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Autore: Afaneia    29/11/2023    1 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Un anno e mezzo per partorire questo capitolo?

Sì, è così, e probabilmente non ho altre scuse se non questa: che psicologicamente non sono davvero pronta a lasciar andare questa storia, che è stata probabilmente l’unica cosa rimasta costante negli ultimi sei o sette anni della mia vita. Questo è il penultimo capitolo, e il solo pensiero di lasciar andare questi personaggi mi spezza il cuore, anche se prima o poi accadrà – sia pure con i miei tempi biblici e la mia calma che definirei quasi secolare.

Riassunto dei capitoli precedenti: nel capitolo XII, Rotwang parte col resto dei membri del Laboratorio per la Guyana, in una spedizione programmata dalla Silph per cercare altri esemplari di Mew; Emir rimane solo con M2 nella Villa. Nel disperato tentativo di alleviare la propria depressione e la mancanza di Rotwang, cerca ovunque nel sotterraneo le riserve di laudano del precedente proprietario della Villa e si accorge che Mew, che lo aiuta a trovarle, possiede poteri telepatici. Per mettere a frutto i suoi poteri, utilizza il prototipo di incubatrice che aveva creato all’Università per clonarla. Nel capitolo XIII, al ritorno di Rotwang dalla Guyana, Emir confessa che cosa ha fatto. Rotwang decide di non denunciarlo perché questo comporterebbe farsi portare via Mew dalla polizia, ma gli chiede di rimanere nel sotterraneo per tenerlo il più lontano possibile da Mew, che la gravidanza anomala indebolisce ogni giorno di più. Mew muore dando alla luce il cucciolo, anch’esso morto; Rotwang, che non è riuscito a salvarli, lascia la Villa annunciando che andrà a costituirsi. Dopo la sua partenza, il cucciolo apre improvvisamente gli occhi.

Prima di lasciarvi al capitolo, che spero sia degno, almeno in parte, di cotanta attesa, non posso che ringraziare Wings44 e a cristal_93 per le loro recensioni, e tutti coloro che hanno anche solo provato a seguirmi fin qui lungo la china della mia pigrizia.

Buona lettura!

 

Capitolo XIV – Perfetto

 

«Finalmente siamo rimasti soli.»

Aveva nelle orecchie un fischio acuto e terribile, come provenisse da un altoparlante che fischiava e ululava, ma che non passava attraverso i suoi timpani, perché la pressione delle sue mani non riusciva ad attutirlo; la testa gli esplodeva. Gli pareva di non vederci più, ma se si costringeva ad aprir gli occhi attraverso il dolore, ancora riusciva a intravedere la sagoma oscura del cucciolo che l’osservava.

«Basta» singultò, o quantomeno percepì la propria bocca che si apriva e si muoveva e gli giunse all’orecchio una parola ovattata che esprimeva la supplica confusa e totalizzante che giganteggiava nella sua mente: mi stai uccidendo, abbi pietà.

Il fischio che echeggiava nel suo cervello s’interruppe d’improvviso com’era iniziato. Emir riebbe d’improvviso coscienza del proprio corpo, del tutto privo di dolore, e padronanza sulla propria mente. Inalò grandi boccate d’aria rotolando sul pavimento. Non aveva provato mai più paura che in quell’istante.

«Perdonami.» La voce echeggiò di nuovo nella sua mente, roboante ma più contenuta, ed Emir sobbalzò, ma più di spavento che di dolore. Rimase al suolo senza il coraggio di alzarsi per timore che quel dolore ricominciasse.

«Sei vivo» mormorò. Era l’unico pensiero cosciente che la sua mente fosse in quel momento in grado di formulare, al di là del dolore e della paura. Non era possibile – Rotwang aveva detto che era morto. Rotwang non aveva mai sbagliato. «Sei vivo.»

Ci fu un silenzio molto lungo nella sua mente, ma un silenzio di una qualità strana: era come il fermo immagine di una videocassetta fissata in un punto nero del nastro. C’era silenzio, ma non perché il cucciolo non stava comunicando, bensì perché quello che gli stava comunicando era silenzio. Il cucciolo taceva nella sua mente, Emir percepiva la sua intensa concentrazione nelle pieghe del proprio pensiero.

«Perdonami. Non sapevo che ti avrebbe fatto male.» Era ora meno di un mormorio, come il ricordo di una voce.

«Tu eri morto.» Ora che la sua mente s’era liberata della potenza di quella voce ed era tornata sua, libera e autonoma o quantomeno momentaneamente scevra dall’influenza del cucciolo, a poco a poco i suoi pensieri tornavano a ordinarsi secondo una linea ch’egli riusciva a percorrere. «Non respiravi. Io ti ho visto morto.»

«Se avesse pensato che ero vivo, lui mi avrebbe portato via.» I pensieri alieni attraversavano la sua mente come lampi, avevano intensità diverse e baluginanti, apparivano ora intensi e ora flebili, confusi, a malapena percettibili. Il cucciolo stava cercando la propria voce all’interno dei suoi pensieri.

Emir si mosse lentamente per alzarsi; gli sembrava che gli dolesse tutto il corpo, che quando si sarebbe alzato i suoi muscoli avrebbero urlato di dolore e le sue gambe non l’avrebbero retto; ma non accadde nulla del genere. Le sue orecchie, che gli erano parse esplodere, non sanguinavano affatto come credeva. Le sue membra gli rispondevano ancora, tutto ancora gli apparteneva, il suo corpo era ancora suo, eppure egli lo percepiva diversamente.

Levò lo sguardo dal pavimento sul letto, là dove ora i suoi occhi mettevano a fuoco, non più attraverso una nebbia, la figura livida e sporca del cucciolo e i suoi occhi enormi spalancati nel buio. Era più bello di come l’aveva vagheggiato nei sogni dell’oppio e del laudano; celava in sé la bellezza di sua madre, il taglio dolce degli occhi di Mew affiorava nella durezza dei suoi. Ora che lo vedeva, Emir riconosceva in lui l’intervento della sua mano sull’embrione che aveva toccato, ma il suo volto vivo era più della somma delle parti, più dell’azione dei filamenti di DNA che nella sua creazione erano intervenuti.

Senza riflettere, senza nemmeno accorgersi di star parlando, Emir mormorò: «Come sapevi che ti avrebbe portato via?»

Il cucciolo rispose: «L’ho visto nei suoi pensieri.»

Emir sentì la sua voce scoppiare nella propria mente come un concerto di tuoni; si sforzò di stringere gli occhi e resistere al dolore.

«Perché non volevi che ti portasse via?»

«Perché mi hai creato tu» disse la creatura con semplicità. «Lui mi avrebbe portato da persone che non mi avrebbero capito. Lui stesso mi amava, ma non mi capiva e provava orrore.»

In un impeto di curiosità, nell’atmosfera sospesa e surreale della stanza piena di umori e sangue, Emir chiese: «Tu conosci il suo nome?»

Vi fu silenzio ancora: il cucciolo pensava, Emir lo sentiva scavare nei suoi pensieri, raspando nei recessi della sua mente come un cane che scavava. Con la naturalezza di qualcosa che gli era congenito ma che ancora doveva imparare, il cucciolo cercava nella sua mente la risposta alle sue domande: Emir sentiva il suo pensiero che si aggirava nella sua mente come tra scaffali da cui attingere. Si sentiva paralizzato, eppure sapeva che se avesse esercitato un qualsiasi sforzo di volontà il suo corpo avrebbe reagito.

«Richard» disse cautamente con una certa incertezza. «No, Rotwang. Aspetta… Rotwang è il cognome. Ma che cos’è un cognome? Ah… ecco.»

Sta imparando dalla mia mente realizzò Emir, e al suo pensiero il cucciolo rispose: «Sì.»

