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Autore: Guntxr    22/11/2023    0 recensioni
Uno scrittore sofferente e un ragazzino, senza casa e costretto a rubare, si incontrano, cosa può insegnare l'uno all'altro? Due mondi completamente opposti che si incontrano e si scontrano. Può Moira portare il ragazzo sulla buona strada? Qual è la buona strada? Tante domande e poche risposte, ma questo solo se non si legge quanto segue, se si inizia questa avventura, le risposte arriveranno.
Genere: Fantasy, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Tolse le scarpe e dopo essersi svestito e aver indossato un pigiama pulito si lanciò sul proprio letto, lasciando tutto il resto sul pavimento e sulla propria sedia. «Nemmeno ci provo a scrivere qualcosa.», commentò esausto, «Oggi è stata una giornata piena e più che darmi ispirazione mi ha solo dato altro stress. In più quel ragazzino mi ha fatto prendere un infarto. Chissà se è ancora lì.», si alzò quindi per andare a controllare dalla finestra senza farsi notare. «Okay, è andato via, ma ciò non toglie che sicuramente è ancora in giro da qualche parte a rapinare chissà chi.», collegò i propri auricolari al telefono e dopo essersi pettinato i capelli si lasciò cadere di peso sul proprio letto, ascoltando la sua canzone preferita: “All we ever wanted was everything” dei Bauhaus. I suoi gusti musicali viaggiavano dal gothic rock all’indie rock, a volte ascoltava qualcosa di metal, oppure anche psychedelic rock. Nella sua playlist, in ordine di ascolti vi erano prima i Bauhaus e i The Cure, poi a seguire i The Smiths, i The Doors, gli Eels, ma anche i Måneskin e i Verdena, come esempi di musica italiana. In realtà ascoltava musica italiana, tra cui Lucio Battisti e Francesco de Gregori. Tutta quella musica, in verità, gliel’aveva fatta scoprire uno dei “fratelli maggiori” all’orfanotrofio. Venivano chiamati così i ragazzi che si prendevano cura dei bambini, fratelli o sorelle maggiori.
 
Ricordava ancora quel giorno in cui i due si incontrarono come fosse accaduto solo qualche ora prima. Lui era un ragazzo di circa vent’anni e Moira aveva otto anni. S’era ormai ambientato bene all’orfanotrofio e, cosa che gli faceva più male di tutte, aveva visto andare via quasi tuttз lз bambinз, presto sarebbe andato anche lui via, scoprendo che forse rimanere lì sarebbe stato persino meglio. Mike era un ragazzo che ogni venerdì andava a trovare i bambini all’orfanotrofio e il suo stile precedeva la sua essenza, quasi come se lui fosse l’ombra di sé stesso. Non passava mai sott’occhio e questo al signor Lucio sembrava piacere parecchio, tanto che lo trattava quasi come fosse un figlio. Il primo giorno in cui lui era arrivato lì, aveva solo diciotto anni, era alla ricerca di qualcosa che lo ispirasse a livello artistico, lui e la sua compagna avevano una band punk rock ed essendo figlio di amici di Luciano lui lo teneva parecchio a cuore. Il consiglio di andare a fare volontariato fu della sua ragazza che puntualmente lo accompagnava ogni venerdì.
 
«Vede signor Lucio…», iniziò il ragazzo, che continuava a dare del lei all’uomo nonostante i due si conoscessero da quando lui era nato. «…ho bisogno di qualcosa che mi cambi, che mi dia uno schiaffo morale. Sono sicuro che stare qui a dare un po’ di gioia a queste piccole menti, mi darà lo sprint giusto per cominciare a vivere. Da quando la mamma non c’è più ho come il bisogno di dare un senso a ciò che mi ha insegnato fino ad ora, lei la conosceva bene, sicuramente capirà quello che intendo.», l’uomo sorrise guardandolo.
 
