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Autore: Andy Black    11/12/2023    0 recensioni
Lo sapeva, Ciro, che le persone più determinate a ottenere giustizia potessero finire per confonderla con la vendetta.
Giustizia e vendetta.
Le aveva sempre viste arrivare assieme, l’una sotto al braccio dell’altra, così simili e così diverse, vestite entrambe di verità e con lo stesso fuoco negli occhi.
Ma la vendetta aveva le mani sporche di sangue.
Ciro non riusciva a separare quelle due sorelle in nessun modo: ogni volta che cercava la prima, la seconda le si univa di corsa dietro, la sorpassava e le si parava davanti, come una primadonna gelosa e più determinata, diventando ai suoi occhi la più appetibile e sensuale.
Lui era sempre stato affascinato da certi aspetti. Forse un po’ involontariamente, senza farlo apposta, credeva che fosse giusto levare a qualcuno qualcosa, se lui ne avesse più bisogno.
Una sorta di Robin Hood, volendo, con un’etica tutta sua.
Sbuffò.
Quant’era diverso, da suo padre.
- Dimentica il bene che fai e ricorda quando ferisci qualcuno. È così che un uomo diventa uomo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Epilogo;
 
 
Il sabato successivo il cielo era coperto e Ciro pensò che la cosa non fosse giusta.
Dacché avesse ricordi, riteneva che certi climi uggiosi fossero riservati alle domeniche, in particolare a quei pomeriggi prepotenti e annoiati d’autunno, che costringevano lui e i suoi amici a riunirsi al coperto, a guardare qualche film che non aveva e che comunque non gl’interessava, improvvisando spaghettate e aspettando che spiovesse per poter correre verso le macchine e rincasare. L’ultima volta avevano invitato più gente di quanta realmente volesse vedere a casa sua, ma era in quello strano periodo post rottura, in cui aveva bisogno di sentirsi accerchiato da tante persone che non facessero domande.
Molti di loro non li aveva più visti.
Pensò a quanto fossero cambiate le cose, nel corso di quei mesi. Un paio di coppie si erano sfasciate e Massimo era diventato padre; era addirittura riuscito a evitare il matrimonio di Francesco, nonostante tutti avessero affermato di essersi divertiti moltissimo.
Non amava, i matrimoni, Ciro.
Forse erano proprio le dimostrazioni pubbliche d’affetto, che non sopportava.
 
E poi pensò di nuovo ad Alice.
 
Si era svegliato senza che nessun rumore lo avesse disturbato, anche perché non aveva una sveglia e il cellulare di Jean riposava spento in un bicchiere di riso, sperando che i circuiti si asciugassero. Già immaginava uno dei loro botta e risposta, in cui spiegava all’amico che “erroneamente” il cellulare gli era scappato dalle mani ed era finito nella piscina al pian terreno, mentre l’altro avrebbe spalancato gli occhi blu, incredulo. Sarebbe seguito un noiosissimo quarto d’ora in cui Jean avrebbe elencato tutti gli oggetti che aveva perso prestandoli all’amico e che con ogni probabilità non avrebbe mai più riottenuto.
La routine di quel mattino fu simile a quella degli altri giorni, in cui si alzava e andava in bagno grattandosi le natiche. Avrebbe sciacquato la faccia con l’acqua fredda come faceva in caserma e sarebbe rimasto qualche secondo a guardare negli occhi il tipo allo specchio, pensando che il suo volto fosse gonfio e paonazzo.
Ma insomma, appena sveglio non riusciva a fare di meglio.
Normalmente avrebbe saltato la colazione ma aveva deciso di dare una svolta alla sua vita e di diventare un adulto responsabile, quindi aveva cominciato a fare la spesa. Aveva preso la bottiglia di latte dal frigo e ne aveva bevuto un sorso, mentre apriva le napoletane. Lì, una leggera brezza lo accarezzò lento.
Oltre i vasi di gerani ormai secchi, che avrebbe gradualmente gettato nella piscina del signor Di Fusco, il mondo pareva immobile. Fissava il grande banco di nubi scure che imperava nel cielo d’alabastro di quel mattino e pensò che il silenzio bucasse i timpani. Dopo si voltò, poggiandosi all’isola della cucina e bevendo ancora dalla bottiglia che stringeva tra le mani, attento a non sporcare nulla, perché Ludmilla lo aveva raggiunto il giorno prima, bussando al campanello e svegliandolo nell’unico modo possibile.
Si guardava stranito attorno, mentre prendeva ancora confidenza col mondo. Nella casa aleggiava ancora un lontano sentore di fiori di limone, che era il profumo del detersivo per i pavimenti. Nel bagno, invece, la donna aveva usato un gel per wc, blu, più denso, con fragranza Respiro delle Dolomiti, secondo ciò che c’era scritto sulla confezione.
 
