò di fronte era alto e indossava un completo elegante; aveva i capelli scuri, forse neri, e intensi occhi gialli. Keigo non riusciva a mettere a fuoco i suoi lineamenti, era come se lo stesse guardando attraverso una lastra di vetro opaco. “Ho prenotato una stanza per questa sera. Sono Takami Keigo.”

L’espressione dell’uomo era imperscrutabile quanto un mare di nebbia. Andò silenziosamente dietro al banco della reception e gli porse una vecchia chiave con attaccato il numero 350. “Le auguro un buon soggiorno.”

Keigo lo ringraziò con un cenno del capo e si diresse verso le scale. Una veloce occhiata determinò l’assenza dell’ascensore e le sue caviglie gonfie protestano all’idea di doversi fare chissà quante rampe di scale trascinandosi dietro le pesanti borse. “Scusi, non è che mi potrebbe dare una mano?”

Nessuno rispose, la hall era vuota. “A che piano è la camera?”

Di nuovo silenzio. Keigo raccolse le borse e prese a salire le scale borbottando, “Vai in un piccolo paese, Keigo! Là sono tutti gentili e ospitali, non come in città! Se potessero vedere questo posto.”

Quella sera ebbe il suo primo, e ultimo, colpo di fortuna: la sua stanza si trovava al primo piano! Era l’ultima porta nel corridoio, distanziata dalle altre camere così da offrire più privacy, anche se Keigo dubitava che qualcun altro risiedesse in quell’hotel. Ciò che più lo stupì della camera fu la relativa pulizia; le lenzuola erano prive di macchie, non si vedeva un granello di polvere e il bagno non era disgustoso. Davanti al letto c’era una vecchia TV, ma per quanto cercò non trovò il telecomando da nessuna parte. Ci si accontenta delle piccole vittorie.

Fece una doccia veloce, accese il condizionatore e si buttò sul letto. Le valigie le avrebbe disfate il giorno dopo.

+

Si svegliò con il corpo appiccicato alle lenzuola e i capelli bagnati. L’aria pesante gli rendeva difficile respirare e il suo pigiama leggero lo opprimeva quanto una camicia di forza. Il condizionatore aveva smesso di funzionare. Premette alla cieca gli interruttori vicino al comodino, ma nessuno funzionava; era saltata la corrente. Con le membra appesantite dal sonno, accese la torcia del telefono (che segnava le 3:30!) e andò ad aprire la finestra. Mentre girava la maniglia il suo cuore saltò un battito. Lì, riflessa nel vetro macchiato, c’era la sagoma di un uomo. D’istinto la mano andò al fianco destro, dove teneva la fondina della pistola, ma non trovò nulla. L’aveva lasciata nelle borse ammassate al lato della porta. Non era distante, questione di qualche passo, ce l’avrebbe potuta fare.

“Fermo dove sei!” Puntò la torcia verso il muro ingiallito, ma non vide nessuno. Che si fosse nascosto nell’istante in cui si era voltato? Senza perdere di vista la stanza frugò tra i vestiti finché non sentì il freddo del metallo. Infilò il telefono in tasca, stando attento che continuasse a fare luce, così d’avere le mani libere, e spalancò la porta del bagno. Le piastrelle bianche riflettevano la luce della torcia. Keigo si intravide nello specchio. Le occhiaie violacee sottolineavano il suo pallore e i suoi capelli biondi erano un ammasso sudaticcio. Maledisse ancora una volta l’hotel, quel paese sperduto e i suoi superiori. Scostò la tenda della doccia e non trovò nulla se non un solitario scarafaggio sulla parete. “Che schifo.”

Il bagno era vuoto, la stanza era vuota, quindi l’intruso si era smaterializzato? Keigo emise uno sbuffo divertito. Era più probabile che si stesse nascondendo sotto il letto. Appena uscì dal bagno ebbe la sua risposta: la porta della camera era aperta. Non ricordava di averla aperta, né di aver sentito la serratura scattare, ma a questo punto non aveva più importanza. Chiuse la porta a doppia mandata e ci mise davanti una poltrona per sicurezza. Controllò anche sotto il letto, dove vide cose che non avrebbe mai voluto vedere, ma nessun intruso. A questo punto sapeva che non avrebbe più preso sonno, quindi prese un libro dal comodino intitolato “Meta Liberation War” e passò il resto della notte tra la lettura e il dormiveglia.

+

Quando l’orologio segnò le 6 del mattino Keigo aveva già riposto il pigiama in valigia, si era dato una rinfrescata nel lavandino (nulla al mondo l’avrebbe convinto ad usare la doccia) ed era pronto ad uscire da quel posto e non metterci più piede.

La hall era deserta come al suo arrivo. Lasciò le chiavi sul bancone della reception, rivolse un saluto generale alle poltrone e alla polvere, e se ne andò. Il soggiorno era già stato pagato dai suoi datori di lavoro, una settimana per permettergli di adattarsi e trovare un posto da affittare, così non dovette avere un altro strano incontro con il presunto proprietario dell’albergo. E se per quella settimana avesse dormito in ufficio, che male c’era?

A quell’ora del mattino faceva ancora abbastanza fresco, quindi fece una passeggiata per il paese. Trovò la piazza molto piccola e disadorna, con solo un paio di negozi ancora in attività e la vasca vuota e sporca di una fontana. Una donna stava allestendo i tavoli e le sedie di un bar e in quel momento un caffè era esattamente ciò che ci voleva.

“Scusi, siete aperti?”

La donna sobbalzò, ma si ricompose subito con un sorriso gentile in viso. “Se mi da cinque minuti…”

“Sicuro! Vuole una mano?” Poggiò le borse a terra e la aiutò a spostare un tavolino pieghevole dipinto di blu all’esterno del negozio.

“Grazie, ma non deve!”

“Non faccio fatica,” disse mentre portava anche le sedie. “Mi sto guadagnando il caffè!”

