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Autore: padvaniglia_EFP    12/11/2023    0 recensioni
[K-Dramas ]
[Moon Dong-Eun/Ju Yeo-Jeong || the Glory]
Entrambi conservano le cicatrici di un passato ostile, entrambi hanno covato odio e rancore fino a consumare la vera essenza della propria vita, entrambi hanno una sola, ultima missione da compiere: vendicarsi dei propri demoni. L’incontro fatale tra Moon Dong-Eun e Ju Yeo-Jeong non avviene per una casualità dell’universo, ma con un intento ben preciso: raggiungere un’assoluzione tardiva per i torti che hanno subito.
Tratto dalla storia:
[...] Yeo-Jeong avanza lentamente alle sue spalle, e il gelido fascio di luce che lo investe mette in risalto il cheto impeto cruento che, senza più vincoli, lo stordisce con la sua inebriante tentazione.
«Lascia che io sia il tuo giustiziere, la tua arma segreta da sfruttare – lascia che siano le mie mani a macchiarsi di sangue, ed i miei occhi a testimoniare tali orrori.»
Con una mano, sfiora impalpabilmente le irregolari testimonianze del passato oscuro di Dong-Eun, e le mormora il valore che può assumere una promessa.
«Ti servirò fino alla fine – mi unirò alla danza delle spade. Ma ora dimmi: chi devo uccidere per primo?»
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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[TW/CW: Mentions of Physical and Emotional Abuse, Mentions of Self-Harm and Suicide, Violence, Mentions of Death, Blood, Mentions of Murder and Torture, Panic Attacks, Scars, Suicide Ideation]
 

*
 
“[…] egli, che spesso si abbandona nel tuo grembo,
completamente vinto dall’eterna ferita d’amore,
e così, alzando lo sguardo con il collo ben tornito gettato all’indietro,
nutre d’amore gli avidi sguardi guardandoti fisso, o dea,
e dalla tua bocca pende il respiro di lui riverso all’indietro.”
Lucrezio, De Rerum Natura – Inno a Venere (vv. 33-37)
 
*
“Between the wars we dance,
between the wars we left”
 
Nel locale affollato, le loro spalle si sfiorano – il velo impalpabile delle vesti che separa la pelle monda di lui, e quella martoriata di cicatrici di lei.
Lui sta rimproverando mollemente un suo collega, colpevole di lapidargli il patrimonio a furia di farsi pagare gli usuali caffè mattutini, e lei, la testa reclinata dalla stanchezza di un turno notturno in fabbrica, origlia ad occhi chiusi – così intentamente come se stesse ascoltando una favola della buona notte, lei che non ne ha mai ricevuta una. Dong-Eun ascolta la sua voce limpida, avvolgente come il sole d’estate, la sua risata bassa e vibrante, e quasi si ritrova ad invidiare quelle nitide note umane – spiriti liberi non usurati dalla violenza di un mondo senza Dio.
Quando si allontana dal bancone, con le dita intorpidite strette intorno alla tazza fumante, un latente profumo di crisantemi occupa il suo posto vacante, e si confonde subito con quello più prepotente di azalee.
È il loro primo incontro, ma non sarà l’ultimo – ed entrambi sanno che, nell’intricata trama delle due vite, non c’è spazio per la casualità del destino.
 

Il letto d’ospedale è scomodo, freddo, inospitale, ed emana un forte odore di disinfettante, ma Dong-Eun non riesce a percepire nulla di tutto ciò – solo un ritmico, incessante martellio nelle orecchie, ed il torpore di un lungo sonno che sta incominciando a svanire. Sbatte lentamente le palpebre, e la prima cosa che i suoi occhi catturano è l’angolo perfetto che il suo braccio, ricoperto di cicatrici difformi e dall’ago di una flebo, crea con quello incrostato di sangue del suo vicino. Volge lo sguardo annebbiato a sinistra e, nel flebile oscillare della tenda separatrice, intravede gli occhi torbidi di Yeo-Jeong: si osservano a vicenda per un tempo che pare infinito, misurandosi l’un l’altra come avversari su due fronti opposti, ognuno ricordando a sé stesso la vera ragione dietro quell’incessante ricerca.
Dong-Eun fugge prima che lui possa reinserire l’ago della flebo strappato con violenza, nascondendo affannosamente le braccia martoriate con le maniche della camicia – ma Yeo-Jeong è stato lesto, ed è riuscito a leggere le poche informazioni essenziali presenti sulla sua cartella clinica: non si sente in colpa per aver violato la sua intimità, se ciò gli permetterà di rivederla, anche se solo un’altra volta ancora.
 

La lezione del giorno verte sul corretto codice comportamentale in ambiente scolastico, ma Dong-Eun non riesce a concentrarsi sui suoi appunti: si sente osservata – sensazione insolita, dal momento che, generalmente, tenta in ogni modo di rendersi invisibile – e tuttavia non osa voltarsi. È solo quando il professore interrompe la spiegazione per cacciare uno studente non iscritto al suo corso che si gira, e fa giusto in tempo a scorgere i tratti longilinei di Yeo-Jeong prima che sparisca nel corridoio – il suo sorriso un po' malandrino e il volto rosato, quelle dita estranee che, per prime, hanno sfiorato le sue cicatrici in uno sterile letto d’ospedale.
Quando esce dall’università, lui è lì ad aspettarla, le mani che giocano nervosamente con i lacci dello zaino, e non appena le labbra di Dong-Eun si schiudono in un sorriso, Yeo-Jeong sente il suo cuore perdere un battito. E poi lo percepisce arrestarsi, non appena Dong-Eun solleva un braccio in segno di saluto ed esclama, felice, il nome di un altro, oltrepassandolo come se non esistesse.
Yeo-Jeong li segue con lo sguardo fino a quasi perderli nella moltitudine variopinta, e si chiede se, tra loro, ci sia qualcosa di più che un semplice legame di amicizia. Eppure, mentre si salutano e il giovane sconosciuto si allontana, la maschera di cheta imperturbabilità che si delinea sul volto di Dong-Eun lo rassicura: è soltanto un’altra delle sue vittime, una pietra bianca sul goban che sta per essere eliminata.  
 

