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Autore: time_wings    11/12/2023    3 recensioni
[Jegulus, side Wolfstar]
[La storia partecipa al Calendario dell'Avvento indetto da Cora e Sia sul Forum "ferisce la penna"]
In una mattina che parte silenziosa e insolitamente soleggiata, Lily decide che l'assenza di decorazioni in casa di Sirius, Peter, James e Remus sia inaccettabile e mette tutti a lavoro.
James e Regulus non sono felici all'idea di occuparsi insieme delle luci esterne... all'inizio.
Dal testo:
Risalire all'esatta causa scatenante di una vicenda è quasi impossibile nella maggior parte dei casi, ma non in questo. La causa scatenante in questa vicenda è la seguente:
"Col cazzo," disse Peter.
Ecco qua.
Fine.
A voler essere un po' più dettagliati la storia va così...
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Regulus Black, Remus Lupin, Sirius Black
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Un paio di warning prima che vi avventuriate: ci sono un sacco di parolacce, di volgarità e un po' di blasfemia. James è uscito particolarmente devoto al disordine e alla follia. Ah, ci sono anche riferimenti a traumi religiosi.
 

 

 

La ricotta sporca

una caotica commedia natalizia


 


Risalire all’esatta causa scatenante di una vicenda è quasi impossibile nella maggior parte dei casi, ma non in questo. La causa scatenante di questa vicenda è la seguente:
“Col cazzo,” disse Peter.
Ecco qua.
Fine.
A voler essere un po’ più dettagliati la storia va così…


Erano le otto del mattino e il sole entrava a nastro dalla finestra di lato, ritagliato in quattro punti dove gli infissi ne strozzavano il flusso. La cucina era inondata di luce gialla, una pianta che veniva curata da tutti o da nessuno perché vittima della comunicazione assente dei suoi genitori si crogiolava in quel tepore gentile del giorno appena nato. Le cose in quegli istanti assumevano la magica sospensione speranzosa che veniva ciclicamente distrutta ogni volta che il tramonto ci adagiava sopra la malinconia.
Il mondo si divideva facilmente tra gli osservatori di pulviscoli nei raggi di sole e i carri armati.
Sirius, che era un carro armato, spezzò la quiete di Remus, che era un osservatore di pulviscoli, entrando nella stanza inciampando in una sedia e trascinandosela appresso mentre si lamentava della botta. “Ma chi cazzo mette le sedie qua?”
Remus aveva interrotto la preparazione del caffè con il cucchiaino a mezz’aria quando Sirius aveva cominciato il trasloco di mobili. “Le sedie del tavolo? Il tavolo in cucina? Assurdo che si trovino lì.”
Sirius alzò una mano per zittirlo e ciabattò fino alla spalla di Remus, poi vi poggiò sopra il mento e lo guardò riprendere la preparazione del caffè. “Era nella mia linea d’aria, quindi non doveva essere lì.”
“Ha senso.”
Non ce l’aveva, ovviamente. In realtà anche per Remus le mattine erano faccende difficili, semplicemente quello era il secondo caffè che preparava ed era sveglio già da un’ora, quindi era più ben disposto all’osservazione dei pulviscoli.
“Sta venendo Lily, abbiamo un progetto a cui lavoriamo insieme e dobbiamo finirlo entro oggi. Quindi non lo so, se ti vuoi vestire…”
“Lily mi ha visto nudo.”
“Tecnicamente avevi un calzino a fantasia ‘becco di tucano’.”
Sirius rise ancora appollaiato sulla spalla di Remus, mentre seguiva con gli occhi il caffè che aveva in programma di saccheggiare. “Perché così è molto meno traumatico, infatti.”
“Tra l’altro non si capiva bene, perché i tucani hanno il becco dritto.”
“Ho capito, ma riconosci che sarebbe stato un po’ curioso se per me quella fosse stata un’esperienza eccitante abbastanza da rendere bene l’effetto becco di tucano.”
Remus iniziò a versare il caffè in due tazze, perché era stato previdente e ne aveva fatto un po’ in più per non subire furti. “Aspetta, ma tu che ci fai sveglio?” la realizzazione della discrepanza spazio-temporale dell’evento gli fece fare un passo indietro, il caffè bollente si rovesciò da una delle due tazze e gli finì su una mano. “Cazzo, porca puttana!”
“aspe...” Sirius gli prese le tazze e le appoggiò sul tavolo, poi tornò da Remus mentre lui si appropriava di uno straccio. Sirius rise, poi disse: “Non si spreca il caffè,” e gli leccò due dita prima che Remus potesse pulirsi la mano.
Si guardarono.
Lanciati negli eventi in una fredda mattina di dicembre dal cielo miracolosamente terso abbastanza da lasciar passare raggi di sole, autoabbronzanti per piante e pulviscoli danzanti, non dovrebbe essere facile capire perché la stanza si congelò. La storia è tragica, ma non c’è tempo per raccontarla per filo e per segno, dunque basterà dire che Sirius e Remus erano grandi amici e nulla di più e che da un po’ condividevano la casa con tali James e Peter, nonostante ufficialmente Sirius fosse sfondato di soldi, per una serie di ragioni che verranno invece sviscerate in seguito, ma che, per amor di suspense, per adesso verranno sorvolate.
Due brevi inquadrature delle situazioni di James e Peter al momento del fatto:
Peter era disteso sul suo letto a pancia sotto e con un braccio scrollava la home di Instagram in cerca di un life coach minaccioso abbastanza da dargli la forza di alzarsi e iniziare la giornata.
James dormiva disteso sul suo letto a pancia sopra e si ispirava per i suoi sonni alle stelle marine.
Quindi Remus e Sirius si guardarono, i mesi di flirt scherzoso che si ammassavano in un’unica pietra che, data la frustrazione, iniziavano a desiderare di tirarsi dietro la testa.
Se Sirius fosse stato una persona normale si sarebbe scusato o sarebbe quantomeno arrossito. Invece ridacchiò, un rollio al retrogusto di sfottò, e disse, la voce che grondava provocazione. “Che c’è?”
Qualcosa nello sguardo di Remus perse di trasparenza. Mosse un passo per voltarsi del tutto a guardarlo. Prese un respiro per dire qualcosa, invece si sporse in avanti e lo baciò.
Questa è una vittoria storica, anche se non potete capirlo, perché non è la vostra storia.
Comunque Sirius rispose con slancio, una mano nei capelli di Remus, l’altra che si faceva strada sotto la maglietta di cotone, perché era fatto così. Si spinsero un po’ in giro, finché Sirius non si sedette sul tavolo, a qualche centimetro dalle tazze provvidenziali. Allargò le ginocchia per fare spazio a Remus.
Poi successe una cosa fantastica: suonò il campanello.
La sospensione dell’alba riprese a contare. Fronte contro fronte, i nasi che si sfioravano, si guardarono nei pochi secondi di attesa accettabile che potevano concedersi. Remus lo baciò un’ultima volta, poi gli diede due schiaffi leggeri su una guancia. “La prossima volta lavati i denti.”
Detto ciò andò ad aprire.
Sirius rimase qualche secondo seduto sul tavolo a fissare i fornelli davanti a lui e un filmino in terza persona di quello che era appena successo in sovrimpressione sul cristallino dell’occhio. “Secondo me se prendi il calzino del tucano adesso funziona!” gridò distrattamente, in direzione del corridoio.