Gli posò la mano sulla spalla, «Da qui uscirai con più di uno schiaffo morale, fidati.» con l’altra mano gli consegnò la spilla che tuttз lì dentro avevano, era una piccola nuvola con un sorriso. Gli consegnò anche una camicia azzurro pastello della sua taglia che poi anche Moira avrebbe indossato nei suoi giorni di volontariato. «Sai, quando ho aperto questo orfanotrofio pensavo che fosse un’idea che tutti hanno, un’idea che non valeva la pena di portare avanti, anche io avevo voglia di uno schiaffo in faccia dalla vita. Ma quando ho iniziato a vedere i bambini sorridere e stare meglio di quando entravano qui, vederli crescere e poi continuare le loro vite, beh, lì ho capito che non volevo altro che la gioia delle persone. Forse sarà così anche per te, in realtà non ti conosco nemmeno bene, tanto che continui a usare il lei con me. Usa pure il tu quando mi parli! Voglio dire, so tutto di te, ma non abbiamo mai parlato, sono sicuro, in ogni caso, qualsiasi cosa tu voglia, che da qui non uscirai a mani vuote.»
 
Il ragazzo si svestì senza problemi davanti a lui e dopo essersi abbottonato la camicia e aver appuntato la spilla sorridente, gli fece una domanda, semplice sì, ma fondamentale per la sua permanenza in quel posto. «Una cosa, però, non mi è chiara affatto. Io cosa devo fare di preciso?», l’uomo ridacchiò dandogli una pacca amichevole sulla spalla. Il signor Lucio era sì alquanto avanti con l’età, nonostante ciò, riusciva a entrare in perfetta sintonia con i giovani.
 
L’uomo indicò il bambino dai lunghi e folti capelli che stava colorando su un foglio con i pastelli a cera. «Vedi quel bambino? Quello sarà tuo fratello tutto oggi. Ti dico lui perché ha un trascorso molto difficile, sono sette anni che è qui ed è l’unico della sua…chiamiamola generazione…che non ha trovato ancora una famiglia. Lo hanno riportato indietro parecchie volte, troppo esuberante dicevano, loro non capiscono un bel niente di bambini e poi vogliono fare i genitori giocando a essere dio con delle povere anime innocenti. Trattalo con i guanti, per favore. Oggi hai solo lui di cui occuparti, fallo sentire come vorresti sentirti tu, questo è il nostro ruolo qui, far stare bene chi è più sfortunato di noi.», l’uomo poi si alzò e andò verso un’altra stanza. Mike si alzò anche lui a sua volta e si diresse verso Moira, che come già detto, era impegnato a colorare su un foglio. Il ragazzo con sé aveva quello che sembrava essere un basso dentro la sua custodia nera. Si avvicinò quindi al bambino, chinandosi e sorridendogli. Subito il piccolo sembrò interessarsi all’oggetto che Mike aveva con sé.
 
Quest’ultimo gli porse la mano, che subito l’altro strinse sorridendo genuinamente con gioia. «Piacere, io sono Mike. E tu sei…aspetta, non dirmelo. Tu sei il grande bimbo che oggi suonerà il basso insieme a me? Dimmi un po’ come ti chiami, piccolo artista.», il bambino, che sprizzava allegria, strinse la sua grande mano fredda. Il ragazzo alto si abbassò gli occhiali da sole, mostrandogli i suoi occhi neri come il carbone.
 

 
 
Il piccolo, che aveva imparato a parlare per bene, si presentò «Io…io sono Moira e i tuoi capelli sono davvero molto belli.». Quello fu il loro primo incontro e anche se Moira del futuro non avrebbe più ricordato il suo volto, quel giorno sarebbe stato impresso nella sua memoria per sempre.
 
 Si girò più volte su sé stesso e quando guardò l’orologio sul proprio comodino, si rese conto che era appena scoccata la mezzanotte ed era il sedici febbraio 2022. Sulla sua spalla destra comparve Thoma. «È arrivato quel giorno, vero?», Moira che aveva gli occhi lucidi, annuì senza dire nulla. «Sono ufficialmente passati undici anni. Sono undici anni che io e te ci vediamo, no?», quello era il giorno in cui, undici anni prima, Thomas aveva perso la vita, giorno in cui le vite di tutti cambiarono.
 