È domenica inoltrata, ed il parco brulica di gente, specialmente di anziani che si sono riuniti per sfidarsi nel gioco del Go. Yeo-Jeong è intento ad analizzare le mosse di una coppia di avversari, quando qualcuno urta la sua spalla – e, prima ancora di voltarsi, sa a chi appartiene quella voca bassa e graffiante che chiede scusa. L’ha adocchiata da lontano, mentre lei passava in rassegna i volti nella folla alla ricerca del suo, e quando ha capito che Dong-Eun lo aveva trovato, ha azzardatamente fatto coincidere i loro stratagemmi.
Dong-Eun lo riconosce immediatamente, e lo guarda come se fosse un puzzle da risolvere; si scusa un’altra volta, e poi, senza badare ad inutili convenevoli, gli chiede come abbia fatto a scoprire l’università che frequentava. Yeo-Jeong si finge imbarazzato, e con la mano si strofina la base della nuca.
«Ecco, sono un dottore in tirocinio, e quando sei scappata dall’ospedale senza terminare il trattamento con la flebo… beh, ho dato una piccola occhiata alla tua cartella clinica, e ho notato che le analisi del sangue non erano per nulla positive… Insomma, sapevi di soffrire di anemia?»
Dong-Eun solleva leggermente gli angoli delle labbra davanti al suo sproloquio. «L’ho scoperto a diciassette anni. Sarebbe stato impossibile non farlo.»
Lui non ribatte – nonostante le mille domande che si affollano nella sua testa – e cerca di farla sorridere ancora: «Ed io che ho rischiato una denuncia per trovarti e portarti la ricetta!»
Ottiene parzialmente il risultato sperato, ma quando lei gli chiede se ha con sé la ricetta promessa, Yeo-Jeong è colpito da un improvviso attacco di tosse, colto alla sprovvista. Apre la bocca per rispondere – come, ancora non lo sa – ma Dong-Eun deve aver capito che quella del referto medico era solamente una scusa per rivederla, e cambia abilmente argomento, chiedendoli invece se sa giocare a Go.
«Io? Sono tra i migliori giocatori di questa città – sono persino arrivato alle qualificazioni finali, due anni fa.»
Lei lo fissa con espressione assorta, ma le iridi nere appaiono slavate, come se la donna fosse persa in un ricordo lontano, e non lo vedesse realmente.
«Perché lo chiedi? Tu sai giocare?»
Lei scuote vigorosamente il capo corvino. «No, ho solo letto qualche manuale teorico sulle diverse strategie, ma… mi piacerebbe imparare. Conosci qualche società che mette a disposizione corsi non troppo dispendiosi?»
Yeo-Jeong conosce numerosi club del genere – uno è persino gestino da un suo amico di vecchia data – ma il fremito che lo percorre al pensiero di avere una nuova opportunità per continuare a frequentare Moon Dong-Eun lo fa desistere dal dire la verità.
«Purtroppo, molte associazioni hanno chiuso, e quelle rimaste hanno orari veramente impossibili, specie per me che devo rispettare le turnazioni dell’ospedale…»
Sta mentendo, e Dong-Eun lo sa bene – ogni dettaglio già calcolato scaltramente nella sua mente – eppure non accenna a smascherare la sua bugia bianca. «Allora, da autodidatta, quanto pensi che dovrei studiare per battere qualcuno che è talmente bravo da sembrare invincibile?»
«Beh, dipende da chi stai cercando di battere. Intendi, tipo, Lee Se-Dol?»
Lei lo sguarda stranita, ed un lampo di panico le taglia lo sguardo, come se il pensiero di non avere tutto sotto controllo la allarmasse.
«Lee Se-Dol? E chi sarebbe?»
Yeo-Jeong scuote la testa, incredulo, e non esita a cogliere l’occasione che il torbido desiderio dimostrato da Dong-Eun sembra offrirgli. «Lascia che ti insegni l’arte del Go. Se alla fine riuscirai a vincere contro di me, allora non dovrai temere più alcun avversario.»
Il giovane ancora non sa quanto tali parole riecheggino rassicuranti nella mente di Dong-Eun – un sostegno a cui aggrapparsi nel momento in cui la vita si accartoccia su sé stessa e sputa un sentiero impervio al cui valico non è possibile sottrarsi.
Lo sguardo della donna si distende, e rivolge il palmo calloso della mano destra verso l’alto, in attesa che quella di Yeo-Jeong stringa la sua. «Devo dare la priorità agli studenti a cui do ripetizioni, ma dopo cena sono libera. È un problema?»
Lui scuote la testa senza rifletterci su – coprirebbe persino i turni degli orari più odiati se ciò significasse non perdere Dong-Eun.
 

Per un intero anno, si incontrano regolarmente per giocare a Go – specialmente la sera o nel primo pomeriggio, quando nessuno dei due è impegnato con il lavoro o l’università.
Il Go è un gioco di strategia silenziosa, dove un esercito domina l’altro senza mai arrivare all’annientamento totale, e Dong-Eun ne è affascinata – attratta dalla possibilità di sconfiggere il proprio nemico in una guerra lenta, quieta, che le permetta di muoversi invisibile, nelle retrovie, e di sbaragliare i suoi rivali dall’interno.
Il Go è una metafora della vita – della vita e della vendetta di Dong-Eun.
È una battaglia che ha pianificato già da molto tempo – ancora prima di scoprire ed appassionarsi al Go: solo un ultimo tassello sembra vacillare nel disegno della vendetta, eppure la donna è sicura di averlo finalmente trovato – nel gioco che sta apprendendo, e nel maestro che la sta preparando.
Entrambi imparano qualcosa di più l’uno dell’altra, e su loro stessi, ma il segreto più grande di tutti indugia ancora sotto la superficie: i tempi non sono ancora abbastanza maturi per rivelare qualcosa che condiziona ogni loro agire, ma la fiducia che gradualmente salda il loro rapporto li rende speranzosi.
Un giorno, ambedue promettono a sé stessi, un giorno glielo rivelerò.
Dalla loro postazione, al riparo sotto la grande quercia, assistono al graduale avvicendarsi delle stagioni – vedono l’autunno perdere i suoi colori e declinare nell’algido inverno, e le strade tingersi di rosa con lo sbocciare dei ciliegi all’inizio della primavera.
Al sopraggiungere dell’estate, Dong-Eun preannuncia la sua partenza: per Yeo-Jeong, è come se il sole avesse improvvisamente smesso di splendere.
«Quando?» le chiede, la lingua che fatica ad articolare quella secca domanda. «Quando partirai?»
Lei inclina il volto di lato, e muove in diagonale una pedina nera.
«Lo saprai quando non mi presenterò più alle nostre lezioni.»
Per un attimo, lui la guarda in attesa, convinto che lo stia schernendo – eppure ormai dovrebbe sapere che Dong-Eun raramente scherza; alla fine, si lascia andare ad una risata isterica. «Ti diverti proprio a parlare per indovinelli, eh?» e muove in verticale una sua pedina.
Per un po', cala il silenzio, rotto solo dall’insistito gracidare delle cicale e dallo strofinio delle pietre da gioco sul legno del goban.
È sempre lui a parlare per primo – lui che si scontra con la corolla impenetrabile del giglio della notte – e non si cura di quanto disperata possa suonare la sua domanda: «Tornerai mai qui?»
«Il mio futuro è dove risiede il mio passato.»
Yeo-Jeong non ne sa molto, del suo passato, ma non è difficile intuire che i ricordi dell’adolescenza siano adombrati da losche storie di violenza. Lo ha capito dalle cicatrici che ricoprono parte del braccio destro di Moon Dong-Eun – impresse sulla pelle non per errore, ma per infliggere dolore –, dagli occhi vacui spalancati su un mondo ostile e dal modo in cui si ritrae in sé stessa – perché chi non ha mai conosciuto l’amore non sa quali siano le sue fattezze, e teme di scambiarlo per ulteriore astio.
«Significa che hai finalmente trovato il tuo degno avversario?»
Dong-Eun lo scruta con sguardo serio, e reclina il corpo contro lo schienale della sedia.
«Oh, ma io l’avevo già trovato. Avevo solo bisogno di essere alla sua altezza, e di superarlo in astuzia.»
«Beh, mi hai battuto una sola volta, ma dal momento che il tuo avversario non è Lee Se-Dol… credo che ormai tu abbia la vittoria in pugno.»
Per la prima volta da quando l’ha conosciuta, Dong-Eun ride apertamente, ed il volto pallido si rischiara sotto la calda luce delle lanterne. «È un sollievo sentirtelo dire. Il momento che ho atteso per anni è finalmente giunto.»
La dichiarazione implicita in quelle parole trafigge il cuore di Yeo-Jeong con la disarmante prepotenza di un giavellotto, eppure non riesce ad esimersi dal domandare un’ulteriore conferma.
«Significa… significa che le nostre strade non si incroceranno più?»
La voce tentenna al solo pensiero di perderla dopo averla finalmente trovata, e, in quell’istante, ammaliato dall’algida maestosità di Dong-Eun, desidera ardentemente che il tempo inizi a scorrere più lentamente – ma il tempo non si cura di null’altro se non di sé stesso, indifferente all’uroboro di perdite e conquiste degli umani. 
Il tempo non ha sentimento.
Il tempo non aspetta.
«Non siamo ancora giunti alla nostra destinazione finale.»
«E non posso venire con te, non è vero?»
La sua amara e autonoma constatazione non richiede un’altra risposta criptica che concorra a rallentare i battiti del suo cuore, eppure Dong-Eun, dopo un attimo di silenzio, ricomincia a parlare – la voce rugginosa che graffia il suo animo con suoni violenti. 
«Io non sto cercando un principe, Yeo-Jeong, o un compagno. Ho bisogno di un boia, che si unisca a me in una caccia spietata – che uccida per me, e che si sacrifichi per me, con me.»
Lo smarrimento lo coglie in pieno, ma solo per un istante – perché i lembi di due anime sdrucite non esitano a legarsi tra loro, per rammendare a vicenda le proprie ferite, trovare conforto e perseguire una vendetta prosciugante.
Yeo-Jeong è in procinto di parlare – è pronto a professarle la sua incrollabile lealtà, a giurarle la sua sottomissione, a prometterle eterna alleanza – ma Dong-Eun solleva una mano, bloccando la sua risposta sul nascere. Gioca la sua ultima mossa sul goban, sancendo una seconda vittoria, e infine pronuncia parole che hanno il sapore di un futuro lontano, ma possibile – e che Yeo-Jeong tesserà nel tessuto del suo cuore negli anni a venire insieme al ricordo sempre nitido di lei.
«Non mi serve una risposta immediata, non adesso. Ci rivedremo, un giorno – ed allora, sarai tu a cercarmi per primo.»
 