Quando Lily entrò in cucina Sirius stava leggendo un poster attaccato al muro con una mano attorcigliata al manico della sua tazza di caffè e l’altra nel pantalone, mentre si grattava una chiappa.
“Ma dove sono le decorazioni di Natale?”
Perché ‘buongiorno’ era sopravvalutato.
Sirius si voltò a guardarla con uno sbadiglio sulle labbra. Si strinse nelle spalle.
Proprio nello stesso momento arrivò anche Peter. Era una situazione molto scomoda, perché due persone su quattro in quella stanza stavano nascondendo una crisi isterica.
“Ma qualcuno la innaffia mai quella pianta?” chiese Lily. La pianta era in un periodo di magra mentre si godeva il sole. “Comunque lasciamo stare il progetto del corso, Remus, va fatto qualcosa per le decorazioni.”
In realtà non c’era un motivo se casa loro non era stata addobbata per le feste. Il fatto più che altro era che a Sirius non fregava un cazzo, Peter a stento aveva memorizzato l’indirizzo di casa, Remus, a dispetto dello stereotipo che libri, maglioni e tazze di tè imponevano su di lui, pure non provava questo forte interesse per la questione e James era fondamentalmente uno schizzato, quindi le sue ragioni erano più o meno indistricabili.
Lily stabilì un piano d’azione in tempi preoccupanti. Poi disse la frase. “Peter, tu ti occuperai delle luci esterne.”
Attenzione qua.
“Col cazzo,” disse Peter.
Nel caso in cui questo non bastasse a spiegare tutto il resto della storia, tralasciando il fatto che aver bisogno del disegnino non è una grande vanto, il racconto continua così…
 

