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Autore: Scarlett Queen    04/01/2024    2 recensioni
In un mondo magico, fatto di orchi, uomini, goblin e altre creature si snodano le avventure di due amanti: lui un Conte decaduto, lei una guerriera del Nord che ha lasciato tutto per il suo amore.
Le loro strade e viaggi li porteranno dai campi di battaglia di una guerra civile a esplorare le terre del loro mondo, dal sud sino al Nord.
Ed è proprio al nord che il destino farà la sua mossa, che un'antica macchinazione inizierà a mettersi in moto e che l'Amore affronterà la prima di una serie di terribile sfide.
Fra antichi esseri, draghi giganti, demoni e Litch, Kaleb e Runa vivranno un'avventura epoca dal sapore classico, condita dalle leggende che prendono vita in una battaglia finale dalla quale dipenderà non solo la loro scelta, ma la sopravvivenza del mondo.
Il primo volume della serie narrerà l'incontro e l'origine del loro amore, la scoperta di un potere remoto e puro, chiave per la vittoria nella guerra che va profilandosi all'orizzonte.
Kaleb dovrà combattere contro nemici ora umani e ora innaturali per poter vivere con la sua donan, in un mondo che non sarà mai più come prima.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
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    “In nome del signore di Corno del Corvo, il Conte Redwald!
    “A colui che porterà la testa della bestia annidata nella torre di guardia ai piedi delle montagne, verrà donato il suo stesso peso in oro e potrà pretendere un premio a propria scelta!
    “Tentare d'ingannare Sua Signoria equivarrà ad una condanna a morte immediata per smembramento e l'esposizione pubblica della propria testa come monito”.
                           Griswold Keppler 
                             Consigliere del Duca

 

    Il foglio di pergamena era stretto fra le dita inguantate di Kaleb; sotto al cappuccio, i suoi occhi seguirono la calligrafia del consigliere, alla luce dei candelabri che pendevano dal soffitto della sala comune, al piano terra della taverna. 
    Fuori la tormenta di neve picchiava contro gli scuri sbarrati delle finestre, i fiocchi si conficcavano come decine di aghi nelle pareti in legno e pietra, dando forma a freddi mulinelli che volteggiavano nell'aria gelida. Non era strano quindi che quel crocevia fosse deserto, che nella stazione di sosta non vi fosse nemmeno un cavallo e che persino gli uomini della milizia al soldo del conte se ne stessero al sicuro nella guardiola del fortino.
    Dal canto suo, Kaleb portava sulle spalle una pesante pelle d'orso, con fibbie ottenute dai quattro canini di quella bestia e alti stivali foderati in lana, dalla suola ferrata e chiodata. «Quindi, intendi provarci davvero?»
    Sollevò gli occhi ambrati dal foglio alla donna che stava davanti a lui, seduta con la sedia inclinata indietro, le lunghe gambe distese contro il tavolo circolare. A eccezione del mantello e della corazza lamellare che le ricadeva sul seno e sull'inguine era nuda, i suoi stivali erano ad asciugare accanto al fuoco.e i capelli del colore delle ali di un corvo ricadevano sulle forti spalle. «Non guardarmi così Kaleb, sai che giudicare le persone è l'ultimo dei miei pensieri».
    «I soldi sono pur sempre soldi Runa... e questi in particolare ci faranno comodo... sempre che tu voglia continuare a viaggiare con me». Inclinò il capo da una parte, Kaleb, con un sorriso sotto al cappuccio. La donna emise unis buffo divertito, piegando le ginocchia e portando i piedi nudi sotto al tavolo, tamburellando con le dita della mano destra sul ripiano in legno.
    Nel camino in pietra, alto quattro piedi e lungo sei, i ciocchi un legna, grossi come le braccia di un uomo ardevano allegramente, le fiamme della salamandra scoppiettavano e mandavano scintille su oer la canna fumaria e in una polverosa poltrona accostata alla bocca, un uomo anziano sonnecchiava. Era l'unico ospite oltre a loro, con l'oste che si fumava la pipa, seduto dietro al bancone.
    «E lasciarti così? Hai davvero una brutta opinione di noi nordici vero?» Runa intrecciò le braccia sotto al seno, un seno pieno e abbondante, rassodato dalla vita marziale che aveva condotto sin dalla tenera età, un seno che coronava un addominale duro, dagli addominali definiti. Una volta, Kaleb aveva visto un uomo rompersi una mano, cercando di darle un pugno al ventre. «O forse, dovrei invece dire che spero che me ne vada? In tal caso mi dispiace deludermi, ma non smetterò certo adesso di tenerti gli occhi puntati addosso». 
    Kaleb sorrise di nuovo, ma non rispose. Poggiò la pergamena sul tavolo e si portò un boccale di vino caldo alle labbra; si sentivano le bacche di ginepro, il miele e le spezie, l'oste l'aveva fatto riscaldare sul fuoco prima di servirlo e aveva dissipato il freddo che gli artigliava le viscere. «In realtà, Runa - sussurrò, facendo schioccare le labbra - per tutto quello che hai fatto per me, che va ben oltre tenermi gli occhi addosso...posso solo ringraziarti». 
    «Per l'amor di Tuhssrak, falla finita!» la donna picchiò entrambe le palme sul tavolo, sollevandosi in piedi e piegando il busto in avanti. Le lamelle metalliche mandarono un argenteo picchiettio nell'ondeggiante fra le cosce e contro la curva delle natiche e quando sorrise, i canini limati rifletterono per un istante la luce del camino «Sono stufa di sentirti ripetere sempre la stessa storia. I tempi della guerra sono finiti, i campi di battaglia lontani! Ciò che ho fatto per te non era certo per i soldi o per chissà quale spirito cameratistico. Ho continuato a seguirti perché una donna che voglia chiamarsi tale sta sempre, SEMPRE accanto all'uomo che ama».
    Stavolta Kaleb vide le fiamme del camino riflesse nei suoi occhi di un azzurro gelido... E in quelle fiamme, in quella pelle chiara segnata dai tagli e dalle cicatrici, in quel trionfo lucido di muscoli e curve la sua mente si perse, si perse e tornò con la memoria a quel giorno di cinque anni prima... Quando la guerra era una realtà viva e spietata, quando l'acciaio picchiava sull'acciaio... E lui era qualcosa di diverso.