La donna rise. “Questo è sicuro! Scusi la domanda, ma lei è di qui?”

Era la prima conversazione normale che Keigo aveva da quando era sceso dal treno. “Mi sono appena trasferito, sono l’agente di polizia che deve sostituire Usagiyama. Takami Keigo, piacere!”

“Oh sì, ci aveva accennato qualcosa sul suo conto! Comunque io sono Midoriya Inko, il piacere è mio.”

Finirono di preparare il bar per l’apertura e la signora Midoriya gli offrì il caffè, anche dopo i suoi continui rifiuti. Dopo essersi rifornito di caffeina Keigo si sentì sveglio abbastanza da porre alcune domande. “Ha presente l’hotel in fondo alla via? È sempre stato così, insomma… mal tenuto?”

“Oh… Beh diciamo che…” Inko diede un'occhiata veloce fuori dalla vetrina e alzò le spalle. “È fatto così, ecco.”

Keigo seguì il suo sguardo; la piazza era ancora vuota anche se ora si sentiva l’occasionale passaggio di un auto. Accucciato vicino alla porta, però, c’era un gatto nero identico a quello che lo aveva guidato il giorno prima che li osservava con curiosità attraverso il vetro. “Sa che quel gatto ieri mi ha fatto da navigatore?” scherzò Keigo.

“Lo conosce?” chiese in tono sorpreso, mentre il suo sguardo passava velocemente da lui al gatto.

“È un gatto che ho visto ieri,” rispose Keigo perplesso.

“Capisco.” Gli rivolse un sorriso di circostanza, “Comunque tra poco arriveranno i clienti abituali, quindi se non vuole essere intrappolato da una miriade di domande…”

“Non si preoccupi,” rispose affabile mentre radunava le sue cose. Stava cercando di congedarlo, questo era certo, ma Keigo non ne capiva il motivo. Non gli era sembrato di essere stato scortese. “Buona giornata, signora Midoriya!”

Si ritrovò di nuovo in piazza, con l’ufficio come unica meta. Accarezzò distrattamente il gatto mentre impostava l’indirizzo sul navigatore; la centrale distava solo dieci minuti a piedi. Presto si rese conto che il gatto nero lo stava seguendo e gli spuntò un sorriso.

+

Quella era la più piccola stazione di polizia in cui Keigo fosse mai entrato. Vi era un minuscolo ingresso, con ben due sedie di plastica e una singola porta che conduceva all’ufficio. L’unico modo per sapere se ci fossero persone nella sala d’aspetto era tenere la porta aperta, quindi niente privacy. Perfetto.

Il gatto saltò su una delle sedie e iniziò ad esplorare il nuovo ambiente. Gli fece un grattino dietro alle orecchie, il micio si lasciò accarezzare, felice di ricevere coccole. “Quando finisco di lavorare ti prendo qualcosa da mangiare, eh? E, uh… ti serve un posto per andare in bagno? Sai, in verità i gatti non mi piacciono, tu sei l’eccezione. Sentiti onorato. Dovrei darti un nome? Uh…” Ci pensò per qualche secondo prima di dire la prima cosa che gli passò per la mente, “Mestolo!” Il gatto in risposta gli morse la mano. “Ow! Non ti piace? Beh, troppo tardi, ormai sei Mestolo.”

L’ufficio era (che sorpresa!) piccolo, ma ordinato. Sulla scrivania c’erano le foto incorniciate della collega che stava sostituendo, un fermacarte a forma di coniglio e un computer tanto vecchio da aver assistito allo sbarco in Normandia. Dopo una breve ispezione trovò il bagno, uno sgabuzzino, dove lasciò le valigie, e la singola cella presente. La branda era abbastanza pulita e finchè non avesse trovato una soluzione migliore Keigo avrebbe dormito lì.

Grazie alle sue preghiere il computer si accese e iniziò il tedioso compito di rispondere a tutte le mail arretrate. Avrebbe impiegato un paio di giorni per recuperare due settimane di lavoro.

Verso le quattro, tre ragazzi entrarono nella stazione di polizia. “Solo un momento,” disse Keigo mentre finiva di compilare il rapporto per i suoi superiori. La ragazza fu l’unica a sedersi, mentre gli altri due si guardavano nervosamente intorno. Keigo premette invio ed entrò nella modalità “servizio clienti”. “Entrate pure. Sì, sì, chiudi la porta.”

I ragazzi si disposero in fila davanti alla sua scrivania, Keigo si annotò di comprare delle sedie, e si guardarono l’un l’altro senza dire parola. Alla fine fu la ragazza a parlare. Portava gli occhiali e aveva lunghi capelli bianchi; anzi tutti e tre avevano i capelli bianchi, tranne il ragazzo più giovane, che li aveva tinti di rosso per metà. Strano, ma Keigo non era al passo con i trend e non aveva idea di cosa andasse di moda, forse in quel momento andavano tantissimo i capelli bianchi e rossi, forse questi ragazzi erano solo particolari.

“Vogliamo denunciare la scomparsa di nostro fratello maggiore,” disse lei.

“Ok, quindi è molto più serio del furto di una bicicletta”, pensò Keigo. Prese un foglio e una penna così da poter prendere velocemente appunti (il computer era ancora occupato nell’erculea impresa di inviare il rapporto). “Qual è il vostro nome? E quello di vostro fratello?”

“Todoroki Fuyumi. Questi sono Natsuo,” indicò il più alto dei due, “E Shouto.” Il ragazzo dai capelli bicolore. “Nostro fratello si chiama Todoroki Touya, è scomparso da tre giorni. Ha il telefono spento, ma dalla sua stanza non manca niente. Abbiamo escluso che se ne sia andato di sua volontà.”

La domanda che stava per porle gli morì sulle labbra. Fuyumi aveva anticipato molto di quello che le avrebbe voluto chiedere. Prese nota. “D’accordo. Dove l’avete visto l’ultima volta?”

“Martedì sera è uscito di casa dopo cena.”