*
“And still the rest
hasn’t happened yet”
 
Trascorre un anno, poi un altro e infine un altro ancora. Per sette lunghi anni, Yeo-Jeong attende il ritorno del suo Odisseo, senza mai perdere fiducia in quella sentenza dal sapore di una promessa fattagli in passato.
Non siamo ancora giunti alla nostra destinazione finale.
La aspetta, e la cerca ogni giorno con rinnovato vigore nella gente che si affolla intorno alle tavole del goban, nel locale in cui solevano, di tanto in tanto, cenare prima delle loro lezioni, nelle strade che portano i segni del mutare delle stagioni.
È in una carrozza di un treno diretto a Seoul che Yeo-Jeong la incontra di nuovo, immobile in mezzo al corridoio, mentre il primo sole dell’estate la inonda di un cono di tiepida luce. Non è cambiata molto dal loro ultimo incontro – ha accorciato i capelli setosi in un caschetto, sembra essersi alzata di qualche centimetro, ma indossa la stessa camicetta del giorno in cui si sono conosciuti, ed è come se nulla fosse mutato da quando lei lo aveva cercato e lui l’aveva trovata.
Dong-Eun lo scruta per un tempo che sembra dilatarsi all’infinito, e quando il fischio del capostazione annuncia la partenza del treno, si riscuote da quel torpore di sogno e gli si avvicina, con passi tremolanti, colta alla sprovvista dalla piega inaspettata che la sua vita ha assunto.
L’uno si bea dello sguardo dell’altra, entrambi bevono dai propri respiri, e mentre la turba di passeggeri si affaccenda intorno a loro, è come se la sabbia nella clessidra avesse iniziato a scorrere all’indietro – e ritornano alla mente le passeggiate notturne lungo il fiume Han, le interminabili partite a Go, la velata richiesta di lei e la muta risposta di lui.
Senza poterlo impedire, la mano di Yeo-Jeong si muove automaticamente, e le sue dita si intrecciano delicatamente attorno al polso di Dong-Eun – radici che si ancorano alla propria forza vitale – e la trae leggermente a sé – perché la paura di cadere vittima di un’illusione inganna persino la mente più razionale.
Dong-Eun lo asseconda docilmente, e poi riassume il controllo, conducendolo verso due posti vacanti alla fine del vagone. Sono seduti nuovamente l’uno di fronte l’altra, eppure quella distanza impallidisce miseramente al cospetto degli anni che li hanno separati fino a questo momento.
Il silenzio cala tra loro come una coltre di neve – che attutisce il dolore e lenisce le ferite dell’animo – ma nessuno dei due accenna a infrangerlo. In quell’ininterrotto gioco di sguardi, i secondi si dilatano senza sosta, e pian piano si trasformano in minuti, che scorrono lenti insieme alle lancette di un orologio – ma ciò, a Yeo-Jeong, non basta: vorrebbe che il tempo si cristallizzasse del tutto, e che possano rimanere a lungo così – con il sole che invade il vagone, ed i pulviscoli di luce che danzano davanti ai loro occhi – eppure è certo che anche ciò non lo appagherebbe, non del tutto.
È il lato oscuro dei desideri – reclamarne sempre di più una volta conosciuto il compiacimento che deriva dal loro esaudirsi.
Una miriade di domande affolla la sua mente, eppure la voce gli è manchevole: smania dalla voglia di apprendere ogni minimo dettaglio sulla vita di Dong-Eun da quando si sono separati, di sapere se è riuscita a laurearsi, se ha trovato qualcuno con cui passare il resto dei giorni – e, più di tutto, se ha finalmente compiuto la sua vendetta.
Come se avesse intuito i suoi pensieri – era sempre stata brava a farlo – Dong-Eun anticipa le sue domande, alternandole ad interrogativi che soddisfano la sua latente curiosità.
E così, Yeo-Jeong viene a sapere che la donna ha ottenuto una cattedra alla scuola elementare di Semyeong, dove si è trasferita di recente, e non può fare a meno di chiederle se ciò rientri nelle fitte trame del suo piano vendicativo.
Per un attimo, il respiro di lei si mozza, e sembra sul punto di mentire, ma alla fine distoglie semplicemente lo sguardo.
«Fino ad adesso, ho vissuto ogni giorno della mia vita in funzione della mia vendetta: non c’è nulla che abbia fatto che non rientri nel mio piano.»
L’implicazione contenuta in quelle parole affonda in Yeo-Jeong come la più affilata delle lame: lui lo sa, lo ha sempre saputo, di essere un mero Alfiere sulla scacchiera al servizio della Regina, una pietra bianca sul goban valutata meticolosamente – ma la resa dei conti è ancora lontana, e Yeo-Jeong ingoia quei dubbi che man man si tramutano in certezze.
Dong-Eun lo scruta alla ricerca di una smorfia di sdegno o disgusto, eppure Yeo-Jeong le mostra un’imperturbabilità che, da un lato, la intimorisce, ma dall’altro la compiace.
Ha fatto la scelta giusta, si complimenta tra sé e sé, ed è sicura che anche lui presto ne compirà una.
«E tu, invece?» incalza Dong-Eun. «Cosa ti porta a Semyeong?»
«Ho ottenuto la licenza in chirurgia plastica,» risponde Yeo-Jeong, con l’orgoglio che brilla negli occhi lucidi, «così ho deciso di lasciare il Joo General e aprire una clinica tutta mia.» Evita di specificare il motivo di tale scelta – cambiare ambiente dopo ciò che era capitato a suo padre, sfuggire alle costanti sevizie di lettere dal carcere, tenere fede ad una promessa fatta – tuttavia Dong-Eun non insiste oltre.
Quella di lui è una mezza verità, ma essa si perde celermente come un flutto d’acqua nel fiume di menzogne, segreti e sottointesi che scorre fra di loro.
«Ho appena concluso l’atto di acquisto del mio nuovo appartamento, a pochi isolati dalla clinica. Una parte è da ristrutturare, e devo ancora finire di arredarlo, ma…» Yeo-Jeong chiude gli occhi, e ripensa alla luce che filtra dalle enormi vetrate del soggiorno, al piccolo giardino in cui già sogna di coltivare un orticello, alla cucina spaziosa che gli permetterà di dare sfogo alla sua passione culinaria. «Già mi sento a casa.»
Anche Dong-Eun, anni prima, aveva comprato un appartamento – una sola stanza dalle finestre coperte da panni scuri che affaccia sulla residenza di Park Yeon-Jin e la sua famiglia, con un soffitto preda delle infiltrazioni e quattro mura che custodiscono tutti i suoi sacrifici e privazioni, accogliendo le viscere del suo piano. Eppure, anche lei mente, parzialmente, e dice di essersi stabilita temporaneamente a casa della madre – quella stessa madre snaturata che ha appagato con il corpo violentato della figlia il vizio dell'ubriachezza.
«La settimana prossima inaugurerò la mia nuova clinica – ci saranno alcuni miei colleghi e amici, oltre a mia madre,» riprende Yeo-Jeong. «Mi farebbe molto piacere se venissi anche tu.»
Dong-Eun non risponde immediatamente, limitandosi a reclinare leggermente il capo, ma lui non ha alcuna fretta di conoscere la sua risposta: la ha aspettata per anni, ed ora che l’ha finalmente ritrovata, intende godersi persino ogni suo silenzio.
Finalmente, la donna muove il capo in segno di assenso, e Yeo-Jeong non riesce a trattenere un sorriso che solo in parte rivela l’immensa euforia che pervade ogni antro del suo corpo. Con mani tremanti, estrae un piccolo foglio di carta e una matita dalla valigetta in pelle nera, e vi scrive l’indirizzo dove presentarsi, seguito da una serie di numeri.
«Qui è dove abito, e affaccia proprio sulla clinica dall’altro lato della strada. Ti aspetto la settimana prossima, ma mi farebbe piacere se mi venissi a trovare anche prima, senza impegno. 3724 è il codice del mio appartamento. Per te, sarà sempre disponibile.»
Dong-Eun accetta il biglietto, e poi, prima che lui possa trattenerla ancora, si dilegua nel vagone successivo.
Yeo-Jeong non è per nulla convinto che lei si presenterà all’inaugurazione della clinica, eppure, in cuor suo, sa che questo non è un addio definitivo.
 