Erano le estreme conseguenze del suo genio, il suo sogno era riuscito. Emir aveva visto l’intelligenza di Mew e aveva disprezzato la sua ingenuità, e ora nel figlio l’ingenuità non c’era più ed era rimasta l’intelligenza. Gli salì dal petto un singhiozzo perché non poteva credere che tutto ciò fosse vero: il figlio che aveva creato perché fosse come la madre ma migliore di lei era nato per compiere il suo disegno e l’aveva realizzato, era un mostro che il mondo non aveva mai visto perché esisteva da quel momento, era perfetto e non più perfettibile. Mew era morta ma non invano, perché dal suo sangue era nato il compimento della sua specie.

Il cucciolo strizzava gli occhi nello sforzo di vagare al di fuori della propria mente e all’interno della sua. Aveva l’aria di frugare in cerca di qualcosa che non si trovava.

«Qual è il mio nome?»

Tu non hai un nome, stava per rispondere Emir, come avrei potuto deciderlo senza ancora conoscere te?; ma le sue parole non trovarono voce. Il suo nome era già scritto prima che il cucciolo nascesse, prima che lui lasciasse Lavandonia, forse da prima della vita del mondo; Emir l’aveva inventato e l’aveva creato, il cucciolo era sgorgato dal suo genio, ma a un certo punto, risalendo all’indietro nella sequela di processi che aveva portato a quel momento, tutto si sovrapponeva; ed Emir non sapeva più se quella creatura lui l’aveva inventata oppure l’aveva soltanto scoperta, estraendola dalla massa ancora in potenza della vita, là dove essa era sempre stata in attesa, così come uno scultore l’avrebbe estratta intera dal marmo. Persino i loro contorni si confondevano, ed Emir non avrebbe saputo rispondere: il cucciolo gli apparteneva oppure era altro da lui?

«Tu sei il secondo» rispose. «Il tuo nome è Mewtwo.»

Mewtwo non chiese e non protestò, ma le sue palpebre si assottigliarono. In fondo ai suoi occhi baluginò un lampo azzurro.

«Sì…» disse lentamente, come saggiando quel nome nella propria mente. «Sì, è questo il mio nome.»

Emir era talmente annichilito, asservito al suo volere, che quasi gli sembrava di non riuscir più a pensare qualcosa che fosse al di fuori della sua mente del cucciolo: non sapeva più bene chi guidasse la sequela dei pensieri, a chi appartenesse la mente e a chi ciò che essa conteneva; ma d’un tratto balenò un pensiero angosciante che apparteneva a lui soltanto. Mewtwo reclinò il capo mentre percepiva il suo pensiero. Emir avrebbe voluto parlare d’istinto, dire ad alta voce il pensiero che lampeggiava attraverso la sua mente, ma il cucciolo parlò per primo. «Improvvisamente hai pensato a qualcosa che ti fa molta paura.»

Emir avrebbe dovuto pensare a quel pensiero ininterrottamente per tutto quel tempo perché era impellente e non poteva aspettare ma, ingoiato dalla mente e dagli occhi di Mewtwo, quell’urgenza era passata in secondo piano. «Bisogna andare... non possiamo restare qui, Rotwang tornerà con la polizia e…»

«Non lo farà» rispose Mewtwo con naturalezza.

«Ascoltami» insisté Emir, ma gli occhi di Mewtwo baluginarono d’azzurro di nuovo, ed Emir ammutolì.

«Ci sta pensando» disse Mewtwo.

«Che cosa?»

«Sta guardando un edificio» spiegò con calma Mewtwo. I suoi occhi vagavano lontani, la sua mente stava apprendendo le parole via via che parlava. «Ha degli oggetti pesanti in mano, gli segano le dita, ma non si decide ad appoggiarli a terra… è quella la polizia?»

Emir attendeva le sue parole, incredulo via via che uscivano dalla sua mente e finivano nella sua; non riusciva più a pensare.

«Vedi attraverso la sua mente?» balbettò.

«Non come nella tua.»

Emir insisté ancora. «Per la distanza?»

Gli occhi si assottigliarono di nuovo, quel baluginio azzurro lampeggiò ancora in fondo al suo sguardo.

«Non solamente» disse. «È lontano, ma vedo chiaramente attraverso i suoi occhi, solo… non in profondità. Dalla tua invece posso attingere quello che voglio, solo che…» S’interruppe un istante, i suoi occhi cercarono più oltre. «Solo che non tutto.»

«Vai avanti» lo incalzò Emir: era stato lui a indagare, ma ora quell’indugio lo faceva innervosire. «Che cosa sta facendo?»

«Vorrebbe entrare, ma non lo farà.»

«Come sai che non entrerà?»

«Perché lui lo sa» rispose Mewtwo. «Sa che dovrebbe farlo… ma sa anche che entrare gli farebbe male quanto non farlo. Dentro di sé sa già che non entrerà.»

Rotwang non l’avrebbe denunciato. Non importava che la sua unica certezza fosse la parola di Mewtwo: Emir sapeva che era vero perché conosceva i pensieri di Rotwang, anche se dall’esterno solamente; ma aveva imparato i suoi pensieri negli anni in cui li aveva subiti, previsti e anticipati, e ora che Mewtwo gliel’aveva descritto gli pareva di vederlo coi propri occhi come se lo stesse osservando dal lato opposto della strada.

Mewtwo lo scrutava dal letto coperto di sangue, il suo sguardo era penetrante tanto da passargli attraverso.

«Sento la sua sofferenza» disse. Saggiava le proprie parole a una a una via via che le pronunciava, le apprendeva via via che parlava, cercandole dalla mente di Emir a seconda della forma che assumevano i suoi pensieri, ancora troppo complessi per la sua mente neonata. «Ma non vedo da dove proviene. Lui lo sa, ma ne prova tanto sgomento che la sua mente non tollera di soffermarsi su quel pensiero.»

«Soffre perché mi amava e io l’ho tradito» mormorò Emir. «Soffre perché lei è morta.»

Mewtwo chinò gli occhi sul cadavere di fianco a sé per la prima volta.

«L’ho uccisa io?» domandò con profondo interesse e ancor più profondo distacco.

L’ho uccisa io avrebbe dovuto rispondere Emir se avesse avuto il coraggio di rendere reale ciò che aveva fatto; ma Emir questo coraggio non l’aveva e Mewtwo ancora non sapeva. «È morta perché era tempo che morisse.»

Mewtwo non riconobbe la menzogna nelle sue parole perché in fondo la menzogna non c’era: Mewtwo era Mew rinata e divenuta ciò che avrebbe sempre dovuto essere, e ora che Mewtwo era venuto al mondo, di Mew il mondo non aveva più bisogno. Il suo scopo nell’evoluzione era stato raggiunto.

Mewtwo accolse quest’informazione con imperturbabile calma. Distolse lo sguardo dal corpo morto.

«Sbarazzatene» ordinò. «La sua vista m’infastidisce. Anche se non so perché.»

 

Mewtwo attingeva alla sua mente giorno dopo giorno. La svuotava lentamente dall’interno, a poco a poco, a grandi pezzi come bocconi di cui nutriva la fame sempre crescente della propria mente. Emir provava con sgomento la sensazione ogni giorno di percepire la propria mente sempre più vuota, confusa, piena solo di nebbia. Aveva vuoti di memoria.

Talora, quando si svegliava in luoghi in cui non ricordava d’essersi addormentato, senza sapere dove si trovasse né per quanto tempo avesse perduto coscienza di se stesso, si trovava a frugare affannosamente nella propria mente come nelle tasche di propri abiti, quasi a controllare se mancasse qualcosa. C’era tutto, se di tutto si poteva parlare per una mente, alla stregua di un armadio che conteneva i ricordi concreti di una vita passata: spalancando le ante del suo cervello e frugando tra gli scaffali della sua memoria, Emir trovava ogni volta che tutto era ancora lì e tutto gli apparteneva; ma se quello fosse stato un armadio, e i suoi ricordi oggetti riposti sui suoi scaffali, essi avrebbero avuto l’aria stropicciata e sbattuta di oggetti frugati da mani estranee che li avevano toccati  e compulsati e consultati e poi rimessi a posto, non precisamente dov’erano prima, ma impercettibilmente spostati. Quelle erano le tracce che Mewtwo lasciava nella sua mente.