Scrisse: 13/06, tra le 7:00 e le 9:00. “Avete qualche idea di dove dovesse andare?”

“A lavoro,” intervenne Shouto. “Lavora all’hotel.”

“Di cosa si occupa?”

I tre ragazzi si scambiarono un’occhiata. “Fa il cuoco,” rispose Natsuo.

“Comunque non dovete preoccuparvi, lo troveremo sicuramente. Ora se poteste scrivere età, altezza, peso, indirizzo e numero di telefono… grazie.”

Lesse ciò che Fuyumi aveva scritto e aggrottò la fronte quando lesse il peso. “Solo 70 kg? Per essere quasi 1.80 è bello magro,” pensò. “Bene, avete delle foto? Più sono recenti meglio è.”

“Abbiamo solo questa.” Shouto gli consegnò la foto a mezzobusto di un ragazzino di massimo quattordici anni, dai capelli bianchi come neve e gli occhi turchesi. Guardava l’obbiettivo con espressione seria e indossava un’uniforme scolastica. Non aveva sicuramente ventiquattro anni.

“Ha la mia età,” pensò Keigo distrattamente. “In che senso solo questa? Dovrete avere una foto più recente. È impossibile che questa sia l’unica. Va bene anche se è sul cellulare.”

I ragazzi si scambiarono un’altra occhiata, in particolare Natsuo appariva molto nervoso. Continuava a guardarsi intorno e a giocherellare con l’orlo della maglia. Shouto era molto distratto, continuava a guardare Mestolo che stava combattendo con una pianta finta. Fuyumi era la più composta, sembrava avesse la situazione sotto controllo. La cosa più strana era che erano tutti troppo calmi per star denunciando l’improvvisa scomparsa del fratello. “È la prima volta che sparisce?”

Fuyumi scosse la testa. “Ma di solito si porta vestiti di cambio e risponde alle nostre chiamate.”

“Quante volte è già successo?”

“Due.”

“Ok, allora, oggi andrò a parlare con il suo datore di lavoro e domani contatterò subito la Prefettura così da iniziare le ricerche. Appena avrò notizie ve le comunicherò.” Sorrise rassicurante e Fuyumi ricambiò con cortesia. Fu l’unica però. Gli altri avevano un’espressione amareggiata e quasi sconfitta.

“La ringraziamo molto,” disse prima di poggiare le mani sulle spalle dei fratelli per condurli fuori. Keigo chiuse la porta dietro di loro e sospirò.

“Un primo giorno tranquillo, eh?” Ovviamente Mestolo non gli rispose. “Ho una strana sensazione su questo caso, ci sono tante cose che non mi convincono.”

Osservò la foto di Todoroki Touya i suoi penetranti occhi azzurri sembravano scrutargli l’anima. Gli venne la pelle d’oca e un brivido gli scese lungo la schiena. Molto, molto strano. Voltò la foto così da non dover più vedere quegli occhi e infilò gli occhiali da sole.

“Direi che è arrivato il momento di dare un’occhiata a quell’hotel."

+

Era tardo pomeriggio ed essendo estate c’era ancora parecchia luce, ma per le strade del paese non si vedeva nessuno. Magari erano ancora tutti a lavoro. “Oppure sono l’unico sprovveduto ad uscire di casa con questo caldo,” pensò mentre si asciugava la fronte madida di sudore. Raggiunse l’albergo dopo una breve passeggiata e lo trovò esattamente come l’aveva lasciato quella mattina: sporco e vuoto. L’unica differenza era che stavolta Mestolo era con lui (aveva provato a lasciarlo in centrale ma non c’era stato verso).

Suonò il lucido campanello sul bancone della reception, aspettandosi che l’uomo del giorno prima gli comparisse alle spalle, ma non successe nulla. Lo suonò ancora, con forza. Il din echeggiò per la sala, un unico etereo suono che gli si conficcò nel cervello finchè fu l’unica cosa che riuscì a sentire. Si massaggiò con forza le orecchie, ma il suono era persistente quanto un cattivo odore, Keigo pensò con affanno che forse non sarebbe mai più riuscito a sentire normalmente.

Poi Mestolo miagolò e l’effetto sgradevole si dissolse nel nulla. Keigo tirò un sospiro di sollievo e sorrise con gratitudine al gatto. Questo era il secondo favore che gli doveva.

Keigo non aveva idea di cosa fosse successo, ma era probabile che la notte in bianco gli si stesse ritorcendo contro. Anche se non troppo lucido avrebbe comunque trovato qualcuno in quell’hotel a cui fare domande, non poteva sprecare tempo, quel ragazzo avrebbe potuto essere in pericolo. Andò contro all'istinto che gli gridava di andarsene e salì le scale con torcia e pistola a portata di mano.

Le scale gli parvero più lunghe della prima volta, ma era probabilmente uno scherzo del suo cervello assonnato. Raggiunse il primo piano dove trovò tutte le porte chiuse ad eccezione della stanza 350, la sua. All’interno era tutto come l’aveva lasciato, il letto sfatto e il cestino pieno con gli avanzi della sua cena. Non c’era da stupirsi se c’era un’infestazione di scarafaggi. Bussò ad un paio di porte ma nessuno aprì né emise un suono, quindi concluse che fossero vuote.

Il secondo piano era identico al primo; un lungo corridoio color ocra, due file identiche di porte e due delle quattro lampadine bruciate. La cosa che lo stranì di più fu la numerazione di una delle stanze; sulla terza porta a sinistra due numeri di metallo riflettevano minacciosamente la luce delle lampade. 44, il doppio numero sfortunato. Lo osservò mentre uno strano senso di inquietudine gli si diffondeva nel petto, non voleva assolutamente entrare in quella stanza. Prima che potesse ordinare alle sue gambe di andarsene da lì, la serratura scattò. Una mano guizzò fuori e, senza che Keigo avesse il tempo di reagire, gli afferrò la manica della giacca. Un grido strozzato lasciò le sue labbra, senza pensare ne prese il polso e lo strattonò via. La manica si strappò, ma almeno era libero. Il suo sguardo si posò sul polso freddo che ancora stringeva.

