Un
anno e mezzo per partorire questo capitolo?
Sì,
è così, e probabilmente non ho
altre scuse se non questa: che psicologicamente non sono davvero pronta
a
lasciar andare questa storia, che è stata probabilmente
l’unica cosa rimasta
costante negli ultimi sei o sette anni della mia vita. Questo
è il penultimo
capitolo, e il solo pensiero di lasciar andare questi personaggi mi
spezza il
cuore, anche se prima o poi accadrà – sia pure con
i miei tempi biblici e la
mia calma che definirei quasi secolare.
Riassunto dei capitoli precedenti: nel capitolo XII, Rotwang parte col resto dei membri del Laboratorio per la Guyana, in una spedizione programmata dalla Silph per cercare altri esemplari di Mew; Emir rimane solo con M2 nella Villa. Nel disperato tentativo di alleviare la propria depressione e la mancanza di Rotwang, cerca ovunque nel sotterraneo le riserve di laudano del precedente proprietario della Villa e si accorge che Mew, che lo aiuta a trovarle, possiede poteri telepatici. Per mettere a frutto i suoi poteri, utilizza il prototipo di incubatrice che aveva creato all’Università per clonarla. Nel capitolo XIII, al ritorno di Rotwang dalla Guyana, Emir confessa che cosa ha fatto. Rotwang decide di non denunciarlo perché questo comporterebbe farsi portare via Mew dalla polizia, ma gli chiede di rimanere nel sotterraneo per tenerlo il più lontano possibile da Mew, che la gravidanza anomala indebolisce ogni giorno di più. Mew muore dando alla luce il cucciolo, anch’esso morto; Rotwang, che non è riuscito a salvarli, lascia la Villa annunciando che andrà a costituirsi. Dopo la sua partenza, il cucciolo apre improvvisamente gli occhi.
Prima di
lasciarvi al capitolo, che
spero sia degno, almeno in parte, di cotanta attesa, non posso che
ringraziare
Wings44 e a cristal_93 per le loro recensioni, e tutti coloro che hanno
anche
solo provato a seguirmi fin qui lungo la china della mia pigrizia.
Buona lettura!
Capitolo XIV –
Perfetto
«Finalmente siamo
rimasti
soli.»
Aveva nelle orecchie un
fischio acuto e terribile, come provenisse da un altoparlante che
fischiava e
ululava, ma che non passava attraverso i suoi timpani,
perché la pressione
delle sue mani non riusciva ad attutirlo; la testa gli esplodeva. Gli
pareva di
non vederci più, ma se si costringeva ad aprir gli occhi
attraverso il dolore,
ancora riusciva a intravedere la sagoma oscura del cucciolo che
l’osservava.
«Basta» singultò, o
quantomeno percepì la propria bocca che si apriva e si
muoveva e gli giunse
all’orecchio una parola ovattata che esprimeva la supplica
confusa e
totalizzante che giganteggiava nella sua mente: mi stai
uccidendo, abbi
pietà.
Il fischio che echeggiava
nel suo cervello s’interruppe d’improvviso
com’era iniziato. Emir riebbe
d’improvviso coscienza del proprio corpo, del tutto privo di
dolore, e
padronanza sulla propria mente. Inalò grandi boccate
d’aria rotolando sul
pavimento. Non aveva provato mai più paura che in
quell’istante.
«Perdonami.» La voce
echeggiò di nuovo nella sua mente,
roboante ma più contenuta, ed Emir sobbalzò, ma
più di spavento che di dolore.
Rimase al suolo senza il coraggio di alzarsi per timore che quel dolore
ricominciasse.
«Sei
vivo» mormorò. Era l’unico pensiero
cosciente che la sua mente fosse in quel
momento in grado di formulare, al di là del dolore e della
paura. Non era
possibile – Rotwang aveva detto che era morto. Rotwang non
aveva mai sbagliato.
«Sei vivo.»
Ci
fu un silenzio molto lungo nella sua mente, ma un silenzio di una
qualità
strana: era come il fermo immagine di una videocassetta fissata in un
punto
nero del nastro. C’era silenzio, ma non perché il
cucciolo non stava
comunicando, bensì perché quello che gli stava
comunicando era silenzio. Il
cucciolo taceva nella sua mente, Emir percepiva la
sua intensa
concentrazione nelle pieghe del proprio pensiero.
«Perdonami.
Non sapevo che ti avrebbe fatto male.» Era ora meno di un
mormorio, come il
ricordo di una voce.
«Tu
eri morto.» Ora che la sua mente s’era liberata
della potenza di quella voce ed
era tornata sua, libera e autonoma o quantomeno momentaneamente scevra
dall’influenza del cucciolo, a poco a poco i suoi pensieri
tornavano a
ordinarsi secondo una linea ch’egli riusciva a percorrere.
«Non respiravi. Io
ti ho visto morto.»
«Se
avesse pensato che ero vivo, lui mi avrebbe portato via.» I
pensieri alieni
attraversavano la sua mente come lampi, avevano intensità
diverse e
baluginanti, apparivano ora intensi e ora flebili, confusi, a malapena
percettibili. Il cucciolo stava cercando la propria voce
all’interno dei suoi
pensieri.
Emir
si mosse lentamente per alzarsi; gli sembrava che gli dolesse tutto il
corpo,
che quando si sarebbe alzato i suoi muscoli avrebbero urlato di dolore
e le sue
gambe non l’avrebbero retto; ma non accadde nulla del genere.
Le sue orecchie,
che gli erano parse esplodere, non sanguinavano affatto come credeva.
Le sue
membra gli rispondevano ancora, tutto ancora gli apparteneva, il suo
corpo era
ancora suo, eppure egli lo percepiva diversamente.
Levò
lo sguardo dal pavimento sul letto, là dove ora i suoi occhi
mettevano a fuoco,
non più attraverso una nebbia, la figura livida e sporca del
cucciolo e i suoi
occhi enormi spalancati nel buio. Era più bello di come
l’aveva vagheggiato nei
sogni dell’oppio e del laudano; celava in sé la
bellezza di sua madre, il
taglio dolce degli occhi di Mew affiorava nella durezza dei suoi. Ora
che lo
vedeva, Emir riconosceva in lui l’intervento della sua mano
sull’embrione che
aveva toccato, ma il suo volto vivo era più della somma
delle parti, più
dell’azione dei filamenti di DNA che nella sua creazione
erano intervenuti.
Senza
riflettere, senza nemmeno accorgersi di star parlando, Emir
mormorò: «Come
sapevi che ti avrebbe portato via?»
Il
cucciolo rispose: «L’ho visto nei suoi
pensieri.»
Emir
sentì la sua voce scoppiare nella propria mente come un
concerto di tuoni; si
sforzò di stringere gli occhi e resistere al dolore.
«Perché
non volevi che ti portasse via?»
«Perché
mi hai creato tu» disse la creatura con
semplicità. «Lui mi avrebbe portato da
persone che non mi avrebbero capito. Lui stesso mi amava, ma non mi
capiva e
provava orrore.»
In
un impeto di curiosità, nell’atmosfera sospesa e
surreale della stanza piena di
umori e sangue, Emir chiese: «Tu conosci il suo
nome?»
Vi
fu silenzio ancora: il cucciolo pensava, Emir lo sentiva scavare nei
suoi
pensieri, raspando nei recessi della sua mente come un cane che
scavava. Con la
naturalezza di qualcosa che gli era congenito ma che ancora doveva
imparare, il
cucciolo cercava nella sua mente la risposta alle sue domande: Emir
sentiva il
suo pensiero che si aggirava nella sua mente come tra scaffali da cui
attingere. Si sentiva paralizzato, eppure sapeva che se avesse
esercitato un
qualsiasi sforzo di volontà il suo corpo avrebbe reagito.
«Richard»
disse cautamente con una certa incertezza. «No, Rotwang.
Aspetta… Rotwang è il
cognome. Ma che cos’è un cognome? Ah…
ecco.»
Sta imparando dalla mia mente realizzò Emir, e al
suo pensiero il cucciolo
rispose: «Sì.»
