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Autore: time_wings    16/11/2023    1 recensioni
Tutto quello che succede e non succede in una stanza, sotto un cielo che cambia colore.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru, Ieiri Shoko
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La penombra aveva una forma, era quella dei riflessi. Una stanza buia faceva meno paura, perché offriva meno possibilità. Una stanza illuminata era terrificante, perché offriva una sola possibilità. Ma una stanza in penombra ne offriva infinite, una per ogni luce virtuale. Era una sospensione, la base della divinità.
“Tieni.”
Satoru impugnò la sigaretta come se fosse stata una matita, la punta una lucciola senza mira.
Di fronte a lui, Suguru rise, era un suono che si perdeva oltre la finestra, verso il cielo nuvoloso di una notte che aveva per luna un’unghia appena. “Lo sai fare?”
“Certo.”
Non lo sapeva fare. Succhiò il fumo e gli parve di venire punto da spilli infuocati, quindi lo tossì via. Suguru non lo prese in giro, ma inclinò il capo su un lato. “Inspira poco e fallo scendere, trattieni qualche secondo, anche se ti sembra meno istintivo. Poi espira.”
“Lo sapevo.” Satoru fece quello che gli aveva detto, gli venne un po’ malino, ma comunque gli venne. “Fa cagare,” commentò, passandogli di nuovo la sigaretta.
“Sì?” Suguru lo guardò, un braccio teso e appoggiato a terra a sorreggerlo, l’altra mano alla bocca per tirare. Satoru notò che era la stessa sigaretta. Niente di strano, era solo la stessa. “C’è di peggio.”
“Mi stai sfidando?”
“No.”
Si sorrisero, era un luccichio nella penombra di melassa.
Satoru era andato nella sua stanza per chiedergli se avesse una sigaretta, Suguru l’aveva invitato a restare perché secondo lui non aveva mai fumato in vita sua e non si fidava a lasciarlo senza supervisione. Il che era falso, perché una volta un tizio gli aveva fumato in faccia e lui aveva respirato nel momento in cui la nuvola era stata più intensa e asfissiante.
Era rimasto comunque, perché non gli importava di niente e di nessuno, visto che non era necessario e non gli serviva, visto che non ne aveva bisogno, eppure voleva essere suo amico.
Era nato lui ed era stato l’anno zero, la gente contava la sua età da prima che imparasse a contare, il mondo era ingiusto e lui era un ago della bilancia: se si fosse inclinato, l’asse terrestre avrebbe seguito. Che cosa significava, che Gojo Satoru voleva un amico?
“Ti posso chiedere una cosa?”
Poteva guardarlo come voleva, non avrebbe avuto tutte le risposte che cercava. Suguru mezzo annuì, mezzo accennò col capo in avanti per incitarlo a parlare.
“Di che sanno?”
Le maledizioni, lo specchio inverso dell’umanità, non dell’essere umano. “Di cose bellissime.”
Satoru arricciò il naso, poi sbuffò. “Dai.”
“Non credo che avresti i parametri per capirlo, se te lo dicessi.”
“Mhh,” Satoru incrociò le gambe, appoggiò i gomiti sulle ginocchia, lo guardò dal basso, senza ostruzioni. “Non vuoi chiedermi niente in cambio?”
“A te?”
Annuì.
“Perché dovrei?”
Era un rischio, essere immacolati, era un rischio una pagina bianca, perché chi ci scriveva per primo impugnava anche un’arma, a seconda dell’importanza della pagina.
“Vuoi un altro tiro?”
 
