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Autore: Cladzky    21/12/2023    1 recensioni
Leggendo l'Eneide l'autore si addormenta e finisce in un terribile oltretomba scritto in terzine ma anti-Dantesco, dove non sono i morti a essere puniti, ma i suoi peccati letterari. Il buon Virgilio, come al solito, recupera la sua funzione di guida in questo inferno laico, traghettandolo da un'anima furiosa all'altra, pronta a randellarlo. Un'opera per ridere, ma anche di riflessione interiore e soprattutto di insulti, piena di personaggi storici.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Canto XXIII - Si presentano gli altri spiriti magni


Prese parola, allora, quella dama

Ch’avea fattezza di certo non francese,

E disse “Se sei chi a salvezza brama


Ascolta il mi dir savio e sii cortese.

Non ho cagion di dimandar chi fosti

E se il tuo spirto mai giustizia lese


Giacché io pur che tengo regi posti

Commisi infamia pria de rinsavire

A la fé dei cuori ben disposti.


Se ch'ello c’ascoltasti dir fu sire

Io pur de una gente fui regina

Quella, dico, ch’oggi ha gran patire


Perché coi novi Unni, novo Attila confina

Con quelle terre battesmate da Vladimiro,

Ch'un secondo rese, mill'anni a te vicina,


Decristizzate e un terzo or vi è emiro;

Novi Franchi son ora i miei nipoti

E nova Poiters è lo mar sì detto Niro


Che tu ben sai per lo Iasòn e i viaggi noti.

Oh quanto, di discordia, fu essa ragione

Dai Cimmeri e gli Scitici fasti remoti


E li antiqui Ioni di Panticapeo e Chersone.

Quale autorevolezza si pote oggi ambire

Pretendendo la Crimea e Meotida regione


Per passata possedezza se tutti vide ire.

Ma non voglio abbandonarmi a melanconìa:

Io, quella terra, reggetti per un sire


Che fu mio seme, ma prepubero coronìa.

Fui cruda nel serbar poter su Boristène

E mai mi risposai che mia metà lascìa


Per non divider con niuno la mia spene

E acciò mi prodigai, così de Dreviljani

Col ferro, il foco e di vanga le pene,


Non se ne scrive più e di me hai peani.

Avegnacché, sentendo l’alma così stretta,

E sol consolo fu che erano pagani,


Viaggiai a lungo sin quella terra detta

Da l’elleni romani Costantinopoli,

Onde con l’acqua mondai la mia vendetta.


Tornata diffusi la novella ai miei popoli,

Quella del settimo del primo Basileo,

Ma nè nel volgo, nè nell’acropoli,


Né il mio figiuol stesso ch’indurò reo

Ch’eppur fu sì gentil dall’inumare

Le nostre spoglie giacché siam’ivi neo.


Se tu sei un che sa che quelle tare

De nostre alme duran molto poco

Allor saprai, per indagine il tuo lare


E saprai nomar il mio ricordo fioco.”

E il terzo disse: “S’i fossi vivo

Già t’avria spedito a chesto loco


Ma son più razionale e più giulivo

Or che quarantotto e pochi anni

Con la deliziosa gente io convivo.


Fui re pure ma, per i vostri danni,

Dal trono abdicai un dì nefasto

E uno gaudente mi ridiede i panni


Quando finì il vostro mortal contrasto

Ch’a dio spiacque e tripudi ci rese

Sul falso Cesare del nostro stato


Benedetto sin che da Saba discese

La magna regina che Salomòn ha amato

E diedeci Menelik, il figliol che fese


La dinastia d’Israele in un casato

Che domò nelle terre del mio domani

E che voi due volte avete sconsacrato.


Quella terra florida, boscosa, d’altopiani

Che svetta sul mare dai Giudei detto rosso

Ove ognun si mise nelle nostre mani


Per accedere all’Asia. Son io che ho mosso

La corte per rinnovar lo nostro patto

Con dio, che l’Arca santa diedeci indosso,


E resi i testi da diffondere più ratto

Traducendo la lingua per le nostri genti

Che giubilanti potero interagir di fatto


Per loro conto con il sommo degli enti.

Altro feci ma non ne val la pena

Di proferir battaglie o arditi combattenti


Che detto già ho la mia più gran scena.”

Poscia mi adocchiò una tal dai tratti

Da parer dividere il sangue nella vena


Col primo di loro e scandì difatti:


“Santé à toi, ô âme craintive,

Et désolé pour ma langue maternelle

Mais j'aimerais entendre une tentative

D’un homme érudit qui déjà interpelle

Sages conversations avec les anciens:

Votre guide parle le latin des pères

Et surmonté nos conseils des Ephésiens;

Après Milton et Tasso, enfin j'espère

Que vous et votre polyglotisme,

Mon dialecte, puissiez parler doucement.

O, accorde-moi cet égoïsme;

Si le refusez, ce serait indûment:

Perch'io, lungamente, studiai la vostra

Ed è gaudioso sentirsi sì chiamare.

Allor tu affretta e a noi dimostra

Lo dono che le lingue fa cantare.”


Lettor, più che tu, io molto quinci

Rimasi sbigottito per quel santo

Che titubando rispuosi “Tu mi vinci


Mia dama che mi fece sì gran vanto

D'apprender lingua de maggior mei

Judicandola degna. Non ambii io tanto


Che sol giovinetto studiai costei,

Non l'apprezzai e or mi rimordo.

Quella, dico, su cui ben farei


A legger le gesta del franco Turordo

Che furo a Barberino una gran fonte

Come si vede nel Guerrin che bordo


Vide dell'Indie e più in Aspromonte.

E nel romanzo della rosa vi trovo

Ciò che partì, della morale in onte,


Quel che fu detto il dolce stil novo!”

Rise, la dama, per la melliflua lingua

E riprese a dir: “A pietade io movo


Per chi sì tanto d’umiltà s’impingua.

Quel parlar, ch'a te ignoto parra,

L'usai con Margherita perché estingua


Lo clero di Roma dalla sua Navarra

Al secolo della protesta di Ginevra.

Ma non ti scocciar se una ti narra


A te gran d'uomo, di mente scevra,

Che meglio faresti a studiar più sodo.

Ben giudicosse Gennadio la tua nevra


E anci, già prospetto ch'a tuo modo

In non più di cinquantanni qui t’avremo

Che ancor tu sarai uno storto chiodo


Che mazzuola convien far storta scemo.

Idarno Vergilio adiuva la tua ascesa;

Accidia corrompette, lo vizio estremo,


Peccato che porta al peccato la resa.”

   
 
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