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Autore: Nat_Matryoshka    23/12/2023    1 recensioni
"C’è qualcosa in lei, ha pensato guardandola di sottecchi la prima volta, qualcosa che si farebbe riconoscere anche nel bel mezzo della folla. Qualcosa che lo attira, una forza primigenia che non riesce a ignorare."
[Tera/Emmanuel | spoiler sulla S1 di Castlevania Nocturne | prompt partecipanti al Writober 2023, indetto da Fanwriter.it]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
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» Questa storia partecipa al Writober di Fanfiction.it
Prompt: Sirena [lista pumpSEA]

Parole: 1381



Dov’è l’agnello, Tera? Perché non me ne ha mandato uno al posto suo? Perché sono qui? Perché siamo qui?

Le labbra di Emmanuel tremano, ma nessun suono abbandona la sua gola, a parte un gemito strozzato, troppo fievole per essere udito. Tera si erge davanti a lui come una barriera, frapposta tra il suo corpo tremante e quello di Maria, che si volta per lanciargli un’occhiata a metà tra il risentimento e il dolore. Forse c’è ancora una scintilla di speranza in quegli occhi verdi, o almeno se lo augura. Non sopporterebbe l’idea di averle tolto ogni cosa.

Perché il pensiero di aver fatto in pezzi la fiducia di sua figlia lo tormenta? Proprio ora di tanti momenti, quando ha avuto una vita intera per porre rimedio alle sue azioni?

Ma Maria gli volta di nuovo le spalle, segue lo sguardo di sua madre verso la creatura che domina lo spazio sacro della Chiesa, pur nella sua terribile profanità. Erszsebet Bathory, colei che divora il sole, l’immortale al cui servizio si è messo senza farsi domande. Gli occhi sembrano risucchiare ogni traccia di luce trasformandola in oscurità opprimente, i lunghi canini sottili che sporgono dalle labbra piene. La sua presenza è opprimente, resa ancora più pesante dal silenzio che la avvolge. Sussurra, non grida. Gli esseri come lei non ne hanno bisogno.

“Emmanuel, vieni con noi!” Tera lo implora, sferzando quel silenzio con la forza della sua risoluzione. “Se ci uniamo, possiamo riuscire a sconfiggerla!”
“Lei lo ha già sconfitto, madre. Molto tempo fa.”

La gravità nella voce di sua figlia è un pugno allo stomaco, una sentenza che gli pesa addosso come un macigno. Abbassa la testa, tentando di nuovo di estrarre a forza quelle parole incastrate in un punto imprecisato del suo essere. Parole che tiene dentro da quando era solo un bambino, piccolo e spaventato, scelto da un dono più grande di lui. Una benedizione, o forse un maleficio, che l’unica donna che ha mai amato ha scoperto solo per caso.


Non te l’ho mai detto, Tera, e vorrei averlo fatto. Vorrei essere stato sincero con te. Vorrei aver posseduto il tuo coraggio, per scegliere una vita diversa.

Le parole non cercano una via d’uscita, nemmeno dopo anni. Le uniche a liberarsi sono due sillabe sconnesse, impregnate del suo terrore.

“Tera…”


Erzsebet incombe, esige il suo tributo. Ed è lì che Tera si fa avanti: prendi me al suo posto. Gli occhi pieni di fuoco, la postura salda e sicura di chi sa di fare la cosa giusta. Niente in lei vacilla o trema: è pura risoluzione la sua, il desiderio di proteggere chi ama, impossibile da smuovere. Nulla, nemmeno la minaccia del male, potrebbe distoglierla dal suo proposito.

Deve essere qualcuno che ama, mormora la creatura: la sola potenza della sua voce sommessa è sufficiente a farlo indietreggiare. Se c’è qualcosa che ha sempre fatto con tutto il cuore, senza mai smettere, è proprio amare Tera. Nemmeno la paura è riuscita a spegnere quel sentimento. E allora perché hai lasciato che tutto questo accadesse? urla la voce dentro di sé, arrabbiata come non l’ha mai percepita. Perché hai lasciato che la tua debolezza rovinasse tutto? Sei solo un miserabile, un vigliacco. Un piccolo uomo che non riesce nemmeno a proteggere sua figlia, nonostante abbia ribadito il suo intento più e più volte. Un essere insignificante, che si è fidato delle uniche creature di cui avrebbe sempre dovuto dubitare.

“Sono io l’agnello, Emmanuel.”

Le lacrime cadono dai suoi occhi prima che possa fermarle. La ama, e la ama ancora, con tutto il suo cuore. Non potrebbe fare altrimenti.  


“Dio ti ha dato un agnello, come avevi chiesto.”

