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Autore: _Alcor    25/11/2023    6 recensioni
Quando Ashley riceve la possibilità di tornare indietro nel tempo per impedire la morte della sua migliore amica, la afferra senza esitazione. Ma deve riuscirci nei minori tentativi possibili, perché ogni reset le strapperà una parte della sua umanità.
Eppure, si dice, diventare un demone pur di salvare quella ragazza non sembra così male.
{ho un debito creativo enorme verso il kagepro | e per la cover di fight song di Izuru | angst&loop temporali}
Genere: Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Warden of humanity'
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XVIII.
[Ronye Brionac]



Ripristinata la timeline 5574 con successo

Lazerin | Registrata singolarità mnemonica | EINHERI Ashley Sterling (impossibile calcolare gli errori) | Si consiglia di interrompere le operazioni di manutenzione di “LAZERIN”, per disfarsi dell’entità che lo rallenta.



«Wasurete shimatta koto dake o oboete iru.»

Dischiudo gli occhi, la luce del telefono rischiara il comodino e il poster con gli MC giocabili di Soul Slayers attaccato al muro. Le note malinconiche del pianoforte mi cullano, stringo le labbra e mando giù uno sbaglio.

«Pokari to aita ana no saki de kimi to deatta.»

Raccolgo le gambe al petto, le ossa scricchiolano una lamentela acuta. Serro le palpebre e arriccio il naso; andiamo, non posso ammalarmi in questa stagione! Sarebbe più sensato essere stata stirata da bulldozer mentre dormivo, in questi giorni non ho fatto sforzi da giustificare acciacchi simili.

Vabbe’, tanto non ho più un capo che possa lamentarsi se non mi presento un’ora prima sul luogo di lavoro.

«Namae mo kao mo wakaranai kimi.»

Lo stomaco brucia, ci premo le mani contro ma la sensazione sgradevole non si cheta. Tossisco, il fastidio risale e stringe la gola in un fitta straziante. Catarro viscoso si attacca alle tonsille, mi sporgo fuori dal letto e tiro due colpi contro il petto.

«Nandaka natsukashii youna ki ga shita.»

Sputo una sostanza verde luminescente che si stampa sulle piastrelle, sfrigola e getta un filo di bruciato. Che cazzo. Arpiono il cellulare e cerco il tasto per spegnere la sveglia.

«Tagai ni ana umete ik–»

La voce ruvida della cantante sparisce, clicco l’interruttore accanto al letto. La lampadina sfarfalla un paio di volte e si accende; una manciata di crosticine verdi, ruvide e irregolari, mi tappezzano le dita. Ci passo un dito sopra, non si staccano. Le gratto, bruciano ma rimangono lì.

Il dolore di stomaco è nuovo, ma a quelle ci sono abituata. L’odore di pietra calda mi pizzica il naso, come ho fatto a pensare che anche solo una di queste cose fosse normale!?

Mi butto giù dal letto e spalanco la porta di camera. «Mamma!»

«Son con nonna!» L’urlo arriva dal piano inferiore. «Vieni a darci una mano con i pan ranocchio.»

Ovviamente un’altra di quelle ricette strane da social, sia benedetto il giorno in cui le ho spiegato come accedere a Leaf.

Lo stomaco ribolle, soffio una protesta a bassa voce e stringo la maniglia della porta. Se ho altra di quella roba dentro, mi ritroverò a groviera in poco tempo eppure non mi preoccupa. C’è qualcos’altro che sto dimenticando, qualcosa di parecchio più importante che riguarda… quadri? Il mare?

Scendo gli scalini a due e due aggrappata corrimano, un ragazzo dai capelli castani arruffati sta uscendo seguito da papà in divisa. Inchioda sul posto. «Ronye?»

L’altro mi rivolge uno sguardo, ha gli occhi segnati da pesanti occhiaie e un accenno di barba. Un ricciolino gli ricade sulla fronte. Mi è familiare, dove l’ho già visto?

Salto gli ultimi tre scalini e li raggiungo, mostro le mani. «Hai idea di cosa siano?»

Papà sussulta come se l’avessi schiaffeggiato. «Non per essere bastardo ma mangia qualcosa e lava i dent–» La voce gli si spegne.

Mi puzza l’alito? Metto una mano davanti alla bocca e soffio, l’odore di acidi mi schiaffeggia il naso, è ributtante. Tappo la bocca, che vergogna.