All’origine dell’astio c’era un litigio fermentato.
Sirius Black esisteva in una dimensione, Regulus Black in quella diametralmente opposta. Anche nel caso in cui non fosse stato possibile infilare le dimensioni una dietro l’altra per stabilire distanze relative, loro esistevano comunque in quelle più distanti.
Questo aveva reso Sirius una mina vagante che esplodeva in casa a cadenza mensile, quando era adolescente. Insieme al mese, cadevano anche altri eventi, come il volo di stoviglie da una parte all’altra della cucina (mai coltelli, almeno quelli), lo scardinamento di cerniere delle porte per la violenza con cui venivano sbattute, il fare e disfare di bagagli che poi non arrivavano mai all’ingresso di casa. Una volta era stato addirittura imbrattato un dipinto di famiglia con un uniposca.
Di contro, Regulus era una mina silente, sospesa negli abissi. Quando si arrabbiava stringeva i denti, i pugni, gli occhi, poi chiudeva la porta della sua stanza e, se si sentiva un vero ribelle, gridava in un cuscino. C’erano dei prezzi che si pagavano ad avere un fratello turbolento ed erano i complimenti di ripiego e il modo subdolo in cui strozzavano la sua, di turbolenza.
Il fatto interessante di due cose posizionate agli antipodi, diametralmente opposte, era che portavano con sé l’altra per esclusione. La somiglianza era una gradazione di contrasti. E quindi certe cose, come certe case, portavano serrature diverse, ma erano sempre celle.
A dispetto della tragedia della sua repressione, Regulus aveva una sola valvola di sfogo ed era suo fratello. A dispetto dell’esasperazione della sua ribellione, Sirius aveva un solo limite ed era suo fratello. Il che si traduceva in maniera più terra terra in un’equazione familiare semplice quanto distruttiva: Regulus iniziava le risse e gli insulti più meschini, Sirius tirava giù tutto l’albero genealogico, ma il ramo di Regulus veniva via per ultimo. Difficile dire se fosse istinto protettivo, ma è certo che fosse speranza di salvezza.
Si guardarono negli occhi la notte che i bagagli fatti e disfatti di Sirius culminarono in un’ultima valigia che superò la soglia di casa. Gli sembrò di star seguendo un copione che aveva solo ritardato.
Le case erano faccende difficili, abbracci che da rincuoranti si facevano acuminati nello spazio di un ‘però’. Erano speranze su carte non firmate, sfumature di sangue rivendicate su lapidi che non si volevano neanche visitare, tagli in mezzo alle scapole perché fatti alle spalle nel bel mezzo del loro stesso annuncio. Le case erano faccende complicate perché quando si strillava attraverso una parete si riusciva a mantenere comunque una certa tacita segretezza, un limite da non valicare, una faccenda che agli altri non doveva interessare. Allora poco importava se l’ultima volta che tutti avevano urlato Sirius aveva detto che non ci veniva, alla cena di famiglia, e che non avrebbe chiesto alla sua compagna di classe più carina di fingere di essere la sua fidanzata per ‘metterlo in culo a zia Druella Rosier’ che aveva la figlia fidanzatissima e dunque socialmente avvantaggiata e non l’avrebbe fatto perché era ‘un finocchio così finocchio che sperava che il prete glielo buttasse a culo’. Poco importava, perché tra Regulus e il resto della sua famiglia quel giorno c’erano non una ma tre mura e anche se erano nella stessa casa Regulus rimase comunque a farsi i fatti suoi, perché gli avevano detto che le porte si aprivano solo nei momenti appropriati.
“È vero quello che hai detto?” gli aveva chiesto poi, mentre guardava suo fratello infilarsi il cappotto con disinvolta dignità, una cosa che sarebbe quasi risultata credibile, se non avesse dovuto sorridere storto attorno a un livido. Lo fece arrabbiare, non seppe bene perché.
“Hai paura?” gli aveva risposto Sirius, si era avvicinato e gli aveva arruffato i capelli. Regulus gli aveva scacciato la mano. “Cerca di andartene da qui quanto prima, perché non ci metteranno molto a capire che eri il loro preferito solo perché io ero un disonore troppo evidente. Tu fai schifo quasi quanto me.”
Regulus aveva raddrizzato le spalle e spinto il mento in avanti, nel fantasma di una dignità che anche senza lividi per assurdo comunque non ricordava quella di Sirius. “Vaffanculo.”
“Ah, lo sto facendo. Ma tu da chi scapperesti, eh?” Sirius gli aveva sputato ai piedi. Non lo aveva colpito. “Sarà difficile fare il codardo quando sarai solo. Sei proprio un coglione, tu e questa banda di razzisti omofobi pezzi di merda.”
Solo che una volta intessute sulla pelle poi le case si portavano in giro nel mondo. Erano in tutti i dati per scontato. Questo concetto non era poi così rivoluzionario. Il lato dello scambio che si dimenticava più facilmente, però, era che anche il mondo inquinava le case e le loro cicatrici. Era nella distrazione delle nuove abitudini. E quando gli esseri umani, che erano fatti di carni ricucite e strati nuovi di risate, un po’ guarivano, più che perdonare a volte semplicemente ringhiavano meno.
Quindi ecco come si erano trovati, due fratelli con una voragine in mezzo, a guardarsi in una chiesa in cui uno sarebbe sopravvissuto e l’altro aveva perso tutto, a guardare un prete dire che avevano avuto una madre meravigliosa. Nessuno dei due aveva pianto, nessuno dei due aveva salutato, ma a un certo punto Regulus era passato accanto all’orecchio di Sirius e gli aveva detto: “Vuoi un passaggio?” e lui non aveva accettato. Due settimane dopo l’aveva chiamato, però.
Quando è stato detto che all’origine dell’astio c’era un litigio fermentato si intendeva che James Potter odiava Regulus Black. Anche da dopo la telefonata in poi.
 

“Tu ti occuperai delle luci esterne,” disse Lily, indicandolo mentre faceva il suo ingresso trionfale in cucina alle dieci e mezza del mattino.
James alzò le mani, poi, senza perdere l’ammissione di resa, si diresse al frigo, lo aprì e tirò fuori i suoi occhiali.
“Jamie, non li mettere vicino alla ricotta la prossima volta, me la sporchi,” gli disse Sirius, che era in piedi su una sedia e stava attaccando un serpentone di foglie di pino di plastica sulla mensola più alta.
“Ma perché ha gli occhiali in frigo?” chiese una voce nuova.
James abbandonò la testa in avanti e inspirò a fondo, poi trovò il coraggio di voltarsi. “Ma perché ultimamente sei sempre qui?”
Regulus gli sorrise. Poiché non sorrideva mai in generale, figurarsi a lui, fu chiaro che lo stava prendendo in giro. “Ho fatto io la prima domanda.”
“Mi piacciono freddi.” James addentò un biscotto che trovò spezzato sul tavolo e usò le mani libere per riempirsi un bicchiere di latte. Si sedette sull’unica sedia non occupata da persone o da loschi oggetti decorativi, mentre attorno a lui si scatenava l’inferno. Indisturbato, intinse metà del biscotto nel latte. “Ce l’avete un po’ di caffè già fatto?”
“Anche tu ti occuperai delle luci esterne,” disse Lily a Regulus.
La notizia li bloccò tutti con i festoni e le colazioni in mano.
“Oh, non credo sia una buona…” iniziò Peter. Per la cronaca, Peter stava lavando a terra con una mano e spolverando superfici con l’altra, il che era insolito fatto insieme e doppiamente assurdo considerato che Peter non faceva nessuna delle due attività, in genere.
Comunque dopo il suo tentativo di mediazione si sollevarono tutta una serie di lamentele che non gli consentirono di finire il concetto. James apprezzò che anche Sirius stesse combattendo per la sua causa, anche se era un po’ ridicolo in piedi sulla sedia e col festone in mano.
“No, perché Marlene e Dorcas stanno arrivando… Remus, non provare a metterti a lavorare al progetto adesso,” si interruppe Lily. L’aveva visto sfiorare il computer con la coda dell’occhio.
Impressionante e spaventoso.
“Ma non c’è niente da fare.”
“C’è letteralmente tutto da fare,” disse Sirius. Inclinò il viso su una lato e gli sorrise. Era un sorriso strano, perché aveva quella tipica impronta seducente che lasciava confuso chi non lo conosceva, solo che James rilevò una traccia quasi del tutto diluita che sembrava incertezza, come un’antenata della timidezza.
“Fermi,” disse James. Aveva ancora il biscotto in mano, il pantalone del pigiama a quadri e i capelli più in disordine del solito perché si era appena svegliato, il che era quanto dire visto lo standard. Nonostante ciò tutti si congelarono e si voltarono a guardarlo. Decise di godersi un po’ di quella suspense da re.
Regulus si sciolse per primo, il basardo. “Che gli prende?”
James ignorò l’ondata di veleno che gli risalì per la gola, perché non sopportava che parlasse di lui e non a lui, come se non fosse stato nella stanza. Si aggrappò con la concentrazione a quell’incertezza nel sorriso di Sirius. “Ma sei impazzito?”
“Io?” Sirius si indicò con la mano che reggeva il festone. Il fruscio fu l’unico suono per chilometri.
“Sì, tu, cos’era… Che cazzo…” James puntò il dito in sequenza tra Remus e Sirius. Era la lancetta di un orologio al tavolo del Cappellaio Matto. “Voi due fottute merde avete limonato, finalmente! Sento la puzza. Adesso cade il mondo.”
Seguì altra confusione, dalla quale di colpo si levò una voce. Era quella di Sirius, che era in alto sulla sua sedia, con il suo festone che sembrava una sentenza divina. “Tu e mio fratello. Fuori a mettere le luci esterne.”
James dovette riconoscere che se l’era giocata male. Solo che andava capito: era un evento storico, voi non avete presente l’epopea.
“Io non c’entravo niente, però,” obiettò Regulus in un mormorio, ma già scavava tra varie buste per recuperare le serie di luci.


