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Autore: ntnmeraviglia    14/12/2023    1 recensioni
Un racconto di ferite, di dolore. Di sesso, di sporco, di marcio. Di Dio, di servi di Dio; di umani che giocano a fare Dio.
Quattro storie diverse, intrecciate tra loro in un unico, ripugnante destino.
Se vi va di sporcarvi le mani di sangue, siete nel posto giusto.
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AVVERTENZE: In questa fanfiction troverete poche ship canoniche - e poche ship concrete in generale -. Al contrario, sono presenti diversi OC (original characters); sei, per l'esattezza, che presenzieranno per tutta la durata della storia e si interfacceranno con quasi tutti i personaggi dell'opera originale. Se siete affezionati ad Hellsing e, in generale, al filo conduttore della storia esattamente nell'ordine e nel modo in cui si svolge nel canon, forse questa lettura non fa per voi; e allo stesso modo se non siete fan degli OC.
Per il resto, siete i benvenuti, e mi auguro che le mie piccole ideuzze vi intrattengano tanto quanto hanno fatto con me!
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Alucard, Integra Farburke Wingates Hellsing, Maggiore, Nuovo Personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Il piacevole torpore di una doccia calda come Dio comanda gli ricordava i bei tempi andati, quelli in cui sguazzava felicemente nel liquido amniotico e galleggiava nel morbido abbraccio della placenta materna.
E spesso si ritrovava a chiedersi se sua madre, chiunque ella fosse, si fosse mai accarezzata il pancione mentre lo portava in grembo. Se avesse mai gioito dei suoi calcetti, o rigurgitato durante i primi mesi di attesa.
Isaac la odiava e la amava al contempo. E ne era tormentato, proprio come il fu Catullo – la cui esistenza, per inciso, gli era totalmente ignota –, che aveva vissuto diversi secoli prima di lui, ma che due o tre cosette sull’amore le conosceva.
Dato l’abbandono, una verità assodata ed innegabile da cui sarebbe stato sciocco sottrarsi, non poteva che detestarla. Tuttavia, una parte recondita di sé nutriva utopiche speranze: magari era stata costretta; da circostanze nefaste, o da uomini svuotati di Dio.
Come al solito, si arrovellava il cervello con pensieri a cui non riusciva a dare né voce né risposte. E lo fece mentre raschiava via con le dita il vapore appiccicaticcio incollatosi allo specchio, cosicché potesse guardarsi negli occhi.

« Che coglione. » non gli piaceva quel che vedeva, e se ne rimproverò. Lui, che era a capo di una squadra di assassini professionisti, e che il lusso di tante debolezze non poteva proprio concederselo, ora sembrava solo un patetico fallito.
Sbuffò. Le ciocche corvine lasciate libere a grondare avevano sgocciolato su tutto il pavimento, creando una fastidiosissima patina di bagnato.
Ecco, ora gli toccava pure mettersi a pulire. “Coglione”, si ribadì.

« Allora è vero che sei molto più portato per le pulizie che per gli omicidi. »

La ramazza con cui stava improvvisandosi spazzino gli scivolò dalle mani, ed Isaac dovette mordersi la lingua per trattenere le imprecazioni. E se lo fece, era solo per decoro; quello che Integra, appena arrivatagli alle spalle, tanto gli rimproverava.

« … Mi è preso un colpo, Integra. »

« Sei la mia guardia del corpo e ti lasci terrorizzare così facilmente da un attacco a sorpresa? Ottimo. Sai, questo mi fa dormire sogni tranquilli. »

Inutile negarlo: non ebbe le palle di rispondere. Forse perché, in fondo, la Lady di ferro aveva ragione, e lui lo sapeva. Si ritrovò, dunque, non solo umiliato per il colpo basso subito, ma anche profondamente frustrato.
Ormai aveva trascorso quattordici giorni da impiegato dei nobili Hellsing. Quattordici giorni in cui di lavoro ce n’era stato poco, e di azione ancor meno; in compenso, però, c’era stata assai difficoltà nel gestire i rapporti con il capo.
La bella padrona di casa pareva proprio odiarlo, ed il giovane mercenario non se ne spiegava le ragioni. Al solito, tendeva ad accollarsi la colpa: troppo inefficiente, troppo invertebrato, troppo francese. Qualunque fosse il motivo, certamente non era all’altezza di una donna come lei.
Una vincente, un’impavida senza paura.

« Hai ragione, starò più attento. » si scusò rispettosamente. Pur avvertendo disprezzo dall’altro lato, egli rimase composto e non divenne mai aggressivo: non gli importava un beneamato del proprio orgoglio ferito. Integra meritava stima, e l’avrebbe ottenuta anche se si fosse messa a pisciargli addosso. « Posso fare qualcosa per te? Non ti ho sentita entrare, altrimenti mi sarei fatto trovare vestito. »

« Non è importante. » Integral Fairbrook Wingates Hellsing ne aveva viste di cose nella vita, tra le più atroci e ripugnanti. Di sicuro non sarebbero stati un paio di muscoli ignudi a sconvolgerla, tanto meno ad umettarla. « Sono venuta solo per avvertirti che oggi riceverai il tuo arsenale. Walter ti ha procurato delle Heckler&Koch USP Match calibro .45. Naturalmente, vanno caricate con proiettili d’argento. Quindi, per l’amor del cielo, vedi di buttare quella robaccia scadente che tu e tuo fratello avete il coraggio di definire “armi”. »

« Ma certo, d’accordo. Grazie, andrò da lui appena mi sarà possibile. »

« Molto bene. »

Arrivederci e grazie, non c’era altro da aggiungere. Il passo celere di Integra, sempre così scattante ed inarrestabile, stava già trascinandosi alla porta, quando qualcosa di curioso attirò la sua attenzione. Senz’altro doveva trattarsi di un avvenimento bizzarro, quantomeno: del resto, non erano poi molte le cose che, solitamente, catturavano il suo interesse.

« Che hai fatto alla schiena? » il suo minuzioso riconoscimento dei dettagli era eccezionale, tanto quanto il suo fiuto per l’insolito. Ovviamente, non le era sfuggita la carne sfregiata del suo sottoposto, costellata di cicatrici grigiastre, dai toni smorti, come se gli parassitassero la schiena da chissà quanti anni.
Isaac, dal canto suo, ebbe qualche istante di smarrimento. Certo quella domanda non se la sarebbe aspettata; da nessuno, men che meno da lei.

