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Autore: __0Chia0__    28/12/2023    1 recensioni
Shiho Miyano: una ragazza qualsiasi.
Sherry: una scienziata di alto livello dell'Organizzazione Karasuma.
Shiho Miyano è Sherry, Sherry è Shiho Miyano, ma solo in parte. Quanto di Sherry c'è in Shiho e quanto di Shiho è presente nella sua maschera? Dettagli, piccole sfaccettature, o qualcosa di più?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Akemi Miyano, Gin | Coppie: Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo I

Infanzia

«Papà, papà, guarda, che cielo brutto!»

«È dicembre, Akemi. Si sta facendo buio».

«Ma le nuvole sono tutte nere!».

Atsushi guardò sovrappensiero in direzione della figlia. Sembrava, effettivamente, che stesse per arrivare una tempesta. Ed Elena non era ancora rientrata. Riportò l'attenzione sul computer, con la mente altrove. Mancavano pochi giorni alla data stimata per il parto e, al passare di ogni minuto, si sentiva sempre più sciocco per averla lasciata uscire da sola, anche se espressamente richiesto da qualche folle superiore. Sua moglie non aveva voluto rivelargli dove stesse andando, né per incontrare chi. “Ho ricevuto una telefonata oggi pomeriggio. È richiesta la mia sola presenza e no, non puoi guidare per me. È una questione di lavoro, Atsushi”, gli aveva solo detto, con un cenno del capo, verso Akemi. Lapidaria. Fredda. Senza dargli possibilità di controbattere. Odiava quando si rivolgeva a lui in questo modo.

Lo schermo del computer diventò nero. Atsushi non si sarebbe nemmeno accorto di aver dato un pugno al bancone della cucina, se Akemi non avesse sobbalzato, emettendo un gemito. I due si guardarono.

Non era giusto. Atsushi era capo del progetto tanto quanto Elena e meritava di presenziare a qualsiasi incontro lo riguardasse. Era suo dovere farlo. Soprattutto, era l'unico dei due che ci avesse lavorato negli ultimi mesi. Certo, Elena poteva tenersi al passo con gli sviluppi e studiare la composizione, ma le aveva vietato di recarsi in laboratorio e di maneggiare sostanze chimiche, potenzialmente tossiche. Lui era il braccio. Lui era la mente. Lui aveva il compito di proteggerle. Tenerle al sicuro, a casa. Anche a costo di litigare ogni giorno e ogni notte. Fuori era troppo pericoloso.

Distolse in fretta gli occhi dalla figlia. Si sentiva malissimo. Per diversi motivi. Per aver lasciato andare sua moglie, una sera di fine dicembre, in un luogo sconosciuto, a incontrarsi con un esponente di un'Organizzazione di assassini. Della quale, per di più, erano membri da diversi anni. Per aver abbandonato la figlia che Elena, incosciente, portava con sé. Per aver spaventato Akemi, per via del suo stupido impulsivo orgoglio.

«Scusa, piccola. Non sono arrabbiato. È solo…» pensò ad Elena. A Shiho. «vedrai che la mamma sarà presto a casa», tentò di convincersi, ad alta voce.

«Lo so. Dobbiamo festeggiare Natale insieme».

Atsushi si passò una mano sulla fronte. «Hai iniziato i compiti?»

«Sì, papà».

«Sei riuscita a fare tutto?»

«Sì, papà».

Era tanto buona, Akemi. Tanto innocente. Tanto bambina. Troppo. Non piaceva all'Organizzazione. Le loro insegnanti l'avevano espressamente detto, a colloquio con i genitori. Non sarebbe riuscita a stare al passo con i loro ritmi di spiegazione, in ben poco tempo. Disegnare e guardare fuori dalla finestra non si addiceva a quanto pretendevano quelle megere.

«Non chiedi mai niente, né a me, né alla mamma. Le maestre sono brave?»

Akemi fece una smorfia, improvvisamente non più sorridente. Era così poco tipico suo. «Sono cattivissime».

«Ma spiegano bene?»

«Non so. Ho sempre avuto solo loro. Tra poco arriverà la pagella».

«Capisci quello che dicono? Riesci a seguire le lezioni? O sono troppo difficili?»

«Sono noiose».