Avrebbe voluto poter dire che il cucciolo cresceva a vista d’occhio. Forse era vero, ma Emir non aveva modo di accorgersene: non era sempre lucido, o forse sarebbe stato più corretto dire che non lo era quasi mai. Mewtwo risiedeva nella sua mente più che nella propria: era avido di sapere; e la mente di Emir, coi suoi ricordi e la sua esperienza del mondo, erano l’unica conoscenza che Mewtwo avesse al di fuori della villa. I suoi occhi guardavano attraverso le finestre, ma non vedevano che strade deserte, e in lontananza le pendici del vulcano fumigante. Alla Villa del dottor Fuji, lo scienziato tanto geniale quanto pazzo che si diceva intento a chissà quali esperimenti, nessuno si avvicinava mai.

«Perché non posso uscire?» chiedeva Mewtwo guardando fuori.

«Perché dobbiamo restare nascosti.»

«Tutti sanno che tu vivi recluso qui.» Mewtwo attingeva quest’informazione socchiudendo gli occhi e cercando nei suoi pensieri, Emir lo sentiva frugare all’interno della sua mente come con dita gelate. Si sforzava di rispondere solo quando Mewtwo lasciava andare la sua mente, soddisfatto della propria ricerca, ed Emir poteva articolare una risposta.

«Non è me che non devono vedere.»

«Mi catturerebbero?»

«Sì. Ti studierebbero, come facevamo con tua madre.»

«Mia madre…» Gli occhi di Mewtwo baluginavano d’azzurro, Emir si piegava su se stesso urlando mentre la sua mente veniva scavata, frugata, rovesciata: «Anche tu?»

Quando il dolore lasciava la sua mente, Emir si sollevava in ginocchio e col petto affannato che si sollevava in cerca d’aria rispondeva: «Anche io, come tutti.»

«E mio padre?»

Emir non rispondeva, allora Mewtwo frugava ancora, scavava nelle profondità della sua mente: non trovare nulla lo indispettiva, il bagliore azzurro nei suoi occhi si spegneva poco alla volta.

«La tua mente è piena di ricordi su mia madre… forse è perché l’hai amata e poi l’hai odiata così tanto. Ma perché quando voglio indagare su mio padre la tua mente è chiusa come uno scrigno, come se ci fosse una porta chiusa al di là della quale non posso andare?»

«Non lo so» mentiva Emir: era l’unica menzogna che Mewtwo non poteva scoprire, perché quella parte della sua mente gli era preclusa davvero.

Infastidito al vedere l’unico limite al di là del quale i suoi poteri non potevano spingersi, Mewtwo tornava alla sua ossessione. «Eppure dici che sono più potente di mia madre.»

«Tu sei più potente di lei» confermava Emir.

La rabbia di Mewtwo esplodeva nella sua mente come un’eruzione: non capire lo infastidiva, i limiti della sua libertà lo frustravano fino all’ossessione. «Allora perché non posso uscire e difendermi?»

Il magma della sua rabbia lo prostrava fino a ridurlo in ginocchio. Emir si prendeva il capo tra le mani, i suoi occhi sarebbero esplosi nelle sue orbite da un momento all’altro, egli ne era certo; ma quando la rabbia di Mewtwo si ritraeva dalla sua mente come acqua giù dagli scogli, i suoi occhi vedevano ancora, la sua mente ancora era in grado di percepire, lo splendore azzurro negli occhi di Mewtwo si affievoliva nell’ombra.

«Perché scapperesti per sempre» mormorava. «Ma se vuoi andare, vai. Vedi bene che io non ti trattengo.»

«Mi hai creato perché volevi che me ne andassi?» domandava Mewtwo. Nella sua mente baluginava un lampo d’ironia: il pensiero di Emir sgroppava di rabbia come un cavallo.

«Ti ho creato perché potevo!» urlava. «Ti ho creato perché Mew… perché Mew…» Perché Mew era incompleta, era imperfetta ma semiperfetta e ancor di più perfettibile; perché, tramite lei, la perfezione era a portata di mano, raggiungibile, realizzabile, esisteva in potenza e non occorreva che tradurla in atto. Tramite lei Emir aveva avuto la possibilità di afferrare la perfezione e realizzarla nel mondo, come se ve l’avesse trascinata afferrandola con la mano da una dimensione oltremondana: avrebbe forse potuto lo scienziato resistere a quella tentazione, o l’uomo resistere alla chiamata della creatura che ancora non esisteva ma che gridava a gran voce per venire al mondo?

«Allora mi hai creato perché restassi prigioniero qua dentro» insisteva ancora Mewtwo. Era implacabile, inarrestabile: Emir non riusciva a far altro che scuotere la testa.

«No, no, non ho mai detto… se ti vedessero ti catturerebbero e ti venderebbero…»

«Come mia madre» lo interruppe Mewtwo. «Eppure dici che sono più potente di lei. Se gli uomini sono come te, non sarebbero in grado di farmi del male.»

Emir chiudeva gli occhi contro l’inappellabilità delle sue parole, contro la forza dei suoi pensieri che divampavano nella sua mente. L’emicrania era talmente intensa che Emir vedeva soltanto lampi di luce: in quei lampi gli balenava in mente l’arroganza degli occhi di Giovanni, la voce lontana di Dale che diceva in un anno confuso del suo passato: si ricorda quando abbiamo consegnato i primi cento esemplari di Porygon al proprietario del Casinò di Azzurropoli?

Premendo le dita contro gli occhi nel tentativo di attenuare il dolore che gli lacerava la testa, Emir rispondeva: «Non sono tutti come me.»

La rabbia di Mewtwo divampava nella sua mente come un fiore di fuoco.

«Mi hai creato più forte di lei perché potessi difendermi, per poi tenermi prigioniero!»

L’intensità del dolore era tale che Emir non vedeva né sentiva niente per qualche istante: la sua mente si faceva bianca e luminosa come una nebbia attraversata dai lampi.

Il dolore si affievoliva a poco a poco come lo spegnersi di una candela. Col petto che si gonfiava in cerca di un’aria che pareva non bastare ai suoi polmoni, Emir non aveva ossigeno a sufficienza per articolare una risposta diversa. «Anche tua madre avrebbe potuto difendersi – solo che non lo voleva.»

La mente di Mewtwo scivolava a poco a poco via dalla sua come marea che si ritirava. Emir sentiva di rientrare a poco a poco in possesso dei propri pensieri.

«Se non voleva difendersi, questo vuol dire che era debole» stabiliva Mewtwo. La sua voce sembrava provenire da una grande lontananza.

Emir aveva visto i poteri di M2 e sapeva di che cosa era capace; ma sapeva anche che non era quella la debolezza di cui parlava ora Mewtwo.

«Sì, lo era.»

Quante volte si era ripetuta quella conversazione? Il tempo sembrava arrotolarsi su se stesso come le volute di una conchiglia, era eterno e si ripeteva; o forse era la prima volta, e il tempo era finito e terminava come un nastro? Mewtwo si ritraeva dalla sua mente sospettoso, arrabbiato, senza comprendere perché entrambi fossero prigionieri di quella villa senza saperlo spiegare neppure a se stessi eppure senza saperne fuggire. La villa era il solo luogo sicuro, ma da quale pericolo?

Non sapeva quanto tempo fosse passato. Non sapeva neanche che giorno era: quando Emir riprendeva consapevolezza di se stesso e dove si trovasse, guardando fuori dalla finestra riusciva a determinare se fosse giorno o notte; ma questo era quanto. Era perduto nel tempo; solo lo spazio, poiché era la villa, ancora gli consentiva di orientarsi. Le dimensioni su cui si muoveva si erano ridotte a una sola.

