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Autore: Nina Ninetta    15/11/2023    4 recensioni
Anita è una studentessa di 16 anni che vive un profondo disagio sociale e se ne sta fin troppo spesso per conto proprio. Completamente sola, all’inizio del terzo anno, si trasforma nella vittima perfetta di un gruppetto di bulli che la vessa con dispetti e insulti di ogni genere. Il peggiore fra tutti, secondo Anita, è Stefano: un ragazzo scaltro e intelligente che sa usare fin troppo bene le parole, cosa in cui anche lei è brava! Qualsiasi altra persona, al posto di Anita, si sarebbe lasciata avvilire da questa situazione, ma non lei, poiché non si sente affatto sola, c’è il suo migliore amico a darle man forte: ȾhunderWhite! Un ragazzo con cui chatta ormai da tempo e che ha conosciuto in rete, su un sito per giovani scrittori come lo sono loro! Sebbene vivano nella stessa città, Torino, non si sono mai incontrati di persona, fin quando ȾhunderWhite non sente il desiderio di vederla dal vivo...
Questa storia partecipava alla challenge “Gruppo di scrittura!” indetta da Severa Crouch sul forum “Writing Games - Ferisce più la penna” - aggiornamenti ogni 15 giorni.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ȼapitolo Ơtto
Տtorm&Ⱦhunder


 
Stefano Parisi lasciò il motorino davanti ai cancelli del parco, assicurandolo con la catena negli appositi parcheggi. Diede un ultimo veloce sguardo ai capelli nello specchietto retrovisore, ravviando il ciuffo che gli era caduto sulla fronte, quindi si incamminò verso il punto d’incontro con Storm.
Inutile negare che finora aveva fantasticato sul suo aspetto fisico: la immaginava come una ragazza semplice, con i capelli castani raccolti in una coda di cavallo – nella sua testa portava sempre i capelli legati – e gli occhi color nocciola incorniciati da ciglia nere infoltite dal mascara. L’abbigliamento casual, fresco e informale, a nascondere un fisico magro e asciutto; non troppo alta, magari le sarebbe arrivata alle spalle grazie ai sandali con le zeppe. In fondo, aveva una ventina d’anni, faceva la barista in un locale del centro, quindi nulla di eccentrico.
Mentre attraversava i sentieri del parco, senza far caso alle persone che gli scivolavano di fianco, o alle coetanee che lo osservavano sghignazzando per il suo essere un bel tipo, si chiese se lei avesse piercing o tatuaggi in vista. Non era un fan di questa moda di incidersi o dipingersi la pelle, ma non gli piaceva neanche giudicare le scelte altrui. Sorrise, immaginando la faccia dei suoi genitori se un giorno avesse presentato una ragazza stile punk in qualità di propria fidanzata. Se li sarebbe portati sulla coscienza, probabilmente.
Ah, quanto adorava farli arrabbiare!
Completamente rapito dai suoi voli pindarici, non si rese conto che era giunto sul luogo esatto dell’appuntamento: i lampioni innamorati. Si fermò qualche metro prima, osservando con attenzione la gente e cercando di individuare Storm fra i presenti. Ammesso che fosse già arrivata, ovvio. La panchina era occupata per lo più da turisti; un gruppo di giapponesi ascoltava ammaliato la spiegazione della guida; poi notò una ragazza che sembrava essere da sola, aggrappata al parapetto, intentata a scrutare il Po e il tramonto che iniziava a calare oltre i tetti delle case a ovest. Non era come se l’era immaginata, niente code di cavallo, ma l’abbigliamento si avvicinava molto alla sua idea di casual. Fece un respiro profondo, il cuore – che fino a quel momento se ne era stato buono e tranquillo – prese a battergli forte nel petto.
Ok, andiamo!” si disse e la chiamò con il suo nickname (l’unico che conoscesse, fra l’altro).
«Storm?!»
Lei si voltò, piano e sorridente, emozionata. La voce le tremò:
«Ciao, Ⱦhund-» e le parole le si strozzarono in gola. «Ste-Stefano?!»
Stefano fece un passo indietro, muovendo la testa prima a destra poi a sinistra, formando un no con le labbra.
No, no, no!”
«Tu-tu, cioè tu…» balbettò. «Non è possibile!» disse, sembrava frastornato. «Non ci credo!» Gli girava il mondo intorno. Com’era possibile? Per tutto quel tempo, tutti quei mesi, aveva parlato con quella lì? Era uno scherzo, per forza!