- Ma che cazzo di odore è, Respiro delle Dolomiti?
 
Si fece questa e altre venti domande, mentre riponeva il latte nel frigo.
Il giorno prima aveva trovato anche il tempo di portare le lancette dell’orologio un’ora avanti. Lo guardò, rendendosi conto di non avere più tempo per contare appaciato le calamite sul frigorifero, ma che fosse mezzogiorno e trentadue, e che fosse in ritardo.
Infatti, un paio di pomeriggi prima aveva incontrato sua madre in fila dal tabaccaio. Le si era fermato alle spalle e aveva cominciato a tirarle i lunghi capelli scuri, vedendola poi voltarsi furente. La sua espressione, nascosta da un paio di doppie lenti da sole, mutò radicalmente quando si rese conto di avere davanti suo figlio, che non vedeva da gennaio, coi capelli freschi di barbiere e dal forte profumo di dopobarba. Si era limitata a chiedergli cosa cazzo ci fai qui e ad abbracciarlo con forza, alzando la voce festante e lasciando che tutti i presenti si voltassero a guardarli.
Gli diede poi uno schiaffetto dietro al collo.
 
- Hai trovato il tempo di andare a farti i capelli e non di venire a salutarmi?
- Sì, volevo farmi prima bello per te.
- Sei un paraculo.
 
Ciro l’aveva calmata e poi le aveva chiesto di chiamare Ludmilla, spiegando di non poterlo fare da solo perché non aveva più il cellulare. Monica si era fatta dare qualche spiegazione sommaria e aveva eseguito, e poi l’aveva invitato a pranzare con lei, prima di raccontargli una quantità tremenda d’informazioni su finti amici e parenti di fatto, capendo che quello la stesse ascoltando per cortesia e voglia di fare ma senza un reale interesse. Lo liquidò poco dopo, dandogli un bacio sulla fronte e andando via con la stessa eleganza dell’uragano Katrina.
 
*
 
Il telegiornale parlava in sottofondo ma Monica non lo ascoltava. La tv era lì più per compagnia che per altro, che di sentir parlare di politica e di guerra non ne aveva più voglia.
Girò il sugo e abbassò la fiamma, perché non voleva che schizzasse tutto, quindi pensò che in quella casa non ci fosse odore di cucinato da parecchio tempo.
Fu un attimo, prima che il tempo si fermasse, e che il suo sguardo percorresse l’intera lunghezza del salotto, dove i fantasmi dei suoi figli piccoli giocavano con Gaetano, in una delle sporadiche volte in cui non era lui a mettersi ai fornelli.
Rivide Ciro saltare sul divano mentre Lucia, molto piccola, gattonava sul tappeto blu davanti a lui.
Il citofono la ridestò.
Posò il cucchiaio sporco di salsa sul banco e andò alla porta, aprendola e vedendo suo figlio poco oltre.
- Oh. Hai fatto presto.
Quello le diede un bacio e spinse poi in casa una bicicletta nuova, nera, dal telaio opaco, col sellino ergonomico in silicone. Aveva la pedalata assistita.
- Ecco qua. – le aveva detto, facendola sorridere.
- Ma non dovevi, a mamma…
Le allungò poi una catena e un lucchetto e sorrise a mezza bocca.
- Questa cerchiamo di tenerla un po’ di più.
La donna lo strinse in un caldo abbraccio e poi si ricordò che il sugo fosse sul fuoco, voltandosi rapida e abbassando la fiamma. Ciro fu investito dall’odore che proveniva dai fornelli e sorrise inconsapevole per quell’ondata di calore familiare che gli si era poggiata addosso, lasciandolo per un momento inerme e stupito, come un bambino che entrava per la prima volta in un negozio di giocattoli.
Poggiò la bicicletta al muro e chiuse la porta, guardandosi attorno come se quella cucina non fosse il luogo dove aveva fatto colazione fino a qualche anno prima.
Come se sul divano beige, poco oltre il tavolo non apparecchiato, non avesse guardato mille partite di calcio assieme ai suoi amici.
Assieme a suo padre.
Nel corso degli anni, da quando il destino aveva disegnato quella croce nera sul suo cuore, Ciro aveva cominciato a temere la tempesta che imperversava oltre le finestre spalancate di quella villetta, senza che nessuno avesse la forza per alzarsi e chiuderle, proteggendo il calore che viveva in quelle quattro mura.
Fuggire era la cosa più semplice, nonostante non fosse giusto lasciare quella cicatrice aperta e fare finta di nulla.
 
