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Autore: Immiriel    20/11/2023    1 recensioni
Fanfiction OC sul mondo di Eragon. Ripercorrerò la Caduta dei Cavalieri raccontando la storia di due elfi rimasti orfani durante la guerra. Nella lettura incontrerete molti dei personaggi della storia originale, missing moments, mistero, avventura e chissà, forse anche un tocco di love story!
Un piccolo estratto: Leum volava veloce come una freccia elfica, senza curarsi delle fiamme che lambivano ferocemente le guglie dei palazzi, delle urla dei sofferenti sotto di lui e della pioggia sferzante. Lacrime roventi, lacrime di drago gli scorrevano lungo le squame e subito venivano spazzate via dal vento impetuoso. Un solo pensiero gli attraversava la mente: Devo trovarla per lui. Devo proteggerla. È quello che mi ha chiesto. Devo proteggerla.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non mancava molto all'alba. Il sentiero si era trasformato in una poltiglia fangosa e una nebbia densa e delle stesse cupe sfumature del cielo plumbeo avvolgeva e soffocava le forme allungate degli alberi, i rami ancora grondanti di acqua piovana. Dopo la tempesta, a dominare la radura rimaneva solo il silenzio.

Un bambino vestito di abiti consunti percorreva il sentiero zoppicando vistosamente mentre una smorfia di dolore ne trasfigurava il viso. Gli occhi azzurri simili a opali congelati o ad acqua limpida erano l'unica cosa di lui che era stata risparmiata dallo sporco. Era in viaggio da oltre una settimana e la sua casa era ancora lontana, così lontana...

Solo una settimana prima Gynliae era ad Ilirea con i suoi genitori. Suo padre e sua madre avevano combattuto valorosamente nelle ultime battaglie contro Galbatorix ed erano stati invitati a un banchetto da re Evandar in persona insieme ad altri soldati e signori elfici.

Nessuno avrebbe mai sospettato che proprio quella notte il disastro si abbattesse su Ilirea e sul popolo elfico. I pochi Cavalieri rimasti, insieme a uno sparuto gruppo di potenti stregoni, avevano appena portato a termine una missione di importanza cruciale: erano riusciti a scovare due Rinnegati e i loro draghi, riuscendo a ucciderne uno e a mettere in fuga l'altro.

Quella notte gli Atalvard avevano cantato meravigliosamente, il bagliore delle lanterne incantate a guidare il loro cammino. Gynliae e sua madre Galiel li avevano seguiti tenendosi per mano e intonando i loro canti, le voci che si univano a quelle di altri alfakyn giubilanti. La frenesia delle danze, le melodie dei flauti argentei, le poesie e i giochi, i cibi esotici, il vino color porpora e i profumi inebrianti: Gynliae era rimasto estasiato e rapito dalla bellezza dei festeggiamenti.

Eppure, appena oltre le basse mura di marmo bianco, tra gli alberi del bosco che circondava Ilirea in un abbraccio rigoglioso e materno si nascondevano il Traditore e il fedele Morzan, pronti a sferrare il loro attacco e a scatenare distruzione e morte.

Gynliae ricordò gli avvenimenti con un brivido. L'attacco era arrivato dall'alto come una pioggia di meteoriti incandescenti: nessuno aveva potuto contrastare il fuoco del drago nero di Galbatorix. Le lingue di fiamma avevano avviluppato decine di elfi e pochi secondi dopo di loro non rimanevano che le ceneri. Shruikan era atterrato sulle zampe posteriori con un fracasso assordante che aveva mandato in pezzi il sentiero di pietra candida sferrando unghiate possenti contro chiunque gli capitasse a tiro, una furia rovente negli occhi di ghiaccio.

Il Traditore  era sceso teatralmente dalla groppa del suo drago sfoderando una spada dalla lama pallida. Gynliae l'aveva riconosciuta all'istante: era Portatrice di Luce, l'arma di Vrael. Galbatorix, il cui volto era solcato da un sorriso crudele, stava sfoggiando quella lama unicamente per gettare scompiglio e confusione tra gli elfi, come a urlare loro in faccia che l'invincibile Vrael era caduto e che quello era il suo trofeo di guerra, strappato dalle mani senza vita dell'elfo morente. E non aveva tardato molto a trasformare il suo ghigno in parola: «Vrael è morto, Doru Araeba è distrutta!»