Anita sembrava stupita quanto lui, senza sapere cosa dire, l’imbarazzo era evidente e pesante. Stefano girò sui tacchi e iniziò a percorrere la strada a ritroso. La rabbia era troppa, i pensieri completamente scomparsi dalla sua mente che improvvisamente si era come svuotata. Doveva allontanarsi, si vergognava come un ladro colto in flagrante. Anita però lo seguì, chiamandolo più volte, dicendogli di fermarsi un momento. Aveva il fiatone, lui aveva gambe lunghe e allenate, lei era bassina e i battiti accelerati – per la meraviglia e il disagio – non l’aiutavano di certo a tenere il passo.
Percorsero all’incirca duecento metri così: lui che camminava a grandi falcate con la testa bassa e i pugni chiusi, simile a un toro che sta caricando; e lei che gli saltellava dietro e lo pregava di aspettarla, il fiato corto e il volto accaldato per l’imbarazzo e lo sforzo fisico. Erano nei pressi dei cancelli d’entrata, Stefano virò leggermente a destra, calpestando le aiuole – cosa vietata – e finalmente arrestò la sua corsa sotto un sempreverde. L’aspettò con le braccia conserte e gli occhi calati sull’erba curata.
Anita si piegò in avanti, premendosi una mano sul cuore che sembrava volerle uscire dal petto. Ora che ce l’aveva di fronte, però, non sapeva cosa dire.
«Mi hai preso in giro, tu lo sapevi!» Cominciò lui.
«N-no, ti giuro! Come facevo a sapere che eri tu?»
«Bugiarda! Mi fai schifo! Sei una manipolatrice!»
Anita Lentini spalancò gli occhi, quelle parole la ferirono come se a pronunciarle fosse stato un suo caro amico e non Stefano Parisi. Ma in verità, lui era anche il suo migliore amico, no? Lui era Ⱦhunder, maledizione!
Ma era più Ⱦhunder o più Stefano?
La ragazza mosse le labbra per controbattere, eppure uscì un flebile verso che non significava niente, perché si accorse di non sapere cosa dire.
«Che nullità! Una barista di vent’anni, come no?!» Concluse lui, ficcandosi i pugni nelle tasche del pantalone e oltrepassandola per andare via.
«L’ho fatto perché se ti avessi detto che avevamo la stessa età, mi avresti chiesto che scuola frequentavo e non volevo che-»
Sentendo la parola scuola a Stefano si accese una lampadina nel cervello. Accidenti, non aveva pensato a quell’altra faccia della medaglia. E se quella sfigatella fosse andata in giro a dire che lui amava scrivere e tutte quelle stronzate lì?
«Non ti permettere di mettere in mezzo questa farsa con quelli della classe, hai capito?» La sovrastò con il suo metro e ottanta. Anita parve farsi più piccina di ciò che era. «O, giuro, ti renderò la vita impossibile!»
«Come se non fosse già così…» biascicò lei fra sé e sé.
«Che hai detto?» Stefano si affacciò in avanti, in un gesto minaccioso più che altro.
«Niente.»
«Ecco, brava.» Il ragazzo proseguì per la sua strada. «Sfigatella del cazzo!» Concluse, in tono abbastanza alto in modo che potesse sentirlo. Raggiunto il motorino vi salì a bordo e mise in moto, soffermandosi pochi secondi per notare Anita, con le spalle contro l’albero sotto il quale si era riparato pocanzi, piangere stringendosi forte le braccia intorno all’addome, stropicciandosi la maglia con le dita. Per un attimo, un solo istante, si vide scendere dal veicolo e tornare indietro, semplicemente per dirle che gli dispiaceva di averla trattata in quel modo barbaro, ma era deluso e si sentiva tradito. Si era fidato di Storm, si era affezionato a quella ragazza spigliata e simpatica con la quale chiacchierava ormai da mesi, tanto che i loro incontri in chat erano diventati un appuntamento quotidiano. Avrebbe potuto circondarle le spalle con un braccio e dirle che non era successo niente, non era morto nessuno – a quella battuta si sarebbero sorrisi entrambi, lo sapeva – e poi, quando si fosse calmata, ognuno sarebbe tornato a casa propria. Invece, ingranò la prima e si immise nella strada, con un obiettivo bene a mente: la festa della scuola.
 
Anita si asciugò le lacrime, alzando il capo quando due innamorati sulla trentina le chiesero se fosse tutto ok. Lei annuì, ringraziò e si costrinse ad andare via, o chiunque passasse le avrebbe chiesto se avesse bisogno di aiuto. No, non aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno di tornare indietro nel tempo.
Stefano Parisi era Ⱦhunder, dannazione!
La rivelazione era scioccante, certo, nonostante ciò quello che le faceva più male, quello che la faceva soffrire senza riuscire ad arrestare le lacrime, era il fatto che aveva perso il suo migliore amico. Non avrebbero conversato mai più, non ci sarebbe stato più nessuno ad aspettarla dopo cena per una chiacchierata frivola, per farla sentire come una persona normale e non una sfigata che a scuola prendevano in giro. Da settembre, quale sarebbe stata la sua forza? Dove avrebbe trovato la volontà di sopportare gli insulti e gli scherzi dei quali era vittima? Chi avrebbe letto le sue storie? A che serviva scrivere se nessuno leggeva?