All’origine dell’astio c’era stato un litigio fermentato.
James uscì in strada prima di lui. Si era vestito con la trasandatezza genuina di chi non doveva ufficialmente uscire. Regulus lo guardò superare il cortiletto e voltarsi a guardare la facciata di casa. Aveva l’espressione accartocciata, mentre con una mano tentava di coprire la luce fastidiosa delle mattine che iniziavano soleggiate e proseguivano nuvolose. Il giubbino gli cadeva sui jeans, che pure gli cadevano sformati addosso fino ai piedi. Se si voleva essere onesti, anche le scarpe avevano qualcosa di cadente. La felpa verde sotto faceva un bel contrasto con la pelle del collo. In mano reggeva l’inizio delle luci, Regulus lo affiancò portandone la fine e alzando anche lui lo sguardo.
“Beh,” iniziò James, voltò la testa per guardarlo. “Ci metteremo una vita.”
Regulus, che per qualche ragione provò lo stesso moto di rabbia che aveva provato quando Sirius si era infilato il cappotto a sedici anni e non era più tornato, cercò la sua voce più distaccata e professionale nelle profondità della gola. “Per quanto riguarda quello che è successo un mese fa, mi auguro che non ci siano dissapori…”
“Tra me e te ci sono dissapori.”
Rimasero in silenzio per qualche secondo: una facciata da decorare davanti e le lucine natalizie in mano. Regulus lasciò stare le formalità. “Vabbè, senti, vaffanculo,” disse e si mosse verso il primo davanzale da addobbare al piano terra. James gli rise dietro.
“Oddio, Reggie, rilassati,” lo raggiunse e gli appoggiò le mani sulle spalle. Neanche il tempo di farlo che Regulus si scostò.
“Evita i riferimenti religiosi, non toccarmi e non chiamarmi così.” James sollevò un sopracciglio, la partaccia invece non fu sollevata. “Trova una scala e sali, io non rischierò di morire per questa stronzata.”
James si mise al lavoro senza aggiungere altro.
“Mio fratello lo sa?” chiese Regulus, quando fu tornato. La verità era che da quando era successo non pensava ad altro.
“Ma secondo te voglio morire? No che non lo sa, non lo sa nessuno.” James si arrampicò sulla scala. Regulus distolse lo sguardo di scatto prima di guardargli il sedere. “È come se non fosse mai successo.”
Alla base dell’astio non c’era più un litigio fermentato.
Regulus sospirò.
Gli altri, al caldo in casa, pensavano di averli condannati a fare i conti con un desiderio condiviso di staccarsi la testa e invece li avevano condannati a una cosa ben peggiore: l’imbarazzo.
Qui si potrebbe aprire un’altra parentesi sulla provenienza di questo misterioso imbarazzo, ma, confidando nel fatto che siamo già in un disegnino, vi verrà fornito un sintetico puzzle sulla situazione tra James e Regulus, in quel momento: mese prima; alcol; sesso. Non ne avevano mai più parlato, anche perché poi non si erano più visti, Sirius l’aveva invitato solo quella volta a uscire con loro. In realtà non era significato niente, Regulus era certo che se lo fossero pure detto in mezzo a tutta quella confusione.
Poi magari altri dettagli verranno forniti strada facendo, se serviranno.
 