Gynliae non aveva visto e sentito altro, perché sua madre lo aveva preso in braccio iniziando a correre verso le porte della città. Gynliae si era aggrappato disperatamente a lei nascondendo il viso nell'incavo del suo collo mentre alcuni Cavalieri e altri soldati elfici si scagliavano contro il Traditore, le spade sguainate e i volti deformati da una rabbia cieca. E ciò che era accaduto dopo... Non voleva nemmeno pensarci.

Il piccolo elfo sussultò quando sentì una mano stringergli la spalla. Come poteva non essersi accorto che qualcuno si stava avvicinando?

Era una mano grande, forte, e non aveva la minima intenzione di lasciarlo andare. Un brivido percorse la sua schiena mentre alzò gli occhi chiari su quell'ombra silenziosa, i nervi tesi fino allo spasimo.

«Rilassati. Non lo vedi che sono un alfa come te? Non voglio farti del male».

Il fatto che tu non voglia non significa che qualcuno non ti abbia ordinato di farlo, si ritrovò a pensare lui con sospetto.

L'elfa doveva essersi accorta della sua ostilità, perché subito dopo parlò nell'Antica Lingua, legando così le sue parole ad un giuramento vincolante: «Giuro che non ti farò del male. Non sono al servizio di Galbatorix, voglio solo aiutarti».

La voce dell'elfa era molto diversa da quelle a cui il bambino era abituato. La sua gente poteva vantare una voce limpida e soave, non rauca e raggrinzita come quella di un vecchio. Eppure sapeva di non potersi sbagliare: nessun umano, nemmeno il Traditore, avrebbe potuto imitare l'accento esotico e musicale del suo popolo.

La figura calò il cappuccio rivelando il volto prima celato. Il viso dell'elfa era affilato ed elegante, ma solcato da una fitta rete di rughe profonde. I lunghi capelli erano d'argento.

«Come ti chiami?»

Il bambino restò impassibile. Tese i muscoli delle gambe, pronto a scattare al minimo accenno di pericolo.

«Allora? Il drago ti ha mangiato la lingua?»

Il piccolo elfo alzò lo sguardo e le pupille nere dardeggiarono come punte di freccia in direzione di quel volto vetusto. La vecchia accennò un sorriso e con voce più dolce aggiunse: «Fai bene a non fidarti di nessuno di questi tempi, ma se non fossi così giovane e ignorante sapresti sicuramente riconoscermi e ci saremmo già incamminati per questo lurido sentiero, in marcia per la Du Weldenvarden. Non vuoi forse tornare a casa anche tu?»

La vecchia elfa sbuffò e tornò a parlare nell'Antica Lingua: «Mi chiamo Rhunön. Negli ultimi secoli non ho fatto altro che forgiare le spade di ogni Shur'tugal in Alalgaësia. E mai ne forgerò più! Non ho mai tradito la nostra causa e giuro sulla spada di Vrael che non ti lascerò sgattaiolare via finché non sarai al sicuro nella Du Weldenwarden. Soddisfatto?»

Il bambino non poté nascondere tutto il suo stupore: davanti a lui c'era una leggenda vivente! Non c'era uomo, donna o bambino che non conoscesse quel nome. Era una spada di Rhunön che Gynliae aveva ardentemente desiderato fin da quando aveva imparato a reggersi sulle proprie gambe ed era sempre con quella spada in mente che aveva sognato di uccidere il Traditore.

Alla fine dischiuse le labbra e pronunciò una sola parola: «Gynliae». Dopo tanti giorni trascorsi nel silenzio la sua stessa voce gli risuonava estranea.

«I tuoi genitori?»

Gynliae arricciò le labbra in una smorfia e iniziò a fissarsi gli stivali sbrindellati. Quando parlò, fu con un sussurro: «sono morti ad Ilirea».

L'elfa lo studiò, gli occhi velati da un'ombra. Poi sembrò riscuotersi e mormorò: «Waíse heill». Un fastidioso formicolio gli risalì lungo il piede sinistro e la gamba, su fino al ginocchio. Le ferite che da giorni lo facevano zoppicare e arrancare si rimarginarono a una velocità impressionante.

«Non sono mai stata un granché nelle arti guaritrici, ma per ora dovrebbe bastare»

Gynliae ringraziò silenziosamente la sua benefattrice. Ora che il dolore era scemato, ogni passo non sarebbe più stato una tortura. Aveva provato a medicarsi da solo con qualche semplice incantesimo curativo, ma era così esausto e affamato che da diversi giorni non riusciva ad attingere al suo potere magico.