Nell’intima cerchia di persone venute ad augurargli un futuro pieno di successo nella sua nuova clinica, non figura il volto di Dong-Eun. Yeo-Jeong non ne è sorpreso – anzi, sarebbe rimasto stupefatto dal contrario – ma la flebile nota di delusione che si accorda ai battiti del suo cuore cede subito il passo ad un pervasivo senso di appagamento.
Sulla scalinata d’accesso, un semplice vaso in terracotta accoglie una coppia di fiori datura, le cui corolle – dal colore latteo e dorato – si rivolgono l’una verso i Cieli, l’altra verso gli Inferi. Sono le Trombe del Diavolo e dell’Angelo, che colmano l’assenza di Moon Dong-Eun con il loro aspro, inebriante profumo.
 
Una sottile pioggia autunnale tamburella sulle ampie vetrate del salone, e Yeo-Jeong osserva quelle esili gocce rigare le finestre. È sera inoltrata, e il ragazzo, sprofondato tra i morbidi cuscini del divano, sente che il peso della stanchezza sta iniziando ad intorpidirlo. È un periodo indaffarato, per lui, tra, l’apertura della nuova clinica, il bisogno incombente di assumere nuovo personale fidato, la necessità sempre più urgente di affrontare, una volta per tutte, i propri demoni, e… il ritorno di Moon Dong-Eun.
Da quel fatidico incontro sul treno, la donna non lo ha più contattato, fatta eccezione per l’omaggio floreale inviatogli il giorno dell’inaugurazione della clinica – eppure Yeo-Jeong è fiducioso. Quell’addio così frettoloso, quel liquidare tanto in fretta sette anni di separazione e il loro ricongiungimento inaspettato, serba il sapore della temporaneità – una nota lasciata in sospeso sul pentagramma che tarda a svanire.
Sul suo animo, grava ancora quella tacita risposta che ha conservato per quel tempo infinito, e di cui Dong-Eun continua a rimandare l’ascolto – cosa che Yeo-Jeong non riesce a spiegarsi. Da medico, si era sin da subito abituato ad interpretare il linguaggio del corpo di un paziente – gli occhi che saettano da una parte all’altra dell’ambulatorio se sta mentendo, il tic incontrollato delle dita di una mano se nasconde un dolore di cui non vuole parlare – eppure Dong-Eun è… differente. È un goban senza punti ciechi, una scacchiera senza caselle; è una maschera che non muta mai i suoi lineamenti, che non permette di anticipare le sue mosse. Yeo-Jeong si chiede chi l’abbia ridotta così – quali oltraggi e quali violenze il mondo le abbia riservato per gelarle in tal modo l’animo.
Un deciso bussare alla porta lo risveglia da quelle riflessioni senza risposta, rimpiazzate subito dalla perplessità su chi voglia incontrarlo ad un’ora così tarda.
Sull’uscio, con i capelli bagnati ed il cappotto sgualcito, macchiato di quello che sembra olio per motori, c’è Dong-Eun: deve aver pianto, perché gli occhi sono gonfi e lucidi – neanche la sottile coltre di pioggia che la riveste può nasconderlo – e con le mani abbraccia le proprie spalle, a mimare una farfalla dalle ali spezzate. Yeo-Jeong la guarda con una morsa al cuore che non si allenta e, senza chiedere alcuna spiegazione, si fa da parte per lasciarla passare.
«Io…» balbetta Dong-Eun, «io non sapevo dove altro andare.»
Yeo-Jeong fatica a nascondere la sensazione di orgoglio che lo investe a quelle parole – perché, tra tutte le opzioni disponibili, Dong-Eun ha scelto la dimora di un parziale estraneo – e si limita a farle strada nel salotto immerso nella penombra.
«Aspettami qui, vado a prendere qualcosa con cui asciugarti.»
Torna poco dopo con un paio di asciugamani e una sottile coperta che non esita ad avvolgere sulle spalle della donna. Una pausa silenziosa cala tra i due, mentre Dong-Eun accetta l’invito ad accomodarsi sul divano, tamponando i capelli fradici, e Yeo-Jeong ravviva la fiamma del piccolo camino adiacente al bancone della cucina. La curiosità lo rende impaziente, frenetico nei gesti usualmente ponderati, eppure si trattiene dal porre troppe domande, per paura di ottenere solamente un silenzio accusatore.
«Ho avuto un attacco di panico.» Ancora una volta, è Dong-Eun a prendere l’iniziativa, ma Yeo-Jeong si stupisce della vulnerabilità che traspare dalle sue parole. «Non mi era mai capitato di sperimentarne uno sin dalla fine della scuola, e mi ero dimenticata della sensazione di vertigine che ti assale, e di come tutto sembri perdere il proprio equilibrio…» Una mano corre a stringere la gola, come per proteggerla da un nemico invisibile. «Non riuscivo a respirare, anche solo a pensare di respirare, e… dovevo fuggire, fuggire lontano.»
È la stessa sensazione che attanaglia Yeo-Jeong da quel fatidico giorno – quando il sangue paterno era stato brutalmente spillato e nella sua mente si era stabilito il suo nemico. Mentre Dong-Eun era scappata da chi l’aveva ferita, Yeo-Jeong aveva sempre tentato di evadere da sé stesso.
Il senso di abbandono che legge negli occhi di Dong-Eun ha le stesse sembianze del proprio, tanto da addolorarlo, ma non può fare a meno di incalzarla – perché il desiderio di conoscerla completamente, di entrare in totale comunione con i suoi pensieri, arde rovente nelle sue viscere.
«Cosa ti ha portato qui?»
La risposta non tarda ad arrivare; ma è una risposta arida, minata dall’inflessibilità della voce, e, se non fosse per la mano della donna che, esitante, si avvicina alla sua, Yeo-Jeong non avrebbe mai creduto alla sua sincerità.
«Avevo bisogno di sentirmi a casa.»
«Casa?» sbuffa lui, incredulo. «Consideri tua la casa di uno sconosciuto?»
Dong-Eun abbozza un sorriso, scuotendo la testa a quella che lei considera puerile ingenuità.
«Non sei un estraneo per me, Yeo-Jeong. Sei stato la mia ancora di salvezza per molto, molto tempo – anche quando le nostre strade si sono separate. Quando io stessa,» aggiunge, chinando il capo in segno di rammarico, «mi sono allontanata.»