-

Erano le cinque del pomeriggio, i colori in cielo sostavano sulla linea di confine tra giorno e notte, il respiro prima del tramonto. La tenda sventolava sull’onda di un vento che tremava. Suguru ne conosceva le gradazioni perché da steso non vedeva i tetti più in basso riflettere quella sospensione. Quando sentì la porta schiudersi, chiuse gli occhi. Era un istinto infantile, non farsi scoprire svegli dai genitori, anche se non preannunciava una punizione. Era assurdo, che certe cose restassero incernierate nelle giunture del corpo, anche se il mondo intero cambiava. Era una storia che quasi non gli apparteneva più, non vedere ancora niente, non sapere neanche che esisteva qualcosa al mondo che prendeva la forma di una goccia di rabbia, un rivolo di paura, un graffio di delusione, un assaggio di invidia lasciato ad asciugarsi sulla punta di un coltello. Non ricordava neanche cosa si provasse a non sapere come un groppo in gola si arpionava, come per qualche istante voleva strapparsi la pelle di dosso.
Era assurdo, vivere in una vita senza violenza.
Qualcuno si fece largo nella stanza. Qualcuno non fece neanche troppo mistero della sua identità. Forse Suguru non aveva tre, sei, dodici, quattrocentomila occhi, ma non gli servivano per riconoscere la cadenza di un passo, se era il suo.
Satoru si buttò accanto a lui, sbuffò nel contraccolpo e Suguru lo sentì portarsi una mano dietro la testa. “Lo so che non stai dormendo.”
“Se ti tuffi la vedo difficile.”
“Ha!” Suguru aveva ancora gli occhi chiusi, ma un fruscio gli suggerì che si era messo su un fianco a guardarlo. “Non dormivi neanche prima. Non lo fai mai prima delle missioni.”
Suguru non rispose, aprì gli occhi e guardò il cielo. Lo preferiva di mattina, in ogni caso. Satoru si prese più spazio.
“Facciamo filone. Fuggiamo, mi scoccio un sacco oggi.”
“Non possiamo.”
“Sì, ma non capisco perché ci mandino noi, non ha senso.”
Suguru si voltò a guardarlo, sorrise, una cosa furba e orgogliosa. Sapeva che parlava in generale, che parlava dell'idea che c'era dietro, ma sapeva anche che a Satoru piaceva un sacco quando diceva… “Perché siamo i più forti.”
Satoru specchiò il sorriso, poi alzò e abbassò le sopracciglia. “In un mondo giusto questo ci garantisce il privilegio di fare il cazzo che ci pare.”
“In un mondo giusto…” gli fece eco lui. Era un mondo giusto, quello in cui chi poteva cambiare le cose in meglio lo faceva. Era giusto, che si sacrificasse l’ingenuità di qualche adolescente perché milioni di altri non soffocassero nella bocca di qualcosa che non vedevano. “Puoi sempre chiedere di mandarci qualcun altro.”
“Puoi farlo tu? Se lo chiedo ancora una volta mi picchiano.”
“Scordatelo.”
Satoru gli sventolò una mano davanti alla faccia. “Cattivissimo. Crudele addirittura.”
“Se vuoi vado da solo.”
“Sì, vabbè, stai avendo solo idee di merda.”
Suguru lo guardò tornare rivolto al soffitto, stavolta premette la spalla contro la sua. Inspirò di scatto. Ultimamente certi contatti sembravano una condizione di attivazione, con lui. Forse essere la creatura più pura e intoccabile al mondo aveva reso Gojo Satoru una maledizione, per chi sapeva guardare oltre, e forse Suguru ci aveva inavvertitamente stipulato un contratto, qualcosa che lo inchiodava nel punto in cui lo sfiorava. Forse era mille volte più facile di così, invece. Forse non c’erano strane similitudini, metafore dai suoni cacofonici da rendere digeribili. “Abbiamo ancora un’ora, se vuoi dormire un po’.”
Satoru voltò il capo di scatto a guardarlo. “Posso qui?”
Non aspettò una risposta. Infilò la testa nell’incavo del collo di Suguru, che alzò una mano e gli tolse gli occhiali. Li abbandonò da qualche parte su un libro sul comodino, lontano dalla sua portata.
“Dormi anche tu. Tanto Shoko sicuro ci viene a svegliare.”
Suguru guardò la finestra e il modo in cui il tramonto era irreversibile.
“E se non ci sveglia nessuno meglio.”
 