« Oh… » provò immensa vergogna per il suo sgradevole corpo svestito. Un asciugamano stretto in vita gli copriva il sesso, sì; ma Isaac, in quel momento, si sentiva più nudo di un verme, con tutte le sue disgustose fragilità in bella vista. « Non è niente. »

« No, non ci provare. » l’altrui dissimulare intestardì miss Hellsing ancora di più. « Non c’è alcun bisogno di essere discreti. Siamo entrambi adulti, no? Forza, dimmi cos’è successo. »

Stavolta, furono i nervi di Isaac quelli in procinto di cedere. Fortuna che la rigida disciplina da soldato impartitagli dall’ormai defunto capofamiglia Bernadotte lo rendeva naturalmente ammaestrabile, conferendogli l’autocontrollo indispensabile a non perdere di giudizio nemmeno quando era costretto a parlare di sé.

« Nessuno di noi qui ha avuto un infanzia felice, credo. » volle liquidarla così, perché non riusciva a pensare a qualcosa di più doloroso di aprire lo scrigno dei ricordi del suo passato, che per tutta la vita aveva faticosamente tentato di distruggere. Cancellare tutto in uno schiocco di dita, cestinare gli orrori e gli scheletri. Solo allora, forse, si sarebbe sentito meno schifosamente vulnerabile.

« Né io né nessun altro all’interno di questa organizzazione abbiamo preso quattro scudisciate sulla schiena. »

« Non è così grave, sono solo bacchettate. »

« Solo…? »

« Sì. Insomma, tutti i bambini fanno i capricci. Venivo punito perché mi comportavo male, tutto qua. Non è così grave. »

Per qualche istante, Integra si intontì. Quel ragazzo era riuscito a lasciarla senza parole… non una cosa da tutti, perlomeno. Una strana mescolanza di rammarico ed empatia le irrorò la mente, e non solo perché dovevano essergli capitate cose tutt’altro che gradevoli negli anni – teoricamente – più spensierati della vita. Ciò che la colpì di più, fu la tendenza del suo subordinato a minimizzare gli ignoti fattacci, e a giustificarli con eventuali comportamenti indocili e ribelli.
Dimenticandosi, forse, che era solo un bambino.

« Capisco… » a seguito di un lungo, gravoso tacere reciproco, Lady Hellsing constatò che ogni considerazione avuta luogo tra le sue meditazioni non avrebbe dovuto trovare la via delle parole.
Piuttosto, si congedò; stavolta, in via definitiva. E lo fece perché, in qualche modo, ebbe riguardo del suo dolore, e volle prendersene cura non infierendo ulteriormente.
Da allora, quel che s’era tristemente consolidato in un vincolo lavorativo di evidente conflittualità, cominciò a distendere le sue tensioni, disciogliendo le freddezze e spazzando via l’increscioso sprezzo. Paradossalmente, i rapporti tra i due, invece di raffreddarsi oltre, si rafforzarono. Non che Isaac avesse mai nutrito delle ostilità, comunque: egli aveva sempre covato un solenne rispetto nei confronti dell’austera padrona; la quale, finalmente, riuscì ad umanizzarlo, vedendolo non più come uno sterile assassino da cui guardar bene dal fidarsi, ma come un uomo.
Praticamente un coetaneo, forse cresciuto troppo in fretta; come lei. Che portava in spalla il peso di un puerile omicidio; come lei. Forse avevano più cose in comune di quante avrebbe mai immaginato.

« Integra, sei qui? » esattamente otto giorni dopo l’episodio delle cicatrici, l’ovvietà del cambio di rotta arrivò al suo culmine. Isaac, normalmente, evitava di presentarsi senza preavviso all’ufficio di Integra; a meno che non fosse strettamente necessario. Come in quel caso.
Tamburellò delicatamente le nocche contro il pregiato legno di cui l’uscio era ricoperto, senza tuttavia riscuotere né consensi, né tanto meno responsi di alcun genere. Allora, riprovò una seconda volta, con maggiore insistenza. Nuovamente, silenzio stampa. « Integra, sto entrando. »
La decisione fu presa non proprio a cuor leggero. Ma lui, santa miseria, era o non era la sua guardia del corpo? Pertanto, era annoverato specificamente tra i suoi compiti di base intervenire repentinamente, qualora sussistesse anche solo un vago sospetto di pericolo.
E lui ce l’aveva. Forse era paranoico, ma un controllino non avrebbe fatto male a nessuno; anzi, era molto più probabile che facesse del bene, piuttosto.
Con sua sorpresa, una volta spalancata la porta, non si trovò al cospetto del sanguinoso disastro che aveva ipotizzato; e menomale, aggiungerei. Lo studio era semplicemente vuoto.
Andarla a cercare in lungo e in largo per l’intero colosso residenziale Hellsing sarebbe stato controproducente, un inutile spreco di tempo. Ritenne più saggio, invece, attenderla lì. Tanto, si trattava senz’altro di un’attesa esigua; forse aveva fatto capatina al bagno. Non ci avrebbe messo molto, no?
No. Previsione errata.

« Bo’, va be’… tornerò più tardi. » convenne tra sé, dopo aver speso inutilmente ben quindici minuti col culo posato sulla poltroncina di velluto verde innanzi alla scrivania.
Ritornando in piedi, tuttavia, tutte le intenzioni di sgomberare quell’area solitaria si vanificarono. Notò di scorcio, a bordo di uno dei tanti scaffali che riempivano le pareti, un’ordinatissima ed immacolata pila di vinili. Attratto da essi come una calamita, ebbe modo di apprezzare anche il grosso giradischi d’epoca che stanziava proprio lì di fianco: non un filo di polvere su quella raffinata collezione, la quale, in qualche strano modo, riusciva a riflettere la personalità della proprietaria solo guardandola.
Qui, il giovane si concesse un capriccio: qualcosa che non avrebbe dovuto fare, e che in ogni contesto sarebbe risultato a dir poco indecoroso. Ma che fece lo stesso.
Sfilò via un disco dalla meticolosa pila. Queen, Killer Queen. Lo fece ancora; God Save the Queen, Sex Pistols. Seguitò Bowie, procedendo poi con un pizzico di folk dato da Bob Dylan.
Si stupì della varietà. Tutto molto britannico, certo, ma con un inconsueto velo ribelle che non s’aspettava di poter accostare alla Lady di ferro.

« Bella e rivoltosa, eh…? » Integra sprigionava fascino; ed Isaac, più la conosceva, più ne rimaneva stregato, senza che potesse fare alcunché per impedirlo.
E proprio quando credeva di averle viste tutte, ecco che venne un'altra volta attirato altrove. Ricompose i preziosi beni musicali fedelmente a come li aveva trovati, indietreggiando solo di un paio di passi per giungere alla presenza dell’imponente scrittoio d’ebano. Quei sigari cubani erano troppo succulenti ed incustoditi per potersi trattenere dal darci un’occhiata: erano scuri, profumati, compatti e sicuramente molto saporiti.
Che avrebbe dato per fumarsene uno; lui, che da ragazzino era disposto a raccattare dalla strada mozziconi abbandonati a metà, pestati giornalmente da milioni di scarpe indifferenti di cui Annecy era colma oltre ogni limite, pur di aspirare un po’ di inebriante nicotina.