Passano minuti di silenzio imbarazzanti, mamma si sporge dalla porta della cucina con il naso e i riccioli sporchi di farina. Papà mi prende il polso e passa i polpastrelli sulle crosticine verdi, riconosco la sensazione della sua pelle ruvida. Questa roba è sensibile, non è semplicemente attaccata. Tamburello il piede a terra e mi concentro sul tavolo della cucina, nonna scarica tre cucchiaiate di crema grandi quanto palline da gelato sulla base del pan ranocchio. Accanto alla ciotola verde ha già modellato le zampette e gli occhietti da attaccare alla sua opera d’arte.

Mamma si avvicina. «Non ho mai visto una cosa simile.»

La rana? Ah no, la mia mano, vero! Serro le labbra per non alitarle addosso, lo stomaco mi brucia.

Papà mi lascia. «Hai idea di come te le sei fatta?»

Scuoto la testa. «Non le avevo ieri sera, credo.» Una fitta mi stringe le tempie, incasso le spalle. C’è un uragano che si alza dal mare, raccoglie alghe e sabbia ma trovo una figura immobile al centro di quel casino.

Ci mancano solo le visioni strane… scalpito, devo uscire e parlare con– con chi?

Papà e mamma si scambiano uno sguardo, lei serra le labbra in una linea sottile che accentua tutte le rughe del viso. «Andiamo… in pronto soccorso?» In una situazione normale il tono insicuro mi avrebbe strappato una risata.

Papà annuisce. «Per sicurezz–»

Lo sciabordio delle onde gli copre la voce, l’acqua scroscia giù da un precipizio ma nessuno reagisce ai suoni.

Mamma sfrega le mani sul grembiule. «Ti porto, dammi un attimo.»

No, non posso perdere tempo lì, scuoto la mano. «Vado da sola, pelle a parte mi sento bene.» Papà alza un sopracciglio e mamma mi fissa, non sono per niente convinti. Indico la cucina. «Dai, tu hai il turno e c’è nonna e…»

Non possiamo lasciarla sola perché è cagionevole di salute sarebbe la scusa perfetta, ma se mi azzardo a dirlo ad alta voce mi arriverebbe un matterello sulle ginocchia.

Nonna sbatte le mani sul tavolo e si alza. «Liam!»

Papà scatta sull’attenti. «La porto io!»

Ecco, quella donna fa paura.





Papà scala fino alla seconda e svolta a destra del campo sportivo, la macchina rallenta e imbocca l’entrata della settantatreesima. La strada è costeggiata da una fila di condominii e parcheggi dalle strisce blu. Il profilo dell’ospedale, circondato da sempreverdi, svetta sulla maggior parte degli edifici.

Ricciolino è seduto accanto a papà e mi fissa truce dallo specchietto retrovisore; con la faccia da morto che ha, farebbe paura anche se sorridesse. Le spalle gli si alzano, si incassano dopo qualche secondo incurvate dal peso del mondo.

Dopo aver perso la sorella, mi aspetto che Rivas si comporti diversamente?

Trattengo il fiato e poggio il gomito contro lo sportello per sostenermi il viso, non riesco a venire a capo dei miei pensieri oggi. Qualcosa là fuori mi chiama, sulla schiena mi cola l’ansia di star dimenticando qualcosa di essenziale.

Papà svolta nel parcheggio colossale dell’ospedale, cerca un posto libero tra le file gremite.

Slaccio la cintura e mi sporgo tra i due sedili. «Non c’è bisogno che mi accompagni dentro.»

Mi lancia un’occhiata di sfuggita, si ferma per lasciar passare un paio di nonni con i nipoti al seguito. «Sicura?»

«La tua presenza non cambierebbe molto, magari finiamo per scoprire che è una cosa normalissima… tipo, preoccuparsi per ora è scemo, no?» Lo stomaco mi ribolle, un grumo di catarro acido minaccia di risalire.

Si accosta accanto a un paio di parcheggi occupati. «Non voglio lasciarti sola solo perché ho il turno.»

Gli do un buffetto sul viso. «Sto bene, davvero.»

Rivas, cioè Ricciolo, si schiarisce la gola. «Anche un amico di mia sorella li ha avuti.»

Le spalle di papà si rilassano. «Davvero, Riv?»

Il sorriso triste di una ragazzina castana si riflette sul parabrezza, si lancia in un baratro di ghiaccio aguzzo. Mi stropiccio gli occhi; crosticine verdi sulle mani, roba acida nello stomaco e allucinazioni visive. È una malattia dannatamente specifica da avere.

Rivas gira il busto, gli occhi arrossati mi squadrano le dita. «Sei stata in qualche posto insolito? Magari ci aiuterà a capire le origini di quelle scaglie.»

Le copro. «Non proprio, ho alternato casa lavoro negli ultimi mesi.»

«In che zona lavori?»