Alla fine dell’avambraccio, poco prima del gomito, non c’era niente. Stava tenendo in mano un braccio mozzato. Lo lasciò con un grido, il cuore che gli martellava nel petto e il sapore di bile nella bocca. Le dita della mano si allungarono, come se si stessero stiracchiando dopo un pisolino e uncinarono la moquette. Avanzarono lentamente, centimetro dopo centimetro, verso la porta socchiusa. Keigo a quel punto ne aveva avuto abbastanza. Girò sui tacchi e corse via.

Scese i gradini a due a due, saltando gli ultimi tre prima del pianerottolo da tanto che aveva fretta di uscire, ma per quando andasse veloce le scale non sembravano aver voglia di finire. Ormai era nel panico, tutto quello che vedeva era quella mano morta che si contorceva a terra, doveva uscire, doveva uscire, quanto erano lunghe quelle maledette scale?!

Non riusciva a vedere più nulla, a sentire più nulla che non fosse il ritmico battito dei suoi stivali sul legno e il sangue che gli pulsava nelle orecchie. Era così concentrato sui suoi piedi che non aveva notato la presenza davanti a lui. Ci andò a sbattere contro con tutto l’impeto che aveva accumulato nella sua corsa disperata, ma l’altra persona non si mosse. “Che quella cosa mi abbia seguito fin qui?” pensò nel panico.

“Non si esce di qui,” disse l’altra persona. Keigo lo riconobbe all’istante, anche se dieci anni più vecchio e coperto da ustioni. I capelli candidi e gli occhi turchesi erano identici. Todoroki Touya.

“Sei tu! Bei piercing," commentò lo stanco e sovraccarico cervello di Keigo. Se fosse stato meno preoccupato per la sua vita si sarebbe dato uno schiaffo in fronte. “Aspetta, sai come si esce da qui? Puoi accompagnarmi?”

Touya lo osservò divertito, “Non so, cosa ricevo in cambio?”

“Non hai idea di cosa ci sia lassù! Dobbiamo andarcene prima che ci raggiunga!”

“Nah,” fu la semplice e diretta risposta di Touya. “Shi— Lui non esce mai dalla sua stanza.”

“Cosa…”

“Allora vuoi venire con me e preferisci scendere ste scale in eterno?”

Keigo non aveva molte alternative e iniziò a seguire il ragazzo scomparso. Almeno non era venuto all’hotel per niente.

Salirono due rampe di scale prima di arrivare al corridoio del primo piano. Keigo si guardò alle spalle, ma le scale erano esattamente come se le ricordava dalla sua prima visita. “Come abbiamo fatto ad arrivare qui?”

“Le scale,” rispose l’altro con un ghigno.

“ Ah ah, molto divertente. Hai capito cosa intendo.”

“È meglio per te se fai meno domande.” Touya aprì la porta della stanza 350 e gli fece cenno di entrare. “Dopo di lei, madame.”

Ugh, Keigo odiava questo tizio. “Potrei farti arrestare.”

Touya scoppiò a ridere. “Per? Insulto a piccolo ufficiale?”

“Non capisco perché i tuoi fratelli ti rivogliono indietro,” disse Keigo mentre incrociava le braccia.

Touya chiuse la porta con più forza del necessario, “Cosa?”

“I tuoi fratelli,” spiegò, “Hanno denunciato la tua scomparsa stamattina. Erano molto preoccupati.”

Il viso di Touya era occupato da un’espressione che Keigo faceva fatica a piazzare. Sorpresa? Confusione? Mal di stomaco?

Keigo era molto più calmo rispetto a prima, forse perché era in una stanza chiusa e sicura, o forse perché la presenza di qualcuno di normale gli dava conforto. Finché uno spiacevolissimo pensiero gli balenò in testa. “Dov’è Mestolo?”

Touya fece un verso disgustato, “Che nome orribile. Sta bene. È un gatto molto intelligente.”

“Più di te questo è sicuro.”

Apparentemente Touya trovò l’insulto molto divertente; un grande ghigno gli comparve sul viso e gli occhi sembrarono risplendere di luce innaturale. “Sei adorabile.”

Per una frazione di secondo Keigo comprese come si sentiva un coniglio di fronte a una tigre affamata. Ma la luce degli occhi di Touya si dissipò tanto velocemente quanto era apparsa e Keigo tornò a respirare.

Touya rivolse la sua attenzione alla porta. “Dovrebbe essere sufficiente," disse tra sè e sè prima di girare la maniglia. Mise fuori la testa, guardò a destra e a sinistra e alzò le spalle. “Vieni.”

Keigo lo seguì lungo il corridoio, giù dalle scale e attraverso la reception. Keigo si guardò intorno esterrefatto. La sala era immacolata, non un granello di polvere sul bancone della reception, non una ragnatela tra i lampadari, le sedie disposte in ordine, i posaceneri vuoti e due vasi di fiori freschi sui tavoli. Keigo ne aveva decisamente avuto abbastanza. “Com’è possibile? Cos’è questo posto? Chi sei tu?”

Touya lo squadrò dall’alto in basso, il viso divertito, e gli posò una mano gelida sulla guancia. Keigo si irrigidì al contatto. Le labbra di Touya gli sfiorarono l’orecchio. Keigo era avvolto nel suo profumo, un fuoco scoppiettante durante una tempesta di neve, e quasi si perse le sue parole.

“Fai troppe domande, Takami Keigo,” sussurrò, il suo nome così sbagliato sulle sue labbra, prima di allontanarsi e di spingerlo fuori.

Keigo cadde nell’oscurità della notte, mentre l’ultima cosa che rimaneva di Touya erano gli occhi turchesi.