« Che fai qui dentro…? »

Il momento di gloria volse al termine nel peggiore dei modi. Il tabacco solido che stava sfregando tra i polpastrelli gli cascò dalle mani per lo spavento: cercò prontamente di raccoglierlo e di richiudere la scatola che lo conteneva in origine, apparendo tuttavia molto più goffo che fulmineo.

« Scusa… scusa, non volevo rovistare, me ne stavo andando. » si preoccupò di essere, ancora una volta, malvisto; come gli era accaduto praticamente sempre nel corso della vita. « Non stavo rubando niente, te lo giuro, potessi morire ora. »

« Lo so che voi francesi non rubate. È troppo poco romantico. » incredibile ma vero, quella era una battuta vera e propria, addirittura accompagnata da un accenno di sghignazzo divertito. Data la rarità del momento, si poteva pure soprassedere sulla natura velatamente ingiuriosa di quelle parole. « Se ti interessa tanto, puoi accenderne uno. »

« Sul serio…? »

« Ma sì, fa pure. Tanto ne ho un’infinità. »

Isaac accettò di buon grado la proposta, come fosse stato un ordine. La boccata di fumo nero che gli gonfiò i polmoni, a quel punto, fu ubriacante a dir poco: mai, in vita sua, avrebbe creduto di inalare qualcosa di così sublimemente dolce ma piccato al contempo; di una delicatezza intensa, una ricercatezza potente.
Sapeva di mare. Sapeva di bella vita.

« Che roba… dovresti vedere la merde » si censurò, optando per un francese che non lasciava grossi dubbi all’interpretazione. « che fumo io — scusa il francese. Tutt’altra storia. »

« Sarà. A me cominciano a stomacare. » cionondimeno, Integra sfilò comunque un ennesimo sigaro dalla custodia, più per convulsione che per desiderio effettivo. « Be’, allora? Cos’è che facevi qui? »

« Oh… ero venuto a portarti il solito rendiconto settimanale in merito alla questione dei vampiri artificiali, ho anche aggiunto qualcosa su come se la sta cavando Pip con Alucard e Seras. »

« Poi qualcosa è andato storto, pare. »

« Già… non ho potuto fare a meno di notare i vinili sulla mensola. Sono rimasto colpito, è musica di un certo livello. »

« Quindi tu sei un intenditore? »

« No, no, per niente. Ma non serve aver frequentato il conservatorio per capire che, forse, quella che se ne intende tra noi due sei tu. »

« Allora dovresti passare più spesso dal mio ufficio. Magari parleremo di musica. »

Un sorriso fiero, tinteggiato di un lieve imbarazzo dai tratti quasi adolescenziali, gli ornò il volto leggermente barbuto. “Volentieri”, mormorò.
E, volentieri, accadde. Dapprima fu solo un timido approccio, che li rivide in occasioni extra-lavorative la sera dopo e quella appresso ancora. Poi ricapitò per le successive settimane, a giorni alterni o tutti i giorni, fino a trasformarsi in una piacevole abitudine.

« I Queen mi ricordano mio nonno. Si prendeva delle incazzature assurde, giuro. » la stanza era diventata una cappa di fumo. Fumo dolce di sigari tropicali; quelli di Integra, che ormai condivideva col suo secondino come fosse stata la normalità. A fare da sfondo a quel salotto musicale, un sentore di Another One Bites the Dust: distinguibile, ovviamente, ma che non interferiva nella loro conversazione. Per qualche motivo, entrambi ci tenevano a non perdersi nemmeno una parola dell’altro. « Odiava Freddie Mercury con tutto sé stesso. Gli dava della checca continuamente, era estenuante. »

« Be’, sarà stato contento del suo AIDS. »

« Purtroppo non è vissuto a sufficienza per scoprirlo. Ma sì, si sarebbe spanciato dalle risate. »

« Per rispettare la memoria di tuo nonno, io cambierei. Va’, scegli quello che ti pare. »

Sì che erano in confidenza, ma il grande capo era pur sempre il grande capo, e non si risparmiava mai dal dispensare direzioni a destra e a manca. E dato che il suo ruolo era eseguire, lo fece anche quella volta: si approssimò al giradischi, spulciando la raccolta alla ricerca del disco giusto.
Quello d’atmosfera, quello decisivo. E dopo un’attenta analisi, Isaac decretò che Heroes era il disco perfetto.

« Buona scelta. »

« Dai, vieni. » orientò un braccio verso la sua bella interlocutrice. Esso, per quanto teso e massiccio fosse, era pregno di finezza, di tenerezza; come se stesse indirizzandosi a lei col solo intento di carezzarla.

« Prego…? »

« Balliamo un po’. »

« Sì, certo. Sei un po’ ubriaco, mi sa. »

« Ubriaco per quel sorso di brandy inglese da fighetti che mi hai dato prima? Pare proprio che tu non mi conosci affatto, miss Hellsing. »

Integra osservò quelle falangi affusolate a lei protese, trovandole stranamente invitanti. Per quanto tendesse ad irrigidirsi in circostanze di intimità fisica come quella, si sentì allo stesso tempo cullata dalla musica, libera di ammorbidirsi. Per una volta, non era Integral Fairbrook Wingates Hellsing, regina suprema dell’Organizzazione di cui portava il nome, padrona del vampiro millenario più famoso di tutti i tempi ed affiliata diretta della Chiesa anglicana; ma solo Integra. Integra che si regalava un momento di spensieratezza, assieme ad un sottoposto; o meglio, un amico.

« E comunque… è “mi conosca”, non “mi conosci”. » solo a seguito di quella precisazione pungente, accettò l’invito.
Unirono le mani, ed Isaac la prese per la vita: i loro corpi aderirono timorosamente, e lasciarono che Heroes li conducesse goffamente.