Gynliae pensò che l'elfa gli avesse letto nel pensiero, perché aveva appena aperto una sacca di cuoio da cui tirò fuori un involto. La carta stropicciata rivelò alcune fette di pane stantie che Gynliae afferrò al volo per poi addentarle con gusto bofonchiando a Rhunön un ringraziamento.

«Sono la prima persona che incontri da quando sei scappato da Ilirea?»

«Sì» confermò Gynliae masticando avidamente.
«Ho visto alcuni Urgali l'altro giorno, su al valico, ma mi sono nascosto bene»

Improvvisamente ci fu un fruscio. L'elfa raddrizzò la schiena ingobbita e tese le orecchie, in ascolto. Rimase in quella posizione per qualche secondo, poi sembrò tranquillizzarsi: «Sarà stato uno scoiattolo. La guerra fa brutti scherzi ai nervi»

Gynliae non poteva che essere d'accordo con Rhunön. Nell'ultima settimana si era ritrovato a sobbalzare ad ogni minimo rumore della foresta e gli incubi lo tormentavano al punto di non riuscire a chiudere occhio.

La vecchia elfa si guardò attorno con circospezione ed estrasse dal fodero una corta lama trasparente. Gynliae strabuzzò gli occhi ammirato mentre Rhunön gli faceva cenno di stargli accanto.

«Finché non avremo superato i primi pini della Du Weldenvarden non saremo al sicuro. Sei stato abbastanza intelligente da viaggiare di notte, continueremo a fare così».

In realtà viaggiava di notte perché gli era insopportabile l'idea di chiudere gli occhi e rimanere ignaro di chi o cosa si acquattava nell'oscurità in attesa di attaccarlo, ma non obiettò.

Si ritrovò a pensare a sua madre, a suo padre, ai loro volti sorridenti, ma quelle immagini furono subito sostituite da qualcosa di orribile e innominabile. I suoi genitori erano stati uccisi e lui era solo nel mondo, solo come non lo era mai stato prima.

Rhunön lo prese per mano, come a rammentargli che ora non era più così. Gli aveva letto ancora nel pensiero? Istintivamente controllò che la sua mente fosse ancora protetta visualizzando una pesante muraglia di pietra, ma si accorse che il suo viso era rigato di lacrime e che probabilmente era stato proprio quello a tradirlo e rivelare il suo stato d'animo.

Gynliae continuò a piangere silenziosamente, si aggrappò forte alla mano rugosa dell'elfa e insieme si incamminarono verso la Du Weldenvarden.
 


Il sentiero si inerpicava davanti a Gynliae aprendosi su un anfiteatro irregolare di erba umida intrisa di rugiada. Una nebbia sottile danzava tra gli alberi quasi spogli rivelando lentamente i contorni dei larici le cui radici, testimoni di innumerevoli stagioni passate, si intrecciavano nel suolo fangoso. Il silenzio era rotto solo dal lieve fruscio del vento tra le foglie e dal richiamo lontano di una civetta solitaria.

Rhunön e Gynliae avanzavano con cautela, il suolo morbido che si adattava al loro passo leggero. Gli stivali dei due elfi scrosciavano sulle pozzanghere infrangendo il biancore latteo delle nuvole riflesse nell'acqua mentre l'odore della terra bagnata e della fitta vegetazione permeava l'aria mescolandosi alla freschezza della sera.

Rhunön intanto scrutava l'ambiente circostante con occhi attenti. Fece cenno a Gynliae di avvicinarsi: «Ragazzo, sali su quell'albero e dimmi cosa vedi. La Du Weldenvarden non dovrebbe essere lontana».
Gynliae annuì in risposta e si arrampicò con agilità lungo il tronco dell'albero aggrappandosi saldamente alla corteccia umida. Raggiunse i rami più alti, dove le fronde si diradavano permettendo al giovane elfo di godere del panorama mozzafiato di un lussureggiante tappeto arboreo.

All'orizzonte, oltre la radura e il rado boschetto che si stendeva ai loro piedi, si profilava la foresta della Du Weldenvarden. Gli alberi erano altissimi e maestosi proprio come Gynliae li ricordava: emergevano fieri dal terreno, guardiani immortali del regno elfico.

Una volta un nano che aveva incontrato ad Ilirea gli aveva detto che secondo le antiche leggende i pini della Du Weldenvarden e la catena dei monti Beor erano reliquie del tempo in cui i Giganti camminavano su questa terra, tuttavia Gynliae sapeva che l'imponenza della foresta era dovuta alla celebrazione del Dagshelgr e ai canti intessuti di magia che ogni anno gli elfi intonavano per rendere la foresta ancora più imponente e rigogliosa.