«“Quando io me ne andrò, ti prego di non essere triste perché non ci sarò più, sii felice che io ci sia stato”. Lo ripetevi in continuazione e ora devi ancora insegnarmi a continuare a vivere senza di te. A vivere serenamente senza serenità.», pur non volendolo, le immagini di quel giorno avevano cominciato a scorrergli nella testa come un film, quasi come se fosse l’unico nella sala del cinema, costretto a vedere un’opera che non solo conosceva a memoria, ma che si rifiutava di guardare.
 
 
Non aveva però scelta.
 
La sua povera mente dannata era legata a quel giorno.
 
Perché quello sarebbe stato il loro ultimo giorno insieme.
 
 
Era un mercoledì e Moira, Thomas e Rebecca avevano deciso di andare insieme ad un concerto. Tutto iniziò la mattina, erano quasi le otto e Moira era a dormire a casa dell’amico, lo stesso che quest’ultimo aveva il compito di svegliare. Iniziò a scuoterlo leggermente e a chiamarlo per nome. «Thomas! Svegliati, dai.», sembrava quasi non avere vita in corpo e per un attimo il ragazzo, suo migliore amico, si spaventò. Tutto si risolse quando, tra uno sbadiglio e l’altro, Thomas si decise a destarsi. «Ce ne hai messo di tempo e di voglia.», esordì il ragazzo, che all’epoca aveva quasi ventisette anni. «Ti ho preparato la colazione, senza però il frizzantino che vuoi tu.», si riferiva al fatto che usualmente Thomas era solito fare colazione con il caffè e un goccio di sambuca. Moira però, tenendo alla salute dell’amico, gli vietava di bere troppo, dati gli ultimi episodi di sbronza in cui s’erano ritrovati entrambi.
 
Il ragazzo si alzò, mettendosi seduto e guardandolo con occhio confusogli chiese: «Mi ricordi chi sei?», come risposta ricevette una cuscinata in faccia da parte di Moira stesso. «Okay sei sempre il solito permaloso. Non dovevi preoccuparti, comunque, avrei fatto io. Sei tu l’ospite, no?» I due si fissarono in silenzio per qualche istante, poi Moira gli lanciò i vestiti addosso, aggiungendo che l’orario stesse correndo e che se non si fossero sbrigati sarebbero stati in ritardo. «Il tempo è relativo.», commentò lo stesso Thomas, che per una seconda volta si beccò un altro cuscino in faccia.
 
«SI PUÒ SAPERE DA DOVE ESCONO TUTTI QUESTI CUSCINI?»
 
«Non ti rispondo, sarebbe scortese da parte mia.»
 
Dopo tante fatiche, imprecazioni e altri oggetti volanti, i due furono finalmente pronti. Quello era un giorno speciale, in realtà, l’evento grandioso non era solo il concerto della loro band preferita, ma anche il giorno del compleanno di Thomas, che compiva per l’esattezza ventotto anni. I due si abbracciarono, gesto messo in atto dallo stesso Moira, che lo strinse a sé chiudendo gli occhi e dimenticandosi di non amare il contatto fisico. «Auguri, Thom.», i biglietti per suddetto concerto, infatti, erano il regalo di compleanno da parte di Moira e Rebecca che avevano fatto una colletta per poterselo permettere e che avevano chiesto il giorno libero dal lavoro per poter essere sicurз di andarci. «Non dimenticare mai che sei la mia persona preferita, che sei la ragione per cui mi sveglio la mattina e per il quale vado a dormire sereno la notte.», i due si separarono e quando poterono guardarsi negli occhi, Moira continuò. «Per me sei un fratello, tutto ciò di cui ho bisogno.»
 