« Non sono molto bravo a ballare, ora che ci penso… »

« Lo vedo. »

A scapito delle premesse, però, ben presto i loro movimenti rozzi si aggraziarono, divenendo fluidi e ravvivati; vivaci e dinamici, quasi disordinati, ma tuttavia incastrati perfettamente. Isaac fece roteare la sua dama attorno al suo braccio un paio di volte; il cuore gli prese a martellate il petto, sempre più forte, fino a ridondargli nella gola. Il suo corpo avvertì il primordiale impulso di stringerla a sé, di lambirla teneramente.
Quando scelse di seguire il proprio istinto, era troppo tardi per tirarsi indietro. Gli occhi fulvi di lui si fusero ai cerulei di lei; si mescolarono, si unirono. Le sfiorò una guancia olivastra con la bocca, lasciandosi percepire a malapena. Integra ebbe un sussulto confuso, ma non sembrò intenzionata a ripudiare, ad aborrire, a respingere. E gli diede adito di spingersi oltre: tracciò un percorso sul volto di lei, meravigliosamente scolpito, che ebbe come tappe la mascella, il mento, le estremità delle labbra, fino ad approdare proprio a queste ultime, ed il bacio che vi dedicò fu vergine, virtuoso: come se lei fosse fatta di cristallo, e lui temesse di romperla.
Per lui, l’ultima donna da considerarsi importante nella vita l’aveva fustigato a sangue. Per lei, l’ultimo uomo da considerarsi importante nella vita era defunto da tempo, e l’aveva lasciata nelle mani di un demone dai canini affilati e di uno zio troppo avido per aver cura della nipotina.
Magari, avevano proprio bisogno l’uno dell’altra. Isaac le ghermì i fianchi, la tenne stretta, perché la paura che gli sfuggisse via come ogni cosa bella della vita lo terrorizzava. Integra, istintivamente percependo i suoi timori, tenne le mani sul suo volto ispido, trasmettendo sollievo al bambino tremolante ancora rinchiuso dentro di lui.

« Ora però dovresti andare. » fu miss Hellsing a spezzare l’incantesimo, come ripresasi di punto in bianco da uno stato di trance, temendo di lasciarsi trasportare troppo. Peraltro, erano ancora in una posizione gerarchica fin troppo diversa, e lei non se n’era affatto dimenticata.
Tirò il freno a mano. Come sempre. « Sono un po’ stanca. È meglio andare a dormire. »

« Sì… sì, hai ragione, scusa. » i suoi arti le scivolarono via dalle anche. Seguirono una manciata di secondi silenziosi, colmi di colpevolezza e cose non dette; di tristi imposizioni, di paure, di pulsioni represse. Filtrato dalla finestra, il chiaro di luna gli illuminò il cammino a ritroso, che portò Isaac sulla via della porta. « Allora… buonanotte, Integra. »

« Buonanotte, Isaac. »

Isaac, ventotto giorni alla scelta imperdonabile.

 



–––––



Vedere sempre le stesse facce non era poi tanto una novità, per Millenium. Il grande scontro era alle porte, e la tanto agognata guerra infuocata tra creature mortali e demoni infernali marciava inesorabile al suo punto di non ritorno. Va da sé che, a conti fatti, il tempo dei reclutamenti era finito da un pezzo: i membri stretti del Letzte Batallion, con la sua omogenea alternanza di marescialli e sottufficiali, era più che al completo.
O meglio, questo era ciò che il Maggiore aveva creduto fino a quel momento. Malgrado ciò, quando gli giunse all’orecchio la comunicazione del suo viscido infiltrato riguardo ad un possibile nuovo elemento, discendente diretto del morso di Alucard, si rimproverò di essere stato tanto sciocco da porsi dei limiti; specie in una situazione come quella, così elettrizzante per lui, e che non smetteva mai di stupirlo.
Le carte in tavola necessitavano una rimescolata. Avere una draculina in squadra sarebbe stato il coronamento del suo lucido delirio, l’apice che fino ad allora non aveva raggiunto; praticamente, un’estensione della sua nemesi, il motivo per cui tutto aveva avuto inizio.
Lasciarsela scappare sarebbe stata una pura e semplice idiozia. Decisamente non nel suo stile.

« Mah. Non mi sconfinfera proprio l’idea, no. » Schneewittchen non aveva propriamente il dono dell’espansività. Aveva un paio di colleghi a cui teneva, e che forse poteva ritenere “amici”; tanto bastava.
L’arrivo di quella nuova era previsto per quel giorno, e lei non poteva fare a meno di esternare le proprie apprensioni in merito; non che fosse più di tanto ascoltata, comunque.

« Io sono contento, invece. » Caspian si pronunciò anche se non direttamente interpellato, come spesso gli capitava di fare. « Sono stanco di vedere sempre i soliti brutti musi. Una faccia nuova ci farà bene. »

Non tutta la combriccola, ora disposta ai piedi del Deux, si espresse in merito. A molti di loro – c’erano proprio tutti, mancavano giusto i pezzi grossi – non fregava un bel mucchio di niente di chi o cosa finisse della mischia. Tanto peggio per loro. Le amicizie, quando sei strascico vivente di ciò che rimane del Nazismo, non sono esattamente una priorità.
Loro avevano soltanto l’onere di darle un’occhiatina, prima di spedirla dal Maggiore. Se si fosse presentata armata, o assetata di sangue? Il loro obiettivo era proteggere il grande capo e la sua grande mente. Ecco perché erano lì.
La nuova recluta, comunque, non tardò ad arrivare.

« Mi manda Walter. Sto cercando il Maggiore. » i presenti si scambiarono fugaci occhiate; strabuzzarono gli occhi, sbatterono le palpebre ripetutamente. La donna che era stata loro descritta come erede del re dei vampiri gli sembrò tutt’altro che intimidatoria: il suo viso era troppo pulito, i suoi lineamenti troppo docili. Era davvero così doveroso accoglierla tra loro? Nessuno la prese sul serio, e molti cominciarono a riconsiderare l’impeccabilità delle scelte del grassone. « Voi sareste? »

« Piano con le domande, gattina. » Zorin Blitz faceva paura. Era una bestia erculea, tutta tatuata, tutt’altro che femminile. Impugnava con estrema disinvoltura un’enorme falce, che probabilmente pesava il doppio di lei. Se dapprima se la teneva comodamente poggiata su di una spalla, ora la puntava minacciosamente al candido, sottile, quasi angelico collo di porcellana altrui. Un collo che ispirava morsi, adornato da un paio di fossi rossastri, sfregio dell’azzanno ricevuto tempo addietro; la ferrosa punta scintillante si accinse alla pelle di Alexis, fermandosi quel tanto che bastava a non lacerarla. « Identificati. »

« Il vostro capo non vi ha comunicato che avreste avuto visite? »

« Non provare a giocare con me, piccola. Non sei nella condizione adatta. »

« Tu non giocare con me. »