 
-

Era quasi l’alba. Aveva aspettato una vita, una notte lunga un’eternità, una soglia infinita. Appoggiò la fronte contro la porta, chiuse gli occhi, trascinò la mano in alto fino alla maniglia, la ruotò e si infilò nella stanza.
I raggi spettrali di luna che si facevano largo tra gli alberi, là fuori, illuminavano di sbieco l’ambiente di toni freddi. Da qualche parte tra il blu e il nero, Satoru distinse un ammasso di oscurità.
Vi si avvicinò furtivo, ma fallì quando andò a sbattere contro uno spigolo. Si premette un pugno in bocca e strizzò gli occhi, concedendosi solo uno sbuffo dolorante.
“Non hai dormito?”
Il sollievo lo invase, inspirò a fondo, poi gli scivolarono nel retro della fronte tutte le maledizioni che avesse mai esorcizzato. “Cazzocazzocazzoporcaputtanachemalecazzo.”
Suguru rise. “Tornatene nella tua stanza.”
Satoru raggiunse il letto. Aveva lottato per questa meta. “Fatti più in là.”
“Sul serio.”
Lo invase.
Avvenne un passaggio di arti, un riarrangiare di posizioni, poi il fruscio svanì. Se aguzzava le orecchie, poteva sentire l’elettricità vibrare nelle prese, gli alberi ansimare dalla fatica della rugiada, il sole sudare quella scalata. Se aguzzava la vista, aveva tutto il creato ai suoi piedi, il mondo intero pronto ad adorarlo abbastanza da temerlo.
Era un dio, era un ragazzino.
Aveva in mano tutto il potere del mondo e sulle labbra ogni singola richiesta potenziale e questo significava che il suo migliore amico era la cosa più facoltativa e dunque preziosa di tutta la sua vita. Significava che era solo, ma qualcuno voleva condividere con lui questa solitudine.
Non se le dicevano, queste cose, era come una regola, un sigillo di orgoglio.
Senza pensarci, con una mano sfiorò quella di Suguru. Lo sentì inspirare, secco. Gli diede una scossa, Satoru aggrottò la fronte, era il prezzo di un contatto pericoloso, forse. Non ne era certo, di solito viveva al di sopra di questa valuta.
C’era qualcosa di esaltante nelle cose nuove. Mosse le dita, piano, le intrecciò a quelle di Suguru da dietro, un incastrarsi di nocche. Era possibile che l’elettricità soffocasse, che gli alberi trattenessero il fiato, che il sole rallentasse?
Chiuse gli occhi e schiacciò la fronte contro la guancia del suo migliore amico.
“Perché sei qui?”
Satoru non rispose, scoprì i denti, gli morse piano la mandibola.
“Che stai facendo?”
Era nato lui ed era stato l’anno zero, la gente contava la sua età da prima che imparasse a contare, il mondo era ingiusto e lui era un ago della bilancia: se si fosse inclinato, l’asse terrestre avrebbe seguito. Che cosa significava, che Gojo Satoru voleva essere toccato?
Chiuse la bocca, per sbaglio o per istinto gli baciò il collo.
L’alba iniziò a colare dalla finestra. Si scostò per guardarlo, sollevò una mano e gli sfiorò i capelli. Lo guardò negli occhi quando si arrotolò una ciocca attorno a un dito, per poi abbandonarla.
Suguru inspirò a fondo, Satoru seguì quel respiro con lo sguardo, forse era diverso per chi si lasciava toccare da tutto.
Era un martire, era un ragazzino.
Suguru gliel’aveva spiegato mille volte, come girava il mondo, come lo vedeva lui, ma Satoru un po’ ce l’aveva con tutti e con nessuno. Non abbastanza perché valesse la pena fare qualcosa, comunque. Scese con un dito ad accarezzargli una tempia.
“Che stai facendo?” chiese ancora Suguru. Il tono era diverso dalla prima volta, però, non capiva in che modo.
“Quello che mi va.”
Suguru rise, non era una risata complice. “Tu fai sempre così, non ci pensi agli altri.”
“Dimmi cosa va a te, lo faccio.”
Satoru gli voleva un sacco bene, davvero, ma secondo lui Suguru rendeva tutto giusto un po’ più complicato di quello che era davvero. “Perché sei proprio noto per fare quello che ti dicono.”
Si strinse nelle spalle, la cosa provocò un’onda di nuovi contatti. “Quello che dici tu sì.”
“Ma non è proprio vero.”
“Mettimi alla prova.”
Nuova luce superò le tende. La finestra era aperta, forse per questo l’estate entrava meglio. “Non hai chiuso occhio?”
“Mh-mh,” Satoru si rigirò un’altra ciocca di capelli tra le dita, la fissò come se nelle trasparenze potesse scorgere una risposta a una domanda grandissima, così grande che non poteva essere infinita, ma solo lontana. “E nel mio caso è drammatico, sai com’è.” Scattò con lo sguardo nel suo.
Suguru inarcò appena un sopracciglio, lo vide solo perché erano veramente vicini, poi si morse le labbra, gli occhi luccicarono per un secondo. Perse quella battaglia di compostezza e scoppiò a ridere, di pancia, era il contrario di una maledizione. Satoru sorrise a specchio. Sinceramente, quando lo faceva ridere gli veniva il dubbio che spendesse tutta la vita a fare il pagliaccio solo nella speranza che Suguru fosse in ascolto da qualche parte e si mettesse a ridere.
“L’hai capita?” scosse la mano.
“Sì, sì,” la voce di Suguru si trascinava dietro ancora i sintomi di quella risata. Gli mise una mano dietro il collo, se lo spinse contro e gli diede un bacio in fronte, poi gli guidò la testa sulla spalla. Satoru sentì lo stomaco volare più in alto del normale. “Dormi, se Utahime non dà notizie entro oggi dobbiamo andare a vedere.”
Satoru sbuffò nel suo collo. “Lo so, mi ricordo.”
 