Continuarono a lavorare mentre il tempo di Londra si guastava. Era un processo semplice, alla fine: James si spingeva dove poteva, ogni tanto canticchiava una canzone che Regulus stroncava sul più bello mentre tappava i punti ciechi. Lavoravano bene insieme, perché, poiché non volevano parlarsi, in qualche modo dovevano capirsi.
Verso le due, prima che il cielo si offendesse del tutto, James scese dalla scala e valutò il loro capolavoro con le mani sui fianchi e una cauta soddisfazione.
“Accendi,” disse a Regulus, che inserì una spina in una ciabatta destinata a esplodere.
Non successe niente.
“Sei fulminato?”
Regulus pensò che sarebbe stato un destino di gran lunga migliore. “Cazzo…” sussurrò, mentre realizzava che al momento della sua sentenza a decorazione esterna della casa era stato troppo occupato a sopprimere una sfilza di insulti. “Ho… dimenticato di provare le luci prima di portarle fuori.”
James lo guardò. Regulus lo guardò. Si guardarono. Poi James chiuse gli occhi e si grattò la radice del naso, proprio sotto la montatura degli occhiali. “Non ci credo.”
“Già.”
“Siamo stati qui due ore.”
“Lo so.”
Si guardarono ancora.
“Vabbè, io non avevo in programma di restare tutto il giorno, ero solo passato a salutare, quindi…”
“Oh, no.” James gli afferrò un braccio e inclinò il viso su un lato. “I bambini si fanno in due, Reggie.”
Lui si divincolò. “Ti ho già detto che…”
Gesù.”
Poi successe una cosa tragica-terribile, perché stavolta, quando si guardarono, si accesero tutta una serie di luci che non erano quelle che avevano sparso per la facciata di casa di Sirius, purtroppo per Regulus. Erano delle luci invisibili, che facevano un rumore di statica costante ad alta frequenza. La chiamavano tensione per un motivo.
Regulus fece un passo indietro, James lo lasciò andare.
La prima cosa che aveva odiato di lui, quando l’aveva conosciuto, erano stati gli occhi. Erano scuri e brillavano dolci, anche quando non sorridevano. Regulus, da piccolo, dopo quell’incontro era andato a lavarsi i denti per andare a dormire e si era guardato allo specchio. Lui non aveva gli occhi dolci, neanche quando sorrideva. C’era qualcosa di metallico, di disonesto. Aveva sputato il dentifricio nel lavandino e, quando era tornato a guardarsi negli occhi, aveva capito che Sirius non era più suo.
“Che vuoi fare allora?”
James si strinse nelle spalle, le mani seppellite nelle tasche dei jeans. “Tanto per cominciare le tiriamo giù.”
Regulus calciò un sassolino e annuì mesto. Quando James non si mosse tornò a guardarlo.
“Stavolta ci sali tu sulla scala, se vossignoria è ben disposto.”
Un’altra cosa che odiava di James era il sorriso. Questa non era arrivata seconda agli occhi, perché da piccolo aveva provato prima a conquistarla. No, il sorriso forse era l’ultima cosa che aveva odiato, più o meno dal riavvicinamento con Sirius in poi, perché lo voleva pulito e senza critica nascosta dietro i denti, come lo faceva a suo fratello. E invece si beccava questa versione atipica e sarcastica, pulita e limpida nella sua ironia.
Far ridere Sirius era una faccenda relativamente facile una volta che lui decideva di apprezzare qualcuno. Far ridere James era una faccenda semplicissima, eppure Regulus non ci riusciva. Guardava da lontano questo rotolarsi di risate complici e ricche e cristalline uscite direttamente da una favoletta e lui ne era escluso.
Non che ci tenesse particolarmente al di là di una questione di principio, ma una volta l’aveva fatto sorridere, che non centrava il bersaglio ma comunque ci andava vicino. Sebbene Regulus preferisse non pensarci, una vittoria era una vittoria, quindi contava. James gli aveva sorriso storto, una cosa tagliata ma non tagliente e quindi miracolosamente pura, poi aveva chiuso gli occhi, aggrottato le sopracciglia ed era venuto. Regulus aveva sconnesso e aveva pensato che il premio l’aveva vinto eccome, perché Sirius sicuro non l’aveva mai visto così. Successivamente aveva giustificato con l’alcol in circolo la pateticità di quel compiacimento.
Non aveva capito quando era passato da una mostruosa gelosia di Sirius a un’invisibile e microscopica gelosia di James, ma comunque non era importante.
Regulus salì sulla scala. Yahoo.


Qualche ora dopo erano in macchina, visto che in casa erano finite le serie di luci. James aveva gli spaghetti che gli ballavano nello stomaco. Solo che non erano gli spaghetti, lui li chiamava i filamenti nervosi.
Londra andava verso il buio prematuro delle quattro, ma da qualche minuto pioveva. James guardò Regulus con la coda dell’occhio e la città che gli scorreva sullo sfondo. Man mano che si avvicinavano al centro, i riflessi sul fondo stradale bagnato aumentavano in numero e brillantezza. Erano stelle filanti, fuochi d’artificio, luci continue seguite da flash. Riflettevano l’odore di muschio e il sentore di Natale. James si chiese se abbassando i finestrini non avesse iniziato ad avvicinarsi uno scampanellare festivo.
Prima che il silenzio lo mangiasse vivo insieme ai suoi filamenti nervosi, si sporse in avanti e accese la radio.
I won’t even wish for snoooooow,” iniziò James appena identificò la canzone. Si sbilanciò di lato e colpì Regulus sulla spalla proprio mentre lui alzava gli occhi al cielo. “I’m just gonna keep on waiting underneath the mistletoeeeee.”
“Stai sbandando.”
James lo ignorò. “To the North Pole for Saint Nick.”
“Non è un po’ banale questa canzone?”
“Che vuoi da me? Questa è uscita.” James svoltò in una strada poco trafficata e mediamente più buia delle altre e parcheggiò. Regulus fece per slacciare la cintura, ma James schiacciò la mano contro la sua e gli impedì di muoverla. “Aspetta, il ritornello. Tu fai gli ‘ooh’.”
“Assolutamente no.”
‘Cause I just want you here tonight,” James sgranò gli occhi e annuì.
Regulus lo guardò mordendosi un labbro, lo scetticismo sparso sui lineamenti, ma non fece ooh.
Fermi tutti, qui c’è un’ironia della sorte. La sorte voleva che James odiasse Regulus per tutto quello che negli anni aveva presumibilmente detto e presumibilmente fatto. Ed era giusto presumere, perché era vero. Solo che questo Regulus, questo con sette anni in più a quelli che aveva avuto quando aveva lasciato suo fratello in strada con una valigia e troppi lividi addosso, questo che in qualche miracoloso modo storto doveva essere maturato, non era così antipatico. Cioè, era antipatico, ma James aveva iniziato a desiderare di farlo sorridere.
E qui la sorte era stata ironica.
Forse aveva una malattia molto grave che aveva per sintomo il bisogno istintivo di andare a salvare tutti i Black che incontrava lungo la via.
In ogni caso James a volte lo guardava negli occhi ed erano così simili a quelli di suo fratello che sapeva esattamente che aspetto avrebbero dovuto avere quando si illuminavano e l’ombra su quelli di Regulus era un ricordo contorto e beffardo dei mesi più bui del suo migliore amico. Si portava dietro quella tristezza come un mantello e nonostante avesse le sue colpe, nonostante avesse qualcosa di Sirius in certe espressioni, certe inflessioni, certi atteggiamenti, la sua tristezza aveva qualcosa di magnetico. Comunque era un crimine per occhi tanto belli.
Holding on to me so tiiiight,” riprovò stringendogli un braccio.
Regulus si portò una mano sotto al mento e guardò fuori dal finestrino, come se non si fossero mai fermati.
What more can I doooo? Oh baby, all I want for Christmas is youuu!
Stavolta lui alzò gli occhi al cielo, poi si voltò a guardarlo. Era stata una mossa distratta molto stupida o una mossa calcolata molto raffinata, perché erano davvero vicini. James tra poco si perforava il fegato col freno a mano. “Oooh,” disse moscio Regulus e alzò un angolo della bocca. Quasi un sorriso.
“Non lo dovevi fare ora, cazzone.”
“A volte mi sorprende quanto non ti sopporti.”
All the lights are shining…” iniziò James, completamente fuori tonalità.
Regulus sbuffò, si slacciò la cintura e uscì dalla macchina.
 