« Ehi, ehi… calma, signorine, non scannatevi. » Jan Valentine si intromise tra i due fuochi, autoproclamandosi finissimo conoscitore del gentil sesso; e, di conseguenza, l’unico in grado di placare le due belle litiganti. Per qualche motivo, il concetto di lotta tra donne gli faceva venire una gran voglia di menarselo. « Dolcezza, non puoi venire a casa nostra e fare come vuoi tu. Capisci? Fatti guardare più da vicino… » il più giovane della coppia di fratelli vampiri si concesse brighe e libertà che non gli erano dovute. Una sua mano, ossuta e colorita, afferrò il mento di lei; lo sollevò, voltandolo di qua e di là, squadrandolo accuratamente da ogni angolazione. « Che bella topina… sei sicura che il Maggiore non ti abbia scelto perché ha voglia di farsi un giro su di te? Sinceramente, lo capirei. »

« Levami le mani di—… »

« Sì, brava, ribellati un po’. Mi piace addomesticare le bambine cattive come te. Ti faccio vedere una cosa che sicuramente apprezzerai. »

Per l’ennesima volta, Alexis dovette gestire un durello imposto, non richiesto: quel perfetto sconosciuto gracchiò via la lampo dei suoi pantaloni, lasciando che questi gli ricadessero morbidi lungo le cosce. Tirò fuori la sua vomitevole carne eretta, afferrandosela saldamente dalla base e porgendogliela come un pacco regalo. L’olezzo rivoltante di feromoni maschili impregnò le narici ultra sensitive dei vampiri lì riuniti.

« Dai, toccalo un po’. Non fare la timida, non ti morde. »

Oh, certo; l’avrebbe toccato eccome. I bei tempi d’innocenza e virtù erano, purtroppo, andati per sempre: il mostro che era diventata non avrebbe più tollerato le prepotenze degli uomini, le loro ingiunzioni, i loro sporchi cazzi. Lo sguardo della nuova arrivata si infiammò, pennellandosi di ogni sfumatura della morte: quel miserabile era la personificazione di ciò che più odiava.
Un uomo che aveva volontariamente venduto la propria umanità; un uomo che, senza né pudore e né rimpianti, si sentiva invincibile, tanto da non temerla pur sapendo la sua ragguardevole provenienza.
Basta uomini. Anzi, no — basta uomini buoni solo a rovinarle la vita, a nausearla, a confonderla, a raggirarla.

« Ma che fai…? » Jan ebbe appena il tempo di domandarlo, prima che tutto gli fosse dolorosamente chiaro.
Uno strazio lancinante lo colpì ad altezza pube, che lo portò inevitabilmente ad una serie di striduli strilli di puro orrore. Frastornato, a stento intuì quanto accadutogli: tutto ciò che riuscì a distinguere si limitava al lago di sangue che si propagò sotto ai suoi piedi irrorando il pavimento, e la mancanza essenziale di qualcosa che, fino a qualche minuto prima, era sempre stato abituato a vedere lì, ciondolante tra le sue gambe.

« Ora ascoltatemi bene… » Alexis si voltò, mostrandosi maestosa a coloro che, pietrificati da quanto appena accaduto, si cucirono la bocca. Ella brandiva ancora nella mano destra il membro violaceo appena strappato alla sua carne d’origine, con gli artigli conficcati tra le pieghe della cotenna flaccida. Di sangue ne colò a fiumi, colandole lungo il braccio ed infrangendosi contro il gomito.
Un tetro silenzio inghiottì i presenti senza lasciare lische. Lamentii e turpiloqui soffusi come unico rumore percettibile: il corpo di Jan Valentine, immerso nella sua pozza, si contorceva. « Se pensate che io sia venuta qui per giocare, o per farmi prendere in giro da voi, vi sbagliate. Fatemi parlare con chi comanda qui, se non volete finire anche voi così. »

Parole dure. Minacce concrete; non avrebbe avuto paura di riservare anche agli altri lo stesso trattamento. Perché avrebbe dovuto, del resto?
Ma la credibilità di quanto detto venne smorzata più in fretta del momento di apoteosi in sé per sé: stavolta, fu il turno di Alexis di gridare in preda ad un patire feroce, poiché attaccata alle spalle. Qualcuno, appena sbucato fuori dal Deux, non s’era nemmeno scomodato a percorrere la scalinata: aveva provveduto solo a spararle.
Due proiettili, solo due. Bastarono a perforarle gli occhi, a farle esplodere i bulbi e ridurli a brandelli. Lei cascò sulle ginocchia, zampillò senza sosta, sbavò di dolore; naturalmente, non ebbe modo di vedere il bastardo che le avesse arrecato tanto male. Tutto ciò che arrivò alle sue orecchie, unico senso rilevante di cui disponeva in quel caso, fu una voce assai curiosa: melliflua e pacata, ma al contempo devastatrice, indolente, insensibile. Quasi inumana.

« Lungi da me difendere quel goblin di Jan Valentine… ma in questo luogo si esige un certo decoro. » passettino dopo passettino, Leone avanzò, un gradino alla volta. Si scansò dai piedi con poco garbo ciò che ne rimaneva del malcapitato Valentine, che nel frattempo stava penosamente e faticosamente rigenerandosi il cazzo – non perse occasione, comunque, di grugnire un confuso “va’ a farti inculare, stronzo!”, stretto tra i denti, mosso dalla frustrazione di essere stato atterrato da una donna e sbeffeggiato da un finocchio –, prima di raggiungere i pressi della sua insanguinata interlocutrice. « Vedi… il fatto è che questi spettacolini non riesco proprio a digerirli. Sottraggono tempo al Maggiore, gli tolgono il riflettore di dosso. È inaccettabile, non credi? »

« Pezzo… di… merda… » bofonchiò lei. Il suo viso si scolpì di lacrime rosso cremisi, che fuoriuscirono dai solchi neri delle sue cornee assenti.

« Già, sì, mi è stato detto un po’ di volte. Altri spunti illuminanti da approfondire? No? Immaginavo. Allora, se non c’è altro… ti scorterò personalmente dal mio padrone. Non farmi pentire di essere stato caritatevole con te. » fu solo allora che, con un inquietante mix di eleganza e gelida efferatezza, Leone si sistemò la pistola in vita, stretta nel cavallo dei propri pantaloni. Poi, rivolse sguardo saccente e, al solito, sprezzante agli attoniti spettatori rimasti. « Be’? Che state fermi a fare? Forza, muovete un po’ il culo. Luke, prendi ciò che ne rimane del tuo patetico fratello; che impari a riporre un po’ l’uccello nell’apposita gabbietta. »

Le istruzioni furono lineari, dirette, senza scampo per ulteriori, inconcludenti prolissità.
Alexis, come promesso, venne onorata dell’ingombrante presenza tanto decantata fino a quel momento: un ometto, largo e voluminoso, le apparve accomodato ad una sedia girevole, con le grosse cosce accavallate, le mani giunte, ed un tetro ghigno inciso tra le guance paffute.