Andare via da quella casa fu un po’ come nascondere la polvere sotto al tappeto.
 
Fu un modo per proteggere sé stesso dal peso di quel vuoto, giustificando il tutto col fatto che fosse ormai un uomo, e che avesse bisogno di un suo spazio. Ma sapeva che quello fosse solo un modo per evitare di confrontarsi col proprio dolore, e di dare voce a quei demoni che col tempo aveva imparato a zittire.
Lo sguardo si spostò sulla grande fotografia incorniciata, che proprio suo padre aveva affisso sul camino quasi una decina di anni prima, quando guardò quello spazio vuoto e decise che qualcosa dovesse cambiare. Ciro ricordava bene quel giorno, perché Gaetano costrinse moglie e figli a vestirsi elegantemente, e indossò la divisa da cerimonia, andando poi a chiedere la cortesia al vicino di casa di effettuare lo scatto. Ricordò che subito dopo lo presero tutti in giro, dicendo che sembrava fosse vestito da carnevale, con quelle spalline pompose e i cordoni gialli e rossi lungo tutta la blusa, facendolo sorridere. Avevano ringraziato di cuore il vicino e gli avevano offerto un buon caffè, prima che quello si dileguasse.
Sua madre lo chiamò subito dopo, lanciandogli la tovaglia sul volto.
- Apparecchia. - gli ordinò, vedendolo annuire silenzioso. Stese la tovaglia e poi fissò la donna, che alzò lo sguardo.
- Che guardi?
- Non riesco ad abituarmi a vederti col grembiule…
- Cucinava sempre lui… - sorrise quella, addolcendo lo sguardo.
- Ma non sei completa.
Monica alzò gli occhi verso di lui e rimase un attimo immobile, vedendolo avvicinarsi e appoggiarle uno straccio sulla spalla.
- Ecco. - aveva detto quello. - Ora sei a posto.
Sua madre sorrise dolce e poi portò le mani ai fianchi, guardandolo dritto negli occhi.
- Non ti abituare. Cucino solo perché sei appena tornato dalla missione… non pensare che domani mi ritroverai dietro ai fornelli...
- Fossi matto.
 
Sua sorella Lucia uscì dalla sua stanza quando sua madre la chiamò a tavola. Coi capelli spettinati e il volto ancora assonnato, si avvicinò a Ciro e lo salutò con un abbraccio la salutò con un abbraccio, poi si sedettero. Mangiarono un piatto di linguine alla puttanesca, abbondante di salsa, che finì per macchiare parte della tovaglia. Bevvero vino e parlarono degli ultimi tempi, con Monica che aveva raccontato della lite tra nonna Gilda e il pescivendolo e con Lucia che aveva cominciato a parlare del nuovo lavoro da parrucchiera, delle novità col fidanzato e del fatto che fosse quasi convinta a tingersi di lilla una ciocca di capelli.
Ciro l’aveva fissata stranito.
- Ma che è, il lilla?
- Tipo viola.
- Tipo viola?
- Non proprio tipo viola. Pure un po’ rosa.
- Un po’ viola e un po’ rosa.
- Tipo.
- Una ciocca di capelli così?
- Eh.
Aveva poi guardato sua madre e aveva provato a protestare, ma quella aveva difeso sua figlia a spada tratta, specificando che in quella casa ognuno faceva ciò che volesse e aggiungendo che neppure lei aveva piacere nel saperlo in zone di guerra per sei mesi all’anno, ma che lo accettava perché era la sua vita.
Avevano poi chiesto del Kosovo, del cibo, della qualità della vita, della lingua e del clima, e lui aveva risposto che la crisi delle targhe automobilistiche aveva portato in strada decine di filoserbi fin troppo armati, descrivendo scene di guerriglia urbana che li aveva visti fronteggiare la polizia kosovara. Aveva evitato di menzionare molte parti cruente, perché ricordava che a sua madre bastava vedere Gaetano indossare la tenuta antisommossa per caricarla d’ansia.
Ma faceva parte del gioco delle parti. Era pur sempre la moglie di un poliziotto.
Mezz’ora dopo Ciro aveva le mani nel lavandino, mentre sciacquava i piatti e li metteva nella lavastoviglie. Monica fumava una sigaretta mentre lo guardava, poggiato allo stipite della porta finestra, e lo vedeva, quello, che i suoi occhi da mamma leonessa lo scrutavano selvaggi.
Sapevano entrambi che Carlo abitasse a meno di dieci metri da loro ma, per qualche strano motivo, nessuno dei due aveva ancora parlato di Alice e della sua discutibilissima scelta di vita.
Almeno fino a quel momento.
Monica, infatti, spense la sigaretta e si avvicinò al figlio, poggiandosi di schiena alla cucina e guardandolo negli occhi.
- Li hai già visti?
Ciro si voltò e si perse per un momento nei penetranti occhi di sua madre. Batté le palpebre e sospirò, mentre le mani ruvide accarezzavano l’acciaio della padella con cui aveva preparato gli spaghetti.
- No.
- Non l’hai vista, la macchina di Alice?
L’altro fece cenno di no.
- E allora è possibile che oggi non ci sia. Ma ti assicuro che viene da lui quasi tutte le domeniche.
Ciro rapprese le labbra e sospirò.
- Lei sta bene?
E vide Monica inarcare un sopracciglio.
- Figurati se vado a chiederle come sta…
- La prossima volta fallo.
Allora la donna si avvicinò al televisore e lo spense. Il rumore della pioggia sulle mattonelle di cotto del terrazzo faceva educato da sottofondo educato.
- Non è molto che stanno assieme. Un paio di mesi, forse. No, un po’ di più. A marzo, quando Carlo ha fatto la festa di compleanno, Alice era già qui.
- E non le hai detto nulla? - ridacchiò l’altro, con tranquillità.
- Che dovevo dirle?
- Nulla proprio?
- No.
- Mi aspettavo un zoccolaputtana, o qualcosa del genere.
L’altra inarcò le sopracciglia e ruotò gli occhi.
- E sì… mo’ mi metto a chiamare zoccolaputtana una ragazza di vent’anni… Io ho un’età.
- Ormai sei una signora…
- Questo lo posso dire io e non tu…
Ciro si voltò, mostrando per la prima volta un po’ di purezza in quel volto sporco di fuliggine e ricordi. Sorrise a mezza bocca, forse un po’ ingenuamente, non riuscendo più a celare il dispiacere per quella situazione, vedendo poi sua madre avvicinarglisi, per stringerlo in un caldo abbraccio. Percepì il ragazzo affondare il volto nel suo collo, mentre sentiva il profumo familiare del balsamo dei suoi capelli.
 