Erano
le estreme conseguenze del suo genio, il suo sogno era riuscito. Emir
aveva
visto l’intelligenza di Mew e aveva disprezzato la sua
ingenuità, e ora nel
figlio l’ingenuità non c’era
più ed era rimasta l’intelligenza. Gli
salì dal
petto un singhiozzo perché non poteva credere che tutto
ciò fosse vero: il
figlio che aveva creato perché fosse come la madre ma
migliore di lei era nato
per compiere il suo disegno e l’aveva realizzato, era un
mostro che il mondo
non aveva mai visto perché esisteva da quel momento, era
perfetto e non più
perfettibile. Mew era morta ma non invano, perché dal suo
sangue era nato il
compimento della sua specie.
Il
cucciolo strizzava gli occhi nello sforzo di vagare al di fuori della
propria
mente e all’interno della sua. Aveva l’aria di
frugare in cerca di qualcosa che
non si trovava.
«Qual
è il mio nome?»
Tu non hai un nome, stava per rispondere Emir, come
avrei potuto deciderlo
senza ancora conoscere te?; ma le sue parole non trovarono
voce. Il suo
nome era già scritto prima che il cucciolo nascesse, prima
che lui lasciasse
Lavandonia, forse da prima della vita del mondo; Emir l’aveva
inventato e
l’aveva creato, il cucciolo era sgorgato dal suo genio, ma a
un certo punto,
risalendo all’indietro nella sequela di processi che aveva
portato a quel
momento, tutto si sovrapponeva; ed Emir non sapeva più se
quella creatura lui
l’aveva inventata oppure l’aveva soltanto scoperta,
estraendola dalla massa
ancora in potenza della vita, là dove essa era sempre stata
in attesa, così
come uno scultore l’avrebbe estratta intera dal marmo.
Persino i loro contorni
si confondevano, ed Emir non avrebbe saputo rispondere: il cucciolo gli
apparteneva oppure era altro da lui?
«Tu
sei il secondo» rispose. «Il tuo nome è
Mewtwo.»
Mewtwo
non chiese e non protestò, ma le sue palpebre si
assottigliarono. In fondo ai
suoi occhi baluginò un lampo azzurro.
«Sì…»
disse lentamente, come saggiando quel nome nella propria mente.
«Sì, è questo
il mio nome.»
Emir
era talmente annichilito, asservito al suo volere, che quasi gli
sembrava di
non riuscir più a pensare qualcosa che fosse al di fuori
della sua mente del
cucciolo: non sapeva più bene chi guidasse la sequela dei
pensieri, a chi
appartenesse la mente e a chi ciò che essa conteneva; ma
d’un tratto balenò un
pensiero angosciante che apparteneva a lui soltanto. Mewtwo
reclinò il capo
mentre percepiva il suo pensiero. Emir avrebbe voluto parlare
d’istinto, dire
ad alta voce il pensiero che lampeggiava attraverso la sua mente, ma il
cucciolo parlò per primo. «Improvvisamente hai
pensato a qualcosa che ti fa
molta paura.»
Emir
avrebbe dovuto pensare a quel pensiero ininterrottamente per tutto quel
tempo
perché era impellente e non poteva aspettare ma, ingoiato
dalla mente e dagli
occhi di Mewtwo, quell’urgenza era passata in secondo piano.
«Bisogna andare...
non possiamo restare qui, Rotwang tornerà con la polizia
e…»
«Non
lo farà» rispose Mewtwo con naturalezza.
«Ascoltami»
insisté Emir, ma gli occhi di Mewtwo baluginarono
d’azzurro di nuovo, ed Emir
ammutolì.
«Ci
sta pensando» disse Mewtwo.
«Che
cosa?»
«Sta
guardando un edificio» spiegò con calma Mewtwo. I
suoi occhi vagavano lontani,
la sua mente stava apprendendo le parole via via che parlava.
«Ha degli oggetti
pesanti in mano, gli segano le dita, ma non si decide ad appoggiarli a
terra… è
quella la polizia?»
Emir
attendeva le sue parole, incredulo via via che uscivano dalla sua mente
e
finivano nella sua; non riusciva più a pensare.
«Vedi
attraverso la sua mente?» balbettò.
«Non
come nella tua.»
Emir
insisté ancora. «Per la distanza?»
Gli
occhi si assottigliarono di nuovo, quel baluginio azzurro
lampeggiò ancora in
fondo al suo sguardo.
«Non
solamente» disse. «È lontano, ma vedo
chiaramente attraverso i suoi occhi,
solo… non in profondità. Dalla tua invece posso
attingere quello che voglio,
solo che…» S’interruppe un istante, i
suoi occhi cercarono più oltre. «Solo che
non tutto.»
«Vai
avanti» lo incalzò Emir: era stato lui a indagare,
ma ora quell’indugio lo
faceva innervosire. «Che cosa sta facendo?»
«Vorrebbe
entrare, ma non lo farà.»
«Come
sai che non entrerà?»
«Perché
lui lo sa» rispose Mewtwo. «Sa che dovrebbe
farlo… ma sa anche che entrare gli
farebbe male quanto non farlo. Dentro di sé sa
già che non entrerà.»
Rotwang
non l’avrebbe denunciato. Non importava che la sua unica
certezza fosse la
parola di Mewtwo: Emir sapeva che era vero perché conosceva
i pensieri di
Rotwang, anche se dall’esterno solamente; ma aveva imparato i
suoi pensieri
negli anni in cui li aveva subiti, previsti e anticipati, e ora che
Mewtwo
gliel’aveva descritto gli pareva di vederlo coi propri occhi
come se lo stesse
osservando dal lato opposto della strada.
Mewtwo
lo scrutava dal letto coperto di sangue, il suo sguardo era penetrante
tanto da
passargli attraverso.
«Sento
la sua sofferenza» disse. Saggiava le proprie parole a una a
una via via che le
pronunciava, le apprendeva via via che parlava, cercandole dalla mente
di Emir
a seconda della forma che assumevano i suoi pensieri, ancora troppo
complessi
per la sua mente neonata. «Ma non vedo da dove proviene. Lui
lo sa, ma ne prova
tanto sgomento che la sua mente non tollera di soffermarsi su quel
pensiero.»
«Soffre
perché mi amava e io l’ho tradito»
mormorò Emir. «Soffre perché lei
è morta.»
Mewtwo
chinò gli occhi sul cadavere di fianco a sé per
la prima volta.
«L’ho
uccisa io?» domandò con profondo interesse e ancor
più profondo distacco.
L’ho uccisa io avrebbe dovuto rispondere Emir
se avesse avuto il coraggio
di rendere reale ciò che aveva fatto; ma Emir questo
coraggio non l’aveva e
Mewtwo ancora non sapeva. «È morta
perché era tempo che morisse.»
Mewtwo
non riconobbe la menzogna nelle sue parole perché in fondo
la menzogna non
c’era: Mewtwo era Mew rinata e divenuta ciò che
avrebbe sempre dovuto essere, e
ora che Mewtwo era venuto al mondo, di Mew il mondo non aveva
più bisogno. Il
suo scopo nell’evoluzione era stato raggiunto.
Mewtwo
accolse quest’informazione con imperturbabile calma. Distolse
lo sguardo dal
corpo morto.
«Sbarazzatene»
ordinò. «La sua vista m’infastidisce.
Anche se non so perché.»
Mewtwo
attingeva alla sua mente giorno dopo giorno. La svuotava lentamente
dall’interno, a poco a poco, a grandi pezzi come bocconi di
cui nutriva la fame
sempre crescente della propria mente. Emir provava con sgomento la
sensazione
ogni giorno di percepire la propria mente sempre più vuota,
confusa, piena solo
di nebbia. Aveva vuoti di memoria.
Talora,
quando si svegliava in luoghi in cui non ricordava d’essersi
addormentato,
senza sapere dove si trovasse né per quanto tempo avesse
perduto coscienza di
se stesso, si trovava a frugare affannosamente nella propria mente come
nelle
tasche di propri abiti, quasi a controllare se mancasse qualcosa.
C’era tutto,
se di tutto si poteva parlare per una mente, alla stregua di un armadio
che
conteneva i ricordi concreti di una vita passata: spalancando le ante
del suo
cervello e frugando tra gli scaffali della sua memoria, Emir trovava
ogni volta
che tutto era ancora lì e tutto gli apparteneva; ma se
quello fosse stato un
armadio, e i suoi ricordi oggetti riposti sui suoi scaffali, essi
avrebbero
avuto l’aria stropicciata e sbattuta di oggetti frugati da
mani estranee che li
avevano toccati e
compulsati e
consultati e poi rimessi a posto, non precisamente dov’erano
prima, ma
impercettibilmente spostati. Quelle erano le tracce che Mewtwo lasciava
nella
sua mente.