« Signore, ecco l’ospite. »

« Grazie, Leone, mio caro ragazzo… saresti così gentile da concederci del tempo da soli? »

« Hm. » le verdi iridi del giovane arsero, ed un velo di gelosia serpeggiò in esse. « Ma certo. Rimango fuori, però, per qualsiasi evenienza. La ragazza sembra un po’ instabile: ha strappato il cazzo a Jan Valentine. »

« Ahah! Immagino che sia stato esilarante. Puoi andare, ragazzo mio. »

Irritato dall’insistenza, ma tuttavia sempre obbediente e servile, Leone si congedò con un breve inchino del capo, prima di allontanarsi dalla grossa aula magna, appostandosi all’ingresso di essa come sentinella.
Per un grappolo significativo di istanti, non venne pronunciato alcunché. Lui studiò il verdognolo appena rivivificatosi di lei; lei, cautamente, fece lo stesso con le caleidoscopiche ambre di lui.

« Mi dispiace per il comportamento di Leone. Avrai notato che sa essere un po’ irascibile, alle volte; non riesco proprio a tenerlo a bada, povero me! »

« Un sottoposto che salta subito al collo degli altri senza nemmeno chiedersi chi ha davanti, è un sottoposto inutile. »

« Via, via… è solo un ragazzo. Imparerà. Piuttosto, sono molto lieto che i tuoi bellissimi occhi siano tornati al loro posto. » qui, la smorfia maligna del serpente parve acuirsi. « Sono molto interessato a te, fräulein. Walter mi ha riferito grandi cose. »

« Anch’io vorrei sapere qualcosa in più su di te, in effetti. E anche su questo posto. »

« Splendido! Allora possiamo conoscerci meglio. Coraggio, parlami un po’ di te… parlami di Alucard. Che rapporto hai col tuo master? Perché sei venuta qui? »

« Non c’è molto da dire… Alucard mi ha trasformata contro la mia volontà. Mi ha obbligata a diventare misera e mostruosa tanto quanto lo è lui. Non credo che avesse intenzione di crearsi una draculina… è stato tutto un merdoso scherzo del destino. » Alexis cedette. La sua integrità vacillò ad ogni parola, crepata dal peso delle cocenti delusioni. Non avrebbe voluto smoccolare davanti a quell’omuncolo, che la guardava come carne fresca innanzi ad un lupo affamato; non avrebbe voluto rivelarsi per quella che, in fondo, era rimasta: una debole. Eppure, non riuscì a dominarsi: il pianto le bruciò lungo le guance pallide, solcandole. « E ha distrutto la mia vita. Tutto ciò che avevo è perduto… i miei sogni, le mie aspirazioni. Non mi ha lasciato più niente… e l’odio che provo per lui è l’unica cosa che mi fa sentire ancora un po’ umana. Ancora un po’ viva. Quindi, se siete qui per ucciderlo, o anche solo per provarci, posso darvi una mano. »

Gli capitava di rado, ma quando gli capitava… oh, il Maggiore si sentiva eccitato in tutti i suoi circuiti e tutti i suoi ingranaggi. Aveva tra le mani il più grande jackpot della sua lunga vita, l’asso nella manica, il jolly che gli avrebbe permesso di chiudere la mano con successo.
Inspirò pienamente. Riempì i freddi polmoni metallizzati, pregustando la dolce fragranza della morte, del rancore, della devastazione; della strage imminente, a cui s’aggiungeva un altro succulento tassello.

« Mia cara… i sentimenti che ti muovono godono di una bellezza rara. Incantevole. Sublime. Sarò più che lieto di aiutarti a compiere la tua dolce vendetta. Faremo grandi cose insieme, mia bella fräulein. »

Ma non sempre le cose vanno come ce le aspettiamo: la volubilità del destino è materia oscura, incontrollabile; persino per uno come il Maggiore.
Alexis, il suo gioiello, il suo tesoro, gli sfuggì proprio quando credette di averla in pugno. Millenium non era la sua dimensione, non era il suo posto: cosa avevano da offrirle quel grassone e la sua congrega di teppistelli? Certo, avrebbero attentato alla vita del più longevo dei vampiri, ma a quale prezzo?
Aveva ovviamente appreso i loro piani folli, del massacro di sangue e budella a cui auspicavano. Uno sperpero di vita inaccettabile. Inammissibile, insopportabile; persino per la bestia vendicativa che era divenuta.
Fuggì quella stessa notte, ritrovandosi ad un bivio: perseverare o redimersi? Tornare tra le braccia del suo carnefice era fuori discussione.
E allora, optò per l’ultimo, disperato, estremo rimedio. Si rifugiò laddove, da sempre, si sentiva a casa: a Roma. In Vaticano. Da Anderson.

 

Alexis, cinque ore al ritorno a casa.

 

–––––



È da spezzarsi il cuore la rapidità con cui, alle volte, tutto inizia e tutto finisce.
Isaac lo sapeva, certo; l’aveva sperimentato a sue spese, sulla sua pelle, come la vita non fosse solita elargire certezze a destra e a manca, e forse avrebbe dovuto aspettarsi un epilogo del genere.
Eppure, commetteva sempre lo stesso errore. Aveva riposto le sue speranze, i suoi ideali, le sue ambizioni in qualcun altro; e ora, così come tutte le altre volte, doveva gestire il rovente lavico dell’amarezza, del fallimento.
Ma c’è da fare un passo indietro. L’idillio della sua storia d’amore cominciò rovinosamente a sgretolarsi il giorno in cui Integra, sotto invito di Enrico Maxwell, si recò al Museo della Guerra Imperiale, nel cuore di Londra.
Il motivo per il quale venne sollecitata ad un colloquio così tanto confidenziale – tanto che vi presenziarono da soli, privi di accompagnatori e guardie del corpo – rimase a lungo un mistero: l’arcivescovo non si era dilungato molto nella sua lettera. Ma, data l’urgenza della convocazione, doveva essere importante.
Altrettanto arcani furono la natura ed il contenuto intrinseco della loro chiacchierata. Nessuno lo seppe, nessuno venne informato, e forse andava bene così. Ma Isaac, che tanto a lungo aveva rimirato la bellissima capofamiglia Hellsing, aveva tristemente constatato in lei un insolito sconforto da quel giorno, una perdita di lucentezza nello sguardo cobalto.