Mi trattengo di correggerlo con lavoravo, non ha bisogno della storia di come sono stata licenziata. «Sedicesima, presente la sede principale di quella azienda di robotica?» Mi sfugge sempre il nome. «Facevo siti web in un edificio lì vicino.»

Rivas mormora, perplesso. Cerca lo sguardo di Papà che scuote la mano. «Ti faccio vedere la zona dopo.» Si appoggia al volante e tira le labbra in uno dei suoi rari sorrisi aguzzi. «Ti dirò, ce l’ho con quelli là. Tra mobbing dilagante etc, vorrei avere la scusa per drizzargli la schiena.»

Ricciolo annuisce, come se potesse capire da un discorso così fuori contesto! «Ma come avete risolto?»

Non voglio neanche ascoltarli; il mare, la galleria o qualsiasi cosa sia mi sta chiamando. Spalanco lo sportello e scendo.

Papà continua, imperterrito. «L’unica che ha avuto il coraggio di difendere quella ragazza è stata Ronye e l’han subito–» È ancora furioso, la prima volta che avrà un pretesto gliela farà pagare.

«Vi chiamo appena so qualcosa. A dopo!» Sbatto la portiera.

Il finestrino dal lato di papà si abbassa. «Tieni il telefono acceso!»

Lo saluto con il braccio e attraverso il parcheggio dell’ospedale di corsa, rallento davanti alla bacheca dei manifesti accanto alle scale per accedere al giardino esterno. Il tripudio di viola e gialli è una locandina per l’anniversario della fioritura degli aster, al Granaio hanno organizzato una mostra specifica che partirà dal–

Una morsa di tristezza mi stringe il cuore, un paio di lacrime mi scivolano giù dalle guance. Le scaccio con il palmo della mano.

Ashley?

La incontrerò questa sera dopo mesi che non le davo udienza per uscire, mi è mancata parecchio se ho questa reazione assurda. Mi stropiccio gli occhi, ci sono un paio di manifesti con il viso di due ragazzini. Wyatt Jay e Marilee Rivas, la polizia promette un premio in denaro per chiunque abbia informazioni che porti al loro ritrovamento.

Riconosco gli occhi gentili della ragazza, sono gli stessi di Ricciolo, gli stessi dello spettro che ho visto sul parabrezza. Una fitta mi stringe la tempia e mi manca la forza nelle gambe, un lampo nero attraversa il cielo e lo squarcia come se fosse carta.

Mi scappa una risata nervosa, le allucinazioni stanno diventando troppe. Fortuna che il pronto soccorso è a un passo di qui.

Grida di panico riecheggiano in strada, un signore anziano alza gli occhi e incespica sulle scale per il giardino, afferra il corrimano in tempo per non sfacciarsi. Due ragazzi corrono alla macchina, gli zaini rimbalzano contro le loro schiene.

In cielo nebbie rosate vorticano intorno a un edificio altissimo che pende sulla città, minaccia di cadere da un momento all’altro e distruggere tutto.

Deglutisco, lo squarcio si ricuce e rimane solo il cielo azzurro. Una dopo l’altra, decine di motori si accendono, non ho idea di dove i conducenti pensano di nascondersi quando è il cielo stesso che è stato spaccato.

Ashley ha combinato un casino. Ashley? Di nuovo quella tristezza soffocante mi artiglia il cuore, perché Ashley dovrebbe… Afferro il telefono e digito il suo numero, la chiamata va giù l’istante dopo.

Il numero da lei chiamato è attualmente spento o non raggiungibile.

Il cellulare vibra, una notifica da Ashley accende lo schermo. “Scusa, non mi va molto di parlare.”

Digito in fretta. “Perché?”

Sarà raggomitolata da qualche parte a deprimersi, occhi viola e pelle punteggiata di rosso per tutte le piume che si è strappata di dosso… Ho dimenticato qualcosa di grosso e tutti questi flash scollegati sono il mio cervello che mi sta prendendo a calci per la frustrazione.

Il cellulare vibra. “Robe.” Arriva un’altra notifica. “Mi dispiace, sono irritante lo so.”

Solita vittimista del cavolo. Ogni volta fa tutto da sola poi si comporta così quando non ce l’ha fa più, neanche considera di chiedermi aiuto anche se sono qui per questo!

Serro le labbra, la lingua mi si addormenta e la pelle brucia. Vesciche e bolle mi tappezzano la pelle, scoppiano e si anneriscono. Mi passo una mano sugli occhi e mi appoggio alla bacheca con la schiena, questi dannati ricordi scollegati sono irritanti.

Mi tocco la lingua, percepisco la pressione e il sapore lievemente salino della pelle. Confermo, sono stata uccisa e questi sono solo dolori fantasma dell’evento.