E quella donna forse lo conosceva meglio di chiunque altro. Era sua madre, lo aveva creato dal nulla, lo aveva cresciuto, sapendo quanto fosse emotivo. Sapeva, Monica, quanto velocemente il sangue raggiungesse il cervello di suo figlio, offuscandone la lucidità di pensiero e portandolo spesso a prendere la scelta sbagliata.
Sapeva anche che il cuore di quel ragazzo fosse difficile da gestire, grande com’era, e che quando un cuore era così grande odiava tanto quanto riuscisse ad amare.
E quindi si aspettava che Ciro piangesse, in quel momento.
 
Invece no.
 
Si allontanò lentamente, il ragazzo, fissando sua madre negli occhi, col sorriso triste di chi aveva vissuto qualcosa di brutto ma che aveva imparato ad accettare i torti della vita.
- Sei uguale a tuo padre, quando fai questa faccia.
Il ragazzo allargò il sorriso e guardò la foto sul camino.
- Non hai idea di quanto siamo differenti, invece.
Le diede un bacio sulla guancia e si liberò gentilmente dalla sua presa, avvicinandosi allo sgabuzzino. Era la camera accanto alla stanza di sua sorella, ed era larga abbastanza da contenere la lavatrice, l’asciugatrice, una scarpiera sottile ma piena delle sneakers di Monica e un armadietto per le scope, di quelli di plastica grigia, dura.
Aprì proprio quest’ultimo. Sul fondo, sua madre non aveva ancora spostato la cassetta degli attrezzi.
- Il metro è qui? - domandò, mentre scavava tra gli attrezzi di suo padre.
- Sì.
- Sei sicura? - rimbeccò, vedendolo poi nascosto da un paio di cacciaviti nell’angolo sinistro. Lo prese e lasciò tutto com’era, scendendo poi rapidamente nella cantina. Accese la luce senza guardare gl’interruttori, venendo pervaso dall’odore di umidità che ancora aleggiava tra le pareti. Nuovi scatoloni di vestiti si erano sostituiti a quelli che avevano buttato dopo l’allagamento del grande acquazzone del duemiladiciannove, e si occupò subito di metterli da parte.
Aveva del lavoro da fare.
 