« Sei sicura di stare bene…? »

« Sto bene. » quello era uno dei motivi per cui faticava a definirsi “impegnata”, “fidanzata”, o quel diavolo che ci fosse tra loro due ora. Nonostante avesse a cuore la loro indefinita relazione e trovasse strabiliante il loro feeling mentale, di tanto in tanto aveva qualche problemino ad aprirsi con lui, ad esporsi; a mostrare anche solo la minima perplessità. E, soprattutto, all’idea di dovergli delle giustificazioni. « Sono solo un po’ stanca. »

« Capisco… » seppur non convinto, decise di non interrogarla oltre. Lei aveva tutto il diritto di parlargli se ne aveva voglia e quando ne aveva voglia, coi suoi tempi; oppure non parargli affatto. Si limitò a confortarla, per quanto possibile, tenendole le mani sulle spalle, carezzandole con cura, allungando di poco le dita sul suo collo e facendo lo stesso. « Se vuoi, ti lascio da sola. »

« No, rimani pure, mi fa bene parlare un po’. Piuttosto, com’è andata oggi in mia assenza? Qualche problema? »

« No, qui tutto tranquillo. Solo un po’ di rumore stanotte, ma niente di che. »

« Hm? Che intendi? » Integra, come se avesse appena fiutato involontariamente un potenziale pericolo, tornò ad contrarsi; persino sotto il tocco gentile di Isaac.

« Bo’, ho sentito per caso una conversazione un po’ strana tra Walter e Alexis. Lui le ha detto qualcosa riguardo un certo Millenium, e di un suo amico che avrebbe potuto aiutarla… o qualcosa del genere. Sinceramente non ci ho capito molto, ero anche mezzo addormentato, mi ero alzato solo per andare in bagno. Mi chiedo di che diavolo parlasse. »

E si chiese anche cos’è che avesse detto di tanto sconcertante, data la reazione che conseguì. La donna immobile al di sotto dei suoi palmi si ammutolì tutta d’un tratto: smisero le sue parole, e quasi smisero anche i suoi piccoli afflati, ritmati e tutti uguali. C’erano solo i suoi pensieri, uno peggiore dell’altro; uno più deleterio dell’altro. Fu quando poi si eresse, abbandonando la sua amata sedia girevole e sottraendosi a quel tocco che, date le circostanze, cominciava a farla rabbrividire, che Isaac comprese di aver irrimediabilmente compromesso tutto senza nemmeno accorgersene.

« Che succede? »

« Come lo sai? »

« Cosa come lo so…? »

« Non prendermi per il culo, ragazzino. » che fosse anagraficamente più grande di lei era irrilevante. Lei era un’adulta fatta e finita, con il macigno e le responsabilità di un’intera associazione sulle spalle; dell’intera Londra, e ora anche dei maledetti nazisti. Non aveva tempo, né voglia, di farsi ridicolizzare da nessuno. Men che meno da lui. « Come sai di Millenium? »

« Ho appena detto che l’ho sentito da Walter! Non ho idea di cosa sia! »

« Già, certo. Peccato che Walter non può in alcun modo saperne niente, dato che non ne ho mai parlato con lui; né con te, né con nessuno. Quindi, il fatto che tu lo sappia, mi dà da pensare. » strinse i denti fino a scheggiarseli, i pugni fino a sbrindellarsi la carne con le unghie.
Tradire… il più vile, spregevole, ignobile dei gesti. Di egual gravità in ogni ambito: con un superiore, con un partner, con un amico. E Integra si sentì tradita sotto tutti i fronti. « Cosa sei tu? Una spia di Maxwell o qualcosa del genere? »

« Ma che stai dicendo…? Integra, sei impazzita? Se c’è qualcuno di cui dovresti preoccuparti, quello è Walter! »

« Certo. Ora dovrei dubitare del mio maggiordomo, l’uomo che mi ha praticamente cresciuta, per credere alle strampalate teorie di uno sconosciuto? »

« Io sono uno sconosciuto per te? » più si proseguiva, più male faceva. L’idea di essere insignificante per lei, di non aver alcuna rilevanza nella sua vita, era più lugubre di qualsiasi altro insulto. L’indifferenza era la vera, unica arma per ucciderlo. « Non so cosa sia questo Millenium, ma Walter ne ha parlato come se lo conoscesse bene. E ne ha parlato con Alexis, che è notoriamente una pazza. Non ti insospettisce nemmeno un po’? Il mio lavoro è proteggerti, Integra. Io voglio solo che tu sia al sicuro. »

« Non ho bisogno di nessuno. Non ho bisogno di te. E finché non ci avrò visto chiaro in questa faccenda, sei ufficialmente sollevato dal tuo incarico. Vattene. »

Un groviglio di parole non dette gli si annodò in gola, concretizzandosi in un fascio di muscoli duro e fibroso. Come quando stai per piangere. Ed improvvisamente, sentì di avere di nuovo undici anni, e di essere stato punito a frustate e mazzate per una colpa mai commessa.
Ma ora era un adulto, e il pianto non era cosa di cui un uomo – un mercenario, per giunta – potesse macchiarsi. Evitando il rischio di rendersi ulteriormente ridicolo, eseguì con rigore il suo ultimo ordine: lasciò l’ufficio, revocando il diritto di sbattere la porta dietro di sé.
Una rabbia insensata si intrinsecò nelle sue gesta, nei suoi passi, nei suoi respiri; tanto da assomigliare ad un toro pronto alla carica contro la sua banderuola rossa. Se Integra voleva vederci chiaro nella faccenda, ebbene, anche lui avrebbe fatto lo stesso: avrebbe dimostrato la sua innocenza, a prescindere da quanto biechi e indecenti sarebbero stati i mezzi.

« Ti è andata male, eh? » le risposte che cercava giunsero da sole, su due gambe, vestite d’un completo color prugna ed abbellite di monocolo. Walter lo incalzò, mostrandosi con un’espressione strafottente, arrogante; ben lontana dall’aura diligente e scrupolosa che solitamente lo accompagnava. « Ma che bravo, sir Isaac Bernadotte… tu conosci tutti i miei preziosi segreti, non è vero? Ma sei proprio sicuro di averli scoperti tutti? »

« Gran figlio di puttana… che cosa stai tramando?! »

« Le tue intenzioni con la mia padrona sono molto nobili. Ah, l’amore… ci rende così benevolenti. E così sciocchi. Tanto da credere di poter competere con chiunque, senza conseguenze. »

« Sai cosa? Ora che ne ho la conferma, dimostrerò ad Integra che si sbaglia a fidarsi di te, e che sei solo una viscida serpe. E sai cosa fece la Madonna al serpente, simbolo del demonio fattosi uomo? Gli tagliò la testa. »

« Ah, davvero? »

« Davvero. »

Si scrutarono come se dovessero assalirsi reciprocamente da un momento all’altro. Il loro cuore pompò sangue e adrenalina a velocità sempre crescente, tanto da essere sul punto di esplodere.
Ma nessuno dei due alzò un dito. Nessun sogghigno, nessuno scherzo; soltanto un patto silenzioso appena stipulato: l’uno sarebbe soccombuto, l’altro avrebbe trionfato.
 