Atsushi si sentiva frustrato. Stava andando contro gli accordi presi con Elena. Avrebbero dovuto discuterne tutti insieme. Ma si sentiva tradito e tradire, a sua volta, non gli dava soddisfazione, eppure gli pareva una giusta ripicca. Con Akemi, però, non sapeva rapportarsi in modo serio. Era facile giocare con lei e farla ridere, quanto a discutere… era impresa ardua, almeno per lui. Per Elena, invece, era tutto così semplice… Anche in questo ambito, lo superava.

Chiuse il computer. Forse, allontanarsi da una dimensione troppo adulta avrebbe aiutato. Accennò un sorriso.

«Non è questo il punto. Molti doveri sono noiosi, ma dobbiamo comunque rispettarli. La scuola è molto importante, Akemi. La tua, sai, è… speciale. Una sorta di élite. L'anno scorso sei andata benissimo. Quest'anno, però, mamma e papà sono stati convocati dalle maestre, lo sai. Le maestre non sono molto contente delle tue prestazioni».

Akemi, se possibile, lo guardò ancora peggio. E lui si chiese perché aveva voluto accollarsi un peso del genere. «Sarete delusi, allora. Io no. Sono cattive, cattive, cattive e non ci tengo a fare bella figura con loro», si alzò, pestando i piedi con forza, mentre si dirigeva verso le scale. «Avete ancora una speranza, però! Shiho potrebbe essere la figlia perfetta che tanto desiderate!»

Gli si era formato un nodo alla gola. Quella sera stava andando tutto male. Sentì Akemi chiudersi in camera, poi un ronzio dal PC. Erano già passate tre ore da quando era venuto meno ai suoi doveri.

Non gli interessava il quoziente intellettivo delle sue bambine. Quello di Akemi era pienamente nella norma e non ne avrebbe voluto uno straordinario per nessuna. Anzi, forse, questa “delusione” sarebbe pure stata in grado di farle uscire da quel gruppo di malviventi fuori di testa. Una bambina che non è in grado di distinguere noioso da giusto non sarebbe interessata all'Organizzazione. Gli avrebbero, presto, chiesto di mandarla a studiare in un altro istituto, uno normale, che non avesse a che vedere con loro. Probabilmente l'onta di cui avevano macchiato le loro figlie non le avrebbe mai abbandonate, ma avrebbe permesso loro di vivere una vita pressoché comune. Almeno, si disse Atsushi, se avessero capito i limiti oltre i quali non avrebbero dovuto spingersi. In nessun caso. Per nessun motivo.

La porta della camera da letto di Akemi era decorata con fiocchi rosa e orsetti. La sua divisa scolastica era, totalmente, nera.

«Non è adatta per quel mondo», disse a bassa voce tra sé e sé. «Ma, d'altronde, esiste qualcuno che lo sia?»

Akemi avrebbe voluto addobbare la casa per Natale, ma Atsushi l'aveva impedito. Non potevano permettersi ulteriori imbarazzi di fronte ai colleghi dell'Organizzazione, qualora si fossero presentati non invitati, come già capitato.

 

Il telefono squillò quattro volte prima che il dottor Miyano rispondesse. Poche battute e la cornetta era già tornata al suo posto. Lo scienziato pazzo non bussò, prima di entrare nella stanza della figlia. Le ordinò di cambiarsi e di indossare abiti adeguati. Non le diede spiegazioni. Avrebbe voluto lasciarla a qualcuno, ma non avevano parenti, né amici. Le tolse dai capelli, con fastidio, un cerchietto viola, sul momento di uscire di casa. Le prese la mano, con la solita gentilezza, mascherata con un atteggiamento di irritazione, e la condusse nella sua auto. Poco prima di chiudere per lei la portiera, sorrise leggermente. Era un sorriso stanco. Un sorriso colpevole. Un sorriso che chiedeva perdono.

«Sappiamo come comportarci, adesso, vero, piccola?»

Akemi annuì, piano, triste. «Silenzio, rigore, discrezione».

Atsushi le accarezzò una guancia. «E se te lo chiedono loro?»

«Fedeltà e lealtà».