All’inizio s’era trattato di minuti. Era difficile persino accorgersene: era come distrarsi un istante, e subito dopo non ricordarsi quel che si era detto un momento prima. Non era poi tanto grave; ma Mewtwo ci aveva preso gusto. A un tratto Emir s’era accorto che quello che gli era sembrato un istante prima era giorno e ora, d’improvviso, era notte. Dov’erano andate quelle ore?

Di fronte alle sue rimostranze Mewtwo non si scomponeva neppure. I suoi occhi violetti, che a stento si distinguevano dal pallore livido delle sclere, si posavano su di lui quasi con stupore. Quand’era che aveva imparato a muoversi così, che i suoi muscoli avevano perduto la mollezza del neonato ed erano diventati elastici e forti come quelli di un adulto? Il giorno in cui era nato, Emir l’aveva preso tra le braccia e l’aveva lavato come se fosse stato un figlio venuto al mondo dalla sua propria carne, e questo lo ricordava. Ma com’era che non ricordava cos’era successo nel mezzo?

«Sei stato tu a crearmi come mi hai creato.» Lo stupore di Mewtwo era genuino, spontaneo, le sue parole precipitavano attraverso la sua mente come comete che s’inseguivano. «Sei stato tu a darmi questa mente sovrumana e a non darmi niente con cui nutrirla. Che cosa ti aspettavi?»

Che cosa si era aspettato? Il tempo scorreva attorno a quella domanda come la corrente attorno a una roccia nel fiume: che cosa si era aspettato…? Che cosa si era aspettato…?

Quando Emir si sforzò di articolare una risposta d’un tratto s’accorse che Mewtwo non era più nello stesso punto. Eppure non gli sembrava passato che un momento, non aveva distolto lo sguardo; si trovavano nella stessa stanza, ma Mewtwo era ora di fronte a lui e il suo aspetto era mutato. Quand’era che era cresciuto così, che era diventato alto ormai quasi quanto lui, che i suoi occhi s’erano fatti penetranti e oscuri?

Di fronte alla sua confusione, Mewtwo lo guardò con curiosità. «Quanto tempo credi che sia passato?»

Emir cercò con lo sguardo la finestra. Si trovavano nel salotto sul mare, ma solo in quel momento si accorse che stava piovendo, e che grandi gocce di pioggia perforavano come dardi il mare grigio. Si avvicinò alla finestra senza respirare. Non era più neppure la stessa stagione, eppure a lui pareva passato un attimo.

«Che cos’hai fatto?»

«Non è stata colpa mia» disse Mewtwo. Non c’era alcun tentativo di difesa o espressione di colpa nella sua voce: era genuinamente sincero, ed esponeva la sua giustificazione come un dato di fatto. «Io ho bisogno della tua mente più di quanto tu abbia bisogno di mangiare.»

Emir tese le mani di fronte a sé. Non sembravano neppure più le mani che ricordava: erano magre e macchiate, con grosse vene rilevate e violacee. Sembravano le mani di un vecchio; ma quando Emir cercò il riflesso del proprio volto sul vetro segnato dalle gocce di pioggia, non lo vide invecchiato allo stesso modo. I suoi occhi gli risposero dal vetro sgomenti e disperati come se urlassero di tirarli fuori di lì.

«Quanto tempo è passato?»

«Non tanto quanto credi» disse Mewtwo alle sue spalle. Emir vedeva i suoi occhi ferini immoti nel riflesso sul vetro. «Neppure due mesi.»

Lo sconforto scivolò sulla sua schiena come una bava gelata. Dov’era stata la sua mente per quei due mesi? E del suo corpo Mewtwo come s’era servito?

Questa domanda non ebbe bisogno di pronunciarla ad alta voce: Mewtwo l’aveva letta nel suo pensiero, forse più rapidamente di quanto Emir l’avesse articolata.

«Mi serviva anche il tuo corpo tanto quanto la tua mente.» Questa volta la sua voce vibrava malcelatamente di colpa. «Mi servivano per fare quello che puoi fare tu.»

Emir scosse il capo dolorosamente: a ogni movimento la sua testa pulsava. «Che cos’è che posso fare io?»

«Tu puoi uscire» disse Mewtwo. «Tu puoi imparare. Io sono prigioniero qui.»

Emir si piegò su se stesso col capo compresso tra le mani: tutto era troppo complesso e troppo grande e la sua mente era come sopraffatta.

«Che cosa mi hai fatto?»

«A te nulla. Vedi bene che non ti è successo niente.» La voce di Mewtwo aveva lo stesso accento di quella di un bambino accusato d’un dispetto; ma nel riflesso sul vetro non c’era più il mostro bambino che Emir aveva creato e preso tra le braccia quando ancora il suo corpo era troppo debole per obbedire alla sua mente. «Volevo solo vedere com’era fuori.»

Emir si premette le mani sulle tempie che martellavano dall’interno: tutto gli appariva più grande e incomprensibile di lui. «Hai usato il mio corpo per poter uscire?»

«Ho visitato l’isola» disse Mewtwo. I suoi occhi vagarono al di fuori della finestra, si accesero di luce per un istante. «Il mondo è tanto più vasto di questa villa in cui mi tieni recluso.»

«Non sei recluso» ripeté Emir per l’ennesima volta; o forse era la prima, e la sua mente a soqquadro lo ingannava? «Ti hanno visto… mi hanno visto… hai incontrato qualcuno? Che cosa hanno pensato?»

«È stato… strano» disse Mewtwo.

Emir si premette le mani sulle tempie che a ogni momento minacciavano di esplodere. «Strano?»

«Ho camminato tra la gente nel tuo corpo.» Mewtwo non raccontava davvero: ricordava per se stesso, toccava alternativamente i suoi ricordi e i propri come se sfogliasse più di un libro in contemporanea. Il suo tocco nella mente di Emir si era fatto delicato come le dita di un arpista, ora non frugava più con mani goffe, violente, come quando era appena nato; ma proprio perché la sua ricerca s’era fatta più raffinata e meno grossolana ora Mewtwo cercava più a fondo, andava a scavare nelle plaghe più recondite del suo cervello in cerca delle ultime briciole di conoscenza che gli erano sfuggite. Il dolore sembrava strappato ai suoi stessi nervi. «Gli uomini mi osservavano come se mi conoscessero ma senza ripugnanza, come mai mi avrebbero osservato se avessi camminato con questo mio corpo. Era una strana libertà.»

«Ti hanno bene accolto?» domandò Emir ironicamente.

Gli occhi di Mewtwo s’accesero di barbagli azzurrini nel riflesso della finestra: quella domanda richiedeva da lui una riflessione più profonda della precedente.

«Mi scrutavano come fossi un morto riemerso da un abisso. Camminavo tra di loro, ma non ero uno di loro. Mi hanno fatto strane domande di cui non capivo il significato… anzi: il senso. Il significato lo capivo benissimo. Ma lo scopo, lo scopo, qual era? Quello mi sfuggiva sempre.»

Poteva immaginarsi cosa Mewtwo avesse visto e sentito attraverso i suoi occhi e le sue orecchie: isolani che lo scrutavano perplessi e preoccupati mentre vagava per l’isola come allucinato, muovendosi nelle sue membra come se indossasse un corpo che gli andava troppo largo o troppo stretto alla stregua di un vestito non suo. Ma Isola Cannella lo considerava già un pazzo che volontariamente viveva recluso solo in una villa troppo grande per lui; di tutta l’Isola non c’era che una persona di cui ancora gli importasse, ma in qualche modo sapeva che non era in lui che Mewtwo si era imbattuto. Mewtwo conosceva già Rotwang dal giorno della sua nascita: se lo avesse visto, la sua mente prodigiosa lo avrebbe riconosciuto.

«Tu hai risposto?» domandò Emir.