La voce asciutta di Rhunön lo riportò alla realtà: «Gynliae, hai deciso di stabilirti là sopra? Dovrai costruire un nido bello grosso se vuoi che ci entriamo tutti e due».

Ha decisamente un brutto caratteraccio, pensò Gynliae soffocando una risata.

«Sto arrivando!»

Il bambino fece capolino dalle fronde, diede un'occhiata verso il terreno e giudicando l'altezza non eccessiva si preparò a saltare giù piegando le ginocchia per darsi lo slancio. Il suo corpo vibrò di adrenalina quando il vuoto gli si aprì nello stomaco, poi atterrò molleggiando sulle gambe.

«Ahi» si lamentò Gynliae scrollando le caviglie.

«Sei impazzito? Guarda che non facevo sul serio quando ho detto che potevi costruire un nido. A meno che tu non abbia davvero un paio d'ali, s'intende».

«È stato divertente!»

Se c'era una cosa che a Gynliae piaceva di lei era che il suo fare rozzo e spigliato le impediva di trattarlo come avrebbe fatto qualsiasi altro adulto. L'elfa sbuffò spazientita: «Ebbene?»

«Non sbagliavi. La foresta è vicina»

«Quanto manca ai primi pini?»

«Non più di qualche ora, se proseguiamo di questo passo»

Rhunön sembrò soddisfatta, così i due elfi camminarono lungo il sentiero a passo sostenuto. Man mano che si avvicinavano alla Du Weldenvarden il profumo di resina e di muschio si faceva più intenso mentre gli alberi diventavano sempre più alti e fitti. Gynliae e Rhunön quasi non si rivolsero parola lungo quel tratto di strada: avevano fretta di raggiungere la foresta e quella smania si faceva sempre più forte ad ogni passo, giacché entrambi percepivano il richiamo della terra natale ormai vicina, così come la promessa di rifugio e di sicurezza che si materializzava nelle forme dei pini tanto familiari.

Giunti al margine della foresta si inoltrarono tra i primi pini e subito Gynliae si sentì alleggerire del peso che dalla battaglia di Ilirea aveva stretto il suo cuore in una morsa. Il regno degli uomini era ormai alle sue spalle, oltre le barriere invisibili che proteggevano la foresta, perciò non avrebbe più potuto nuocergli. Sono a casa, finalmente a casa, si ritrovò a pensare, incredulo della sua stessa fortuna. Se solo avesse potuto condividere quella gioia con i suoi genitori...

Per la prima volta guardò Rhunön con occhi che riflettevano tutta la gratitudine che provava nei confronti di quella vecchia elfa scorbutica.
«Grazie» sussurrò Gynliae, imbarazzato. L'elfa rispose con uno sguardo interrogativo, ma notando la commozione del bambino capì e gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi.

Decisero di stabilire lì il loro accampamento per la notte. L'elfa creò un giaciglio rudimentale ammucchiando foglie e muschio in un morbido tappeto, poi innescò con un incantesimo un piccolo fuoco che subito iniziò a sprigionare fiamme crepitanti. Gynliae intanto si allontanò per raccogliere qualche bacca e ritornò al campo qualche minuto dopo con la tunica ricolma di more e nocciole. Fu un pasto frugale, ma le more sul pane offerto da Rhunön erano dolci, mature e così piene di succo che Gynliae dovette pulirsi il mento a ogni morso.

Sedettero accanto al fuoco per scaldarsi al suo tepore, la danza delle fiamme che gettava ombre sui loro visi e guizzi nei loro occhi.
Gynliae notò che Rhunön aveva appoggiato a terra il fodero della sua lama trasparente, la stessa che il bambino aveva intravisto qualche giorno prima quando aveva incontrato l'elfa per la prima volta.

Gynliae allungò la mano in direzione della spada come fanno i bambini quando aspettano di ricevere in dono una leccornia: «Posso?»

Dopo un attimo di esitazione Rhunön gli passò la spada e l'elfo la estrasse con dovuta cautela, quasi con reverenza. La ammirò con tanto d'occhi, desideroso di scrutare ogni dettaglio di quella lama che pareva catturare i bagliori del fuoco: «Qual è il suo nome?»

«Albitr. Non esiste spada simile in tutta Alagaësia, te lo garantisco» disse Rhunön con orgoglio.