 
-
 
Nel punto in cui due tegole del pavimento si incontravano, si notava a stento che non erano del tutto allineate. Fissò le venature del legno rincorrersi e torcersi finché non si ricordò di battere le palpebre. Chiuse gli occhi, respirò a fondo, quando li riaprì l’imperfezione era ancora lì.
“Oh,” Suguru alzò gli occhi verso la porta. Satoru aveva una mano sul pomello, l’altra sulla cornice, fuori. “Ci andiamo a fare un giro, mangiamo qualcosa. Vieni.”
Non era una domanda. Avrebbe preferito che lo fosse. Lo guardò, non erano mai stati neanche lontanamente pari. Tanto per cominciare, Suguru lo leggeva meglio.
“Mi hai sentito?”
“Ti ho sentito.”
Satoru si girò, qualcuno stava parlando nel corridoio, poi tornò a guardarlo. “Ma che c’è, non stai bene?”
No che non stava bene, ogni volta che chiudeva gli occhi le palpebre suonavano come un colpo di pistola, come applausi. Chiudeva gli occhi e ne vedeva un altro paio perdere coscienza. Chiudeva gli occhi e la stava guardando. La stava guardando negli occhi e di colpo lei non stava più guardando lui. “Guardami.”
“Ti sto guardando.” Lo spazio che li separava gli sembrò allungarsi. Non era un problema, sapevano corrersi incontro, erano intese millimetriche, erano cose che le persone cercavano per anni in mille volti e mille fondi vuoti di bottiglie e mille preghiere. Solo che non era certo che da laggiù l’avrebbe sentito. “Ti fa male da qualche parte?”
Aprì la bocca per parlare, dirgli che si doveva togliere gli occhiali in quel preciso istante o sarebbe impazzito, che non doveva stare sulla soglia della porta. La stava guardando negli occhi, c’erano tutti i riflessi che avevano gli occhi dei vivi e poi c’erano ancora, perché era una bugia che si perdevano all’improvviso, ma erano vuoti comunque. E Satoru era vivo e respirava davanti a lui e voleva andare con gli altri a mangiare e fare un giro in mezzo a milioni di persone ignare del fatto che Riko era viva e poi morta e che Satoru era morto e poi vivo. Chiuse la bocca e non disse niente, deglutì a vuoto. Fosse stato più debole, come tutti gli altri, gli sarebbe spuntato da sotto la pelle un millepiedi che era una maledizione, una scolopendra sibilante che sarebbe strisciata via, lontano da lui. Invece fece quello per cui era lì: la ingoiò, faceva più schifo di tutte, perché non era vera e non gli sarebbe mai servita.
Era primavera e, questi qui li uccidiamo? Forse gli avrebbe detto sì, ha senso, oppure fai quello che vuoi, oppure guardami, ma stavolta Satoru avrebbe capito, perché erano vicini. Era primavera e valeva sempre meno soffrire per ogni maledizione. Per qualche ragione non scendevano come dovevano, anche se non si incastravano, non era sicuro di ricordare esattamente come funzionava. Era primavera e certe notti, per quanto vomitasse, non spariva il marcio, anzi finiva per aderire, per restare. Finiva per diventare parte di lui.
“Non ho fame.”
“Ma…”
“Non ho fame, andate voi.”
Era pericolosissimo, una minaccia concreta. Un solo passo falso, una leggera inflessione calibrata male e Satoru avrebbe capito più di quanto stesse capendo lui. E per qualche ragione aprirsi così, spogliarsi davvero, spiegarsi pochissimo e trovarsi compresi, era lo scenario peggiore. Quanto lontano poteva vedere, il più forte di tutti?
“Davvero, non ti preoccupare.” Entra, chiudi la porta, abbracciami e fammi piangere così forte che per provarmi che stai bene e che staremo tutti bene e che vinceremo devi baciarmi. Provami che io e te siamo i più forti. “Andate.”
Ma non se le dicevano, queste cose, era come una regola, un sigillo di orgoglio.
No, si vedevano di notte, quando nessun cielo era azzurro come in quel momento, Satoru faceva qualcosa di strano di cui non si sarebbe preoccupato neanche per un secondo, Suguru avrebbe pensato a cosa significasse per i successivi tre giorni e funzionavano così. Solo che non funzionavano più così. Perché Satoru sembrava costantemente fatto e lui si chiedeva costantemente ‘per cosa?’. Era come suonare un tamburo e perdersi un tempo, come girare una chiave nel verso sbagliato per distrazione e non riuscire più a cadere nell’abitudine del verso giusto.
“Suguru.” Alzò lo sguardo, Satoru sorrideva. “Se ti serve qualcosa di forte tu dimmelo, qualche bottiglia la facciamo entrare.”
Rise piano, scosse la testa. “No, no, lascia stare.”
Quando la porta non si richiuse, sollevò di nuovo lo sguardo. Il suo sorriso spariva lentamente in qualcosa che sembrava delusione. Non rimase traccia. “Va bene, chiama se ti serve uno sciroppo o una cosa simile.”
Suguru guardò il punto in cui le tegole del pavimento si incontravano. Si notava benissimo che non erano del tutto allineate.
 