+

Si svegliò sudato e con il collo dolorante. A quanto pare si era addormentato sulla scrivania con ancora il computer acceso e tutti i documenti in disordine. Si stiracchiò per bene mentre si faceva un caffè. Certo che aveva fatto un sogno assurdo; ecco perché doveva smetterla di lavorare fino a notte fonda. Tornò alla scrivania, caffè fumante in mano, e iniziò a rivedere quello che sapeva su Todoroki Touya. Mentre voltava quell’unica fotografia notò che la manica destra della sua giacca era strappata. Un sospetto si insinuò nella mente di Keigo. Si toccò la guancia come se avesse potuto mantenere il gelo della mano di Touya, ma ovviamente la trovò calda. Keigo non sapeva più a cosa credere.

Dopo aver fissato per cinque minuti buoni la foto del ragazzo si decise a fare l’unica cosa che in quel momento aveva senso. Chiedere aiuto a chi ne sapeva più di lui. Trovò il suo contatto facilmente, premette il pulsante verde e attese. Dopo tre squilli gli rispose una voce assonnata.

“Se mi hai svegliata a quest’ora e non ci sono almeno tre morti ti prendo a calci in culo.” Fu la gradevole risposta che Rumi Usagiyama gli diede.

“Buongiorno anche a te!” disse Keigo allegramente, sapendo che il tono gioioso le avrebbe solo dato più fastidio. “Ho un caso di persona scomparsa e mi chiedevo se sapessi qualcosa in più.”

Lui e Rumi si erano conosciuti in accademia, lei era qualche anno più grande di lui ma si erano subito trovati in sintonia. Era stato bello avere un partner che lo capisse senza bisogno di molte parole, qualcuno che vedeva Keigo e non solo i suoi risultati. Dopo che Rumi si era laureata si erano, però, persi di vista, per ritrovarsi in questo minuscolo paese dimenticato da Dio.

“Che cosa sai?” gli chiese molto più sveglia.

“Si chiama Todoroki Touya. È un uomo di ventiquattro anni, circa un metro e ottanta, ultimo avvistamento—”

“Kei,” Rumi lo interruppe, il tono pesante. “Todoroki Touya è morto undici anni fà.”

Ogni funzione nel corpo di Keigo si fermò. Smise di respirare, di processare immagini, suoni, era come se fosse caduto in una bolla nera come la pece senza alcuna possibilità di uscire. Questo voleva dire che quello della notte prima era stato veramente un sogno. Che Touya non…

“I suoi fratelli ne hanno denunciato la scomparsa,” Keigo stava implorando Rumi di dirgli che era un errore. Il pensiero di aver immaginato Touya era peggiore di vivere in un mondo in cui le mani mozzate si muovevano da sole. E lo aveva visto per un tempo totale di dieci minuti! Mestolo, notato il suo stato d’animo, gli saltò sulle ginocchia e Keigo usò il suo pelo morbido per ancorarsi alla realtà.

“Gli darei un paio di ceffoni a tutti e tre,” Rumi sospirò, “Non è la prima volta che lo fanno, avevano chiesto anche a me di cercarlo. Credo che non abbiano mai accettato la sua morte e sono convinti che sia ancora lì da qualche parte. Denunciano la sua scomparsa ad ogni nuovo ispettore. Avevo intenzione di avvertirti, ma è stato un periodo di merda e mi sono dimenticata.”

“Non preoccuparti. Se continuano a fare così potrebbero finire in guai seri, però.”

“Prossima volta che li vedi dagli un paio di scapaccioni da parte mia. Ma per il resto lascia correre, ne hanno già abbastanza di problemi. Alla fine sono bravi ragazzi.”

Keigo si passò una mano sul viso cercando di riportare ordine nella sua coscienza. “E che mi dici dell’hotel? Anche quello è uno scherzo?”

Mestolo emise un miagolio acuto e squillante e Keigo riprese ad accarezzarlo. “Che micio esigente,” pensò divertito.

“È il tuo gatto?”

“Non so se è proprio mio, mi ha seguito fino qui e non ne vuole sapere di andarsene.”

“Di che colore è?”

“Rumi, apprezzo il tuo interesse per Mestolo, ma possiamo tornare sull’argomento? L’hotel?”

Rumi esitò prima di rispondere. “Ascolta io so meno di te. Meglio che ci stai alla larga, è tutto quello che posso dirti.”

Era la seconda persona che gli dava una risposta evasiva riguardo a quel posto. Quindi c’era qualcosa di strano. “Va bene, grazie Rumi. Riguardati mi raccomando. Oh e ho un’idea su come chiamare tuo figlio!”

“Non mi faccio consigliare da uno che ha chiamato il proprio gatto Mestolo. Ciao, Kei,” disse con un malcelato sorriso, prima di riattaccare.

Keigo gettò il cellulare sulla scrivania prima di prendere il muso di Mestolo tra le mani e fissarlo intensamente negli occhi azzurri. Gli sembrarono quasi familiari. “L’aria di campagna mi sta facendo impazzire.”

+

Andò dall'unica persona in paese che era un normale essere umano e che gli sembrava sapesse qualcosa sull'hotel. Midoriya Inko.

Keigo entrò accompagnato dal suono della campanella sulla porta che allertava la proprietaria che era entrato un nuovo cliente. L’ambiente era piccolo, le pareti verderame e le molteplici piante su mensole e tavoli gli davano un aspetto accogliente e familiare; l’aria era pregna del profumo di paste e caffè. Keigo sarebbe volentieri diventato un cliente abituale.

Intento a parlare con il barista (un ragazzo dai ricci capelli verdi) c’era niente di meno che uno dei fratelli Todoroki. Shouto, se la memoria non lo ingannava. Aveva un leggero sorriso sulle labbra mentre ascoltava attentamente ciò che l’altro ragazzo gli raccontava. Keigo si schiarì la gola e i due giovani si voltarono colpevoli. “‘Giorno.”