 

Quando Shiho Miyano aprì, per la prima volta, gli occhi sul mondo, nevicava. Non che se lo potesse ricordare. Non lo venne nemmeno mai a sapere, per molti anni. Quando Akemi tentava di rinvangare i suoi primi anni di vita, Shiho assumeva un cipiglio infastidito, incrociava le braccia e guardava da un’altra parte. Seppur entrambe lo negassero, la separazione a cui l’Organizzazione le avrebbe costrette da piccole e da adulte sarebbe, sempre, stata una barriera di fraintendimenti e parole non dette, per diversi argomenti.

Il medico dei membri di medio e alto rango era un uomo di mezz’età, con nome in codice Sake. Specializzato in chirurgia, cardiologia e medicina interna, ben poco volentieri si occupava di tutti i potenti pazienti che gli capitavano sottomano, per qualsiasi questione capitasse. I parti, tra loro, erano più frequenti di quanto avrebbe voluto. Con qualche scusa, per fortuna, riusciva sempre a delegare tali spiacevoli eventi a qualche sottoposto. D’altronde, non era un ginecologo. La donna che, però, gli si era presentata quella sera, era accompagnata da una sua terribile conoscenza, a cui non avrebbe potuto fuggire. Vermouth, sempre giovane e micidiale, gli aveva rivolto un sorriso agghiacciante, con una sigaretta accesa tra le dita, senza curarsi del divieto appeso all’entrata.

«Sake, che fortuna che tu sia in servizio, proprio questa sera. Vedi, sto accompagnando una mia conoscenza, Elena Miyano. Forse l’hai sentita chiamare Hell Angel, un soprannome bizzarro, non credi? I pesciolini si divertono a creare dei nomi in codice tutti loro, negli ultimi tempi…»

Sake non ritenne opportuno intervenire. Dal sogghigno ironico della donna, intuiva che i suoi sentimenti erano l’esatto opposto del riguardo che lasciava trasparire.

Vermouth schioccò la lingua sul palato, beffarda. «La nostra mammina è importante per un progetto che mi sta a cuore, Sake. Sarebbe un vero peccato, se Elena dovesse avere delle complicanze e, chissà, dovesse restare lontana dal lavoro per un po’. Sarebbe anche terrificante se venisse affidata a un inesperto dottorino appena laureato e sia lei che la figlia morissero tragicamente. Sarebbe una vera disgrazia,» rise, voltandogli le spalle. «Assolutamente inammissibile».

Sake aveva inteso il volere di quella bionda ripugnante, dietro le affascinanti apparenze. Desiderava che uccidesse la partoriente, e magari anche la progenie, mascherando il tutto come un incidente. Quella sera, Sake stesso decise di assistere al parto. Non gli era mai capitato di avere così a cuore il destino di una totale sconosciuta: se Hell Angel si era davvero guadagnata un tale odio da parte di Vermouth, non poteva che essere una brava persona. I nemici della sua più acerrima nemica erano suoi alleati, potenziali amici. Amici che Sake non aveva potuto avere nemmeno una volta, all'interno dell'Organizzazione.

 

Era notte, quando Shiho pianse per la prima volta. Fu un parto difficile, anche pericoloso, ma breve, di poche ore. Elena era da sola. Atsushi non venne fatto entrare, quando arrivò con Akemi. Sake, bruscamente, gli disse di restare nella sala d'aspetto, che non volevano altre scocciature, e gli intimò di non rallentarlo, se non voleva che la moglie morisse. Un'esagerazione, certo, solo per farsi ubbidire in fretta.

Più che sufficiente per mandare in crisi il povero sventurato. Atsushi, tenuto a mantenere un portamento dignitoso, non poteva lasciar trapelare il suo tormento interiore. Poteva solo pentirsi e maledirsi. Camminò, avanti e indietro, lungo la sala d’aspetto, per diverse volte. Invidiava, in quel momento, la compostezza di sua figlia, seduta su una poltrona troppo grande e alta per lei, con la schiena drittissima. Forse in allerta, ma composta, almeno. Molto meglio di lui. Si sedette su un divanetto, guardando di soppiatto una signora sulla sessantina, elegantissima, accomodata in un angolo, illuminato da una fioca luce bianca. Leggeva una rivista, apparentemente, del tutto disinteressata a lui, eppure Atsushi era convinto di aver avuto i suoi occhi su di sé da quando erano arrivati. Magari era solo la tensione, tentava di dirsi, oppure il fastidio provocato dal monotono e fastidioso piano bar in sottofondo. Si sentiva esplodere, morire, aveva voglia di urlare, avrebbe potuto strangolare -almeno, ascoltando il suo stato d’animo- il medico da strapazzo che non gli aveva detto nulla su sua moglie né su sua figlia e tutto ciò era incrementato dalla odiata piatta musica jazz che gli forava le orecchie. Gli tremava una gamba. Le persone attorno a lui erano automi, orribili robot senza emozioni, pensava, mentre non sentiva nemmeno un respiro da sua figlia, ma solo il girare le pagine della distinta signora, estranea al suo fastidio. Quando un camice bianco fece irruzione nella stanza, sperò fosse per placare la sua agonia. Purtroppo, la dottoressa, dai lunghi capelli scuri, che coprivano quasi il viso, non si volse verso di lui. «Signora».