 
-
 
Il cielo oltre la finestra era viola, carico di sera o di tempesta, era difficile dirlo. Tirava un vento brutto, di quelli che sembrano dire che son più forti loro. Si manteneva comunque una certa traccia di umanità, davanti a certe cose. Se non esistevano maledizioni grandi, imponenti, imbattibili abbastanza da ingoiare il pianeta con ogni sua speranza, non potevano esistere affetti invincibili.
Ogni cosa era dolorosamente normale, là fuori gli alberi respiravano una brezza simile al giorno prima, a una settimana prima, a un mese prima, a un anno prima, a due anni e mezzo prima, quando iniziavano a sopportarsi abbastanza perché il mondo prendesse colore. Quando avrebbe potuto fermarlo, in mezzo a tutti quei soffi di vento? Era nato anche con quel potere?
Faceva male come morire.
Satoru sospirò, annoiato, e si lasciò cadere sul letto, con una mano dietro la testa. Mosse le dita sulla tastiera del cellulare senza guardarlo, poi se lo portò all’orecchio e lo ascoltò squillare. La linea cadde. Chiamò di nuovo.
La linea cadde.
Era arrabbiato, la rabbia dei bambini che pestavano i piedi. Suguru non aveva deciso per se stesso, aveva deciso anche per lui, fidarsi significava questo. Era una sentenza, il corso della sua intera vita veniva deciso mentre Satoru non riconosceva la sua stessa voce e le parole gli venivano fuori sbagliate. Avrebbe passato cinquanta notti a testarne altre nella sua testa, fino a trovarne qualcuna che gli avrebbe dato la grazia del pentimento. Nella cinquantunesima, ne avrebbe cercate altre.
Non era il suo campo, in ogni caso. Non se le dicevano, certe cose. Si capivano al volo, no? Suguru lo capiva al volo.
Si girò su un fianco. Chiamò ancora. Seppellì la faccia nel cuscino e inspirò forte. Non gli servivano gli occhi, poteva trovarlo solo dall’odore. Sarebbe stato il soldato più debole dei piani alti: non esisteva una sola combinazione di eventi in cui l’avrebbe ucciso. Lo sapevano loro e lo sapeva Suguru. Inspirò ancora: sapeva che l’odore sarebbe sparito.
Il cielo oltre la finestra era viola. Viola come quando il mondo era diventato bellissimo, ma solo per qualche secondo.
Dall’altro lato della stanza, la porta cigolò.
“Esci.” Si voltò e incontrò gli occhi di Shoko. Sembrava uscita dignitosamente da un tornado. “Non serve a niente, esci.”
“È una stanza vuota.”
Shoko si guardò attorno, come se lasciarsi convincere le avesse dato la colpa di un gruzzolo su centododici, poi entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé. Gojo la guardò sedersi sul letto. Si fece più in là e le consentì di sdraiarsi. “È inutile la faccia da lutto, ha detto che l’ha fatto davvero.”
Guardarono il soffitto. “Lo so che l’ha fatto davvero. Ci sono un sacco di fogli. Veramente un sacco di fogli.”
“Dammi il telefono.”
“Col cazzo.”
Shoko alzò la mano e mosse le dita. Lui le passò il cellulare, poi la guardò con la coda dell’occhio mentre cancellava le foto.
“Ah,” disse lei.
Gojo guardò lo schermo. Era un po’ buia. Geto aveva un occhio chiuso e sembrava posizionarsi da qualche parte sullo spettro che andava dal fastidio alla risata. Con una mano scattava, l’altra ce l’aveva nei capelli di Gojo, che aveva la faccia schiacciata contro la sua guancia e le braccia allacciate al collo. Stava voltato il giusto per riuscire a guardare in camera e sollevare due dita. Lo stava mordendo. Era difficile ammettere allora che sfumatura avesse quella foto, ma palese a quel punto.
Guardò Shoko, poi di nuovo la foto, poi la finestra con il suo cielo viola. Ascoltò il suono dei tasti del suo cellulare fingere di cancellare un’amicizia. Alla fine lei gli riconsegnò il telefono. “Questa è la prima e l’ultima volta che abbiamo un momento così.”
Gojo rise. “Grazie al cielo.”
“Vuoi?” Shoko gli portò una sigaretta alle labbra. “Devi inspira…”
“Lo so fare,” disse prendendola.
 