L’amarezza e il senso di tradimento che Yeo-Jeong aveva provato dopo la partenza di Dong-Eun riaffiorano prepotenti, ed egli si ritrova catapultato in quelle interminabili notti di un’estate di sette anni prima, quando la collera per essere stato cancellato dal futuro della donna, come se non avesse mai fatto parte del suo presente, lo consumava senza fine, superando la pacatezza che, abitualmente, lo contraddistingueva. L’aveva aiutata con ogni sua possibilità, aveva esaudito ogni sua richiesta – eppure, ciò non era bastato per permettergli di rimanere al suo fianco. La stoicità di Dong-Eun spirava come i gelidi venti del Nord, che increspava in le acque placide del lago di imperturbabilità in cui viveva immerso Yeo-Jeong, intorbidendole – e portando, tuttavia, una cheta quiete dopo la tempesta.
«Perché?» esala Yeo-Jeong, spossato dai ricordi che tornano a tormentarlo, «perché te ne sei andata?»
Dong-Eun non incrocia il suo sguardo, non ancora, ma si limita a contrarre le spalle, abbracciandole con mani tremanti come fa una farfalla che, traditrice della propria natura, tenta di tornare nella stretta sicura della propria crisalide.
«Per apprestare la mia vendetta,» chiosa la donna. «Ed ora sono tornata, per adempiere ad essa.»
«Se mai dovessi abbandonarmi ancora,» tituba Yeo-Jeong, «promettimi che lo farai per amore, e non per vendetta.»
Dong-Eun continua a fissarlo, ma non proferisce parola – lasciandolo in un limbo di incertezza, senza alcuna negazione o rassicurazione.  
«Ho fatto così tante promesse, e ne ho ricevute altrettante, che non so più che valore attribuire loro,» confessa lei chetamente. «Posso soppesare la misura della mia vendetta, prevedere le conseguenze che dovrò affrontare, calibrare il rancore che vive in me… Conosco il potere di un giuramento, ma non la fiducia di una promessa.»
Come ha potuto il corpicino di una ragazzina essere consumato da un tale livore? Si chiede Yeo-Jeong, disorientato dopo quella inaspettata dichiarazione, ma la donna riesce a leggere la perplessità manifesta sul volto, e anticipa ogni sua domanda.
«A volte, l’odio somiglia al desiderio. Vi sono desideri talmente forti da poter spingere lontano anche chi ha le ali spezzate.»
«Sei sull’orlo di un baratro, Dong-Eun, ma puoi ancora tirarti indietro,» la implora Yeo-Jeong, stringendo saldamente le sue mani, come se temesse di vederla svanire a quell’esortazione. «Fallo, prima che sia troppo tardi.»
Dong-Eun si abbandona ad una risata arida, amara. «Ho già oltrepassato ogni limite. Adesso, è il momento di risplendere in tutta la mia gloria – di rivendicare ciò che mi è stato strappato anzi tempo.»
La sprezzante determinazione di quelle parole lo intimidisce, eppure, una strana sensazione di agnizione impedisce a Yeo-Jeong di scostarsi – è la stessa cantilena che ripete al suo rivale invisibile, la stessa brama smaniosa di spillare il sangue colpevole e purificare quello innocente, lo stesso impulso violento che, con il passare del tempo, fatica a tenere nascosta.
«Lascialo andare, Dong-Eun. Lascia andare il tuo passato, dimentica i tuoi carnefici, fa in modo che le tue ferite germoglino,» la supplica con fervore, forse rivolgendo quel monito a sé stesso, ma l’ardore che risplende feroce sul volto di lei lo fa vacillare, e Yeo-Jeong ha paura di perdere quel controllo a lungo mantenuto. «Solo così potrai riappropriarti della tua vita.»
Dong-Eun si alza bruscamente, interrompendo il contatto visivo, ed esclama, tradita: «Dimenticare? Come posso dimenticare le umiliazioni che ho subito, l’odore nauseabondo della mia carne che veniva bruciata, la disperazione di cui ero preda? Sono cresciuta nell’indifferenza degli adulti, nella crudeltà dei miei coetanei: come puoi essere così ingenuo da chiedermi di obliare ogni cosa?»
«Devi guarire, Dong-Eun, e andare avanti. Loro lo hanno già fatto, molto tempo fa.»
«Possono anche aver dimenticato il mio corpo, il mio nome, le violenze che mi hanno inflitto – ma io non farò il loro stesso errore.»
Con il petto ansante, Dong-Eun strattona la manica della giacca ancora umida e avvicina il braccio sinistro al volto esterrefatto di Yeo-Jeong.
«Eccole, le mie cicatrici. Me ne sono sempre vergognata, così tanto che ho tentato in ogni modo di liberarmene – invano,» racconta lei, mentre Yeo-Jeong osserva inorridito la ragnatela di cicatrici, sfregi e ustioni che si articola lungo il braccio, e scompare sotto il tessuto chiaro. «Puoi curarle, Yeo-Jeong? Puoi cancellare questi sfregi?»
Lui non replica, perché quel trauma così intimo e recondito, esposto con una tale rabbia cieca, lo ha paralizzato dalla vergogna. Dong-Eun se ne accorge, e sorride subdola, come se la vista del suo disagio la appagasse.
«Dopo aver visto cosa mi hanno fatto, vuoi chiedermi ancora di fermarmi?»
Una lacrima solitaria solca il volto pallido di Yeo-Jeong, e lei si limita inclinare il capo, curiosa. «Come puoi essere così sconvolto dopo aver visto un solo braccio?»
Una scheggia di luce lunare fende il corpo fragile di Dong-Eun, che avanza verso il centro della sala lasciando una scia di vestiti abbandonati sul pavimento – la giacca umida, la camicia macchiata di pece, i pantaloni spiegazzati. Come su un piedistallo, esibisce la pelle vessata alla candida carezza della luna e allo sguardo turbato di Yeo-Jeong – la schiena sferzata, le cosce percorse da bruciature, le braccia con ferite a fatica risanate.
«Sono stati loro?» domanda lui, con lo sguardo fisso sul corpo nudo e vulnerabile. «Sono stati quei bastardi a farti questo?»
Lentamente, Dong-Eun rotea il volto, e sentenzia rassegnata: «Non mi resta più alcuna dignità, se non rimanere fedele alla mia ira e vendetta. Vuoi che io venga privata anche di quest’ultima, mera, soddisfazione?»
Yeo-Jeong avanza lentamente alle sue spalle, e il gelido fascio di luce che lo investe mette in risalto il cheto impeto cruento che, senza più vincoli, lo stordisce con la sua inebriante tentazione.  
«Lascia che io sia il tuo giustiziere, la tua arma segreta da sfruttare – lascia che siano le mie mani a macchiarsi di sangue, ed i miei occhi a testimoniare tali orrori.»
Con una mano, sfiora impalpabilmente le irregolari testimonianze del passato oscuro di Dong-Eun, e le mormora il valore che può assumere una promessa.
«Ti servirò fino alla fine – mi unirò alla danza delle spade. Ma ora dimmi: chi devo uccidere per primo?»
 