Avrebbe
voluto poter dire che il cucciolo cresceva a vista d’occhio.
Forse era vero, ma
Emir non aveva modo di accorgersene: non era sempre lucido, o forse
sarebbe
stato più corretto dire che non lo era quasi mai. Mewtwo
risiedeva nella sua
mente più che nella propria: era avido di sapere; e la mente
di Emir, coi suoi
ricordi e la sua esperienza del mondo, erano l’unica
conoscenza che Mewtwo
avesse al di fuori della villa. I suoi occhi guardavano attraverso le
finestre,
ma non vedevano che strade deserte, e in lontananza le pendici del
vulcano
fumigante. Alla Villa del dottor Fuji, lo scienziato tanto geniale
quanto pazzo
che si diceva intento a chissà quali esperimenti, nessuno si
avvicinava mai.
«Perché
non posso uscire?» chiedeva Mewtwo guardando fuori.
«Perché
dobbiamo restare nascosti.»
«Tutti
sanno che tu vivi recluso qui.» Mewtwo attingeva
quest’informazione
socchiudendo gli occhi e cercando nei suoi pensieri, Emir lo sentiva
frugare
all’interno della sua mente come con dita gelate. Si sforzava
di rispondere
solo quando Mewtwo lasciava andare la sua mente, soddisfatto della
propria
ricerca, ed Emir poteva articolare una risposta.
«Non
è me che non devono vedere.»
«Mi
catturerebbero?»
«Sì.
Ti studierebbero, come facevamo con tua madre.»
«Mia
madre…» Gli occhi di Mewtwo baluginavano
d’azzurro, Emir si piegava su se
stesso urlando mentre la sua mente veniva scavata, frugata, rovesciata:
«Anche
tu?»
Quando
il dolore lasciava la sua mente, Emir si sollevava in ginocchio e col
petto
affannato che si sollevava in cerca d’aria rispondeva:
«Anche io, come tutti.»
«E
mio padre?»
Emir
non rispondeva, allora Mewtwo frugava ancora, scavava nelle
profondità della
sua mente: non trovare nulla lo indispettiva, il bagliore azzurro nei
suoi
occhi si spegneva poco alla volta.
«La
tua mente è piena di ricordi su mia madre… forse
è perché l’hai amata e poi
l’hai odiata così tanto. Ma perché
quando voglio indagare su mio padre la tua
mente è chiusa come uno scrigno, come se ci fosse una porta
chiusa al di là
della quale non posso andare?»
«Non
lo so» mentiva Emir: era l’unica menzogna che
Mewtwo non poteva scoprire,
perché quella parte della sua mente gli era preclusa
davvero.
Infastidito
al vedere l’unico limite al di là del quale i suoi
poteri non potevano
spingersi, Mewtwo tornava alla sua ossessione. «Eppure dici
che sono più
potente di mia madre.»
«Tu
sei più potente di lei» confermava Emir.
La
rabbia di Mewtwo esplodeva nella sua mente come un’eruzione:
non capire lo
infastidiva, i limiti della sua libertà lo frustravano fino
all’ossessione.
«Allora perché non posso uscire e
difendermi?»
Il
magma della sua rabbia lo prostrava fino a ridurlo in ginocchio. Emir
si
prendeva il capo tra le mani, i suoi occhi sarebbero esplosi nelle sue
orbite
da un momento all’altro, egli ne era certo; ma quando la
rabbia di Mewtwo si
ritraeva dalla sua mente come acqua giù dagli scogli, i suoi
occhi vedevano
ancora, la sua mente ancora era in grado di percepire, lo splendore
azzurro
negli occhi di Mewtwo si affievoliva nell’ombra.
«Perché
scapperesti per sempre» mormorava. «Ma se vuoi
andare, vai. Vedi bene che io
non ti trattengo.»
«Mi
hai creato perché volevi che me ne andassi?»
domandava Mewtwo. Nella sua mente
baluginava un lampo d’ironia: il pensiero di Emir sgroppava
di rabbia come un
cavallo.
«Ti
ho creato perché potevo!» urlava. «Ti ho
creato perché Mew… perché
Mew…» Perché
Mew era incompleta, era imperfetta ma semiperfetta e ancor di
più perfettibile;
perché, tramite lei, la perfezione era a portata di mano,
raggiungibile,
realizzabile, esisteva in potenza e non occorreva che tradurla in atto.
Tramite
lei Emir aveva avuto la possibilità di afferrare la
perfezione e realizzarla
nel mondo, come se ve l’avesse trascinata afferrandola con la
mano da una
dimensione oltremondana: avrebbe forse potuto lo scienziato resistere a
quella
tentazione, o l’uomo resistere alla chiamata della creatura
che ancora non
esisteva ma che gridava a gran voce per venire al mondo?
«Allora
mi hai creato perché restassi prigioniero qua
dentro» insisteva ancora Mewtwo.
Era implacabile, inarrestabile: Emir non riusciva a far altro che
scuotere la
testa.
«No,
no, non ho mai detto… se ti vedessero ti catturerebbero e ti
venderebbero…»
«Come
mia madre» lo interruppe Mewtwo. «Eppure dici che
sono più potente di lei. Se
gli uomini sono come te, non sarebbero in grado di farmi del
male.»
Emir
chiudeva gli occhi contro l’inappellabilità delle
sue parole, contro la forza
dei suoi pensieri che divampavano nella sua mente.
L’emicrania era talmente
intensa che Emir vedeva soltanto lampi di luce: in quei lampi gli
balenava in
mente l’arroganza degli occhi di Giovanni, la voce lontana di
Dale che diceva
in un anno confuso del suo passato: si ricorda quando abbiamo
consegnato i
primi cento esemplari di Porygon al proprietario del Casinò
di Azzurropoli?
Premendo
le dita contro gli occhi nel tentativo di attenuare il dolore che gli
lacerava
la testa, Emir rispondeva: «Non sono tutti come me.»
La
rabbia di Mewtwo divampava nella sua mente come un fiore di fuoco.
«Mi
hai creato più forte di lei perché potessi
difendermi, per poi tenermi
prigioniero!»
L’intensità
del dolore era tale che Emir non vedeva né sentiva niente
per qualche istante:
la sua mente si faceva bianca e luminosa come una nebbia attraversata
dai
lampi.
Il
dolore si affievoliva a poco a poco come lo spegnersi di una candela.
Col petto
che si gonfiava in cerca di un’aria che pareva non bastare ai
suoi polmoni,
Emir non aveva ossigeno a sufficienza per articolare una risposta
diversa.
«Anche tua madre avrebbe potuto difendersi – solo
che non lo voleva.»
La
mente di Mewtwo scivolava a poco a poco via dalla sua come marea che si
ritirava. Emir sentiva di rientrare a poco a poco in possesso dei
propri
pensieri.
«Se
non voleva difendersi, questo vuol dire che era debole»
stabiliva Mewtwo. La
sua voce sembrava provenire da una grande lontananza.
Emir
aveva visto i poteri di M2 e sapeva di che cosa era capace; ma sapeva
anche che
non era quella la debolezza di cui parlava ora Mewtwo.
«Sì,
lo era.»
Quante
volte si era ripetuta quella conversazione? Il tempo sembrava
arrotolarsi su se
stesso come le volute di una conchiglia, era eterno e si ripeteva; o
forse era
la prima volta, e il tempo era finito e terminava come un nastro?
Mewtwo si
ritraeva dalla sua mente sospettoso, arrabbiato, senza comprendere
perché
entrambi fossero prigionieri di quella villa senza saperlo spiegare
neppure a
se stessi eppure senza saperne fuggire. La villa era il solo luogo
sicuro, ma
da quale pericolo?
Non
sapeva quanto tempo fosse passato. Non sapeva neanche che giorno era:
quando
Emir riprendeva consapevolezza di se stesso e dove si trovasse,
guardando fuori
dalla finestra riusciva a determinare se fosse giorno o notte; ma
questo era
quanto. Era perduto nel tempo; solo lo spazio, poiché era la
villa, ancora gli
consentiva di orientarsi. Le dimensioni su cui si muoveva si erano
ridotte a
una sola.