E se Stefano avesse deciso di stampare i suoi racconti e distribuirli nell’istituto facendola passare per una psicopatica che inventa cose perché non ha una vita sociale? Non voleva neanche pensare a quell’eventualità… il solo pensiero le contorceva le viscere. Fabio Morini si sarebbe potuto riconoscere nel cattivo della sua storia, e Barbara Scala nella bella ma stupida ragazza che voleva per forza diventare la reginetta della scuola.
Eppure, tutti quei pensieri nulla potevano contro la certezza che da quel momento era sola, non aveva neanche più un amico con cui sfogarsi. Sebbene, doveva ammetterlo, con Ⱦhunder il rapporto non era propriamente basato sulla verità reciproca, parlavano di tante cose, ma mai di quello che le succedeva davvero nella routine giornaliera. Lui, invece, era stato un po’ più sincero con lei, questo doveva concederglielo. Ma con quale coraggio avrebbe dovuto scrivergli: “sai, oggi a scuola mi hanno rovesciato la bottiglia dell’acqua in testa?”.
Anita tornò a casa in punta di piedi e tirò un sospiro di sollievo scoprendo che l’appartamento era vuoto. Per qualche ora, almeno, avrebbe potuto piangere e disperarsi come meglio credeva, ma prima c’era una cosa che doveva fare se voleva evitare il peggio: cancellare dal sito su cui pubblicava tutte le storie che aveva caricato fino a quel momento. A malincuore, certo, ma era per un bene superiore.
 
Stefano Parisi raggiunse la palestra della scuola una ventina di minuti dopo. Il ciuffo di capelli scuri gli era ricaduto sulla fronte, ma questa volta non se ne preoccupò. Era livido in viso per la rabbia. Si sentiva preso in giro come non mai, da quella sfigatella tra l’altro. Continuava a essere convinto che lei sapesse chi fosse, chi si nascondesse dietro il nickname Ⱦhunder, altrimenti non c’era motivo per cui avrebbe dovuto mentirgli sull’età e sul lavoro. Adesso, però, doveva smettere di rimuginarci sopra, la vendetta era un piatto che andava consumato freddo e poteva stare tranquilla che non sarebbe finita lì. In qualche modo gliel’avrebbe fatta pagare. Ma, per ora, era a una festa e le feste erano fatte per divertirsi, no?
Salutò con un cenno della mano i professori all’ingresso e alcuni ragazzi più grandi che conosceva di vista. All’interno la musica era altissima, addirittura c’era un gruppo formato da quattro elementi che suonava, tra cui il batterista che aveva l’aria di uno sull’urlo di una crisi epilettica tanto si dibatteva. Stefano si fermò a prendere una bibita, chiedendo al ragazzo oltre il tavolo imbandito se ci fosse qualcosa di alcolico. Quello scosse il capo con aria dispiaciuta, Stefano lo ringraziò comunque, più dispiaciuto di lui, e si voltò verso la pista, in cerca dei suoi amici. Per fortuna, Fabio aveva i capelli di un colore così eccentrico che lo avrebbe individuato anche in una miniera priva di luce. Ballava con una ragazza – incredibile, alla fine era riuscito nell’intento di trovare una compagna per quella serata – e quando Stefano lo raggiunse, l’amico mandò un urlò e letteralmente gli saltò addosso. Era felicissimo – e anche un tantino brillo – che fosse riuscito a passare. Stefano Parisi se lo scrollò di dosso con garbo.
«Che cos’hai lì dentro?» Gli chiese, indicando il bicchiere che Fabio teneva in mano.
«Roba buona, amico. Roba buona» fece l’occhiolino e gli disse di chiedere al ragazzo con le braccia incrociate e la cresta variopinta alle spalle della band. Stefano annuì.
«Vedo che sei in compagnia…» aggiunse poi, indicando la ragazzina al fianco di Fabio, che fino a quel momento si era limitata a osservare la scena divertita. Era molto, molto carina, notò Stefano.
«Dici lei?» Fabio le circondò le spalle con un braccio, lasciandole un bacio sui capelli chiari. «Amico caro, ti presento Alessia. Alessia, ti presento il mio migliore amico!»
«Sono Stefano» sorrise questo, allungando la mano per presentarsi.
«Alessia» rispose la ragazza, stringendo le proprie dita a quelle del ragazzo. Entrambi avevano una bella presa.
Fabio si sporse poi verso Stefano, sussurrandogli all’orecchio:
«E la sorella della sfigatella» sghignazzò, facendogli un secondo occhiolino.