“Padre, Figlio e Spirito Santo!”
Regulus stava per avere una crisi di nervi. Si tolse il cappello che James gli aveva depositato in testa (era a forma di renna, la parte che entrava in contatto con il capo era il sedere), lo rimise a posto, poi aumentò il passo per raggiungerlo. “Non ti distrarre, siamo qui per le luci.”
Erano lì per punizione divina, in realtà.
Quel posto era un tripudio di scaffali, bambini, addobbi dalla dubbia appropriatezza, famiglie. Qualcosa arpionò la gola di Regulus, all’idea di quest’ultimo punto. Quando si trasformò in groppo, James gli appoggiò un braccio sulle spalle e lo condusse nel reparto luci. “Non sono distratto.”
Si misero a valutare scaffali di pisellini di luci natalizie, litigando su quali secondo loro fossero da esterni. Se qualcuno avesse detto al Regulus di sedici anni che sarebbe finito a navigare scaffali di decorazioni di Natale con James Potter si sarebbe messo a ridere e poi a urlare dalla frustrazione.
C’era qualcosa di abitudinario nel modo in cui James si piegava per leggere meglio un’offerta, nella disinvoltura con cui ispezionava le luci. Ed era un qualcosa che aveva un sentore di violenta contraddizione, come se nel mezzo di una guerra, senza mettersi d’accordo, si fossero messi tutti a sparare coriandoli e nel petto dei soldati invece che granate fossero scoppiate risate.
Lo guardò. Senza vergogna, perché tanto era già da un po’ che niente aveva senso.
Tutte quelle luci disegnavano contorni irripetibili sul suo volto e sulla felpa verde, la pelle prendeva toni più caldi del solito, sbocciavano fiori dai colori imprevedibili.
Per Regulus il Natale era sempre stato un deludente compromesso tra quello che idealizzava e quello che poi diventava. Immaginava le risate e il calore della festa e l’elettrizzante aspettativa nei giorni precedenti, per poi finire su una sedia a guardare il culmine della sua impazienza risolversi in colori freddi, battute vuote e apparenze.
Eppure lì, in uno stanzone tanto grande da rimbombare, in mezzo a grida di bambini e di genitori che rimproveravano i bambini per aver gridato, avrebbe voluto infilare le braccia sotto la felpa verde di James e poi sotto la maglietta, sotto la pelle, in mezzo alle costole, dove doveva nascondere così tanto calore da essere costretto a irradiarne un po’ anche a lui per mero equilibrio termico.
“Ti ho detto che non sono distratto,” ripeté James, gli occhi ancora persi tra le luci. “Non mi stai rispondendo male.”
“Sei uno spreco di fiato,” ma era debole nell’intenzione, Regulus lo capì appena lo disse.
“Andiamo, ti porto a vedere una cosa.” James finalmente lo guardò, afferrò una scatola di luci a caso, poi gli sorrise. Regulus dovette lottare con ogni muscolo della sua faccia per non sgranare gli occhi: era una sorriso vero. “Prima però devo chiedere una cosa alla cassa.”