“Salve,” gli sorrise il barista, “Cosa prende?”

“Oh, nulla. Volevo solo fare un paio di domande a Midoriya Inko—”

Il ragazzo spalancò gli occhi. “È successo qualcosa?!”

“No, solo curiosità professionale,” rispose Keigo con disinvoltura.

“Vado a chiamarla.” Il ragazzo si sporse sul bancone e diede un leggero bacio sulla guancia di Shouto, che diventò rosso come i suoi capelli. “Torno subito!”

“Aww, che carino,” commentò Keigo con quanto miele avesse in corpo; si era guadagnato il diritto di imbarazzarlo un poco. Shouto divenne, se possibile, ancora più rosso e continuò insistentemente a fissare la sua tazzina vuota. In tono più serio continuò, “Potete passare quando volete a riprendere la foto.”

Shouto rispose con un lieve cenno affermativo. “Grazie.”

Keigo appoggiò la testa sulla mano, il volto rivolto verso Shouto. “Devo ammettere che non ne capisco molto il motivo.”

“È più una tradizione.” Shouto alzò le spalle, “Una delle poche cose che facciamo insieme da quando Touya… Razionalmente sappiamo che non… che non c’è più, ma fare finta ogni due o tre anni ci aiuta. Credo.”

Keigo gli diede una leggera pacca sulla spalla, “Mi dispiace.”

“Ci sta,” rispose Shouto, guardandolo per la prima volta negli occhi. Non c’era tristezza nel suo sguardo, solo una forte nostalgia.

“Ma perchè proprio all’hotel? Avreste potuto semplicemente dire che non sapevate dove fosse diretto.”

“Colpa mia, ho improvvisato. Touya ci andava sempre dopo che… quando aveva una brutta giornata.”

Il fatto che questi ragazzi si fossero preparati un copione, e magari anche fatto delle prove, per denunciare la finta scomparsa del fratello morto, come attività per rafforzare il loro legame, lasciava Keigo esterrefatto. In che ambiente vivevano se quella era l’unica cosa che potessero fare insieme?

“E beh,” continuò Shouto con aria colpevole, “È un posto che le avrebbe fatto perdere un bel po’ di tempo visto quanto è strano. Ma non si è mai fatto male nessuno!” Aggiunse in fretta.

Quindi c’era qualcosa di pericoloso in quel posto! Non che questo chiarisse nulla. In quel momento il barista ricomparve dal retro con un’espressione tra il dispiaciuto e l’imbarazzato. “Purtroppo mia mamma non si sente bene, è un problema se passa domani?”

“Nessun problema, grazie mille,” disse Keigo cordiale, “Il tuo fidanzato mi ha aiutato molto.”

I volti dei due ragazzi presero fuoco, il figlio di Midoriya Inko iniziò a balbettare qualcosa, un saluto forse, mentre Shouto nascose la testa tra le mani. Keigo fece un ampio sorriso ed uscì dal locale. Imbarazzare teenager: le piccole gioie della vita.

Prese la strada che lo avrebbe portato alla stazione di polizia. Aveva intenzione di fare ricerche sull’hotel e su Todoroki Touya (e visto lo stato del suo computer ci avrebbe messo tutto il giorno), in più doveva finire di visionare le mail arretrate e se non ricordava male inoltrare la denuncia del furto della carta d’identità di una signora. “Si prospettava una giornata emozionante,” pensò sarcastico.

+

Trovò poco e niente sul conto dell’hotel (non che si aspettasse diversamente) ed altrettanto su Touya. Era il figlio primogenito del Dt. Todoroki Enji e Todoroki Rei, aveva frequentato le scuole locali con voti nella media, era morto in un incendio doloso all’età di tredici anni. Cose interessanti, ma nulla che lo aiutasse a determinare se quello della notte prima fosse veramente Touya (morto e risorto per i nostri peccati) o frutto della sua immaginazione. In teoria la risposta era ovvia, Touya era morto, ma Keigo non era più molto sicuro di cosa fosse reale e cosa no.

Riuscì però a trovare qualcosa che l’avrebbe, si spera, aiutato a mettersi il cuore in pace. Todoroki Touya era sepolto nel cimitero del paese. Forse vedendo la sua tomba si sarebbe convinto che Touya era veramente e inequivocabilmente morto.

Il cimitero era ben distante dal centro paese (comprensibile) e Keigo impiegò una buona mezz'ora per arrivarci. Ormai erano le dieci, dopo cena si era steso sulla branda per riposare un attimo gli occhi e si era risvegliato due ore dopo. Gli ultimi raggi del sole rischiaravano l’orizzonte, non abbastanza da illuminare la strada, ma per fortuna gli interruttori per accendere le luci del cimitero furono facili da trovare.

Si avviò per i sentieri ghiaiosi, i sassolini bianchi che scricchiolavano sotto i suoi piedi mentre percorreva file e file di tombe piene di nomi e volti che non conosceva. Era la prima volta che entrava in un cimitero da quando era bambino, quando suo padre lo trascinava con lui per rubare il rame dai lumini sulle tombe. Quello era il “lavoro” che odiava di più, gli sembrava sempre che gli occhi dei morti lo giudicassero.

Verso la metà del cimitero individuò una tomba più piccola delle altre, in marmo bianco con sassolini neri al centro e la stessa foto che era ancora sulla scrivania di Keigo. Un vaso di fiori finti come unica decorazione. L’epitaffio era:

Todoroki Touya
1992-2005
–Rimarrai sempre nel cuore della tua famiglia–

Beh, ecco fatto. La prova decisiva. Un forte senso di vuoto gli dilagò nel petto, era triste come se avesse perso una persona cara, anche se tutto quello che aveva conosciuto di lui era stato prodotto dalla sua mente. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi turchesi.

“Triste, eh?” commentò una voce al suo fianco, una voce che conosceva.