Una notifica fa trillare il cellulare, sempre Ashley. “Allora ciao.”

“Palo, mi ricordo cosa è successo.”

Ashley sta scrivendo…

Smette.

Ashley sta scrivendo…

Una vibrazione. “Mi dispiace.”

Cretina. Clicco la casella di risposta. “Pensi di cavartela così? Dimmelo in faccia almeno!”

“Sto risolvendo il problema che ho creato.”

Le scrivo: “dimmi dove sei.”

Attendo, le notifiche fioccano da ogni sacrosanto gruppo in cui sono stata ficcata. Arrivano immagini, scatti della torre immersa nella nebbia rosata. Nulla da Ashley. Il bruciore mi risale la gola, tossisco contro il palmo e un grumo acido finisce sulla mano. Il dolore è istantaneo, lacerante come la sensazione di essere presa in pieno da un fulmine.

Pulisco il grumo contro il fianco dei pantaloni, l’odore di pelle e tessuto bruciato mi pizzica il naso.

Ancora niente da Ashley.

“Palo, è una questione di tempo prima che mi ricordi dove cercarti.”

Ash!

Rispondi.” Ti prego.

Apro il menù degli stickers, ne clicco uno a caso ancora, ancora e ancora…

Il display viene sommerso dal nero, papà ti sta chiamando capeggia al centro insieme a una sua foto. Mi tiro indietro la frangia e premo il tasto verde ancora prima che parta la suoneria.

La sua voce è asciutta. «Stai bene?»

Un buco nel fianco dei pantaloni, una vescica da bruciatura enorme nella mano e un’amica che sta per ammazzarsi per quello che ne so. Mando giù la tristezza. «Immagino tu abbia visto il casino in cielo.»

«Ho sentito le urla,» obietta. «Ti sto tornando a prendere.»

«Per fare che? Sarà stata un’aurora boreale strana.»

Papà borbotta. «Strana? Ronye, non scherzare.»

Sì, non ci crederei nemmeno io. Il cellulare trema, un altro messaggio. «Non è che possiamo farci qualcosa pa’, anche se torno a casa. Mi conviene entrare in ospedale e pensare al primo problema.»

Dal mare sta arrivando una macchia di nuvole scure che mi è fin troppo familiare, Ashley sta per scatenarsi di nuovo. Perché Yelena non mi ha aiutato a ricordare le vecchie timeline, questa volta?

«Sia io che tua madre saremmo più contenti a saperti a casa.»

Li capisco, in caso di apocalisse le comunicazioni potrebbero sparire da un momento all’altro e i miei preferirebbero di gran lunga essere insieme negli ultimi momenti del pianeta. Ma non si parla di apocalisse.

«Pa’...» Mi lecco il labbro. Ashley è davvero viva? Chiunque potrebbe scrivermi dal suo telefono e fingersi lei, soprattutto una dea immortale. «Torno a casa a piedi, al lavoro avranno bisogno di te e camminare un po’ non mi ucciderà.»

Papà emette un suono di gola. «Non fare deviazioni.»

«Certo, mezz’ora e sarò a casa.»

«Chiama quando arrivi.»

Metto giù. Il mondo sta andando a rotoli, quindi c’è qualcosa che lo sta mandando a rotoli. Yelena, per quanto sospetta, cura con la sua sola presenza i danni delle anomalie quindi… Quindi posso sperare che Ash sia ancora viva, devo solo raggiungerla il più velocemente possibile.

Le notifiche dall’app di messaggistica e dal browser si sono moltiplicate, scorro il menù a tendina. Tra nomi di gruppi e parenti, trovo quello di Ashley. Lo clicco.

“Aiutami.”

Mi gela il sangue nelle vene, giro i tacchi. Il museo civico è lontanissimo ma, se non ci sarà lei, ci sarà il suo collega. Posso chiedergli la macchina e poi prego, spero, che il mio istinto mi dica il prossimo edificio da raggiungere.

Le scrivo un messaggio di fretta.

“Sto arrivando.”





[.note a margine]

Questa settimana mi sono presa più tempo del solito per scrivere la bozza dei prossimi capitoli (mi manca solo da finire di abbozzare l’epilogo, yo!) e mi sono dimenticata di mettermi a correggere quella dell’effettivo capitolo da postare, lmao.

La storia si è allungata di un capitolo extra perché Yelena ha fatto la donna difficile; per colpa sua la bozza di questo capitolo aveva raggiunto le 3500 parole. Per dare contesto, le mie bozze dopo essere state corrette tendono a guadagnare almeno ¼ di parole extra.

Alcor e la disorganizzazione, let’s goooo.

  
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