Thomas, un po’ imbarazzato, commentò ironicamente la cosa. «Ora dobbiamo baciarci o cosa?», risero entrambi, poi Moira gli afferrò dolcemente la mano e portandolo verso la camera da letto, gli mostrò che mentre lui era andato in bagno per sistemarsi, lui aveva messo in ordine tutta la stanza. Aveva persino cambiato le coperte. «Tu sei un pazzo, davvero, non ce n’era bisogno.», non rispose, si limitò a baciargli la guancia e a sorridergli genuinamente. Thomas era l’unico che riusciva a tirare fuori il vero Moira, non il Moira traumatizzato, il Moira che doveva stare zitto perché così gli avevano insegnato da piccolo, lui riusciva a tirare fuori il Moira dell’orfanotrofio, che si illuminava davanti a una cresta, che amava la cioccolata calda e che saltava dalla gioia quando qualcuno anche solo gli prestava attenzione. Thomas era tutto ciò che aveva e gli bastava quello, non voleva altro al di fuori di lui.
 
I due finirono quindi la loro colazione e quando furono del tutto pronti, entrambi con la maglia della band che avrebbero ascoltato dal vivo quel giorno, poterono uscire di casa, chiamando al telefono Rebecca, che a sua volta era anche lei pronta. «Sono appena uscita di casa, voi dove siete?», Thomas rispose quindi che anche loro, come lei, erano appena fuori casa. «Va bene, ci vediamo a casa di Moira, giusto? Perché la mia amica ha detto che è più comodo se mi viene a prendere da là. Per voi è un problema? Se vi trovate scomodi possiamo incontrarci direttamente lì.», Rebecca era spesso logorroica, ma lei stessa non vedeva la cosa come un difetto, ma bensì come un aspetto normalissimo del proprio carattere. Non parlava addosso con cattiveria, semplicemente non si rendeva conto di quando era il momento di aspettare per parlare. Fu bloccata dal fidanzato che disse ridacchiando di incontrarsi a casa dell’amico. «Va bene, ci vediamo dopo allora, ti amo.»
 
«Anche io, tesoro.», subito i due si scambiarono uno sguardo che racchiuse quello che si sarebbero detti subito dopo. «Non mi ha dato gli auguri.»
 
Moira ridendo gli rispose. «Sei fottuto. Li farà dal vivo, non hai scampo.»
 
Arrivarono a casa sua prima della ragazza, che dopo almeno dieci minuti si poté vedere nelle ombre delle case all’orizzonte. Corse verso di loro, mirando specificatamente a Thomas e quando fu davanti a lui gli saltò addosso. Lui la prese in braccio e tra uno scambio di baci e l’altro lei iniziò a urlargli. «TANTI AUGURI AMORE! Sei vecchio! Sei un vecchiaccio ora!», lei era la più piccola del gruppo e ne approfittava per sfotterli amorevolmente sul fatto che fossero i più vecchi del trio, quando in realtà lei e il fidanzato si passavano soltanto quattro anni. «Mi sei mancato, tanto.», la ragazza scese con i piedi per terra, ricomponendosi. «Sai, non vedo l’ora di arrivare lì, ci scateneremo di brutto.», squadrò poi entrambi dalla testa ai piedi. «Vedo che vi siete vestiti anche a tema. Ah, giusto…», iniziò quindi a frugare nel proprio zaino, dentro al quale vi era un po’ di tutto. Tirò fuori tre sciarpe calde nere. «…per proteggervi dal freddo.», le consegnò a entrambi indossando la sua. «Se al concerto vi vedo senza vi ammazzo con le mie stesse mani, sia chiaro.» I due non ebbero nemmeno il tempo di replicare che un’auto accostò a fianco a loro. «Okay, ci vediamo lì, fate i bravi.», diede un bacio a stampo a Thomas e uno sulla fronte a Moira lasciandoli di stucco e salendo sulla vettura alla velocità della luce.
 