-

Una breve lista di cose che sarebbero dovute succedere in quella stanza:
 
Erano le sei del pomeriggio, ma era estate quindi il cielo, oltre la finestra, era azzurro. Suguru aveva esattamente cinque chili in più e le forze per far capire a Satoru che stava cavalcando un’onda di follia che l’avrebbe potuto consumare. La porta si aprì con un suono che in un luogo grande sarebbe stato un boato.
“Suguru.”
Lui non alzò gli occhi da un origami che stava facendo. Non li sapeva fare, in ogni caso, si stava solo innervosendo. “Che c’è.”
Satoru saltò sul letto, si sedette a gambe incrociate e giunse le mani sotto il mento, appoggiandosi con la testa, poi fissò il suo amico finché non ricambiò. “Ho scoperto che ci sono circa diciotto miliardi di polli. Noi siamo poco meno di sette miliardi.”
Suguru sollevò un sopracciglio.
“Tu hai più o meno due polli e mezzo.”
“Io non ho polli.”
“Non mi stai seguendo.”
Suguru sorrise, piano, una cosa destinata a un andamento esponenziale. “Satoru.”
“Mh.”
“Chi li ha contati?”
“Eh?”
“I polli, chi li ha contati?”
Satoru si abbassò gli occhiali sul naso, per guardarlo da sopra le lenti. “Avevo capito la domanda, ma che domanda è?”
Suguru posò il suo origami (era solo carta piegata), poi si mosse sul letto per mimare la posizione di Satoru. “Tu sei venuto qua a dirmi che ho due polli e mezzo. Non si possono avere due polli e mezzo. O ne hai due o tre. Hai cominciato tu.”
“Se ne tagli uno no. Comunque capisci che se si coalizzassero neanch’io li vedrei. Noi pensiamo alle maledizioni, dobbiamo pensare ai polli.”
“Hai ragione, allora tu pensa ai polli.”
Satoru annuì, poi allungò una mano fino al suo ginocchio. Suguru la guardò stringere distrattamente. “Al resto pensi tu?”
Si morse un labbro, poi scoppiò a ridere. Satoru arricciò il naso, lo faceva sempre quando lui rideva. “Contaci.”
 