*
“Between the wars we’ll stay,
Fading echoes spin away”
 
Tra di loro infuria la guerra – una guerra impetuosa, che decima uno ad uno i soldati rimasti sul campo di battaglia – ma il patto di alleanza che li unisce si rinsalda sempre di più.
Ogni arma è lecita in questa lotta, e nessuno dei due è intenzionato a tirarsi indietro – neanche quando la ragnatela di bugie che ha intrecciato per prima i loro destini si sfalda, e le verità intese, ma sempre taciute, minacciano di separarli.
Fino a quando, subitaneamente, la tormenta cessa, e le onde tumultuose si ritirano dolcemente dalla battigia.
Anni di supplizi, risentimento e astiosa frenesia giungono al termine in una banale serata di metà inverno: la neve caduta al suolo conserva il volto sgomento di Yeon-Jin ed i suoi complici, e accoglie – come una candida, anonima tomba – il sangue perverso dei peccatori.
Finalmente, Dong-Eun ha ottenuto la gloria tanto agognata, la giustizia da sempre ricercata, il feroce senso di vittoria alla vista della sconfitta del nemico; eppure, ciò non sembra bastarle.
Yeo-Jeong riesce a leggerlo, quello sguardo da fiera vorace, quell’irrequietezza che le impedisce di riposare la mente e l’animo, quella fame di morte e distruzione destinata a rimanere insaziata.
Vendicare il proprio passato non la ha aiutata a sanarlo, e Yeo-Jeong si sente impotente di fronte all’abisso di autodistruzione in cui la donna minaccia di rovinare; soprattutto, teme che la promessa fattagli mesi orsono possa essere infranta.
 
All’alba del mese di febbraio, Yeo-Jeong invita Dong-Eun a vedere il tramonto invernale sul molo del Sodolhang Harbor. È la settimana delle nevicate più fitte della stagione, ma il senso di appagamento che unisce i due sembra scacciare quasi del tutto il gelo.
 L’intenzione iniziale è quella di affrontare Dong-Eun rispetto a ciò che il futuro – il loro futuro – ha in serbo; tuttavia, una volta sedutisi all’estremo della banchina, Yeo-Jeong è il primo a cadere in un mite silenzio pacificatore, mentre osservano, spalla contro spalla, il posarsi dei fiocchi di neve sulla superficie marina.
Da quando Yeo-Jeong aveva promesso di aiutarla nella sua vendetta, non avevano mai proferito parola riguardo alla portata di ciò che stavano compiendo – forse per timore di squarciare il velo reverenziale che separava la ragione dalle emozioni più crude; entrambi si erano limitati a far avanzare la propria pietra sul goban della vita, a condividere la stessa casa ed alcuni pasti come segno d’affetto, ad essere l’uno il rifugio dell’altra nei momenti più ostici da sopportare.
Neanche dopo la fine dei giochi belligeranti avevano osato affrontare l’argomento: il vuoto lasciato dalla punizione dei peccati lontani era troppo recente per poter essere colmato così repentinamente, e Dong-Eun stessa sembrava non essere riuscita a traversare il guado che la separava dall’inizio di una nuova vita – in cui sarebbe stata in grado di realizzare i propri progetti senza essere soffocata dagli spettri del passato.
Yeo-Jeong è tentato di incitarla a confessare quell’indecisione che la trattiene dall’andare avanti, approfittando della quiete che li avvolge maternamente, ma proprio in quel momento Dong-Eun termina frettolosamente l’ultima delle lattine di birra che hanno acquistato durante il viaggio, e si gira per scrutarlo in segno di tacita richiesta. Yeo-Jeong fatica a trattenere un sorriso, intuendo che dietro quell’infantile strategia si nasconda il tentativo di ritardare il temuto confronto, e si avvia lungo la pensilina di legno in direzione del chiosco a ridosso della spiaggia.
Il disco del sole è per metà scomparso oltre l’orizzonte, e solo per un attimo Yeo-Jeong rallenta i suoi passi e si volta indietro, rimirando la figura di Dong-Eun che si staglia, scura, contro l’esplosione di rosso e arancio che tinteggia il cielo stingente. C’è una nota di nostalgia mista a desiderio nel modo in cui la donna punta lo sguardo sul sole morente, in cui si accarezza le braccia sfregiate e china il capo come in preda ad una scelta lacerante – ma Yeo-Jeong decide, per il momento di ignorarla, e di concentrarsi invece su quell’attimo di felicità che stanno condividendo.
Quando raggiunge il chiosco, le prime stelle sono già apparse tra le scie color indaco del firmamento; non appena cala la notte, Dong-Eun si dilegua nelle tenebre – un’ombra tra le ombre, un vacuo fantasma che ripercorre le orme del passato.
L’ultimo messaggio che gli lascia è la smentita di un diniego assicuratogli tempo fa, una dichiarazione secca che non lascia spazio a repliche o chiarimenti – solo all’incredulità e al peso di un tradimento inaspettato che si posa sul suo cuore.
«Siamo giunti alla nostra destinazione finale.»
Dall’altro capo del telefono, la voce della donna appare lontana – un’eco roca che sfuma insieme alla luce del giorno.
«Cosa… cosa stai dicendo?»
La breve pausa che segue lo illude che quanto ha appena udito possa essere frutto di una sua misinterpretazione, lo strascico di un ricordo sfigurato – ma invano.
«È finita, Yeo-Jeong. Questo è un addio.»
«No, no, no… Dong-Eun? Moon Dong-Eun
Non vi è alcuna risposta a quell’appello disperato, e Yeo-Jeong non può far altro che tornare di corsa alla base del faro, mentre panico e disperazione si sovrappongono e si mescono al respiro frenetico – come se il suo rapido reagire potesse impedire l’evanescere di Dong-Eun.
Quando arriva alla fine del molo, non c’è più nessuno ad aspettarlo – solo la desolazione di un cumulo di ghiaccio e neve, e un paio di lattine di birra rovesciate, inermi, sulle assi di legno.
 