«Tu ci hai capito qualcosa?», commentò il fidanzato di lei, guardandola andare via e allontanarsi sempre di più. Moira ridendo rientrò nella propria auto, sfottendolo un po’ e dicendogli che non si sarebbe tolto la sciarpa per nessun motivo. «Ti conviene non toglierla davvero, le ha fatte a mano e questi sono dei regali sotto mentite spoglie. Ci ha fregati e non è la prima volta che lo fa, credo proprio ci abbia preso gusto, sai?»
 
Moira allacciò la cintura e continuando a ridere commentò. «È la tua ragazza dopo tutto, uno intelligente su due doveva capitare, no? E quello non sei tu, mi spiace. Forse se ti mettessi in coppia con il cane di Rebecca, allora sì che saresti il più intelligente dei due.»
 
Thomas, tenendo il gioco all’amico, replicò con altrettanta ironia. «Dubito fortemente. Non dico che il cane sia intelligente, anzi, il nostro è di una stupidità immonda, ma io non sono da meno. Credo di essere talmente tanto idiota che potrei essere scambiato come tuo allievo, altrettanto maestro di stupidità. Comunque, scherzi a parte, ancora non capisco perché Rebecca non ha dormito a casa, in pratica possiamo dire che casa mia è ormai anche casa sua.» Il ragazzo non sapeva come rispondere, anche perché non conosceva bene nemmeno lui il motivo per il quale Rebecca avesse preferito dormire dalla madre quella notte. Ripresero poi a parlare di altro, non pensandoci più e quando furono lì aspettarono fino alle diciotto l’apertura dei cancelli, erano i primi in coda e proprio per questo riuscirono ad accaparrarsi la prima fila.
 
A fine concerto, erano le undici di notte circa, il gruppo che s’era organizzato si reincontrò. C’erano Moira, Thomas, Rebecca e Cristina, l’amica che aveva accompagnato Rebecca e che sporadicamente usciva con loro.
 
«Beh? Che cosa si fa, ora?»
 
«Mia madre diceva sempre una cosa…», iniziò Moira, per poi non dire niente e lasciare tuttз sulle spine, tuttз tranne Thomas che aveva capito alla perfezione la battuta. Anche Rebecca colse la cosa e si unì con il fidanzato nella grassa risata. Era rimasta soltanto Cristina, che non conosceva abbastanza il ragazzo per poter capire a cosa si riferisse. Ci volle l’intervento di Thomas che dovette spiegarle che Moira non ce l’aveva una madre. «Comunque…», riprese seriamente quest’ultimo, «…io sono molto stanco, ma se volete possiamo andare a bere qualcosa da Thomas, tanto io sto dormo da lui, oppure venite a casa mia, se a Tomi non va bene.»
 
Non tardò ad arrivare la replica dell’amico. «Potete venire a casa mia, tanto in camera mia ci stiamo io, Moira e Rebecca, al massimo Cristina dormi nella stanza degli ospiti. Non c’è problema.», lз quattro si organizzarono e dopo essersi scambiatз l’ultimo saluto entrarono tuttз nelle corrispettive auto. «Mi sono divertito, sai, per me è come se questo compleanno durasse una vita intera, vorrei non finisse mai. Sai, secondo me, nulla potrà andare storto, e se lo farà, sarà colpa mia.», lo disse ridendo, mentre Moira cercava le chiavi nella propria giacca. «Non le trovi, perché le hai date a me, ricordi?»
 
Lui, che era molto scaramantico, guardò bene Thomas. «Vuoi guidare tu?»
 
Thomas gli sorrise. «Moira, è molto gentile da parte tua, ma ti ricordo che mi hanno ritirato la patente qualche giorno fa.», il tutto seguito dalle risate dello stesso Moira che aveva fatto quella battuta apposta per poterlo prendere in giro. Afferrò le chiavi e continuando a ridere mise a moto l’auto, iniziò a guidare verso casa, erano ben lontani ed erano costretti a imboccare la strada extraurbana principale già da subito, Moira strinse il volante, era tutto completamente buio e nonostante gli abbaglianti accesi, non si poteva vedere un bel niente. Non vi era nessunǝ sulla strada a parte loro e questo lo rendeva leggermente più tranquillo, ma, quando tornò sulle strade di campagna, ogni volta che passava ad un incrocio, anche se non passava un’anima viva, lui comunque si fermava anche più di qualche secondo come è uso fare. Il momento fatidico arrivò quando, al quarto incrocio si fermò anche più del solito, quasi come avesse un brutto presentimento. «Dai, non arriveremo mai così a casa.», Moira lo zittì con un semplice gesto della mano e dopo almeno cinque o dieci secondi passò un’auto nel silenzio del buio che li circondava.
 