La donna bionda alzò appena gli inespressivi occhi grigi. «Dica».

«Il dottore riferisce che siamo pronti a dimettere Sua figlia in tutta sicurezza».

«Devo dedurre che non ci sono le complicazioni temute?»

«Affatto, signora. Se lo desidera, entro dieci minuti, Le faremo trovare i documenti compilati».

La donna chiuse la rivista. «Supponevo che prima di avvertirmi avreste preparato tutto».

La ragazza fu scossa da un tremito. «Le assicuro che sarà tutto pronto al suo arrivo».

«Ne sono certa,» sussurrò.

La quiete venne restaurata solo quando la porta si chiuse. Atsushi, tuttavia, continuava a sentire un alone negativo nell'angolo della stanza, che, pochi minuti prima, era assente. Tutto ad un tratto, aveva assunto la stessa posa statuaria di Akemi. Per tentare di scacciare quella percezione, si rivolse alla bambina, alla sua sinistra. «Se sta continuando a nevicare come quando eravamo in macchina, domani ci sveglieremo con il paesaggio tutto bianco innevato».

Akemi gli teneva ancora il broncio, per quanto successo poco prima. «Domani dobbiamo festeggiare Natale. Mamma tornerà a casa?»

Atsushi sentì salire la rabbia. Si era già battuto molte volte su questo tema e detestava ripetersi: niente discussioni familiari, in pubblico. Ogni debolezza mostrata è un pericolo. Qualsiasi permesso concesso a chi si ama è una eccessiva forma di libertà. Per di più, quella donna era, orribilmente, spaventosa.

E si chiedeva se Elena sarebbe davvero tornata a casa. Se potesse uscire di lì e dire: “È andato tutto bene”.

«La mamma dovrà stare in ospedale per qualche giorno, Akemi».

«Ma come? Niente festa? E i regali?»

«Basta così,» ruggì, beccandosi uno sguardo indecifrabile dalla donna in nero lì presente. Fatto ciò, questa si alzò, senza emettere un suono. Lasciò la rivista in un mucchio impilato e si mise un lungo cappotto nero, in qualche modo familiare allo scienziato. «Buonanotte,» salutò, mentre la porta si chiudeva dietro una abbozzata figura oscura.

 

Elena pianse molto, per Shiho. Akemi era stata una neonata vivace, rumorosa, anche piuttosto stancante, dalle urla fastidiose, acute, mai davvero tristi o sofferenti. Sua sorella era l’esatto opposto. Il suo pianto squarciava qualcosa nel petto di sua madre, senza che potesse dire perché. 

Atsushi non condivideva l’opinione di sua moglie. La piccola creaturina, dai grandi occhi azzurri, che amava far ridere, era una gioia sempre maggiore. Forse non gioiva in ogni occasione, ma il suo prezioso sorriso sdentato gli scioglieva il cuore e i suoi versetti erano più belli della musica classica -la sua preferita. Di tanto in tanto, metteva a girare un disco di Mozart o di Vivaldi e cullava la neonatina. Erano i momenti che preferiva in assoluto. Simulava un lento, quando Elena li filmava, oppure, mentre questa suonava il “Rondo alla Turca” al pianoforte, Atsushi si divertiva a giocare ad acchiapparella con Akemi, un poco più restia, dalla nascita della sorella, a lasciarsi interessare e coinvolgere dalle distrazioni del papà. Ogni tanto, se erano di buon umore, mettevano il “Bel Danubio Blu” e il signor Miyano invitava la sua signora a ballare un valzer.

 
   
 
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