Keigo si voltò di scatto e sbiancò alla vista di Tou— del ragazzo che aveva incontrato all’hotel dai i capelli bianchi e gli occhi turchesi che non poteva essere Todoroki Touya perché Todoroki Touya era sepolto a un paio di centimetri di distanza da lui. “Chi sei?”

Il tipo ebbe l’audacia di guardarlo come se fosse stupido. “Non sai leggere?”

“Ti ho fatto una domanda.” Questa volta Keigo avrebbe ottenuto delle risposte concrete e dirette.

“Sono lui,” fece un cenno verso la tomba, “In verità ero lui. Ora sono Dabi, piacere.”

Lo stava prendendo in giro. “Non è divertente.”

“Lo dici a me che sono morto?” Tou— Il tipo gli rivolse un ghigno, “Non dirmi che non hai mai firmato un contratto senza leggere le scritte in piccolo.”

“Sono a tanto così dallo strozzarti.”

“Oh che paura,” disse in tono piatto, “La prossima volta minaccia i fiori, vedrai come tremano.”

Keigo era arrabbiato e offeso e confuso e forse era tutto un po’ troppo per il suo povero cervello perché trovò quella risposta estremamente divertente. Fece del suo meglio per contenere la sua risata. “Mi stai perseguitando?”

Touya(?) sorrise, “Nah, saresti già morto.”

Oh beh, questo sì che migliora la situazione. “Quindi cosa vuoi da me? Cosa sei?”

Touya si voltò per andarsene, senza degnarsi di rispondere. Le sue scarpe non facevano rumore. Keigo lo afferrò per braccio (perchè riusciva a toccarlo?) e lo costrinse a fermarmi. “Voglio delle risposte.”

Gli occhi di Touya erano fissi sulla sua mano e Keigo lo lasciò velocemente andare. “Non posso spiegarti,” disse tra i denti, “Ma mi vedi e non sei uno dei coglioni dell’Unione. Mi accontento.”

Keigo lo avrebbe volentieri tempestato di domande su cosa fosse questa “Unione” o in che senso “si accontenta?”, ma la domanda che più lo pressava era un’altra. “I tuoi fratelli non possono vederti?”

“Non quando sono così.” All’espressione curiosa di Keigo sbuffò e continuò a spiegare. “Hai presente il gatto nero? Sono io.”

“Mestolo?” esclamò Keigo. Tra tutto quella era la cosa che più lo sconvolgeva. Perché a fantasmi e non morti ci poteva anche credere, ma il suo gatto? Quello che aveva combattuto per venti minuti con un pezzo di plastica e si era incastrato nelle tapparelle? Quello era una persona?

“Ugh,” Touya arricciò il naso in disgusto, “Che nome orribile.”

“Sai, ora che so quali croccantini preferisci mi fai molta meno paura.”

In un battito di ciglia la mano di Touya lo stava strangolando. Keigo annaspò e gli afferrò il braccio, tentando disperatamente di fargli mollare la presa, ma era come cercare di piegare una trave. Touya lo sollevò da terra, con un ghigno grottesco a distorcergli i lineamenti. I piedi di Keigo scalciavano nell’aria, inutili. Gli conficcò le unghie nel braccio, il respiro sempre più corto e difficoltoso, mentre il panico prendeva il sopravvento. Non voleva morire. La vista gli si stava scurendo, la luce azzurra degli occhi di Touya l’unica cosa che riuscisse a vedere chiaramente.

“Davvero?” sussurrò Touya e lasciò la presa.

Keigo cadde a terra, tenendosi la gola mentre tossiva. “Ma che cazzo?” gridò appena riuscì a parlare di nuovo.

“Un piccolo promemoria.” Gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi, ma Keigo la ignorò.

Infilò le mani nelle tasche dei pantaloncini per nascondere il tremore. “Non farti mai più vedere.”

Non aspettò una risposta. Uscì dal cimitero più in fretta che potè e arrivò in ufficio che praticamente stava correndo. Si chiuse dentro a chiave, mise una sedia davanti alla porta (déjà-vu) e si buttò sulla branda.

+

Le settimane dopo passarono senza incidenti, stranezze, o attentati alla sua vita e Keigo poté finalmente tirare un sospiro di sollievo. Ciò che era successo lo aveva chiuso in una piccola scatola nello sgabuzzino più recondito della sua coscienza e non aveva alcuna intenzione di tirarla fuori.

Questo almeno, finchè non arrivò il temporale. Era una cosa spaventosa, rovesci d’acqua che si abbattevano sulle case, gli alberi erano tanto piegati dal vento che Keigo temette si spezzassero, tuoni tanto forti da far tremare le pareti. Keigo era seduto alla scrivania e continuava a rileggere le stesse tre righe senza capire cosa significassero. Un gatto nero era seduto sul davanzale della sua finestra e miagolava forte per farsi sentire sopra il rumore della tormenta. Keigo era determinato a non farlo entrare. La prossima volta ci avrebbe pensato due volte prima di cercare di ucciderlo. Ma poi iniziò a grandinare, chicchi grandi come palline da tennis, e Keigo non era un mostro.

Aprì appena la finestra, quel tanto che bastava per far entrare il gatto, poi combatté contro il vento per richiuderla. “Puoi rimanere qui a condizione che tu mi stia lontano.”

Il gatto andò ad accoccolarsi nell’angolo della stanza più lontano dalla scrivania, lasciandosi dietro una scia d’acqua. Keigo sospirò e scosse la testa prima di prendere un’asciugamano e la ciotola coi croccantini. Dannato gatto col suo dannato bel musino.

+

Da quel giorno si instaurò una nuova routine. Keigo passava la giornata a lavorare in compagnia di Mestolo e quando calava il buio Touya si presentava in ufficio con un mazzo di giacinti. Keigo lo ignorava e andava a dormire.

Col tempo, però, la sua rabbia andò scemando ed iniziò a ringraziare Touya per i fiori (era solo per educazione). E magari si soffermava qualche momento in più per scambiare due parole o lamentarsi della giornata.