Erano le tre del mattino, il cielo era invisibile sotto il fitto della pioggia. Ticchettava copiosa oltre la finestra chiusa. Satoru gli sbadigliò nell’orecchio. Aveva un braccio abbandonato mollemente sulla sua spalla. “Lo sai che non mi cacci.”
“Lo so.”
Suguru si andò a sedere sul letto e guardò Satoru togliersi le scarpe e incespicare. Non era ubriaco, ma era brillo. Lo raggiunse con due falcate. “Ciao,” sussurrò, poi gli mise una mano sul petto e lo spinse indietro. Suguru fissò il soffitto che fissava ogni giorno da quasi quattro anni e pensò che Gojo Satoru era il più forte da un pezzo, ormai, avrebbe potuto fargli qualunque cosa. E invece si sdraiò accanto a lui, su un fianco.
Suguru si voltò a guardarlo negli occhi. Era una cosa elegante, una magia, un cerchio perfetto, il bambino più solo al mondo, la pagina più candida. Per uno come Suguru, che per evocare draghi e creature che strillavano doveva ingoiare la merda più oscura dell’umanità, per lui che era volgare, a confronto, guardarlo non era una grazia, era una conferma del fatto che era stato inchiostro dove nessuno osava scrivere.
Le pagine vanno sporcate, perché dicano qualcosa.
Di cos’è che avete paura? La responsabilità era la maledizione di se stessa, come il cervello che si pensava da solo, gli atomi dell’universo che si guardavano attraverso un telescopio. Era un ragazzo, era stupido come i ragazzi, era imperfetto come i ragazzi. Onestamente, non era niente di speciale, a volte si faceva anche toccare.
Pensò che Gojo Satoru fosse il più forte da un pezzo, ma Suguru avrebbe potuto fargli qualunque cosa. Forse il modo più facile per uccidere qualcosa era amarla.
“Sei proprio un tipo… moderato,” gli disse Satoru.
Suguru si accorse che non si stavano guardando. Lui gli guardava gli occhi, Satoru gli guardava le labbra.
Poteva fargli qualunque cosa. Poteva sporgersi…
“Ho portato altre birre, ma anche qualcosa da mangiare,” Shoko aprì la porta con un piede. Suguru si alzò a sedere con un colpo di tosse. “Perché non voglio avere a che fare con il tuo culo ubriaco,” indicò Satoru.
“Ha parlato il dottore,” ribatté lui.
“Letteralmente.”
“Fumi come una ciminiera.” Satoru ravanò in una delle buste che Shoko aveva depositato in un angolo a caso. “Le nuove generazioni non ti daranno retta.”
“Per fortuna ci sarà lui.”
Suguru si indicò. “Io?”
Shoko stappò una birra e gliela passò. “Hai troppe opinioni per non metterti a fare le cose come dici tu.”
“Hai chiamato Nanami e Haibara?” Satoru si allungò per appropriarsi della sua birra, ma fu fatto tornare indietro con uno snack spiaccicato al cioccolato.
“Io non ho capito quando ho acconsentito a dare una festa nella mia stanza.” Suguru scivolò giù dal letto e lo usò come schienale per sedersi a terra.
Shoko ignorò le sue proteste. “Stanno arrivando.”
Erano le tre del mattino, il cielo era invisibile sotto il fitto della pioggia. Ticchettava copiosa oltre la finestra chiusa.
Eppure era sempre estate, il cielo sempre azzurro, tutti per sempre giovani.







 
NotEl: ue
Sto iperventilando, ho scoperto che non tento nuovi fandom da quattro anni, non me ne ero accorta, ma ho dovuto COMBATTERE contro me stessa per arrivare qui, infatti sono le due, ho pensato che se avessi aspettato domani me la sarei fatta sotto e sarei scappata. Per questa ragione ho scritto un po' a caso, pochi fact check, poche ore a meditare sull'IC, nono ve la prendete così, selvaggia.
Ciò detto, due highlight di questa fic sono stati il momento in cui ho cercato chicken population census 2006 perché ho pensato dovesse essere pertinente all'anno, infatti vi informo che adesso la ratio è quattro polli a persona, sono diventati 33 miliardi....... vabbè, l'altro highlight è stata la quantità invece sproporzionata di tempo che ho passato a valutare se uno spigolo costituisse una minaccia, poi ho fatto i miei calcoli e realizzato.
So che l'idea praticamente non esiste e sta cosa POV stanza non mi ha facilitato un compito che doveva essere facile per principio, ma l'altra idea (che magari un giorno arriverà) si stava rivelando troppo stressante per la mia fobia da nuovo fandom quindi VI HO DETTO che ho dovuto combattere, le guerre si vincono con dei compromessi, sentite. In ogni caso questo non mi ha impedito di essere carogna e non mettere neanche un limone piccolo MUAHAHAHHAHA più angst ancora come se non fosse abbastanza gnam.
Va bene bbbbbbelli, io sono loquace perché sto tutta confusa, se vi ha fatto schifo mandatemi un esercito di polli a casa. Grazie, ciao!!

El.

 
   
 
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