«Non subito» disse Mewtwo. «Ho iniziato a rispondere dopo un po’. Ho dovuto prima cercare nella tua mente le risposte alle loro domande, ma era qualcosa che non avevo mai fatto. Volevano sapere di te.» Lo disse col tono di una cosa proprio curiosa. «Chiedevano di te, della Villa. Una donna sembrava molto affezionata a te.»

Una donna: la sua segretaria, forse, di quand’era a capo del Laboratorio, o forse Portia, chissà. Un tempo gli sarebbe interessato saperne di più, gli avrebbe chiesto ulteriori dettagli; ma che cosa cambiava, ormai, se chiedeva di lui una donna lontana che un tempo gli aveva voluto bene?

«Che cos’hai risposto?» domandò.

«Ho detto: bene. In qualche modo ho sentito, nella tua mente, che quella era la risposta consueta da dare alla domanda che mi facevano.» Ci fu un guizzo di divertimento nella voce di Mewtwo che rimbombava nella sua mente quando, in risposta al dubbio che balenò nel suo pensiero, aggiunse: «Giusto, un dubbio più che lecito. Non temere. Ho parlato in – com’è che direste voi? Ah, ecco: in prima persona.»

Se gli fosse stato possibile, Emir avrebbe riso, ma d’amarezza: riusciva quasi a immaginare il suo corpo, nella nebbia dell’isola, mosso da un oscuro burattinaio i cui occhi ardevano nell’isolamento della Villa, che rispondeva a domande di circostanza con occhi vacui e come spiritati, cercando nella sua mente le risposte, che erano banali esattamente quanto le domande. «Devi esser stato molto convincente.»

La punizione non tardò ad arrivare: la rabbia di Mewtwo divampò nella sua mente polverizzando i suoi pensieri, Emir si ritrovò a urlare in ginocchio aggrappato al davanzale della finestra nel tentativo di non cadere; poi quel dolore passò; ma la furia di Mewtwo non era sufficiente a strappare da lui l’ironia di quella situazione. Si sedette lentamente sul pavimento, in faccia a Mewtwo, e si toccò il naso respirando a fatica: quando le ritirò, le sue dita erano sporche di sangue. Gli venne ancora da ridere.

«Non sapevo d’averti fatto così permaloso» disse. Sfidarlo era da pazzi, ma quale nuovo dolore poteva infliggergli? La sua mente già non gli apparteneva più, Mewtwo se l’era già presa, e ora aveva imparato anche a possedere il suo corpo.

La luce negli occhi di Mewtwo si affievolì lentamente come brace, il suo sguardo si fece attento e fisso mentre percorreva il suo volto.

«Non volevo farti tanto male» disse. «Perdonami.»

Era la prima volta che Emir udiva le sue scuse dal giorno della sua nascita: quella consapevolezza lo stupì per un momento, ma non affievolì il suo rancore né il suo sarcasmo. Si tamponò il naso provocatoriamente.

«Hai paura di rovinare il mio corpo?» chiese. «Come potresti, altrimenti, rubarlo per andartene in giro?»

La luce dei suoi occhi si accese per un momento, ma durò solo un istante: Mewtwo stava cercando di dominarsi.

«Non ne avrei bisogno, se tu mi lasciassi libero di andare. Ti ho già detto che il tuo corpo mi occorreva.»

«Per due mesi?» ribatté Emir. La sua voce suonò incrinata quando disse queste parole: due mesi della sua vita, due mesi in cui la sua coscienza era rimasta prigioniera e confinata in una parte del suo cervello in cui non le era dato di agire, mentre Mewtwo utilizzava il suo corpo come un vecchio paio di stivali, da indossare e poi sfilarsi.

La voce di Mewtwo rimase quieta e calma, forse appena un po’ colpevole. «Non volevo servirmene tanto a lungo, all’inizio. Io ho… perso il senso del tempo. Il tuo corpo mi piaceva stranamente come se fosse un po’ anche mio.»

Anche un po’ suo. Quella conversazione rischiava di portarli entrambi sul terreno pericoloso di una conversazione nella quale Emir non intendeva assolutamente arrischiarsi: cercò di abbassare i toni nel tentativo di distogliere la sua attenzione da quel pensiero. Se Mewtwo se ne accorse, non disse niente.

«Non hai bisogno del mio corpo per lasciare questa casa. Ti ho detto tante volte che non ti ho mai trattenuto. Puoi varcare quella soglia, puoi Teletrasportarti, e andare ovunque tu voglia. Puoi tornare in Guyana…»

«Tornare?» Gli occhi di Mewtwo si strinsero per un momento, brillanti di una luce amara. «Ma in Guyana io non sono mai stato.»

«Lo sai che cosa voglio dire» ribatté Emir.

«Davvero?» rispose Mewtwo. «Io so che tu sei stato in Guyana e so che proietti su di me un ricordo che non appartiene a me. È il ricordo di mia madre, non è vero? Ma non solamente…» I suoi occhi arsero di nuovo mentre cercava nella sua mente: Emir sentì che il suo pensiero scavava nei suoi e li spostava come fossero corde che tirava qua e là. «C’è un altro Pokémon nei tuoi ricordi che assomiglia a lei.» La sua fronte si aggrottò per la concentrazione: la brutalità della ricerca all’interno della sua mente fu tale che Emir si sentì sul punto di vomitare. Era come sentirsi arrovesciare il cervello dall’interno «È lui mio padre? Questo ricordo così doloroso che sento… è il suo?»

«Smettila» singhiozzò Emir cercando di spingerlo via; ma la sua mente non era un corpo fisico da poter allontanare come e quando voleva. Mewtwo ritrasse i suoi pensieri a poco a poco e lo guardò con occhi carichi di stupore.

«Ti fa soffrire tanto il ricordo di quel Pokémon?»

«Non lo so più» balbettò Emir: ora che Mewtwo aveva smesso di frugare nella sua mente come un bambino che scavava con le dita, non sapeva neppure più quali sentimenti gli appartenessero ancora. Era suo il dolore per la morte di M1, o era stato solo di Rotwang? Era passato così tanto tempo.

«Era mio padre?» insisté Mewtwo: questa domanda doveva apparirgli importante, fondamentale, se la ripeteva tante volte. Emir provò la fugace, sciocca tentazione di rispondere di sì, di lasciarglielo credere: almeno avrebbe smesso di far domande e d’indagare, si sarebbe contentato dell’immagine di quel Pokémon morto che aveva trovato nella sua memoria come della foto di un antenato trovata in un album di famiglia. Ma Mewtwo non si poteva ingannare, come si poteva mentire alla creatura che possedeva la sua mente indossandola e svestendola a piacimento?

«Perché vuoi mentirmi?» chiese Mewtwo. La tentazione che l’aveva attraversato per un attimo non gli era sfuggita: quand’era che si era avvicinato così? Ora Mewtwo torreggiava su di lui, era terribile, forte quanto il destino, e incombeva su di lui in tutta la sua altezza: i suoi occhi fiammeggiavano. «Pensi forse che non possa leggere le tue menzogne attraverso il tuo pensiero?»

Il dolore che scaturì dalla sua ira fu tale che Emir vide solo una luce bianca per qualche istante. Questa volta non si spaventò quasi, non provò neppure sgomento: si prese il capo tra le mani in attesa che passasse come avrebbe fatto con un’onda di marea. A poco a poco la luce bianca si affievolì, i suoi occhi videro di nuovo, i suoi polmoni inalarono di nuovo aria a grandi boccate.

«Non puoi leggerci la verità, però» ansimò. Questo potere su di lui gli era rimasto, quantomeno: restava una porzione della sua mente, per quanto infinitesima, alla quale Mewtwo non aveva accesso. Era l’unica vendetta che gli rimaneva: puntare il dito là dove persino gli infiniti poteri di Mewtwo conoscevano limiti. «Se tu riuscissi a vederla, non avresti bisogno di chiedermi ossessivamente chi era tuo padre. Sbaglio?»