Tera così pura, così forte, come quando l’ha conosciuta. Tera che non si lascia intimidire, che difende le sue ragioni con quella caparbietà che l’ha fatto innamorare fin da quando ha percorso la navata dell’abbazia a piccoli passi sicuri. Tera che non dovrebbe essere qui ma a casa, felice, con sua figlia e un marito sereno e protettivo al suo fianco. Una dimensione di felicità che avrebbe meritato, e che gli appare lontana come non mai, solo a casa sua. E mentre dichiara il suo amore con voce rotta, la stessa voce che poco prima aveva invocato e che ora finalmente riesce a farsi strada nella gola riarsa, sua figlia si volta a lanciargli uno sguardo pieno di un dolore bruciante.

Un battito di ciglia dopo, afferra la spada e si lancia verso Erzsebet, inciampando, gridando con tutta la forza che ha in corpo, finché non incontra gli artigli della creatura. Finché il braccio teso del demone non arresta improvvisamente la sua corsa, lanciandola sul pavimento di pietra della cattedrale, verso il ragazzino Belmont. Proprio in quel momento Tera scatta, precipitandosi verso la figlia con una foga tanto coraggiosa quanto disperata, tentando di strapparla in qualunque modo al suo destino...
Quando la mano della creatura la afferra come se non avesse peso, sollevandola verso di sé.
Ciò che avviene in seguito è tanto confuso quanto frammentario. In una cacofonia di urla, boati e strida di creature che nemmeno i suoi peggiori incubi avrebbero potuto concepire, Richter afferra Maria tra le braccia e cerca di farsi strada verso le rovine che ormai dominano l’ingresso dell’abbazia. Tera grida, incitandoli ad andarsene, ma la sua voce perde presto forza, fagocitata da un gemito che si spezza un attimo dopo, esaurendosi tra le sue labbra. Cercare di dissuadere quelle creature da fare del male ai ragazzi è inutile: la risata sprezzante di quella che chiamano Drolta Tzuentes è sufficiente a dimostrargli, una volta per tutte, che non ha mai avuto voce in capitolo nelle loro decisioni. Muove un passo dopo l’altro, la mano tesa nel tentativo di recuperare la sua autorità, ma Erszebet stringe la presa sulla sua vittima e la solleva ancora, avvicinando la bocca al suo collo, affondando i canini affilati come rasoi.

Il corpo di Tera è scosso da un tremito, la testa che scatta all’indietro, gli occhi chiusi, quasi non riuscisse ad assistere all’orrore della sua sorte.


Tera. La sua Tera. Quel collo sottile che ha baciato tante volte, spostando i capelli quando ricadevano dalla coda di cavallo in ciocche morbide e dorate. La donna che gli ha dato sua figlia. La sua pelle morbida, i suoi sospiri, quegli occhi grandi e pieni di determinazione. L’unica in cui avrebbe potuto riporre la sua fiducia. La sua Tera che cede e cade svenuta sotto il suo sguardo terrorizzato mentre lui, in preda al panico e al terrore, si maledice per non poterla salvare.

Un tempo infinito, minuti che scorrono come granelli di sabbia in una clessidra, ognuno della durata di una vita intera. La creatura beve a sazietà, poi solleva il capo e lancia il suo grido di sirena, una risata oscenamente festosa, ebbra di trionfo. Vorrebbe distogliere lo sguardo, cancellare tutto ciò che è costretto a vedere, ma non può: Erzsebet incide il suo stesso polso con la falce sottile di un’unghia, facendone fluire il sangue scuro e vecchio di millenni. Macchie scure e corpose, che bagnano le labbra di Tera, ricoprendole, nutrendola in un’orribile imitazione di un pasto sostanzioso e a lungo desiderato.


Davanti ai suoi occhi spalancati per il terrore, inizia a bere quel sangue, agitandosi debolmente come a chiederne ancora.

Tera. La sua Tera. La madre di sua figlia. La donna che accarezzava le piante della serra chiamandole per nome. La donna seduta sotto un albero del giardino, il vento che le sfiorava i capelli mentre si accarezzava il ventre, sussurrando canzoni che parlavano di uccelli addormentati e fiori…

La sua Tera, una creatura della notte.

Per fortuna Maria è lontana, riesce a formulare la sua mente stanca, aggrappandosi a un qualunque barlume di realtà per non impazzire. Per fortuna Maria non ha visto tutto questo. Per fortuna il ragazzo Belmont l’ha portata via. Ti prego, fa’ che sia lontana. Fa’ che non la prendano.

Si ritrova a pregare con gli occhi chiusi e le mani giunte, tanto strette da farsi male. Mormora frasi sconnesse a labbra strette, incurante del fragore attorno a sé, con la mente ancora all’orrore che ha appena visto e un pugno di speranze strappate e disilluse tra le dita, fragili come polvere.

Fa’ che qualcuno, chiunque sia, venga loro in aiuto.
Ti prego.




 
   
 
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