Il suo ufficio diventava sempre più colorato e a un certo punto Keigo dovette dire a Touya di smetterla con i fiori perché non sapeva più dove metterli. A un certo punto Keigo si trovò ad attendere con trepidazione il tramonto del sole.

Era facile parlare con Touya. Certo, era sarcastico, infantile, e più di una volta Keigo gli avrebbe tirato volentieri un pugno, ma avevano una sintonia disarmante. Keigo non si trovava mai senza qualcosa da dire, i silenzi erano delicate pause e non fonte di imbarazzo, riusciva ad essere se stesso senza doversi nascondere dietro a una maschera.

Una piccola parte di lui sperava che per Touya fosse lo stesso.

Sempre più spesso sedevano insieme, in terra con la schiena contro il muro, a scambiarsi sguardi rubati e carezze accennate. Keigo era sicuro che se fosse dipeso da Touya sarebbero finiti a letto insieme ormai da molto tempo, ma lo stava aspettando. Keigo non era sicuro di cosa voleva, né se quello che voleva aveva un futuro (Touya era morto), perciò esitava, si allontanava, perchè nel momento in cui lo avessero reso reale, questo sentimento che c’era tra loro, anche la sua inevitabile fine sarebbe stata reale.

Quindi Keigo si avvicinava, ma non troppo; si allontanava, ma mai abbastanza. Questo tiro alla fune durò per i quattro mesi successivi finché non arrivò il giorno in cui Keigo doveva lasciare l’incarico per tornare in città.

Keigo era appoggiato alla scrivania con lo sguardo perso fuori dalla finestra. “Questa è l’ultima volta, eh?” chiese a bassa voce, come spaventato di rompere un incantesimo.

Touya era seduto di fianco a lui, le gambe a penzoloni e non rispose.

“Dovrai trovare qualcun altro a cui scroccare da mangiare,” Keigo cercò di buttarla sul ridere con scarso successo.

“Oppure vengo con te.”

“Piantala. Sai cosa ne penso, ormai abbiamo deciso.”

“Tu hai deciso.”

“Perché tu non hai spirito di autoconservazione.” Ne avevano già discusso, più e più volte. Touya era legato a questo posto e nessuno di loro sapeva cosa potesse succedere sé sè ne fosse andato. Keigo non aveva intenzione di fargli rischiare tanto.

Touya rimase ostinatamente in silenzio.

“Non capisci che sapere che non esisti più farebbe più male che saperti lontano ma vivo? Vivo per modo di dire.”

Touya sbuffò, un sorriso di scherno gli comparve sulle labbra.

“Cosa? Cos’ho detto di tanto divertente?” chiese stizzito.

“Ma ti senti?”

“A quanto pare no.”

Touya gli prese la faccia e gli strinse le guance. “Se tu non lo capisci io non posso dirtelo."

Keigo gli scacciò la mano. Perché anche se cercava di convincersi che non aveva idea di cosa Touya stesse parlando, ne era dolorosamente consapevole. Non voleva perdere Touya, il motivo era evidente, eppure non riusciva ad ammetterlo. Voleva un addio pulito, perché la cosa più bella che aveva non poteva finire in dolore.

"Tanto non puoi evitarlo." Touya lo stava osservando intensamente, gli occhi azzurri brillavano come le onde del mare a mezzogiorno.

Keigo si perse tra quelle onde, alla deriva come una zattera nella tempesta, a corto di scuse. Il suo unico pensiero fu: “Al diavolo.” Con il cuore che gli batteva nelle orecchie afferrò Touya per il collo della maglia e lo baciò.

Touya ricambiò il bacio, le mani che scivolavano nei capelli di Keigo, sulle sue guance, E Keigo si sentì finalmente nel posto in cui doveva essere. Non in un ufficio pieno di gente che invidiava il suo successo eppure lo elogiava per farne parte, non in un paese vuoto e sperduto, ma tra le braccia di Touya. Keigo era stato uno stupido a sprecare tutto quel tempo per paura di farsi male.

Touya lo tenne stretto e per quell’ultima sera fecero finta di avere tutto il tempo del mondo.

+

Quello era stato il giorno peggiore della sua vita. Oltre allo sfiancante viaggio in treno, Keigo si era trovato la scrivania spostata nel più piccolo e recondito dei loro uffici (da condividere con un tirocinante), settimane di lavoro arretrato e una strigliata perché, causa tempesta di neve, era arrivato in ritardo. L’unica cosa che voleva fare una volta rientrato a casa era buttarsi sul letto e dormire per una settimana.

Era bello essere di nuovo nel suo appartamento (e dormire su un vero letto), ma non poteva fare a meno di pensare che mancasse qualcosa. Era da solo. Ordinò d’asporto per la prima volta in mesi (i corrieri in quel paese sperduto non ci arrivavano) e lo mangiò davanti alla TV, da solo. Fece una doccia (non un mezzo bagno nel lavandino) e mise un comodo pigiama. Sempre da solo. Si sotterrò tra le coperte, pieno, pulito e soddisfatto in ogni modo. Ma era da solo.

Gli mancava parlare con qualcuno dopo il lavoro, ridere insieme, beneficiare della reciproca compagnia. “Forse sarei dovuto rimanere,” pensò prima di addormentarsi.

Venne svegliato alle tre e mezza di notte da un miagolio che proveniva dal suo balcone. Uscì dal letto con tanta foga che inciampò sulle lenzuola e quasi diede una facciata al muro. Ma non aveva importanza. Spalancò la porta del balcone, ma non vide nessuno. Accese le luci e guardò meglio; dietro i vasi, sotto il tavolo, tra le gambe delle sedie. Non c’era l’ombra del gatto. Si voltò per tornare in casa, il cuore pesante e la vista offuscata, quando sentì una mano gelida posarsi sul suo fianco. Il cuore di Keigo saltò un battito.

Sentì un sorriso sul collo. “Aw, ti sono mancato?”

   
 
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