Incassò il capo tra le spalle quasi d’istinto, in attesa che la rabbia di Mewtwo divampasse nella sua testa come un fiore di fuoco; ma non accadde nulla. Mewtwo si era ritratto di qualche passo, non torreggiava più su di lui: anziché accrescersi la sua rabbia s’era acquietata quando Emir aveva parlato. Anche il suo sguardo era mutato, i suoi occhi ora scrutavano il suo volto in cerca delle risposte cui la sua mente non gli dava accesso.

«Ma tu sai chi era.»

«Io so d’averti creato con un’incubatrice che ho progettato all’Università» rispose Emir. «Ma questo lo sai anche tu.»

Mewtwo lo scrutò incessantemente mentre tastava nella sua mente con una delicatezza che fino a quel momento non aveva mai usato; i suoi occhi brillavano d’azzurro, eppure in quel momento non bruciavano.

«Non è una bugia» mormorò. Stava riflettendo, contemporaneamente nella propria mente e in quella di Emir. «Eppure non è nemmeno la verità. Com’è possibile?»

«Non lo so» disse Emir. Ma quante volte avevano già avuto quella conversazione che ora lui non ricordava? Gli pareva d’aver già sostenuto quella conversazione, d’essersi già difeso dalle sue domande.

Mewtwo non era convinto delle sue parole, ma non riusciva a capire dov’era la menzogna. Rimase immobile, pensieroso, a scrutarlo da un capo all’altro della stanza, soppesando le sue parole all’interno della propria mente. Non disse niente.

Forse, per quel giorno, era finita: non ci sarebbero state altre esplosioni di furore nella sua testa, forse lo avrebbe lasciato andare. Emir si alzò lentamente sulle gambe malferme, certo che non lo avrebbero sorretto: le sue cosce erano divenute magre a tal punto che neppure si toccavano tra loro, le sue ginocchia tremavano. Mewtwo seguì con gli occhi i suoi movimenti.

«Mi dispiace» disse. La sua voce suonava sincera. «Cercherò di avere più cura del tuo corpo… la prossima volta.»

Emir sorrise amaramente. Conosceva già la risposta, eppure fece egualmente la domanda. «Lo rifarai ancora, quindi. Possedere il mio corpo.»

«Sei tu che mi costringi» rispose Mewtwo. «Se voglio vedere che cosa c’è fuori, se non voglio che mi catturino… non mi rimane altra scelta che prenderlo. Mi dispiace.»

«Perché non te ne vai?» insisté Emir ancora, ma stavolta senza particolare vigore. Non intendeva più esortarlo: voleva solo saperlo. Mewtwo, che leggeva nella sua mente le sue intenzioni prima ancora di udire le sue parole, sembrò comprenderlo, perché non si infuriò.

«Perché se ti lasciassi non scoprirei mai chi è mio padre» rispose. La sua voce suonava dolorosamente sincera. Esitò. «Perché al mondo ho solo te. Mi hai creato perché restassi solo al mondo e nascosto in eterno?»

Emir chinò il capo sul petto e non rispose.

«Perché non te ne vai tu?» domandò Mewtwo allora. Neppure lui voleva esortarlo ad andarsene: voleva solo saperlo.

Emir rimase come folgorato da questa domanda. Ammettere di non averci mai pensato era imbarazzante come mostrarsi nudo, ma era la verità: era legato alla Villa come lo era al proprio corpo, forse ancora di più ora che il suo corpo non gli apparteneva nemmeno più, ma Mewtwo aveva ragione: se avesse voluto sottrarsi alla sua influenza avrebbe potuto andarsene. Allora perché quel pensiero non lo aveva mai neppure sfiorato?

«Perché non ho che questo posto al mondo» rispose. Era stato felice nella Villa, almeno finché la sua vita gli era appartenuta, un tempo; fino a M1 e a M2 e forse anche dopo, finché c’era stato Rotwang, per un po’. «Perché al mondo non mi sei rimasto che tu.»

 

Vi erano notti in cui Mewtwo ululava nell’aria immobile nella villa.

Soffriva come se gli fosse stata inferta una ferita invisibile, mortale. La prima volta Emir s’era svegliato di notte mentre il suo grido squarciava l’aria: era assordante, inumano; era la prima volta da quando Rotwang se n’era andato che Emir sentiva una voce pronunciata al di fuori della sua mente.

Era accorso là da dove proveniva il grido, nella stanza dove Mewtwo era nato e che aveva eletto a suo regno, quella che un tempo era stata la camera di Rotwang: era un urlo animale, selvaggio, che la terra non aveva udito mai prima d’allora.

Mewtwo si teneva il capo tra le zampe come se dovesse comprimerlo dall’esterno perché non esplodesse; questa comparazione l’aveva fermato: voleva dire che nessuno l’aveva ferito. Emir era rimasto immobile sulla soglia senza entrare, forse perché c’era una parte di lui, neppure tanto oscura, che di fronte al suo dolore provava un sentimento strano di rivalsa. Ma quando Mewtwo aveva allontanato le zampe dal proprio volto e cercato il suo sguardo, i suoi occhi erano umidi e del tutto privi dell’azzurro della sua rabbia.

«Perché mi hai fatto questo?»

«Questo cosa?» aveva mormorato Emir percorrendolo interamente con lo sguardo. La luce della luna lo bagnava come se fosse latte: il suo corpo appariva livido e uniformemente grigio, muscolare e tonico come gli era sempre apparso, ma contratto e trasfigurato dal dolore.

«Questo!»

L’aria aveva tremato del suo dolore e del suo potere. Emir s’era portato le braccia al volto per un istinto salvifico prima ancora di distinguere il tintinnio dei vetri infranti, il vento aveva d’improvviso fischiato più forte attraverso le finestre. Quando Emir aveva sollevato gli occhi, tornando lentamente ad abbassare le braccia, Mewtwo aveva ancora il capo costretto tra le mani. Si fronteggiavano entrambi attraverso un tappeto di vetri rotti.

«La mia testa…!»

«Ti fa male?» s’era informato calmo Emir. Non provava ormai più sorpresa né paura di fronte a Mewtwo: era stata la prima volta che il suo potere si manifestava al di fuori del suo corpo con tanta violenza, ma quel potere non lo stupiva minimamente. Non lo aveva creato forse per quello, perché forse più potente di sua madre e in grado di lottare?

Di fronte alla sua indifferenza Mewtwo aveva ruggito nella sua mente: Emir s’era dovuto aggrappare allo stipite della porta per non cadere.

«Hai creato la mia mente perché fosse infinitamente affamata per poi non darmi niente con cui nutrirla!»

Il cervello sovrumano di Mewtwo era andato oltre ogni sua previsione. Questo Emir non l’aveva preventivato, era stato imprevidente, o forse semplicemente i frutti del suo genio avevano sopravanzato il suo genio e ogni facoltà umana: aveva creato Mewtwo perché fosse in grado di difendersi, ma che la sua mente continuasse a svilupparsi famelicamente, alla stregua di un organismo che se non nutrito si contorceva in preda ai morsi della fame, come avrebbe potuto prevederlo?

«Hai attinto dalla mia mente finora» aveva obiettato senza convinzione; era stato peggio: Mewtwo s’era rigirato con uno scatto ferino, la sua rabbia aveva echeggiato nella sua mente con un accento d’accusa.

«La tua mente è finita! Cos’altro posso imparare da lei?»

I giorni trascorrevano più interminabili delle notti, il tempo si rassomigliava e si perdeva nei meandri della villa, scivolava via come acqua attraverso invisibili fessure. Ogni tanto scompariva, le ore e i giorni semplicemente non si trovavano più: Emir si svegliava talora da sonni che non ricordava d’aver mai dormito, le prime volte sul pavimento addirittura, quando Mewtwo ancora svestiva il suo corpo come uno straccio sporco e lo abbandonava sul pavimento prima di rientrare nel proprio; ormai Emir non si scomponeva neanche più. Talora invece trascorrevano anche giornate intere, infinite, senza ch’egli perdesse traccia di quello che accadeva; erano giorni solidi che spiccavano in mezzo al tempo informe; ma erano anche i giorni in cui più spesso capitava che Mewtwo ululasse colla testa dilaniata da un dolore senza fine. Emir lo vegliava impotente senza saper che fare per aiutarlo: Mewtwo lo guardava con occhi colmi d’accusa e di rancore perché era lui ad avergli fatto quello e a lasciarlo soffrire senza intervenire.