A Stefano venne il voltastomaco, aveva bisogno di bere e di fumare. Soprattutto di prendere una boccata d’aria fresca.
 
Alle spalle della palestra si apriva uno spiazzo dove talvolta parcheggiavano le automobili i professori, ammesso che vi trovassero posto poiché non era così ampio. Lungo la recinsione c’erano due bidoni dell’immondizia, uno verde e l’altro giallo, già traboccanti di piatti e bicchieri di plastica. Lontani da occhi indiscreti, c’erano anche diverse coppiette che si erano appartate per avere un po’ di intimità. Ma non solo. Stefano Parisi riconobbe alcuni studenti che si passavano uno spinello e bevevano a turno da una bottiglia di superalcolici. Sapeva che se si fosse avvicinato, un tiro o un sorso non glielo avrebbero negato, erano sempre contenti di accogliere nuovi adepti, eppure si costrinse a desistere. Quella storia con sfigatella non meritava né un tiro di spinello né una sbornia, quindi si accese una Winston rossa e ne assaporò il fumo, formando piccoli cerchi concentrici davanti al proprio volto. Li osservò dissiparsi nell’aria tiepida di giugno.
Ancora non lo sapeva, ma l’estate del 2003 si sarebbe rivelata fra le più calde degli ultimi secoli, registrando un vero record.
La sua mente saltava da un pensiero all’altro, simile a una rana nello stagno, e nessuno coerente fra loro. Andava dall’immagine che si era fatto di Storm a colei che si era rivelata essere; a Fabio, che aveva adescato la sorellina di Anita Lentini; a quest’ultima che piangeva disperata con la schiena contro un tronco. Forse aveva esagerato un pochino con quelle minacce… e se non fosse riuscita a tornare a casa perché era troppo sconvolta?
«Allora sei venuto?»
«Eh?!» Stefano si voltò nella direzione da cui era provenuta la voce, cadendo letteralmente dalle nuvole. Barbara Scala lo guardava con occhietti vispi e forse velati dall’alcol, controluce la fronte era lucida di sudore e lungo il collo scivolava qualche gocciolina. La ragazza si fece vento con le mani:
«Per stare solo a giugno fa molto caldo.»
Stefano annuì con un verso, chiedendosi perché loro due non stavano ancora insieme. Che Barbie fosse innamorata di lui era ormai cosa notissima, allora cosa aspettava? Era una bella ragazza, aveva un bel fisico, vestiva bene, era anche simpatica. Non sarà stata una cima, ma non si può avere tutto dalla vita, no? E allora perché diamine non ci aveva ancora provato con lei? La risposta era palese e la conosceva fin troppo bene: perché si era preso una cotta per una persona che non esisteva, o meglio, che aveva idealizzato nella sua testa e che si era rivelata essere tutt’altro.
Quindi non c’erano più ostacoli affinché la relazione con Barbara Scala cominciasse, giusto? L’estate era ormai iniziata, una compagnia con cui trascorrere le lunghe e vuote giornate estive non poteva fargli che comodo…
«Fabio mi aveva detto che non stavi bene» stava continuando lei. «Mi fa piacere però vederti…»
Stefano tirò un’ultima boccata di fumo dalla sigaretta, poi gettò la cicca quanto più lontano possibile, dandole le spalle e valutando ancora una volta, velocemente, i pro e i contro di ciò che stava per fare.
Storm non esiste più” si disse a occhi chiusi. “Storm è Sfigatella…”
«Vabbè, io torno dentro...»
La voce amareggiata di Barbara lo ricondusse sulla terra ferma.
Ora o mai più” pensò, e con uno scatto si voltò indietro, afferrando il volto della ragazza bionda con entrambe le mani e baciandola con voracità. Lei non si fece supplicare e gli si aggrappò alla nuca, così contenta che sarebbe anche potuta morire in quell’istante.
 
Poco più in là, il professore di spagnolo e l’insegnante di letteratura italiana stavano abbandonando la festa. Giovanna Dell’Arco notò i due alunni presi l’uno dall’altro e tirò il collega per la manica della camicia, indicandoglieli.
«Vedi» cominciò, con il tono di chi sa di avere sempre ragione, alla fine. «Come ti dicevo pocanzi, gli Stefano Parisi non si mettono con le Anita Lentini, bensì con le Barbara Scala di turno.»
Elia Morales sorrise, scuotendo il capo, forse deluso dalla mancata eccezione che avrebbe confermato la regola.
«Avevi ragione tu, ho perso. Quindi mi offro di pagarti da bere!»
«Alcol vero?! Oddio sì, grazie!» Esclamò Giovanna. «Non ce la facevo più a bere succhi di frutta multivitaminici!».



 
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