«Visto? Ora possiamo andare.», disse per poi rimettere la prima marcia e dare gas all’auto che partì e che con attenzione iniziò ad attraversare l’incrocio, la prima metà della strada andò liscia come l’olio, quando però arrivarono alla seconda metà, una silente macchina corse a tutta velocità verso di loro, con i fari spenti e con un finestrino rotto. Loro non se ne accorsero fino a quando quest’ultima non si scontrò contro di loro, venendo da destra nel buio e spedendo lontano i due ragazzi, fino a poco prima ignari di star per morire.
 
Gli airbag si attivarono e aiutarono Moira nel prendere una botta ancor maggiore, forte abbastanza da farlo svenire per almeno mezz’ora o più.
 
Quando fu desto si ritrovò su una barella dell’ambulanza, che era ferma in quel punto della strada e che stava soccorrendo i due, cercando di tirare fuori anche il corpo dell’altro ragazzo. Moira non appena vide l’auto completamente distrutta sul suo lato destro, si lanciò per terra dolorante e iniziando a zoppicare cercò di andare verso di essa. Urlando a squarciagola e continuando a fissare il corpo spento dell’amico. «THOMAS! THOMAS!», non riusciva a camminare dritto, le gambe erano come costellate di chiodi appuntiti che gli entravano nella carne, lui però, con gli occhi colmi di lacrime e la gola che gli bruciava. «THOMAS RISPONDIMI!», continuava a urlare mentre si avvicinava sempre di più all’auto. Due uomini lo allontanarono da quest’ultima, trascinandolo verso l’ambulanza, lui però si liberò e zoppicando ancor più di prima iniziò a correre verso l’auto. «Ti prego…ti prego…», arrivò davanti all’auto.
 
Di fronte a lui aveva il corpo dell’amico esanime.
 
Cadde sulle proprie ginocchia doloranti, piangendo e urlando.
 
Subito dopo gli stessi uomini che poco prima lo stavano trascinando via, lo accompagnarono all’ambulanza, per tutto il tempo il ragazzo aveva uno sguardo fisso nel vuoto e anche mentre il dottore gli chiedeva delle informazioni sull’amico, lui rispondeva con tono freddo. I suoi occhi erano perennemente bagnati e non bastava il colore ghiacciante delle sue iridi per fermare i fiumi di sofferenza che si stavano creando. «Tho…Si chiama…Thoma…s. Ventotto anni. Posso chiamare la sua fidanzata? Ha il diritto di venire in ospedale con noi.», il medico che era nell’ambulanza con lui e che continuava a fargli domande gli disse che poteva prendersi lui la briga di farlo. «No, è stata colpa mia, è il minimo.», quando afferrò il cellulare però i suoi occhi tornarono ad essere grandi laghi freddi. «Rebecca…è successo il peggio, vieni all’ospedale in città, per favore, ti spiegherò meglio quando sarai lì.», la chiamata venne interrotta qualche secondo dopo. Moira ebbe come un mancamento improvviso, si accasciò sul lettino a occhi chiusi, addormentandosi per tutto il tragitto. Vennero fatte delle analisi su di lui mentre dormiva e quando si risvegliò erano già passate quattro ore, nella stanza con lui c’erano Rebecca e Cristina, entrambe con gli occhi pieni di lacrime. Subito quest’ultime accorsero da lui. Lui le guardò sorridendo, scrutò tra di loro, convinto ci fosse anche Thomas, ma non c’era. Il tempo si fermò, riuscì a vedersi dall’esterno, quasi come se la sua anima fosse stata tirata fuori dal suo corpo. Thomas non era più lì, fu quello il momento in cui Moira realizzò la dura realtà. Lo aveva perso, questa volta per sempre e nessunǝ gliel’avrebbe ridato più indietro.
 