*
“Lost in memories,
lost in memories”
 
Nei primi mesi dopo la scomparsa di Dong-Eun, non appena rientra a casa dopo il lavoro – per abitudine e inerte utopia – Yeo-Jeong si affretta ad esaminare il goban posto in un angolo del salotto: della fitta trama bianca e nera di pedine che aveva occupato la tavola di legno quell’autunno, rimane ormai solo la sua pietra bianca, abbandonata nel centro di convergenza delle intersezioni del gioco, a riflettere amaramente la solitudine che lo divora.
Eppure, la speranza di veder spuntare la pietra nera che, nella partita precedente, aveva divorato il goban tarda a scemare.
Lo sa, Yeo-Jeong, che le probabilità di un inaspettato ritorno di Dong-Eun – dopo la violenza che hanno seminato, i limiti della dignità umana che hanno oltrepassato – rasentano lo zero, ma non riesce a liberarsi di un senso di incompletezza che gli impedisce di credere alla loro definitiva separazione.
Non riesce a raccapezzarsi di come anni di ricerca, mesi di cooperazione, giorni di silenzi e confessioni, possano essere svaniti in una banale notte d’inverno, senza avvisaglie, senza lasciare alcuna traccia o valore.
Yeo-Jeong non vuole, non può, rassegnarsi a quel brusco congedo – non accetta che l’amore appena sbocciato sia stato reciso così precocemente – ma più la corrente del tempo esonda ininterrotta, più l’inedia del velo dell’illusione si lacera su una penosa, cinerea realtà.
 
Un nuovo ciclo di stagioni è sul punto di avvicendarsi, e Yeo-Jeong promette alle foglie caduche di inizio autunno di lasciar andare per sempre il ricordo di Dong-Eun.
Gradualmente, sebbene a fatica, smette di cercarla tra la folla che si accalca ai cancelli della scuola di Semyeong, di aspettare una sua chiamata o un semplice messaggio, di sognare di trovare le sue scarpe abbandonate all’ingresso o la sua pietra da gioco sul goban.
Le notti, trascorse in un letto per metà vuoto e freddo, sono popolate dagli spettri del suo passato, che affastellano i suoi incubi e si nutrono della sua disperazione. Il vuoto dell’apatia è una dolce tentazione, e ben presto Yeo-Jeong si rifugia nella monotonia delle giornate che scivolano via senza alcuna meta, invischiato nel lavoro che, a lungo andare, finisce per perdere la sua attrattiva.
Neppure le lettere provocatorie che continuano ad arrivargli dal carcere di Seoul provocano in lui alcuna reazione: se prima il livore della morte ingiusta, e ingiustificata, del padre si accumulava negli antri più reconditi del suo animo e soleva giacere lì come magma pulsante, senza possibilità di sfogo, adesso si incunea afono tra le membra lasse e le ossa esili, e la sete di vendetta sembra essersi dissipata.
La propria vendetta, dopo quella totalmente corrodente di Dong-Eun, ha perso ogni attrattiva.
 
Agli albori dell’inverno, Yeo-Jeong chiude l’attività della clinica e si prepara a trasferirsi nuovamente a Seoul; oramai, non c’è più nulla che lo trattiene a Semyeong, eccetto una casa troppo grande e troppo vuota, ed un cassetto che serba rimpianti e speranze. Eppure, gli scatoloni per il trasloco vengono riempiti solo per metà, e per tutto il mese di Dicembre rimangono accatastati in un angolo buio del salotto senza che Yeo-Jeong trovi la forza di svuotare quella che un tempo aveva rappresentano un nido d’affetto sicuro per lui e Dong-Eun.
Le vacanze invernali si dilatano senza che avvenga qualche evento memorabile; Yeo-Jeong accoglie il nuovo anno con un peso spasmodico che non riesce a sopprimere – il pensiero che Dong-Eun si sia posata al suolo insieme ai fiocchi di neve gennaioli.
Non avere alcuna sua notizia è straziante: trascina le sue giornate paralizzato dall’inquietudine dell’inconsapevolezza, e ogni giorno continua a pregare di ricevere un segno – un biglietto sulla soglia di ingresso, una chiamata persa – che lo rassicuri sulla sua incolumità.
Come d’abitudine, Yeo-Jeong e Dong-Eun non hanno mai accennato alla fragilità della loro salute mentale, resa sempre più precaria dalle violenze e dai turbamenti del passato che si reiteravano nelle azioni quotidiane, nei pensieri ossessivi che impedivano loro di dormire la notte, nella stasi in cui, certi giorni, si riversavano.
In tutti quegli anni, Yeo-Jeong non ha mai contemplato l’ipotesi del suicidio, o almeno, non vi si era soffermato più di tanto – neanche quando la mancanza della figura paterna e l’impotenza dinanzi alla giustizia mancata avevano reso insopportabile anche solo l’idea di respirare. Al contrario, Dong-Eun lo ha serbato nella sua mente come pensiero costante – e, in qualche modo, rassicurante.
In una delle usuali, interminabili notti insonni, Dong-Eun gli aveva raccontato di quando, poco dopo aver lasciato il liceo ed essere stata abbandonata dalla madre, aveva tentato di affogare nella morsa gelida del fiume Han; quella volta, aveva desistito grazie all’istinto del sodalizio umano che la aveva portata a rinunciare al proprio interesse egoistico e a salvare un’anziana sul punto di compiere lo stesso gesto. Per tutto quel tempo, mentre da adolescente senza uno sguardo sul futuro si tramutava in una donna completamente corrosa dalla brama di rivendica, si era aggrappata a quel pretesto come monito per perseguire la propria gloriosa vendetta; tuttavia, l’idea di porre fine a quell’esistenza miserabile e scialba non la aveva mai abbandonata.
Ed ora che l’unico scopo per cui ha vissuto – per cui era esistita – fino a quel momento è cessato, Yeo-Jeong teme che nulla la possa dissuadere dal levare la mano su di sé[1].
 