Sbadigliò. Comprensibilmente aveva sonno, perché si era svegliato alle dieci e mezza, ovvero all’alba.
James si resse la testa con una mano e guardò mezzo spaparanzato sul bancone Regulus fissare intento il palchetto del bar.
Era un posto ad altezza cantina, c’erano delle finestre sbarrate in alto alla parete sinistra che lasciavano entrare le parole che cadevano ai piedi dei passanti in strada. Le luci erano calde e soffuse, altrimenti James non le avrebbe mai rette. Il bancone era spugnato per i mille bicchieri rovesciati apposta o per sbaglio, i tavolini erano ancora quasi tutti vuoti. C’era il calore gentile del Natale, cascate di luci si gettavano nel fiume della musica in fondo alla stanza. Un albero in un angolo ospitava bigliettini illeggibili. Era uno di quei posti in cui quando si entrava ci si toglieva la sciarpa con piacere, le mani fredde che sfioravano il collo nello sfilarla sembravano provenire da un gelo alieno, che non poteva atterrare lì.
“Ma che roba…”
James rise, poi sbadigliò di nuovo. “È la Natività Queer.”
Regulus si voltò a guardarlo, imperturbabile. “Ma quelli sono i re Magi, non dovrebbero arrivare prima di…”
“È fusion.”
Regulus tornò incerto con lo sguardo sul palco, dove alcune persone in drag stavano provando canzoni di un musical che sarebbe andato in scena nei giorni successivi. Nel tardo pomeriggio, quando l’apertura del locale si sovrapponeva alla fine delle prove, a volte James veniva a salutare Mary, che lavorava al bar. Era un passaggio molto vantaggioso, perché di solito gli veniva offerta una birra.
“È un po’ blasfemo.”
“Mh,” James prese un sorso pensieroso dalla sua bottiglia. “Hai baciato altri ragazzi oltre me?”
“Non da sobrio.”
“Quindi sì.”
Regulus gli soffiò la bottiglia e prese un sorso. “Non dovevamo far finta che non fosse mai successo?”
“Non ho detto far finta, ho detto che è come se non fosse mai successo. È diverso.”
“A Sirius piace questo posto?”
James si riprese la bottiglia. “Sì, veniamo spesso.”
“È davvero…”
“Dissoluto, eh? Tuo fratello è proprio un pazzo.”
Regulus lo guardò confuso. James gli sorrise, poi si sporse in avanti, verso di lui, nella versione derisoria di una confidenza. “Fai mai il pazzo anche tu?”
“Sono venuto a letto con te, è l’apice della follia.”
“Mi sento un po’ una pedina nel tuo percorso di ribellione.
“Non sto facendo alcun percorso di ribellione.”
“Sedotto e abbandonato,” continuò James, senza ascoltarlo. Gli infilò una mano nei capelli, li guardo scorrere lungo le sue dita. Lui chiuse gli occhi per un attimo, colto alla sprovvista in una reazione istintiva. James gli massaggiò la nuca e lo guardò combattere quell’imbarazzo. Era un meccanismo affascinante, ma anche un po’ triste. Pensò che avrebbe voluto vederlo dormire.
“Che stai cercando di fare?”
“Niente.” Veramente, niente, perché era il fratello di Sirius. Questa era una cosa che James si ripeteva come un mantra da qualche ora, visto che gli sfuggiva di mente nei momenti più inappropriati. Fosse stato chiunque altro, si sarebbe piantato addosso la sua migliore faccia tosta e sarebbe stato sfrontato come poche cose al mondo.
Questo serve a dire che non fu colpa sua.
Regulus smattò completamente, era ovvio, perché afferrò James per il collo della felpa e se lo tirò addosso. Se James non si fosse stabilizzato con una mano sul bancone si sarebbero semplicemente caduti addosso come due fessi, invece si guardarono.
Sirius avrebbe dovuto scusarlo, perché James abbassò gli occhi sulle sue labbra, arrossate dall’incertezza e dalla parata di parole che non diceva. “Che c’è?” iniziò Regulus, la voce colava beffa, ma era difettosa. “Qualcosa di scomodo da confessare?”
“Non sono io che mi sono fatto venire uno schizzo. Non mi sai stare lontano?” gli sussurrò in risposta, proprio sulle labbra, al punto che più che sentirlo forse Regulus l’aveva capito per pressione d’aria.
James sollevò un dito, lo trascinò dal naso alle labbra, poi giù fino al collo della camicia. Spinse la testa in avanti, ma non lo baciò, danzò attorno al suo respiro. Senza guardare, sciolse il primo bottone, occhi negli occhi, quelli di Regulus lampeggiarono tempesta. Scoprì che non la voleva placare, voleva navigarci dentro e sfotterla, dirle: ‘è tutto qua?’. Deviò il modo quasi religioso con cui Regulus gli seguiva le labbra per dargli un bacio rumoroso su una guancia, poi lo spinse indietro. “Le luci, andiamo, tra poco qui sarà pieno.”
Regulus lo guardò come se avesse nominato un nuovo arcangelo. James ebbe paura che lo scaraventasse dall’altro lato dell’equatore e lo rincorresse per prenderlo a morsi e suonare la batteria con le sue ossa. Invece disse: “Guido io” e non sembrava il fratello di uno che una volta aveva fatto rissa con un tizio che aveva insultato il suo gilet di pelle.
James scese con un salto dallo sgabello. “Okay, ma fermati in una pasticceria che dico io, devo prendere la torta di carote.”
“Ma perché?” chiese Regulus, mentre James faceva un cenno a Mary per salutarla.
“San Pietro, perché no? Mi va.”
“Ti odio.”