All’inizio
s’era trattato di minuti. Era difficile persino accorgersene:
era come
distrarsi un istante, e subito dopo non ricordarsi quel che si era
detto un
momento prima. Non era poi tanto grave; ma Mewtwo ci aveva preso gusto.
A un
tratto Emir s’era accorto che quello che gli era sembrato un
istante prima era
giorno e ora, d’improvviso, era notte. Dov’erano
andate quelle ore?
Di
fronte alle sue rimostranze Mewtwo non si scomponeva neppure. I suoi
occhi
violetti, che a stento si distinguevano dal pallore livido delle
sclere, si
posavano su di lui quasi con stupore. Quand’era che aveva
imparato a muoversi
così, che i suoi muscoli avevano perduto la mollezza del
neonato ed erano
diventati elastici e forti come quelli di un adulto? Il giorno in cui
era nato,
Emir l’aveva preso tra le braccia e l’aveva lavato
come se fosse stato un
figlio venuto al mondo dalla sua propria carne, e questo lo ricordava.
Ma
com’era che non ricordava cos’era successo nel
mezzo?
«Sei
stato tu a crearmi come mi hai creato.» Lo stupore di Mewtwo
era genuino,
spontaneo, le sue parole precipitavano attraverso la sua mente come
comete che
s’inseguivano. «Sei stato tu a darmi questa mente
sovrumana e a non darmi
niente con cui nutrirla. Che cosa ti aspettavi?»
Che
cosa si era aspettato? Il tempo scorreva attorno a quella domanda come
la
corrente attorno a una roccia nel fiume: che cosa si era
aspettato…? Che cosa
si era aspettato…?
Quando
Emir si sforzò di articolare una risposta d’un
tratto s’accorse che Mewtwo non
era più nello stesso punto. Eppure non gli sembrava passato
che un momento, non
aveva distolto lo sguardo; si trovavano nella stessa stanza, ma Mewtwo
era ora
di fronte a lui e il suo aspetto era mutato. Quand’era che
era cresciuto così,
che era diventato alto ormai quasi quanto lui, che i suoi occhi
s’erano fatti
penetranti e oscuri?
Di
fronte alla sua confusione, Mewtwo lo guardò con
curiosità. «Quanto tempo credi
che sia passato?»
Emir
cercò con lo sguardo la finestra. Si trovavano nel salotto
sul mare, ma solo in
quel momento si accorse che stava piovendo, e che grandi gocce di
pioggia
perforavano come dardi il mare grigio. Si avvicinò alla
finestra senza
respirare. Non era più neppure la stessa stagione, eppure a
lui pareva passato
un attimo.
«Che
cos’hai fatto?»
«Non
è stata colpa mia» disse Mewtwo. Non
c’era alcun tentativo di difesa o
espressione di colpa nella sua voce: era genuinamente sincero, ed
esponeva la
sua giustificazione come un dato di fatto. «Io ho bisogno
della tua mente più
di quanto tu abbia bisogno di mangiare.»
Emir
tese le mani di fronte a sé. Non sembravano neppure
più le mani che ricordava:
erano magre e macchiate, con grosse vene rilevate e violacee.
Sembravano le
mani di un vecchio; ma quando Emir cercò il riflesso del
proprio volto sul
vetro segnato dalle gocce di pioggia, non lo vide invecchiato allo
stesso modo.
I suoi occhi gli risposero dal vetro sgomenti e disperati come se
urlassero di
tirarli fuori di lì.
«Quanto
tempo è passato?»
«Non
tanto quanto credi» disse Mewtwo alle sue spalle. Emir vedeva
i suoi occhi
ferini immoti nel riflesso sul vetro. «Neppure due
mesi.»
Lo
sconforto scivolò sulla sua schiena come una bava gelata.
Dov’era stata la sua
mente per quei due mesi? E del suo corpo Mewtwo come s’era
servito?
Questa
domanda non ebbe bisogno di pronunciarla ad alta voce: Mewtwo
l’aveva letta nel
suo pensiero, forse più rapidamente di quanto Emir
l’avesse articolata.
«Mi
serviva anche il tuo corpo tanto quanto la tua mente.» Questa
volta la sua voce
vibrava malcelatamente di colpa. «Mi servivano per fare
quello che puoi fare
tu.»
Emir
scosse il capo dolorosamente: a ogni movimento la sua testa pulsava.
«Che cos’è
che posso fare io?»
«Tu
puoi uscire» disse Mewtwo. «Tu puoi imparare. Io
sono prigioniero qui.»
Emir
si piegò su se stesso col capo compresso tra le mani: tutto
era troppo
complesso e troppo grande e la sua mente era come sopraffatta.
«Che
cosa mi hai fatto?»
«A
te nulla. Vedi bene che non ti è successo niente.»
La voce di Mewtwo aveva lo
stesso accento di quella di un bambino accusato d’un
dispetto; ma nel riflesso
sul vetro non c’era più il mostro bambino che Emir
aveva creato e preso tra le
braccia quando ancora il suo corpo era troppo debole per obbedire alla
sua
mente. «Volevo solo vedere com’era fuori.»
Emir
si premette le mani sulle tempie che martellavano
dall’interno: tutto gli
appariva più grande e incomprensibile di lui. «Hai
usato il mio corpo per poter
uscire?»
«Ho
visitato l’isola» disse Mewtwo. I suoi occhi
vagarono al di fuori della
finestra, si accesero di luce per un istante. «Il mondo
è tanto più vasto di
questa villa in cui mi tieni recluso.»
«Non
sei recluso» ripeté Emir per l’ennesima
volta; o forse era la prima, e la sua
mente a soqquadro lo ingannava? «Ti hanno visto… mi
hanno visto… hai
incontrato qualcuno? Che cosa hanno pensato?»
«È
stato… strano» disse Mewtwo.
Emir
si premette le mani sulle tempie che a ogni momento minacciavano di
esplodere.
«Strano?»
«Ho
camminato tra la gente nel tuo corpo.» Mewtwo non raccontava
davvero: ricordava
per se stesso, toccava alternativamente i suoi ricordi e i propri come
se
sfogliasse più di un libro in contemporanea. Il suo tocco
nella mente di Emir
si era fatto delicato come le dita di un arpista, ora non frugava
più con mani
goffe, violente, come quando era appena nato; ma proprio
perché la sua ricerca
s’era fatta più raffinata e meno grossolana ora
Mewtwo cercava più a fondo,
andava a scavare nelle plaghe più recondite del suo cervello
in cerca delle
ultime briciole di conoscenza che gli erano sfuggite. Il dolore
sembrava
strappato ai suoi stessi nervi. «Gli uomini mi osservavano
come se mi
conoscessero ma senza ripugnanza, come mai mi avrebbero osservato se
avessi camminato
con questo mio corpo. Era una strana libertà.»
«Ti
hanno bene accolto?» domandò Emir ironicamente.
Gli
occhi di Mewtwo s’accesero di barbagli azzurrini nel riflesso
della finestra:
quella domanda richiedeva da lui una riflessione più
profonda della precedente.
«Mi
scrutavano come fossi un morto riemerso da un abisso. Camminavo tra di
loro, ma
non ero uno di loro. Mi hanno fatto strane domande di cui non capivo il
significato… anzi: il senso. Il significato lo capivo
benissimo. Ma lo scopo,
lo scopo, qual era? Quello mi sfuggiva sempre.»
Poteva
immaginarsi cosa Mewtwo avesse visto e sentito attraverso i suoi occhi
e le sue
orecchie: isolani che lo scrutavano perplessi e preoccupati mentre
vagava per
l’isola come allucinato, muovendosi nelle sue membra come se
indossasse un
corpo che gli andava troppo largo o troppo stretto alla stregua di un
vestito
non suo. Ma Isola Cannella lo considerava già un pazzo che
volontariamente
viveva recluso solo in una villa troppo grande per lui; di tutta
l’Isola non
c’era che una persona di cui ancora gli importasse, ma in
qualche modo sapeva
che non era in lui che Mewtwo si era imbattuto. Mewtwo conosceva
già Rotwang
dal giorno della sua nascita: se lo avesse visto, la sua mente
prodigiosa lo
avrebbe riconosciuto.
«Tu
hai risposto?» domandò Emir.