«Sembra fatta di luce...» Gynliae sospirò e a malincuore restituì Albitr alla sua padrona.

Rhunön impugnò l'elsa, ruotò il polso e le stelle parvero danzare sulla superfice liscia della lama. Sorrise agli occhi ammirati del giovane elfo: «Non lasciarti ammaliare dall'aspetto esteriore delle cose. Le spade come Albitr portano in sé una storia di vittorie e di gloria, ma anche di morte, così come ogni cicatrice racconta di coraggio e allo stesso tempo di dolore».

Gynliae notò il velo di tristezza sceso sul volto dell'elfa. Parlò con una certa esitazione: «È per questo motivo che hai giurato di non forgiare più spade per i Cavalieri?»

Lo sguardo dell'elfa era fisso sul terreno: «La spada che Galbatorix ha sguainato contro l'Ordine dei Cavalieri era Islingr, Portatrice di Luce. L'avevo forgiata per Vrael con la convinzione che sarebbe stata un baluardo della giustizia, ma il tradimento di Galbatorix ha macchiato quella lama con l'infamia e la vergogna».

Gynliae avvertì la tensione nell'aria: «E questo giuramento... lo hai fatto per proteggere il tuo cuore o per punire i Cavalieri?».

Gli occhi di Rhunön erano colmi di risentimento antico e, Gynliae poteva scommetterci, lucidi di lacrime. Si pentì immediatamente di averle rivolto quella domanda indiscreta e stava per porgere le sue scuse quando Rhunön finalmente parlò: «Entrambi, ragazzo. La forgiatura è un atto intimo, e vedere le mie creazioni diventare strumenti del male è una ferita che ancora sento bruciare come fuoco di drago. Ho giurato di non piegare più il mio talento alla causa dei Cavalieri. Per cosa, poi? Molti di loro si sono rivelati traditori o vigliacchi senza onore».

Rhunön cullò Albitr con reverenza come fa una madre con il figlio neonato: «Questa è stata la mia ultima creazione. Un lavoro su commissione, in realtà, ma la sua padrona non è ancora venuta da me a reclamarla e ammetto che la mia speranza è che non si presenti mai più alla mia porta. Odierei separarmi da Albitr più che dall'ossigeno che respiro».

Il giovane elfo rimase in silenzio, sopraffatto da quelle parole intrise di emozione. Rhunön contemplò Albitr un'ultima volta per poi riporla con cura nel fodero. Quando l'ultimo segmento di lama scomparve al suo interno a Gynliae parve che Albitr avesse trascinato con sé ogni traccia di luce.

Rhunön notò il fulgore negli occhi di Gynliae e sembrò riscuotersi: «Sei un ragazzo sveglio. Non creerò mai più strumenti di morte, ma forse, un giorno, potrei insegnarti a forgiare una spada come questa».

Gynliae, stupito, chinò il capo con rispetto:
«Sarebbe un onore, Rhunön-elda».

Lei gli rivolse un cenno compiaciuto. I capelli d'argento dell'elfa incorniciavano il suo viso come un'aureola, alleggerendone i tratti severi: «La forgiatura è un'arte antica e rispettabile. Richiede disciplina, pazienza e un profondo legame con il materiale che si sta modellando. Non è un mestiere per tutti».
Poi diresse al giovane un'occhiata obliqua, tornando al tono di sempre: «Non avevo mai preso un apprendista prima d'ora. Vedi di non farmene pentire, ragazzo».

Gynliae non si fece intimidire dall'ammonimento. In quei pochi giorni passati con la vecchia elfa aveva imparato che sotto la scorza di risposte taglienti e pungente sarcasmo si nascondeva un cuore gentile. Le rispose accennando un sorriso, ma dentro di sé era estasiato dalla prospettiva di imparare l'arte della forgia da una leggenda come lei.

Il fuoco crepitava ancora, unico rumore a infrangere la quiete notturna. Poco dopo i due elfi si addormentarono profondamente sotto le fronde scure della foresta elfica. Gynliae ancora non lo sapeva, ma quella notte il suo wyrda si era legato indissolubilmente a quello di Rhunön e un giorno le mani dell'elfo avrebbero modellato il destino in forma di spada.

NdA: eh sì, si tratta proprio della spada di una certa indovina ricciuta. Un grazie a stefy_81 per il supporto e anche a FioreDelDeserto1999 che invece mi legge su Wattpad. A presto!

   
 
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