Vecchia storia.
La buona notizia era che aveva smesso di piovere, per il resto era il polo buio delle attività mattutine: James sulla scala, Regulus che faceva scorrere le lucine, in silenzio.
Dall’interno della casa provenivano le risate sommesse di altri preparativi. Regulus prese con la mano libera una fetta di torta che si erano portati fuori e la addentò. Fu una sorpresa non riscoprirsi escluso, ma solo coinvolto in altre attività. Guardò la figura in penombra di James che si allungava per fissare le luci in un punto particolarmente alto. Stronzate, guardò la felpa e il giubbino di James che si sollevavano dal lato del braccio che spingeva in alto. Altre stronzate, guardò la porzione di pelle che questo sollevarsi di indumenti rivelò, poi un po’ più in basso…
“Hai finito?”
Regulus saltò un po’. “Di fare che?”
“Secondo te non lo so.” James scese dalla scala, battendo le mani per ripulirsele. “Torta.”
Regulus gliela passò.
“No, ho le mani sporche, fai tu.”
Aprì la bocca. Poi, poiché era uno stronzo, cacciò fuori la lingua. Regulus gli ficcò la torta in bocca e lo lasciò a soffocare tra crema e risate. “Sembra un incubo da luna park,” commentò Regulus, valutando la facciata di casa.
James lo raggiunse che ancora masticava. Aveva mezza faccia sporca e un’espressione un po’ scema mentre guardava il loro capolavoro. Regulus doveva aver battuto fortissimo la testa, quella mattina, per trovare attraente una cosa del genere. “Lily voleva che decorassimo, noi abbiamo decorato.”
“Questo non significa che dovevi chiedere alla cassa se potevano regalarti la renna luminosa in esposizione in vetrina.”
“Però l’ho fatto.”
“Comunque mi sembra un cervo.”
James affondò la mano libera nella tasca posteriore dei jeans e ne cavò fuori un paio di doppie spine, perché era quello che tenevano tutti in tasca. “Mettile nella ciabatta e vediamo il capolavoro,” gli disse lanciandogliele.
Regulus andò a comporre il suo tetris di spine e prese, poi premette sul tasto che metteva in funzione la ciabatta e la loro opera da quattro miliardi e mezzo di watt brillò.
Per cinque nanosecondi.
“MA PORCA PUTTANA!” venne la voce di Peter da dentro casa. O era Marlene. Incerto.
La corrente saltò a cascata nelle case vicine, finché tutta la strada non sprofondò nel buio. In sua difesa, Regulus l’aveva detto subito che la ciabatta sarebbe esplosa.
“Vuoi un po’ di torta?” gli chiese James da qualche parte a fianco a lui.
Regulus sospirò. “Lo so che l’hai mangiata tutta.”
Lui rise. Era un peccato, perché Regulus ci provava da anni e ora non poteva vederlo. Fosse stato chiunque altro, se era così evidente che lo voleva, si sarebbe messo l’anima in pace e si sarebbe seduto a un tavolino per stilare il piano migliore al mondo per conquistarlo, ma questo era James ed era programmato per mandare tutto a puttane per colpa dello spettro caotico che lo perseguitava.
“La voglio comunque la torta,” disse Regulus, lo prese per il mento e mirò alla panna che gli aveva spalmato prima sulla guancia. Prevedibilmente non andò a segno e lo baciò.
James rispose con entusiasmo, gli prese il viso tra le mani e lo spinse indietro. Regulus galleggiava in una bolla di buio e insensatezza. Andarono a sbattere contro il cervo, ma non era proprio il caso di curarsene, secondo lui, perché tanto era brutto come la fame. Gli infilò una mano sotto al giubbino, poi sotto la felpa verde e sotto la maglietta. James sibilò per il contatto freddo, ma non gliene poteva fregare di meno. Era caldissimo, così tanto che non aveva bisogno di sbudellarlo.
Avevano di nuovo undici e dieci anni e si vedevano per la prima volta e lo odiava da impazzire perché non sorrideva per lui e non addolciva lo sguardo e non scherzava senza sarcasmo mentre lui voleva tutto. Lo voleva tutto: fantastico e leale e appassionato come era con tutti gli altri, perché lo guardava quando James non lo vedeva, e sapeva che era così.
Voleva guardare film con lui mentre bevevano tè e voleva prenderlo a parole perché tamburellava il piede e faceva ballare tutto divano. Lo voleva guardare mentre guardava le luci e fare tutte quelle cose quotidiane e stupide, fino a saper indovinare, senza mai chiederlo, quanto zucchero prendeva nel caffè. Voleva sapere che metteva gli occhiali in frigo e se c’era un posto che voleva visitare a tutti i costi. E voleva sapere tutte queste cose direttamente, perché c’era anche lui ed era coinvolto e le risate in casa erano una promessa di divertimento e non una condanna di solitudine.
Regulus scese con le labbra sul collo, inspirò il suo odore, poi lo baciò dove sentiva il sangue pulsare tutta quella luce.
“Stai attento,” gli disse James, ma erano al buio e se non avesse lasciato una prova non sarebbe mai stato certo di non essersi sciolto e diluito nella notte. “Vabbè, fai il cazzo che ti pare,” concluse James e inclinò la testa indietro per fargli spazio.


“Beh…” iniziò Remus, stringendosi nel cappotto e portandosi una tazza alle labbra. Era esilarante perché aveva le ciabatte a forma di zampe di drago, quindi non si riusciva a prendere troppo sul serio. Indovinate chi gliele aveva regalate?
La corrente era tornata da qualche minuto e si stavano tutti riunendo per guardare il mostro per la prima volta.
“Sì, ecco, vi siete impegnati!” disse Lily, alzando anche lei lo sguardo al putiferio kitsch della facciata di casa.
“Vabbè, ragazzi, è una merda completa,” concluse Sirius, perché stavano facendo un po’ tutti i timidi e qualcuno lo doveva dire, secondo lui.
Marlene e Dorcas uscirono a vedere con una tazza tra le mani a testa. Prima che potesse succedere qualunque cosa, Marlene sussultò e indicò prima se stessa, poco sotto al mento, e poi James. Lui si portò in fretta un dito alle labbra e con l’altra mano si alzò la felpa.
“Che è successo?” chiese Remus.
“No, niente, è davvero bellissimo.”
“Cazzate, McKinnon, questo schifo vale almeno sette ingiurie da parte tua,” disse Sirius.
“Però alla fine avete fatto squadra!” Lily si rivolse a James e Regulus.
James annuì sbrigativo. “E infatti che fai, resti a cena? La ricotta comunque te la sconsiglio.”
E da qui in poi il disegnino dovrebbe essere finito, perché sapete cosa fece James.
Sorrise.
Era un sorriso rilassato, disinvolto, un po’ sfrontato ai bordi. Ma Sirius inclinò la testa su un lato e aggrottò la fronte nell’anticamera della realizzazione, perché aveva una traccia insolita per James: l’allarme.
“Ma che hai fatto? Hai fatto qualcosa, lo so per certo. Che hai fatto?”
James alzò le mani, innocente. “Non so di che parli.”
Sirius lasciò vagare il dito tra lui e suo fratello, li indicò a turno, la lancetta di un orologio del Cappellaio Matto. “Ma ti sei bevuto il cazzo di cervello?”

 
Risalire all’esatta causa scatenante di una vicenda è quasi impossibile nella maggior parte dei casi, ma non in questo. In questo era ovvia:
“Col cazzo,” disse Peter.
Ecco qua.
Fine.







 
NotEl: Buon periodo di festeeeeee ueeeee, questa fic in tutta la sua gloria di trash è stata scritta in qualche ora, perché come al solito mi devo ridurre all'ultimo. Grazie per aver letto il mio primo approccio ufficiale e goffo a questa ship. Sono stati fatti tanti strani tentativi, spero che siano riusciti, olè.
Ribadisco gli auguriiii

El.

 
   
 
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