Tornò alla realtà. «Rebecca…scusami, è tutta colpa mia. Guidavo io, ero stanco e non mi sono accorto di quello che sarebbe potuto succedere. Io ho provato a essere prudente, ho provato, ma non è bastato, non basta mai…», le mani gli tremavano come poche cose al mondo, sembrava come una scossa.
 
Lei gli afferrò quelle tanto tremolanti mani e guardandolo negli occhi, cercò di rassicurarlo. «Non è stata colpa vostra, i dottori sono riusciti a capire la situazione e l’altro guidatore era ubriaco, perciò è stato facile comprendere.»
 
«Ora, in questo momento, l’importante è che almeno tu stai bene, Cristina ora mi accompagnerà a casa, i dottori dicono che devi riposare e che hanno fatto un’eccezione per me. Sai, è tardi per l’orario delle visite, ma ci volevano fare un favore, perciò eccoci qui, no?», Rebecca non sembrava per nulla preoccupata, anzi, lei era sorridente e tranquillissima, era il suo viso che dimostrava tutto il contrario. Il trucco era, infatti, completamente sciolto. Lo sguardo suo poi si fece cupo e freddo, quando Cristina fu fuori dalla stanza. «L’hai visto?»
 
«Sì…», rispose Moira con tono affranto e quasi sottovoce. «…l’ho visto andare via con tutti i piedi scalzi. Ed ero pronto ad accompagnarlo, se non fosse che sono stato miracolato.», il ragazzo afferrò quindi la mano dell’amica, che si sforzò per regalargli un sorriso, si avvicinò e gli baciò la fronte.
 
«Per me è come se avessi rischiato non solo di perdere il mio ragazzo, ma anche di perdere mio fratello. Sono contenta almeno tu stia bene. Buonanotte Moira, ricorda che ti vorrò sempre bene, sempre. E incondizionatamente sarò sempre al tuo fianco, anche se dirò di odiarti, sarò sempre lì. Grazie.»
 
Rebecca uscì poi dalla stanza chiudendosi la porta bianca e vecchia alle spalle. Moira era l’unico lì dentro, vi erano soltanto due lettini vuoti e al suo fianco, su un comodino azzurro pastello vi erano delle medicine, antidolorifici avevano detto i dottori. Lui le prese così, di botto, con un solo bicchiere d’acqua e dopo aver alzato leggermente la schiena, sentì una tremenda scossa di dolore attraversargli l’intero corpo. «Toccherà anche a me, Tho…Thoma. Lo sai.», parlava da solo, ma mai si sarebbe aspettato di ricevere una risposta. Sulla sua gamba apparì, infatti, come un piccolo spiritello dalle stesse fattezze dell’amico da poco scomparso, i suoi soliti occhiali da sole blu, i suoi vestiti larghi e il suo giaccone bianco nuvola.
 
Quest’ultimo guardò Moira per bene prima di rispondergli con la stessa voce dell’amico. «Non dire stupidate. Cioè, oddio, hai pur ragione, ma non pensarci già da ora.», Moira sentì come delle vertigini e subito dopo ancora quella voce che non capiva da dove venisse. «Dai, Moi’, non vorrai dirmi che hai paura dei fantasmi del passato. Ne hai già avuto a che fare, no?» Spostò poi lo sguardo verso la propria gamba, dove per l’appunto vi era Thoma.
 
 
Da quel giorno non sarebbe stato mai più solo.
 
Proprio per questo il giorno in cui Rebecca e Moira s’incontrarono al cimitero, lui era come già più abituato alla sua assenza reale.
 
 
«Fantasmi…», ripeté tra sé e sé il ragazzo. «…fanno più paura i vivi.»
 
   
 
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