*
 
Ciro stringeva tra le mani le chiavi della macchina e un bigliettino scritto a mano, con su le misure delle due pareti che lui e suo padre avevano deciso di rivestire in legno.
Con la boiserie.
Odiava il francese ma a suo padre piaceva, e tanto bastava.
La pioggia si era destata, o almeno così pareva, perché qualche piccola goccia ancora s’avvicendava lenta dal grosso nuvolone scuro che copriva le teste di tutti.
 
Perché tutti erano sotto lo stesso cielo.
Perché tutti erano figli di quella pioggia e tutti dovevano accettarne l’esistenza.
Era una questione di maturità.
Lamentarsi della pioggia era qualcosa di fine a sé stesso. Era inutile, come cercare di afferrare la nebbia.
 
La portiera della Cinquecento si aprì cigolando e gli occhi di Ciro si poggiarono sul cofano dell’auto, sporcato dalle orme di un gatto infangate. E poi, attirato dal rumore di un cancello, si andò a girare.
 
E Alice era lì.
 
Bella come il primo giorno, dai lunghi capelli rossi e dal volto pieno di lentiggini sulla pelle candida del volto. Gli occhi scuri lo fissavano come abbaglianti e non riuscì a nascondere a sé stesso di sentirsi come un cane in tangenziale, bloccato e impaurito, in preda al panico di chi non sapeva scegliere se andare avanti o tornare indietro.
Quel pensiero fu rapido, perché la donna aveva fermato il tempo con lo sguardo e lo aveva catturato inerme, ancora con le chiavi dell’auto strette tra le mani e il cielo che lento ricominciava a piangere disperato. Ma arrivò netto, come la freccia di una balestra, veloce e potente.
I dubbi su quella donna lo avevano tormentato per intere settimane e pensò di essere riuscito a salvarsi, ma gli bastò vedere quegli occhi da cerbiatta e quelle lunghe ciglia per rimanerne nuovamente catturato.
- Ciro…
Batté gli occhi, lui, più di cinque volte, come a voler essere certo di non star vivendo un’allucinazione. Tratteneva il respiro, temendo di annegare di nuovo nei ricordi.
Poi capì che lei fosse lì.
Ripensò alle sue foto con Carlo, a Santorini, delle mani di quell’uomo che le stringevano le carni. Fu investito dalla rabbia che aveva provato, capendo come stessero i fatti, riempiendo di nuovo i polmoni e battendo ancora le palpebre.
Deglutì punti di spillatrice, la gola gli faceva male.
- Alice…
- Sei tornato…
La sua voce era chiara, come se gli stesse sussurrando quelle poche parole nelle orecchie.
- Sì. Sono qui.
Quella schiuse leggermente le labbra, lanciando lo sguardo altrove.
- Io…
- Lo so. So già tutto.
E poi il corpo di Raffaella apparve come un flash contro il suo, sentendone il profumo, la morbidezza della pelle e il calore delle sue carezze.
Come sirene anti tornado, le sue parole su Carlo gli rimbombarono nella testa.
 
- Mi scrive ancora. Nonostante tutto, ha ancora il coraggio di scrivermi, come se nulla fosse successo.
 
Sentiva il dito sul grilletto di una Glock puntata contro la fronte della donna che aveva lasciato. Pensò poi che fosse stupenda e si chiese perché fosse stato così stupido da lasciarla.
Si chiese se l’amasse ancora.
Il cuore batteva e la pioggia riprese a cadere forte, ma pensò che forse gli altri avevano avuto sempre ragione. Forse Jean e Vincenzo lo avevano capito prima di tutti.
Forse era solo lui a non vedere la realtà dei fatti.
- So che avrei dovuto dirti di… di Carlo…
Gesticolava, quella, con la testa bassa, mentre le pioveva sulla testa senza che la cosa le importasse.
E anche in quel momento, le sembrava la persona più genuina del mondo.
- Carlo, eh? - sussurrò l’altro.
Alice lo guardò e annuì.
 
- A volte mi chiede come sto, mi dice che gli manco. Parla del passato… ma spesso non gli rispondo…
 
- Mi spiace molto… - fece quella. Gli occhi del ragazzo si fermarono sul volto della donna, sinceramente mortificato da quella situazione. Quel neo, al centro della guancia, catturò poi il suo sguardo.
Pensò che gli bastasse premere quel grilletto e avrebbe distrutto quella fragile bugia, infrangendone la superficie di cristallo. Ma aveva il coraggio necessario per vedere quella donna a terra?
Ripensò al suo sguardo felice, al fatto che lei avesse fatto la sua scelta.
Alice voleva Carlo, anche se Carlo voleva tutto.
Ma la domanda più importante restava una e una sola.
Ciro che voleva?
 
- Alice… io…
   
 
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