«Non
subito» disse Mewtwo. «Ho iniziato a rispondere
dopo un po’. Ho dovuto prima
cercare nella tua mente le risposte alle loro domande, ma era qualcosa
che non
avevo mai fatto. Volevano sapere di te.» Lo disse col tono di
una cosa proprio
curiosa. «Chiedevano di te, della Villa. Una donna sembrava
molto affezionata a
te.»
Una
donna: la sua segretaria, forse, di quand’era a capo del
Laboratorio, o forse
Portia, chissà. Un tempo gli sarebbe interessato saperne di
più, gli avrebbe
chiesto ulteriori dettagli; ma che cosa cambiava, ormai, se chiedeva di
lui una
donna lontana che un tempo gli aveva voluto bene?
«Che
cos’hai risposto?» domandò.
«Ho
detto: bene. In qualche modo ho sentito, nella tua
mente, che quella era
la risposta consueta da dare alla domanda che mi facevano.»
Ci fu un guizzo di
divertimento nella voce di Mewtwo che rimbombava nella sua mente
quando, in
risposta al dubbio che balenò nel suo pensiero, aggiunse:
«Giusto, un dubbio
più che lecito. Non temere. Ho parlato in –
com’è che direste voi? Ah, ecco: in
prima persona.»
Se
gli fosse stato possibile, Emir avrebbe riso, ma d’amarezza:
riusciva quasi a
immaginare il suo corpo, nella nebbia dell’isola, mosso da un
oscuro
burattinaio i cui occhi ardevano nell’isolamento della Villa,
che rispondeva a
domande di circostanza con occhi vacui e come spiritati, cercando nella
sua
mente le risposte, che erano banali esattamente quanto le domande.
«Devi esser
stato molto convincente.»
La
punizione non tardò ad arrivare: la rabbia di Mewtwo
divampò nella sua mente
polverizzando i suoi pensieri, Emir si ritrovò a urlare in
ginocchio aggrappato
al davanzale della finestra nel tentativo di non cadere; poi quel
dolore passò;
ma la furia di Mewtwo non era sufficiente a strappare da lui
l’ironia di quella
situazione. Si sedette lentamente sul pavimento, in faccia a Mewtwo, e
si toccò
il naso respirando a fatica: quando le ritirò, le sue dita
erano sporche di
sangue. Gli venne ancora da ridere.
«Non
sapevo d’averti fatto così permaloso»
disse. Sfidarlo era da pazzi, ma quale
nuovo dolore poteva infliggergli? La sua mente già non gli
apparteneva più,
Mewtwo se l’era già presa, e ora aveva imparato
anche a possedere il suo corpo.
La
luce negli occhi di Mewtwo si affievolì lentamente come
brace, il suo sguardo
si fece attento e fisso mentre percorreva il suo volto.
«Non
volevo farti tanto male» disse.
«Perdonami.»
Era
la prima volta che Emir udiva le sue scuse dal giorno della sua
nascita: quella
consapevolezza lo stupì per un momento, ma non
affievolì il suo rancore né il
suo sarcasmo. Si tamponò il naso provocatoriamente.
«Hai
paura di rovinare il mio corpo?» chiese. «Come
potresti, altrimenti, rubarlo
per andartene in giro?»
La
luce dei suoi occhi si accese per un momento, ma durò solo
un istante: Mewtwo
stava cercando di dominarsi.
«Non
ne avrei bisogno, se tu mi lasciassi libero di andare. Ti ho
già detto che il
tuo corpo mi occorreva.»
«Per
due mesi?» ribatté Emir. La sua voce
suonò incrinata quando disse queste
parole: due mesi della sua vita, due mesi in cui la sua coscienza era
rimasta
prigioniera e confinata in una parte del suo cervello in cui non le era
dato di
agire, mentre Mewtwo utilizzava il suo corpo come un vecchio paio di
stivali,
da indossare e poi sfilarsi.
La
voce di Mewtwo rimase quieta e calma, forse appena un po’
colpevole. «Non
volevo servirmene tanto a lungo, all’inizio. Io
ho… perso il senso del tempo.
Il tuo corpo mi piaceva stranamente come se fosse un po’
anche mio.»
Anche
un po’ suo. Quella conversazione rischiava di portarli
entrambi sul terreno
pericoloso di una conversazione nella quale Emir non intendeva
assolutamente
arrischiarsi: cercò di abbassare i toni nel tentativo di
distogliere la sua
attenzione da quel pensiero. Se Mewtwo se ne accorse, non disse niente.
«Non
hai bisogno del mio corpo per lasciare questa casa. Ti ho detto tante
volte che
non ti ho mai trattenuto. Puoi varcare quella soglia, puoi
Teletrasportarti, e
andare ovunque tu voglia. Puoi tornare in Guyana…»
«Tornare?»
Gli occhi di Mewtwo si strinsero per un momento, brillanti di una luce
amara.
«Ma in Guyana io non sono mai stato.»
«Lo
sai che cosa voglio dire» ribatté Emir.
«Davvero?»
rispose Mewtwo. «Io so che tu sei stato in Guyana e so che
proietti su di me un
ricordo che non appartiene a me. È il ricordo di mia madre,
non è vero? Ma non
solamente…» I suoi occhi arsero di nuovo mentre
cercava nella sua mente: Emir
sentì che il suo pensiero scavava nei suoi e li spostava
come fossero corde che
tirava qua e là. «C’è un
altro Pokémon nei tuoi ricordi che assomiglia a
lei.»
La sua fronte si aggrottò per la concentrazione: la
brutalità della ricerca
all’interno della sua mente fu tale che Emir si
sentì sul punto di vomitare.
Era come sentirsi arrovesciare il cervello dall’interno
«È lui mio padre?
Questo ricordo così doloroso che sento…
è il suo?»
«Smettila»
singhiozzò Emir cercando di spingerlo via; ma la sua mente
non era un corpo
fisico da poter allontanare come e quando voleva. Mewtwo ritrasse i
suoi
pensieri a poco a poco e lo guardò con occhi carichi di
stupore.
«Ti
fa soffrire tanto il ricordo di quel Pokémon?»
«Non
lo so più» balbettò Emir: ora che
Mewtwo aveva smesso di frugare nella sua
mente come un bambino che scavava con le dita, non sapeva neppure
più quali
sentimenti gli appartenessero ancora. Era suo il dolore per la morte di
M1, o
era stato solo di Rotwang? Era passato così tanto tempo.
«Era
mio padre?» insisté Mewtwo: questa domanda doveva
apparirgli importante,
fondamentale, se la ripeteva tante volte. Emir provò la
fugace, sciocca
tentazione di rispondere di sì, di lasciarglielo credere:
almeno avrebbe smesso
di far domande e d’indagare, si sarebbe contentato
dell’immagine di quel
Pokémon morto che aveva trovato nella sua memoria come della
foto di un
antenato trovata in un album di famiglia. Ma Mewtwo non si poteva
ingannare,
come si poteva mentire alla creatura che possedeva la sua mente
indossandola e
svestendola a piacimento?
«Perché
vuoi mentirmi?» chiese Mewtwo. La tentazione che
l’aveva attraversato per un
attimo non gli era sfuggita: quand’era che si era avvicinato
così? Ora Mewtwo
torreggiava su di lui, era terribile, forte quanto il destino, e
incombeva su
di lui in tutta la sua altezza: i suoi occhi fiammeggiavano.
«Pensi forse che
non possa leggere le tue menzogne attraverso il tuo pensiero?»
Il
dolore che scaturì dalla sua ira fu tale che Emir vide solo
una luce bianca per
qualche istante. Questa volta non si spaventò quasi, non
provò neppure
sgomento: si prese il capo tra le mani in attesa che passasse come
avrebbe
fatto con un’onda di marea. A poco a poco la luce bianca si
affievolì, i suoi
occhi videro di nuovo, i suoi polmoni inalarono di nuovo aria a grandi
boccate.
«Non
puoi leggerci la verità, però»
ansimò. Questo potere su di lui gli era rimasto,
quantomeno: restava una porzione della sua mente, per quanto
infinitesima, alla
quale Mewtwo non aveva accesso. Era l’unica vendetta che gli
rimaneva: puntare
il dito là dove persino gli infiniti poteri di Mewtwo
conoscevano limiti. «Se
tu riuscissi a vederla, non avresti bisogno di chiedermi ossessivamente
chi era
tuo padre. Sbaglio?»