Isaac, ventun ore al taglio della testa.


 

–––––



La notizia della morte di Tubalcain e Caspian arrivò celere, portando con sé un implicito messaggio: il piano poteva proseguire. Alucard era stato separato dalla sua signora con successo, ed era giunto il momento di giocare la carta Rip Van Winkle.
L'impero tedesco era pronto a risorgere, e con esso tutti gli annessi e connessi; eppure, non tutti parevano fare i salti di gioia all’idea di accaparrarsi una golosa fetta di mondo.
Presa coscienza di essere nulla più e nulla meno di una pedina mossa a piacimento dalle mani paffute del Maggiore, Schneewittchen sentì di aver perso il collante che la ancorava a Millenium.
Probabilmente, i suoi tumulti erano dovuti alla proiezione su grande schermo del corpo maciullato del suo più caro amico, unico che potesse definire tale in quel branco scalmanato in cui s’era sempre sentita estranea; con tanto di tracotanti risate di sottofondo, schernenti e derisorie.
Nessuno aveva avuto pietà del soldato caduto in battaglia. Ma che razza di mostri erano, quelli? E che razza di mostro era lei? In fin dei conti, non era poi così dissimile dai suoi compagni; dai loro sguardi di sufficienza, dalle loro oltraggiose ilarità.
Del resto, erano vampiri. E i vampiri campavano di sangue e budella, non di empatia e belle parole.

« Oh, poverina. Soffri tanto della morte del tuo amichetto, nevvero? »

Proprio quando credette di essere sola, qualcuno strisciò alle sue spalle. Qualcuno che, a proposito di denigrazioni, certamente era anni luce dal comprendere il suo dolore; e che, al contrario, sarebbe stato ben lieto di usarlo contro di lei.

« Vattene via. » la Biancaneve tedesca si innervosì. La voce di Leone era petulante e costantemente prepotente, fin quasi a darle il voltastomaco. Si premurò, comunque, di asciugare le gote smorte crepate dal pianto, così da conferire al nemico un’occasione d’attacco in meno — naturalmente, era più un’utopia che una speranza vera e propria. « Non ti voglio vedere. »

« Ricordi quando ero io a non voler vedere voi schifosi, seccanti microbi? Non mi pare che allora vi sia importato qualcosa. »

« Era diverso! Lasciami in pace, ho detto! »

« Nemmeno immagini da quant’è che desideravo questo momento… quello di vedervi morti tutti, nei modi più brutali e raccapriccianti. Dilaniati e massacrati, fin quando non ne rimarrà solo uno al fianco del Maggiore. Io. »

I nervi della rossa cedettero. Non resse il marciume di quelle parole, né il delirio di onnipotenza che trasudava da esse; né, tanto meno, il fatto che un tale meticcio della peggior specie osasse cagare sopra la vita appena spentasi di Caspian.
Quando agì, sentì di essersi liberata di qualche sassolino dalla scarpa: con uno scatto che aveva del felino, affilò gli artigli, brandendoli apparentemente senza criterio contro la figura longilinea e stizzosamente rilassata del giovane. Essi riuscirono ad artigliarsi alla pelle di Leone, tanto quanto bastò ad infliggergli quattro squarci sul collo, da cui inevitabilmente presero a sgorgare perle lucide di liquido scarlatto.
Leone, dal canto suo, non fece una piega. L’ultimo dei suoi difetti era l’imprudenza; proprio per questo, preferì scansarsi un eventuale combattimento — sia per i rischi che ne derivavano, e sia perché, davvero, non aveva alcuna voglia di gestire le crisi emotive di una ragazzina piagnucolona.
Invece, preferì aiutarla a capire con chi aveva a che fare tramite mezzi di maggiore praticità ed immediatezza.

« Prima che tu possa decidere di continuare ad attaccarmi, vorrei ricordarti che ho in canna otto proiettili antivampiro. Come saprai bene, anche uno solo di questi può farti esplodere la testa in mille coriandolini come se fosse Carnevale. » si pronunciò, al solito, quieto e mansueto; calmo ed impassibile, persino mentre estraeva la piccola Walther PPK e gliela mirava torvamente contro. « Io, fossi in te, approfitterei del fatto che, pur bramandolo con tutto me stesso, non posso ucciderti. Servirai al Maggiore, in seguito, e ostacolare i suoi ingegnosi piani non è nelle mie intenzioni. Quindi, cosa facciamo ora? Giochiamo a chi si ammazza per primo? »

Il totale mutismo altrui valse come responso definitivo. Leone, fiutando la sua paura, gongolò, stampando su quelle belle labbra colorite un ghigno dalla malignità disarmante.

« Come sospettavo. » ripose la pistoletta e voltò le spalle, pronto ad andarsene. Alla fine, persino provare ad intrattenersi prendendosi gioco di quei vermi si era rivelato inverosimilmente noioso. « Ricordati, mostro... quello che è successo a Caspian è solo l'inizio. Non è una storiella, sai? Questo è il nostro futuro. »

Schneewittchen rabbrividì, come se un velo di morte le avesse appena coronato le spalle; come se, d'un tratto, il mondo fosse diventato un'immensa distesa di ghiaccio, cupa e torbida, costellata di orribili e strazianti sofferenze.
Le parole di Leone invasero il suo cervello e si insidiarono nel suo animo corrotto: depositarono il seme della discordia, che crebbe fin quasi a soffocarla.

« Non sono io ad essere un mostro... » la sua voce faticò a trovare la via della bocca, scossa com'era da singhiozzi tanto scuotenti. « ... Il mostro sei tu. »

A volte, umanità e mostruosità vanno di pari passo. E Leone, unico umano in carne ed ossa dell'intero Letzte Batallion, ne era la prova vivente.

 

–––––

 

Note autrice
Salve a tutti, cari lettori! Grazie, innanzitutto, per essere arrivati sino a questo punto, e per star leggendo queste poche righe. Sono qui solo per un piccolo avviso: ahimé, data la mia scellerata decisione di continuare con l'università - forse un demone aveva preso possesso del mio corpo quando mi sono reiscritta, boh -, ora che andiamo addentrandoci nella maledetta sessione invernale avrò molto meno tempo per scrivere. Perciò, vi chiedo di avere un po' di pazienza in più per i prossimi capitoli, che arriveranno a ritmo un po' meno frenetico rispetto al mio solito. Chiedo scusa in anticipo, e spero in futuro di poter sdebitarmi dell'attesa con capitoli di qualità che soddisferanno la vostra fame di lettori.
A presto, e buone feste a tutti! 

  
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