«Vattene» insisteva Emir talvolta per non saper che dire né che fare: là fuori, nel mondo infinito, la mente di Mewtwo avrebbe trovato sufficiente nutrimento al proprio famelico bisogno di accrescersi e imparare per non divorare se stessa; ma le sue erano parole vane che si ripetevano, come i giorni e il tempo, senza trovare compimento. Mewtwo ruggiva in risposta cogli occhi tinti d’azzurro e di rosso dei capillari che iniettavano sangue, i vetri tintinnavano nelle commessure delle finestre e talora s’infrangevano; Emir si ritraeva ma senza scappare: Mewtwo non gli avrebbe mai fatto veramente del male, perché il suo corpo gli serviva.

«Andarmene perché? Per toglierti il peso del mio dolore e portarlo dove tu non debba vederlo?»

«No, perché…»

Una fitta di dolore lo atterrava prima che avesse modo di difendersi dall’ingiustizia della sua accusa. Non era rabbia, però: Emir cadeva in ginocchio annichilito dal dolore, si prendeva il capo tra le mani in preda ai conati di vomito; Mewtwo sollevava il capo lentamente per osservarlo contorcersi quasi con voluttà di rivalsa.

«Lo senti?»

Emir non rispondeva, il suo cervello pareva divorato dall’interno come da un insetto mostruoso che ne strappasse coi denti grandi bocconi; sangue gli colava dal naso. Non rispondeva: supplicava. «Mewtwo, ti prego…»

«Questo è il dolore che sento io!» La sua voce rimbombava nell’aria della stanza o forse solo nella sua testa, si ripercuoteva contro le pareti in un’eco senza fine. Il dolore scompariva rapidamente dalla sua mente come acqua risucchiata via. «Non vuoi né vederlo né sentirlo, eppure mi hai creato per questo!»

Chissà se in paese le sue urla nella notte si sentivano. Emir usciva qualche volta dalla Villa, quando proprio non poteva evitarlo, visto che lui e la creatura dovevano ancora sopravvivere; non parlava con nessuno, e quelli che incontrava ne sembravano sollevati, dal momento che nessuno era particolarmente desideroso di parlare con lui. Gli abitanti lo scrutavano con sospetto come se non sapessero bene cosa attendersi da lui né come comportarsi di fronte alla sua stranezza: Emir avrebbe voluto poter attribuire le loro reazioni alle volte in cui lo avevano visto posseduto da Mewtwo, ma in fin dei conti sapeva che non era così. Che lo fissavano inquieti e attoniti al vederlo perché avevano paura di lui e di qualunque cosa egli tenesse nascosta nella Villa e forse urlasse nella notte, da sempre.

Poi, ogni tanto, il tempo svaniva di nuovo. Ora Emir si svegliava sempre più di rado sul pavimento: quando riaveva coscienza di sé, dopo ore o forse giorni in cui Mewtwo l’aveva posseduto, si trovava nel suo letto, spesso persino sotto le coperte. Era una strana immagine quella che si affacciava allora alla sua mente: quella di Mewtwo che, dopo una lunga giornata, lo metteva ordinatamente a letto, sotto le coperte, prima di svestire il suo corpo come una tuta da lavoro. Aveva smesso di opporsi, ma Mewtwo avvertiva il suo risentimento là dove non poteva nasconderlo, nei recessi della sua mente, là dove aveva libero accesso.

«Mi dispiace» diceva. «Ti ho già spiegato che il tuo corpo serve più a me che a te.»

«Se tu davvero non volessi, te ne andresti» aggiunse una volta in un tono che a Emir non piacque.

«Tu mi lasceresti andare?» s’informò sarcasticamente.

Mewtwo parve sorpreso da quella domanda. Rifletté per un po’: lo sforzo mentale sembrava avere la facoltà di distoglierlo dal suo dolore, per qualche momento. «Non lo so. Tu non ci hai mai provato.»

Fuori dalla Villa il tempo continuava a scorrere con lo stesso ritmo di prima, lineare e privo di scosse come la corrente di un canale. Un’estate il vulcano destò preoccupazione: vomitò vapori e ceneri dalle caldere laterali per qualche giorno; si parlò di attuare un protocollo d’emergenza che prevedeva di evacuare l’isola, spostando momentaneamente gli abitanti presso le Isole Spumarine. La questione occupò i telegiornali per qualche giorno; si fecero prove di raccolta e di verifica del sistema d’allarme tramite sirene. Al suono degli allarmi Mewtwo guardò a lungo fuori dalla finestra: non sembrava preoccupato ma piuttosto assorto, i suoi occhi cercavano risposte nelle nubi di fumo.

«Credi che corriamo un rischio concreto?»

«Non sei mai stanco di farmi domande retoriche, poiché sei in grado di vedere da solo la risposta nella mia mente?» rispose Emir senza neppure guardarlo. Trascorreva quei giorni appollaiato nell’incavo di una finestra che affacciava in direzione del vulcano, a osservare in lontananza il denso fumo grigiastro che s’inerpicava in cielo; i balconi erano ricoperti di cenere.

Mewtwo non raccolse la sua provocazione: non sembrò neppure notarla. «Evacuare… significa che sposteranno tutti gli abitanti dall’Isola?»

Emir non rispose neppure, il suo silenzio era eloquente a sufficienza: Mewtwo conosceva il significato di quella parola, dunque non era davvero quello che intendeva chiedergli. Aspettò.

«Che cosa faremo noi se daranno ordine di evacuare?»

Emir rimase ostinatamente in silenzio. Mewtwo non domandò più; l’allarme durò ancora per qualche giorno, poi rientrò e non se ne parlò oltre; il vulcano eruttò ancora per un po’ ceneri bianche che coprirono l’isola come neve, poi tornò a dormire un po’ per volta. Chissà, forse Mewtwo aveva temuto per la sua vita, per la prima volta aveva concepito l’idea d’essere mortale, e per quello aveva domandato che sarebbe stato di loro; o forse nella prospettiva dell’eruzione e dell’evacuazione aveva visto una speranza di libertà e la fine della sua eterna prigionia?

Le sue grida nella notte lo svegliavano sempre più spesso. La sua voce nel buio era straziante, era disperata e brutale, per suo tramite il suo dolore si faceva tangibile. Emir sedeva al suo fianco per ore nella notte che non trovava fine; avrebbe voluto poterlo salvare, ma Mewtwo non gli permetteva neppure di toccarlo.

«Tu hai fatto questo!»

La sua rabbia sfidava ogni contatto, eppure al contempo Mewtwo lo chiamava a sé e lo voleva vicino; che fosse per conforto o piuttosto per imporgli la vista del suo dolore Emir non avrebbe saputo dirlo.

Una notte non lo fece neppure avvicinare. Quando entrò nel salottino sul mare attirato dalle sue urla Emir si ritrovò sbalzato via dall’impeto della sua rabbia prima ancora di varcare la soglia, gli occhi gli lacrimarono dal dolore alla testa, si prese il capo tra le mani: Mewtwo era immobile in un letto di vetri rotti, dalle finestre ora spalancate il ruggito del mare risuonava inerpicandosi lungo gli scogli in aspre ondate. Emir avanzò con cautela in mezzo ai frammenti sul pavimento come su un campo di battaglia; il vento entrava da ogni dove attraverso le vetrate infrante, ma Mewtwo rimaneva immoto, in silenzio, col capo nascosto tra le zampe che gli coprivano gli occhi.