Incassò
il capo tra le spalle quasi d’istinto, in attesa che la
rabbia di Mewtwo
divampasse nella sua testa come un fiore di fuoco; ma non accadde
nulla. Mewtwo
si era ritratto di qualche passo, non torreggiava più su di
lui: anziché
accrescersi la sua rabbia s’era acquietata quando Emir aveva
parlato. Anche il
suo sguardo era mutato, i suoi occhi ora scrutavano il suo volto in
cerca delle
risposte cui la sua mente non gli dava accesso.
«Ma
tu sai chi era.»
«Io
so d’averti creato con un’incubatrice che ho
progettato all’Università» rispose
Emir. «Ma questo lo sai anche tu.»
Mewtwo
lo scrutò incessantemente mentre tastava nella sua mente con
una delicatezza
che fino a quel momento non aveva mai usato; i suoi occhi brillavano
d’azzurro,
eppure in quel momento non bruciavano.
«Non
è una bugia» mormorò. Stava
riflettendo, contemporaneamente nella propria mente
e in quella di Emir. «Eppure non è nemmeno la
verità. Com’è possibile?»
«Non
lo so» disse Emir. Ma quante volte avevano già
avuto quella conversazione che
ora lui non ricordava? Gli pareva d’aver già
sostenuto quella conversazione,
d’essersi già difeso dalle sue domande.
Mewtwo
non era convinto delle sue parole, ma non riusciva a capire
dov’era la
menzogna. Rimase immobile, pensieroso, a scrutarlo da un capo
all’altro della
stanza, soppesando le sue parole all’interno della propria
mente. Non disse
niente.
Forse,
per quel giorno, era finita: non ci sarebbero state altre esplosioni di
furore
nella sua testa, forse lo avrebbe lasciato andare. Emir si
alzò lentamente
sulle gambe malferme, certo che non lo avrebbero sorretto: le sue cosce
erano
divenute magre a tal punto che neppure si toccavano tra loro, le sue
ginocchia
tremavano. Mewtwo seguì con gli occhi i suoi movimenti.
«Mi
dispiace» disse. La sua voce suonava sincera.
«Cercherò di avere più cura del
tuo corpo… la prossima volta.»
Emir
sorrise amaramente. Conosceva già la risposta, eppure fece
egualmente la
domanda. «Lo rifarai ancora, quindi. Possedere il mio
corpo.»
«Sei
tu che mi costringi» rispose Mewtwo. «Se voglio
vedere che cosa c’è fuori, se
non voglio che mi catturino… non mi rimane altra scelta che
prenderlo. Mi
dispiace.»
«Perché
non te ne vai?» insisté Emir ancora, ma stavolta
senza particolare vigore. Non
intendeva più esortarlo: voleva solo saperlo. Mewtwo, che
leggeva nella sua
mente le sue intenzioni prima ancora di udire le sue parole,
sembrò
comprenderlo, perché non si infuriò.
«Perché
se ti lasciassi non scoprirei mai chi è mio padre»
rispose. La sua voce suonava
dolorosamente sincera. Esitò. «Perché
al mondo ho solo te. Mi hai creato perché
restassi solo al mondo e nascosto in eterno?»
Emir
chinò il capo sul petto e non rispose.
«Perché
non te ne vai tu?» domandò Mewtwo allora. Neppure
lui voleva esortarlo ad
andarsene: voleva solo saperlo.
Emir
rimase come folgorato da questa domanda. Ammettere di non averci mai
pensato
era imbarazzante come mostrarsi nudo, ma era la verità: era
legato alla Villa
come lo era al proprio corpo, forse ancora di più ora che il
suo corpo non gli
apparteneva nemmeno più, ma Mewtwo aveva ragione: se avesse
voluto sottrarsi
alla sua influenza avrebbe potuto andarsene. Allora perché
quel pensiero non lo
aveva mai neppure sfiorato?
«Perché
non ho che questo posto al mondo» rispose. Era stato felice
nella Villa, almeno
finché la sua vita gli era appartenuta, un tempo; fino a M1
e a M2 e forse
anche dopo, finché c’era stato Rotwang, per un
po’. «Perché al mondo non mi sei
rimasto che tu.»
Vi
erano notti in cui Mewtwo ululava nell’aria immobile nella
villa.
Soffriva
come se gli fosse stata inferta una ferita invisibile, mortale. La
prima volta
Emir s’era svegliato di notte mentre il suo grido squarciava
l’aria: era
assordante, inumano; era la prima volta da quando Rotwang se
n’era andato che
Emir sentiva una voce pronunciata al di fuori della sua mente.
Era
accorso là da dove proveniva il grido, nella stanza dove
Mewtwo era nato e che
aveva eletto a suo regno, quella che un tempo era stata la camera di
Rotwang:
era un urlo animale, selvaggio, che la terra non aveva udito mai prima
d’allora.
Mewtwo
si teneva il capo tra le zampe come se dovesse comprimerlo
dall’esterno perché
non esplodesse; questa comparazione l’aveva fermato: voleva
dire che nessuno
l’aveva ferito. Emir era rimasto immobile sulla soglia senza
entrare, forse
perché c’era una parte di lui, neppure tanto
oscura, che di fronte al suo dolore
provava un sentimento strano di rivalsa. Ma quando Mewtwo aveva
allontanato le
zampe dal proprio volto e cercato il suo sguardo, i suoi occhi erano
umidi e
del tutto privi dell’azzurro della sua rabbia.
«Perché
mi hai fatto questo?»
«Questo
cosa?» aveva mormorato Emir percorrendolo interamente con lo
sguardo. La luce
della luna lo bagnava come se fosse latte: il suo corpo appariva livido
e
uniformemente grigio, muscolare e tonico come gli era sempre apparso,
ma
contratto e trasfigurato dal dolore.
«Questo!»
L’aria
aveva tremato del suo dolore e del suo potere. Emir s’era
portato le braccia al
volto per un istinto salvifico prima ancora di distinguere il tintinnio
dei
vetri infranti, il vento aveva d’improvviso fischiato
più forte attraverso le
finestre. Quando Emir aveva sollevato gli occhi, tornando lentamente ad
abbassare le braccia, Mewtwo aveva ancora il capo costretto tra le
mani. Si
fronteggiavano entrambi attraverso un tappeto di vetri rotti.
«La
mia testa…!»
«Ti
fa male?» s’era informato calmo Emir. Non provava
ormai più sorpresa né paura
di fronte a Mewtwo: era stata la prima volta che il suo potere si
manifestava
al di fuori del suo corpo con tanta violenza, ma quel potere non lo
stupiva
minimamente. Non lo aveva creato forse per quello, perché
forse più potente di
sua madre e in grado di lottare?
Di
fronte alla sua indifferenza Mewtwo aveva ruggito nella sua mente: Emir
s’era
dovuto aggrappare allo stipite della porta per non cadere.
«Hai
creato la mia mente perché fosse infinitamente affamata per
poi non darmi
niente con cui nutrirla!»
Il
cervello sovrumano di Mewtwo era andato oltre ogni sua previsione.
Questo Emir
non l’aveva preventivato, era stato imprevidente, o forse
semplicemente i
frutti del suo genio avevano sopravanzato il suo genio e ogni
facoltà umana:
aveva creato Mewtwo perché fosse in grado di difendersi, ma
che la sua mente
continuasse a svilupparsi famelicamente, alla stregua di un organismo
che se
non nutrito si contorceva in preda ai morsi della fame, come avrebbe
potuto
prevederlo?
«Hai
attinto dalla mia mente finora» aveva obiettato senza
convinzione; era stato
peggio: Mewtwo s’era rigirato con uno scatto ferino, la sua
rabbia aveva
echeggiato nella sua mente con un accento d’accusa.
«La
tua mente è finita! Cos’altro
posso imparare da lei?»
I
giorni trascorrevano più interminabili delle notti, il tempo
si rassomigliava e
si perdeva nei meandri della villa, scivolava via come acqua attraverso
invisibili fessure. Ogni tanto scompariva, le ore e i giorni
semplicemente non
si trovavano più: Emir si svegliava talora da sonni che non
ricordava d’aver
mai dormito, le prime volte sul pavimento addirittura, quando Mewtwo
ancora
svestiva il suo corpo come uno straccio sporco e lo abbandonava sul
pavimento
prima di rientrare nel proprio; ormai Emir non si scomponeva neanche
più.