Trascorre un altro mese, e Yeo-Jeong mette finalmente in vendita la casa di Semyeong, nella speranza che quell’atto impulsivo lo aiuti a porre fine all'abietta titubanza che atrofizza ogni suo pensiero e azione.
Senza più la clinica da gestire, il tempo libero che ha a disposizione sembra spaventosamente limitato, e Yeo-Jeong impegna le sue giornate persino con le attività più futili – purché gli impediscano di soffermarsi sull’amore che ha perso e su ciò che sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate diversamente.
Quasi ogni mattina si reca al piccolo parco vicino al Comune, e insegna a giovani e anziani il gioco del Go – così come aveva guidato Dong-Eun nel dedalo del goban e tra le stagioni più buie della sua vita – mentre, di sera, si perde nei meandri di stradine e viuzze di Semyeong – come per accompagnare lo smarrimento della sua anima. Solitamente, ritorna a casa dopo la mezzanotte, troppo frastornato e stanco dalla lassità del tempo trascorso per notare la scacchiera vuota e la sua pedina solitaria, il letto sfatto solo per metà.
Eppure, una sera, mentre sistema il cappotto su una delle due sedie del salotto, avverte il respiro mozzarsi istintivamente prima ancora che la sua mente, stordita, possa processare l’immagine dispiegata davanti ai suoi occhi.
Al centro della scacchiera da Go, accanto alla abituale pedina bianca, ha ripreso il proprio posto la sua gemella nera.
Yeo-Jeong si stropiccia gli occhi, dando la colpa all’eccessiva stanchezza per la svista, ma una volta riaperti nota che la pietra è nuovamente lì, come se ogni cosa fosse rimasta immutabile dalla notte dell’abbandono. Barcolla all’indietro, instabile sulle gambe divenute di gelatina, mentre cerca di calmare i battiti furiosi del suo cuore – perché Dong-Eun è tornata.
Dietro di lui, il digitare del codice di accesso all’appartamento – la cui immodificabilità si figura come un altro segno delle sue disilluse speranze – preannuncia l’arrivo tanto agognato della sua mietitrice – la sua padrona, la sua dea vendicatrice.
Dong-Eun appare sull’uscio in tutta la sua algida stoicità, ma agli occhi di Yeo-Jeong, ancora incredulo e quasi scettico, i contorni della sua figura sfumano in un’atmosfera di sogno. Egli vacilla tra il desiderio di stringere la sua amata perduta tra le braccia e il timore di vederla svanire nuovamente come foschia tra le dita – e tra essi, affiora prepotente la voglia di punirla.
Istintivamente, muove un passo esitante nella sua direzione, ma si arresta subito; quei mesi di lontananza l’uno dall’altra hanno eretto una muraglia invisibile che non lascia spazio all’agio e all’intimità dei tempi passati.
Dong-Eun percepisce la sua titubanza, ma non accenna ad avvicinarsi: il suo orgoglio continua a bruciare latente e Yeo-Jeong sente accrescere la propria irritazione all’incapacità della donna di ammettere i propri sbagli e chiedere perdono.
Eppure, le parole che Dong-Eun sospira a mezza voce sono un balsamo per le ferite del suo animo.
«Mi sei mancato. Moltissimo.»
Il cuore di Yeo-Jeong trema, ma egli non demorde dalla sua posizione di freddezza e distanza. Vorrebbe dirle che anche lei gli è mancata – così disperatamente come all’assetato manca l’acqua, come ad un prigioniero manca la propria libertà, come ad un soldato manca la propria spada.
Invece, le riversa contro tutto l’acredine per la sua dipartita, l’impotenza davanti alle sue arbitrarie decisioni, il proprio disorientamento in una vita che, senza di lei, ha smarrito ogni valore.
«Allora perché te ne sei andata?» la interroga con voce strozzata, nel futile tentativo di trattenere lacrime irose. «Perché mi hai lasciato qui, a rovinare nel baratro del mio inferno personale?»
Lei lo guarda con occhi malinconici, e protende una mano in direzione del suo volto, sfarfallando le dita nell’aria come a mimare l’atto di carezzare, seppur da lontano, la gota rosea.
La concisa spiegazione che gli fornisce serba una nota di esitazione, ma Yeo-Jeong riconosce immediatamente quella dichiarazione – è il primo, tentennante, passo nel riconoscere, finalmente, lo sfuggente fascino delle promesse giurate al custode del proprio cuore.
«Forse l’ho fatto per amore, e non per vendetta.»
Quando Dong-Eun lo bacia, non vi è nulla di tenero nel modo in cui lo attira forte a sé, nel modo in cui le sue mani fredde artigliano la base del collo, o in cui l’emozione impedisce di separare i loro corpi frementi.
Con dita tremanti, Dong-Eun traccia il contorno delle labbra di lui, e Yeo-Jeong sussurra contro di esse: «L’ho capito subito, dal primo momento in cui ti ho vista, e per tutto il tempo che ho sfruttato per insegnarti il Go: questa donna sarà la mia salvezza.»
Lei non replica a tale asserzione – non vi è più bisogno, ora che i loro cuori battono concordi – ma si limita a intrecciare le loro mani all’altezza del petto di Yeo-Jeong – e gli promette di non lasciarlo più andare, di essergli eterna alleata, domina e dominata, così come lui, tempo addietro, si era immolato per la sua causa.
«D’ora in poi, sarò la tua mentore nell’arte della vendetta. Sarò Dike che riporta l’ordine nel mondo, sarò Nemesi che accorda castighi eterni – sarò Afrodite che sopisce i tuoi affanni bellicosi e ti concede una serena pace.
E allora dimmi – chi devo uccidere per primo?»


ANGOLO AUTRICE: 

Buonsalve lettor*!
E' passato circa un anno da quando sono riuscita a completare del tutto una storia - continuo ad avere mille idee e bozze ma nessuna diligenza nel finirle.

Finora, forse questo è uno dei lavori di cui vado più fiera, ma anche uno dei più complicati: adattare la cinematografia alla forma scritta non è mai stato il mio punto di forza, ma dopo aver divorato questo k-drama e aver letto l'Inno a Venere di Lucrezio, non ho resistito alla tentazione di scrivere di Dong-Eun e Yeo-Jeong.

Enjoy!

padvaniglia

NOTE:

- Gli estratti che intervallano i diversi momenti della storia sono tratti dal brano Between the wars di Allmann Brown (da cui il titolo della storia);
- Non tutte le scene sono presentate nello stesso ordine cronologico della serie TV;
- Molti dialoghi sono integralmente citati o rivisitati sulla base della sceneggiatura originale;
- (1) Riferimento al titolo del saggio di Jean Améry, Levar la mano su di sé – Discorso sulla libera morte.

 


 
 
[1] Riferimento al titolo del saggio di Jean Améry, Levar la mano su di sé – Discorso sulla libera morte.  
   
 
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