Alle grida seguì uno strano silenzio innaturale: Emir attraversò la stanza come quel silenzio se fosse un fluido denso che doveva fendere per poter arrivare fino a lui. Tese la mano. Mormorò: «Lascia che ti tocchi. Non so come altro aiutarti.»

In quei momenti Mewtwo si ritraeva sempre dal tocco delle sue mani. Quella notte invece rimase immobile: la sua pelle era aspersa della stessa peluria morbida di quella di sua madre, Emir quasi non se ne ricordava più. Quand’era stata l’ultima volta che Mewtwo gli aveva permesso di toccarlo? Forse era stato quel primo lontanissimo giorno, quando era appena nato e gli aveva ordinato di lavarlo; Emir l’aveva preso tra le braccia, l’aveva immerso nell’acqua tiepida, aveva lavato poco alla volta il muco gelatinoso che lo copriva, versando sul suo capo livido, sui suoi occhi fissi, acqua tiepida dalla coppa della propria mano. Mewtwo s’era affidato a lui ciecamente, guardandolo in silenzio, perché non poteva fare altro, il suo corpo non era ancora forte a sufficienza per obbedire alla sua mente e fare ciò che gli occorreva; ora lo era diventato ma ancora non poteva servire al suo scopo, perché il suo corpo restava prigioniero della Villa e la sua mente aveva bisogno d’altre membra per andarsene in giro. Quanto tempo era passato da quel giorno in cui Emir l’aveva tenuto tra le braccia sotto l’acqua che scorreva?

Quando Mewtwo abbassò le braccia, i suoi occhi erano lucidi e rossi di lacrime. Non c’era rabbia, per una volta, e questo lo spaventò ancora più del solito.

«Mi dispiace» disse. La sua voce aveva un accento disperato, straziato, che Emir non gli aveva mai sentito. Stava piangendo. Ma quando mai s’era visto un Pokémon piangere? «Mi dispiace. Non so come altro fare. Il tuo corpo mi serve. Mi dispiace.»

Emir si ritrasse da lui come da una trappola che aveva tardato fino a quel momento a vedere e di cui solo in quel momento riconosceva le tracce, i frammenti di vetro scricchiolarono sotto i suoi piedi; poi a un tratto non si mosse più, il vetro tacque d’improvviso, le sue gambe non risposero al suo volere più di quanto il corpo di Mewtwo avesse risposto al suo padrone in quel giorno lontanissimo.

«Mi hai paralizzato» disse stupidamente.

«Mi dispiace» ripeté Mewtwo. Era sinceramente addolorato, Emir lo leggeva nella voce che rimbombava nella sua testa senza trovare ostacoli alla propria eco: ma addolorato per che cosa? «Non voglio farti del male, ma il tuo corpo mi serve. Mi dispiace tanto.»

«Hai già il mio corpo» mormorò. Le sue mani erano percorse da formicolii sottili, erano come intorpidite: poteva muoverle a malapena, molto lentamente, e con grande dolore. Qualunque cosa volesse fargli Mewtwo, non sarebbe scappato mai. Studiò le proprie dita immobili con grande interesse, poiché ormai non poteva fare altro. «Anche tua madre sarebbe stata in grado di farlo, se solo avesse voluto. Di paralizzarmi per ottenere quello che voleva. Solo che non voleva nulla abbastanza intensamente perché ne valesse la pena, forse.»

 «Smettila di parlare di mia madre!» urlò Mewtwo. Gli ultimi vetri rimasti rimbombarono sotto la sua rabbia, Emir lo fissò in silenzio. «Io non sono debole com’era lei! Mi hai creato perché fossi più forte per poi non darmi nulla su cui sfogare la mia forza, mi hai dato la mia intelligenza per poi tenermi chiuso qui in eterno senza nulla da apprendere… eppure continui a paragonarmi a lei!»

Di fronte al dolore incommensurabile della sua voce Emir chinò gli occhi e rimase in silenzio. Mewtwo si sarebbe preso il suo corpo con la forza perché la sua mente era disperatamente affamata e la Villa non le bastava più; nulla che lui potesse fare sarebbe bastato a fermarlo, eppure parlò ugualmente. Non sapeva neppure se parlasse nell’ultimo disperato tentativo di farlo ragionare o se piuttosto quelle fossero soltanto le ultime parole che gli avrebbe detto mai. «Non avrei mai voluto questo per te. Non era questo che volevo. È solo che tutto a un tratto tutto è diventato più grande di me.»

«Tutto è sempre stato più grande di te!» ringhiò Mewtwo.

Emir alzò gli occhi su di lui. La luce della luna lo bagnava di trasparenze madreperlacee, i suoi occhi ardevano di brace azzurra. Era il Pokémon più forte del mondo; l’aveva creato lui, estratto vivo dalla materia del mondo con la forza delle sue braccia e del suo genio, plasmato con la sua viva carne.

«No, non è così» rispose invece. «Ho creato esattamente quello che volevo creare. Ho reso perfetta la stirpe di tua madre esattamente come ho voluto dal giorno in cui l’ho guardata giocare nel Laboratorio attraverso un vetro, ho dato al mondo il compimento che la natura aveva tralasciato di realizzare… non è vero che è sempre stato tutto più grande di me. È solo che nel perfezionare lei ho finito per fare lo stesso con me. Sai perché non riesci a trovare tuo padre nella mia mente?»

«Sono stanco delle tue menzogne!» ruggì Mewtwo solcando la stanza a grandi passi.

«Non riesci a trovarlo perché guardi nella direzione sbagliata» proseguì Emir senza neppure ascoltarlo. Mewtwo s’interruppe bruscamente là dove si trovava; gli dava le spalle, eppure impercettibilmente volse il capo nella sua direzione. Nonostante tutto, nonostante l’odio, nonostante il dolore, ascoltava ancora le sue parole, ed Emir proseguì. «Non riesci proprio a capire, vero? Eppure tu sei più intelligente di me… e sai tutto quello che so io. Tutte le risposte sono state sempre qui, nella mia casa, nella mia mente, a tua disposizione, dunque se ancora non lo sai è perché ciecamente ti ostini a non voler vedere…»

La furia di Mewtwo divampò nella sua mente come una tempesta di vento; se solo avesse potuto, Emir si sarebbe preso il capo tra le mani, ma il dolore svanì dalla sua testa rapido così com’era apparso mentre Mewtwo gridava: «Stai cercando di confondermi!»

Nella rabbia insensata che Mewtwo disperatamente gli portava Emir vide d’un tratto, per la prima volta, quella che l’aveva opposto a suo padre per vent’anni. D’improvviso sentì di guardarlo con grande dolcezza. «Proprio tu, tra tutti… pensi che la verità possa confonderti?»

Gli occhi di Mewtwo frugavano il suo volto con un’ansia frenetica che Emir non gli aveva visto mai, cercando ovunque su di lui, nella sua mente, le tracce della menzogna di cui lo accusava – ma tracce, Emir lo sapeva, non ce n’erano.

«Neppure tu avresti osato mai» mormorò Mewtwo. Nella sua voce che mormorava dentro la sua testa c’era un accento interrogativo, supplice, che Emir non gli aveva sentito mai. Si sentì il cuore stretto da una fitta di pietà – ma Mewtwo non era come Mew, dopotutto. La sua rabbia l’avrebbe salvato, anche dopo di lui. Ora non era più tempo di mentire. La verità era l’unica eredità che poteva lasciargli. «Contro natura, neppure tu… neppure tu…»

«Tu hai paura perché sai qual è la verità» disse Emir. «Che in questa casa c’era solo una persona da cui potessi trarre il materiale genetico necessario per ibridare quello di tua madre.»

La rabbia divampò negli occhi di Mewtwo dell’identico azzurro degli occhi di Mew, sbocciando sulla terra come un fiore di fuoco.

 

1 settembre. Mewtwo è davvero troppo forte. Non riesco a contenere i suoi istinti animali.

   
 
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