Talora invece trascorrevano anche giornate intere, infinite, senza
ch’egli
perdesse traccia di quello che accadeva; erano giorni solidi che
spiccavano in
mezzo al tempo informe; ma erano anche i giorni in cui più
spesso capitava che
Mewtwo ululasse colla testa dilaniata da un dolore senza fine. Emir lo
vegliava
impotente senza saper che fare per aiutarlo: Mewtwo lo guardava con
occhi colmi
d’accusa e di rancore perché era lui ad avergli
fatto quello e a lasciarlo
soffrire senza intervenire.
«Vattene»
insisteva Emir talvolta per non saper che dire né che fare:
là fuori, nel mondo
infinito, la mente di Mewtwo avrebbe trovato sufficiente nutrimento al
proprio
famelico bisogno di accrescersi e imparare per non divorare se stessa;
ma le
sue erano parole vane che si ripetevano, come i giorni e il tempo,
senza
trovare compimento. Mewtwo ruggiva in risposta cogli occhi tinti
d’azzurro e di
rosso dei capillari che iniettavano sangue, i vetri tintinnavano nelle
commessure
delle finestre e talora s’infrangevano; Emir si ritraeva ma
senza scappare:
Mewtwo non gli avrebbe mai fatto veramente del male, perché
il suo corpo gli serviva.
«Andarmene
perché? Per toglierti il peso del mio dolore e portarlo dove
tu non debba
vederlo?»
«No,
perché…»
Una
fitta di dolore lo atterrava prima che avesse modo di difendersi
dall’ingiustizia della sua accusa. Non era rabbia,
però: Emir cadeva in
ginocchio annichilito dal dolore, si prendeva il capo tra le mani in
preda ai
conati di vomito; Mewtwo sollevava il capo lentamente per osservarlo
contorcersi quasi con voluttà di rivalsa.
«Lo
senti?»
Emir
non rispondeva, il suo cervello pareva divorato dall’interno
come da un insetto
mostruoso che ne strappasse coi denti grandi bocconi; sangue gli colava
dal
naso. Non rispondeva: supplicava. «Mewtwo, ti
prego…»
«Questo
è il dolore che sento io!» La sua voce rimbombava
nell’aria della stanza o
forse solo nella sua testa, si ripercuoteva contro le pareti in
un’eco senza
fine. Il dolore scompariva rapidamente dalla sua mente come acqua
risucchiata
via. «Non vuoi né vederlo né sentirlo,
eppure mi hai creato per questo!»
Chissà
se in paese le sue urla nella notte si sentivano. Emir usciva qualche
volta
dalla Villa, quando proprio non poteva evitarlo, visto che lui e la
creatura
dovevano ancora sopravvivere; non parlava con nessuno, e quelli che
incontrava
ne sembravano sollevati, dal momento che nessuno era particolarmente
desideroso
di parlare con lui. Gli abitanti lo scrutavano con sospetto come se non
sapessero bene cosa attendersi da lui né come comportarsi di
fronte alla sua
stranezza: Emir avrebbe voluto poter attribuire le loro reazioni alle
volte in
cui lo avevano visto posseduto da Mewtwo, ma in fin dei conti sapeva
che non
era così. Che lo fissavano inquieti e attoniti al vederlo
perché avevano paura
di lui e di qualunque cosa egli tenesse nascosta nella Villa e forse
urlasse
nella notte, da sempre.
Poi,
ogni tanto, il tempo svaniva di nuovo. Ora Emir si svegliava sempre
più di rado
sul pavimento: quando riaveva coscienza di sé, dopo ore o
forse giorni in cui
Mewtwo l’aveva posseduto, si trovava nel suo letto, spesso
persino sotto le
coperte. Era una strana immagine quella che si affacciava allora alla
sua
mente: quella di Mewtwo che, dopo una lunga giornata, lo metteva
ordinatamente
a letto, sotto le coperte, prima di svestire il suo corpo come una tuta
da
lavoro. Aveva smesso di opporsi, ma Mewtwo avvertiva il suo
risentimento là
dove non poteva nasconderlo, nei recessi della sua mente, là
dove aveva libero
accesso.
«Mi
dispiace» diceva. «Ti ho già spiegato
che il tuo corpo serve più a me che a
te.»
«Se
tu davvero non volessi, te ne andresti» aggiunse una volta in
un tono che a
Emir non piacque.
«Tu
mi lasceresti andare?» s’informò
sarcasticamente.
Mewtwo
parve sorpreso da quella domanda. Rifletté per un
po’: lo sforzo mentale
sembrava avere la facoltà di distoglierlo dal suo dolore,
per qualche momento. «Non
lo so. Tu non ci hai mai provato.»
Fuori
dalla Villa il tempo continuava a scorrere con lo stesso ritmo di
prima,
lineare e privo di scosse come la corrente di un canale.
Un’estate il vulcano
destò preoccupazione: vomitò vapori e ceneri
dalle caldere laterali per qualche
giorno; si parlò di attuare un protocollo
d’emergenza che prevedeva di evacuare
l’isola, spostando momentaneamente gli abitanti presso le
Isole Spumarine. La
questione occupò i telegiornali per qualche giorno; si
fecero prove di raccolta
e di verifica del sistema d’allarme tramite sirene. Al suono
degli allarmi
Mewtwo guardò a lungo fuori dalla finestra: non sembrava
preoccupato ma
piuttosto assorto, i suoi occhi cercavano risposte nelle nubi di fumo.
«Credi
che corriamo un rischio concreto?»
«Non
sei mai stanco di farmi domande retoriche, poiché sei in
grado di vedere da
solo la risposta nella mia mente?» rispose Emir senza neppure
guardarlo.
Trascorreva quei giorni appollaiato nell’incavo di una
finestra che affacciava
in direzione del vulcano, a osservare in lontananza il denso fumo
grigiastro
che s’inerpicava in cielo; i balconi erano ricoperti di
cenere.
Mewtwo
non raccolse la sua provocazione: non sembrò neppure
notarla. «Evacuare…
significa che sposteranno tutti gli abitanti
dall’Isola?»
Emir
non rispose neppure, il suo silenzio era eloquente a sufficienza:
Mewtwo
conosceva il significato di quella parola, dunque non era davvero
quello che
intendeva chiedergli. Aspettò.
«Che
cosa faremo noi se daranno ordine di evacuare?»
Emir
rimase ostinatamente in silenzio. Mewtwo non domandò
più; l’allarme durò ancora
per qualche giorno, poi rientrò e non se ne parlò
oltre; il vulcano eruttò
ancora per un po’ ceneri bianche che coprirono
l’isola come neve, poi tornò a
dormire un po’ per volta. Chissà, forse Mewtwo
aveva temuto per la sua vita,
per la prima volta aveva concepito l’idea d’essere
mortale, e per quello aveva
domandato che sarebbe stato di loro; o forse nella prospettiva
dell’eruzione e
dell’evacuazione aveva visto una speranza di
libertà e la fine della sua eterna
prigionia?
Le
sue grida nella notte lo svegliavano sempre più spesso. La
sua voce nel buio
era straziante, era disperata e brutale, per suo tramite il suo dolore
si
faceva tangibile. Emir sedeva al suo fianco per ore nella notte che non
trovava
fine; avrebbe voluto poterlo salvare, ma Mewtwo non gli permetteva
neppure di
toccarlo.
«Tu
hai fatto questo!»
La
sua rabbia sfidava ogni contatto, eppure al contempo Mewtwo lo chiamava
a sé e
lo voleva vicino; che fosse per conforto o piuttosto per imporgli la
vista del
suo dolore Emir non avrebbe saputo dirlo.
Una
notte non lo fece neppure avvicinare. Quando entrò nel
salottino sul mare attirato
dalle sue urla Emir si ritrovò sbalzato via
dall’impeto della sua rabbia prima
ancora di varcare la soglia, gli occhi gli lacrimarono dal dolore alla
testa,
si prese il capo tra le mani: Mewtwo era immobile in un letto di vetri
rotti,
dalle finestre ora spalancate il ruggito del mare risuonava
inerpicandosi lungo
gli scogli in aspre ondate. Emir avanzò con cautela in mezzo
ai frammenti sul
pavimento come su un campo di battaglia; il vento entrava da ogni dove
attraverso le vetrate infrante, ma Mewtwo rimaneva immoto, in silenzio,
col
capo nascosto tra le zampe che gli coprivano gli occhi.
Alle
grida seguì uno strano silenzio innaturale: Emir
attraversò la stanza come quel
silenzio se fosse un fluido denso che doveva fendere per poter arrivare
fino a
lui. Tese la mano. Mormorò: «Lascia che ti tocchi.
Non so come altro aiutarti.»
In
quei momenti Mewtwo si ritraeva sempre dal tocco delle sue mani. Quella
notte
invece rimase immobile: la sua pelle era aspersa della stessa peluria
morbida
di quella di sua madre, Emir quasi non se ne ricordava più.
Quand’era stata
l’ultima volta che Mewtwo gli aveva permesso di toccarlo?
Forse era stato quel
primo lontanissimo giorno, quando era appena nato e gli aveva ordinato
di
lavarlo; Emir l’aveva preso tra le braccia, l’aveva
immerso nell’acqua tiepida,
aveva lavato poco alla volta il muco gelatinoso che lo copriva,
versando sul
suo capo livido, sui suoi occhi fissi, acqua tiepida dalla coppa della
propria
mano. Mewtwo s’era affidato a lui ciecamente, guardandolo in
silenzio, perché
non poteva fare altro, il suo corpo non era ancora forte a sufficienza
per
obbedire alla sua mente e fare ciò che gli occorreva; ora lo
era diventato ma
ancora non poteva servire al suo scopo, perché il suo corpo
restava prigioniero
della Villa e la sua mente aveva bisogno d’altre membra per
andarsene in giro.
Quanto tempo era passato da quel giorno in cui Emir l’aveva
tenuto tra le
braccia sotto l’acqua che scorreva?
Quando
Mewtwo abbassò le braccia, i suoi occhi erano lucidi e rossi
di lacrime. Non
c’era rabbia, per una volta, e questo lo spaventò
ancora più del solito.
«Mi
dispiace» disse. La sua voce aveva un accento disperato,
straziato, che Emir
non gli aveva mai sentito. Stava piangendo. Ma quando mai
s’era visto un
Pokémon piangere? «Mi dispiace. Non so come altro
fare. Il tuo corpo mi serve.
Mi dispiace.»
Emir
si ritrasse da lui come da una trappola che aveva tardato fino a quel
momento a
vedere e di cui solo in quel momento riconosceva le tracce, i frammenti
di
vetro scricchiolarono sotto i suoi piedi; poi a un tratto non si mosse
più, il
vetro tacque d’improvviso, le sue gambe non risposero al suo
volere più di
quanto il corpo di Mewtwo avesse risposto al suo padrone in quel giorno
lontanissimo.
«Mi
hai paralizzato» disse stupidamente.
«Mi
dispiace» ripeté Mewtwo. Era sinceramente
addolorato, Emir lo leggeva nella
voce che rimbombava nella sua testa senza trovare ostacoli alla propria
eco: ma
addolorato per che cosa? «Non voglio farti del male, ma il
tuo corpo mi serve.
Mi dispiace tanto.»
«Hai
già il mio corpo» mormorò. Le sue mani
erano percorse da formicolii sottili,
erano come intorpidite: poteva muoverle a malapena, molto lentamente, e
con
grande dolore. Qualunque cosa volesse fargli Mewtwo, non sarebbe
scappato mai. Studiò
le proprie dita immobili con grande interesse, poiché ormai
non poteva fare
altro. «Anche tua madre sarebbe stata in grado di farlo, se
solo avesse voluto.
Di paralizzarmi per ottenere quello che voleva. Solo che non voleva
nulla
abbastanza intensamente perché ne valesse la pena,
forse.»
«Smettila
di parlare di mia madre!» urlò
Mewtwo. Gli ultimi vetri rimasti rimbombarono sotto la sua rabbia, Emir
lo
fissò in silenzio. «Io non sono debole
com’era lei! Mi hai creato perché fossi
più forte per poi non darmi nulla su cui sfogare la mia
forza, mi hai dato la
mia intelligenza per poi tenermi chiuso qui in eterno senza nulla da
apprendere… eppure continui a paragonarmi a lei!»
Di
fronte al dolore incommensurabile della sua voce Emir chinò
gli occhi e rimase
in silenzio. Mewtwo si sarebbe preso il suo corpo con la forza
perché la sua
mente era disperatamente affamata e la Villa non le bastava
più; nulla che lui
potesse fare sarebbe bastato a fermarlo, eppure parlò
ugualmente. Non sapeva
neppure se parlasse nell’ultimo disperato tentativo di farlo
ragionare o se
piuttosto quelle fossero soltanto le ultime parole che gli avrebbe
detto mai. «Non
avrei mai voluto questo per te. Non era questo che volevo. È
solo che tutto a
un tratto tutto è diventato più grande di
me.»
«Tutto
è sempre stato più grande di te!»
ringhiò Mewtwo.
Emir
alzò gli occhi su di lui. La luce della luna lo bagnava di
trasparenze
madreperlacee, i suoi occhi ardevano di brace azzurra. Era il
Pokémon più forte
del mondo; l’aveva creato lui, estratto vivo dalla materia
del mondo con la
forza delle sue braccia e del suo genio, plasmato con la sua viva
carne.
«No,
non è così» rispose invece.
«Ho creato esattamente quello che volevo creare. Ho
reso perfetta la stirpe di tua madre esattamente come ho voluto dal
giorno in cui
l’ho guardata giocare nel Laboratorio attraverso un vetro, ho
dato al mondo il
compimento che la natura aveva tralasciato di realizzare…
non è vero che è
sempre stato tutto più grande di me. È solo che
nel perfezionare lei ho finito
per fare lo stesso con me. Sai perché non riesci a trovare
tuo padre nella mia
mente?»
«Sono
stanco delle tue menzogne!» ruggì Mewtwo solcando
la stanza a grandi passi.
«Non
riesci a trovarlo perché guardi nella direzione
sbagliata» proseguì Emir senza
neppure ascoltarlo. Mewtwo s’interruppe bruscamente
là dove si trovava; gli
dava le spalle, eppure impercettibilmente volse il capo nella sua
direzione.
Nonostante tutto, nonostante l’odio, nonostante il dolore,
ascoltava ancora le
sue parole, ed Emir proseguì. «Non riesci proprio
a capire, vero? Eppure tu sei
più intelligente di me… e sai tutto quello che so
io. Tutte le risposte sono
state sempre qui, nella mia casa, nella mia mente, a tua disposizione,
dunque
se ancora non lo sai è perché ciecamente ti
ostini a non voler vedere…»
La
furia di Mewtwo divampò nella sua mente come una tempesta di
vento; se solo
avesse potuto, Emir si sarebbe preso il capo tra le mani, ma il dolore
svanì
dalla sua testa rapido così com’era apparso mentre
Mewtwo gridava: «Stai
cercando di confondermi!»
Nella
rabbia insensata che Mewtwo disperatamente gli portava Emir vide
d’un tratto,
per la prima volta, quella che l’aveva opposto a suo padre
per vent’anni.
D’improvviso sentì di guardarlo con grande
dolcezza. «Proprio tu, tra tutti…
pensi che la verità possa confonderti?»
Gli
occhi di Mewtwo frugavano il suo volto con un’ansia frenetica
che Emir non gli
aveva visto mai, cercando ovunque su di lui, nella sua mente, le tracce
della
menzogna di cui lo accusava – ma tracce, Emir lo sapeva, non
ce n’erano.
«Neppure
tu avresti osato mai» mormorò Mewtwo. Nella sua
voce che mormorava dentro la
sua testa c’era un accento interrogativo, supplice, che Emir
non gli aveva
sentito mai. Si sentì il cuore stretto da una fitta di
pietà – ma Mewtwo non
era come Mew, dopotutto. La sua rabbia l’avrebbe salvato,
anche dopo di lui.
Ora non era più tempo di mentire. La verità era
l’unica eredità che poteva
lasciargli. «Contro natura, neppure tu… neppure
tu…»
«Tu
hai paura perché sai qual è la
verità» disse Emir. «Che in questa casa
c’era
solo una persona da cui potessi trarre il materiale genetico necessario
per
ibridare quello di tua madre.»
La
rabbia divampò negli occhi di Mewtwo dell’identico
azzurro degli occhi di Mew,
sbocciando sulla terra come un fiore di fuoco.
1 settembre. Mewtwo
è
davvero troppo forte. Non riesco a contenere i suoi istinti animali.