    Cinque anni prima, autunno del 1175, sedicesimo anno del regno di Jandar Netheridge, VII del suo nome, re del regno di Kaelaand.

    La spada fendette l'aria, parò il colpo d'ascia, due scintille brillarono davanti ai suoi occhi. Con un grido fece scattare l'arma verso l'alto, sbilanciando il suo avversario e menò un fendente verso il Terrano, aprendo un ampio squarciò sul petto dell'orco. L'acciaio tranciò la pelle verde, i possenti muscoli e il costato. Il sangue scuro sgorgò mentre il corpo cadeva all'indietro, in mezzo al terreno pietroso, con ciuffi d'erba che formavano macchie di un verde scuro.
    La brughiera occupava la frontiera nord-orientale della Marca di confine, le creste collinose brulle e spoglie di sollevavano e si abbassavano in avvallamenti e curve diseguali. Su quel terreno i cavalli incespicavano e venivano spinto al suolo, finiti a colpi di spada e lancia, con le frecce che sibilivano sopra le teste dei combattenti. Kaleb di risollevò sulle gambe; gli spallacci in acciaio erano lordi di sangue, il suo grande elmo conto da due corna di cervo, con la cotta di maglia che ricadeva sino alle ginocchia e sopra, una corazza a piastre, con una placca pettorale e una scarsella dai fregi in bronzo.
    Vedeva in alto, sulla collina opposta, il vessillo del fratello del re,  Kellen Netheridge garriva nel freddo vento del primo pomeriggio, sotto un cielo uggioso, che prometteva pioggia. Le schiere dei rivoltosi e dei mercenari si erano andate a schiantare contro i ranghi del re e Kaleb aveva guidato la carica della fanteria d'assalto, quale Conte di Corno del Corvo. Gli uomini del Kaelaand avevano fronteggiato in campo aperto la ribellione del traditore, schiere di soldati regolari contro orde di orchi del nord, goblin e hobgoblin, disertori, tagliagole e mercenari. La ribellione si era trascinata per tre anni prima che il re decidesse di uscire dalla fortezza della capitale, attirando il fratello allo scontro.
    In quel momento, lordo di sangue, Kaleb stringeva la spada lunga con una mano, in piedi in mezzo alla mischia, sudando contro la sottoveste in lino, con le mani lorde di sangue. «Per il re! - l'urlo lo colse mentre deviava un affondo di lancia e, stringendo l'elsa a due mani, la sinistra sul pomo, abbatteva la lama sulla tempia esposta di un miserabile protetto da un usbergo pulcioso - per il re! Spingeteli indietro, la Dea della Vittoria volge a noi il suo favore!»
    Non lo diceva a torto; la fanteria aveva contrastato la carica del nemico, nonostante questo fosse superiore di tre volte e dal fianco sinistro, la milizia armata del re calava un passo dopo l'altro, mulinando pesanti martelli di guerra. Le teste in ferro si schiantavano contro le teste e gli scudi, le asce tranciavano le braccia e le gambe, le frecce sibilavano, conficcandosi nei muscoli, facendo sgorgare il sangue. 
    Nel mezzo della ressa, una cacofonia di singoli, brutali duelli, Kaleb brandiva la spada, affidava, tranciava, tagliava. Sentiva il sudore lungo il colle, lo sforzo dei muscoli delle braccia, il peso dell'armatura, le cuspidi delle frecce deviate dal suo elmo. Dalle feritoie per gli occhi, scorgeva i corpi che premevano gli uni contro gli altri, come i pugnali si conficcavano nelle carni, come ci si spingeva al suolo, in un pantano di sangue e viscere. Mulinò la spada sopra la testa, tranciò la zampa di un cavallo lanciato alla carica e il cavaliere fu sbalzato di sella.
    La punta di una lancia gli fendette la nuca, trapassandogli il palato e la lingua e annegandolo nel suo stesso sangue, il lanciere a propria volta cadde morto quando uno spadone lo spaccò alle spalle, dalla scapola sinistra sino al ventre, facendolo cadere in avanti. Il suo assassino perì per mano di Kaleb che lo decapitò con un colpo portato a due mani, il sangue sgorgò copioso dal moncherino del collo in un fluente arco scarlatto. «Per il re, per il re! Portate lo stendardo del Re, avanti! Risaliamo la collina!». Quel giorno, Kaleb era un campione, un uomo nato per la battaglia, che nella battaglia si era forgiato, di volta in volta, guidato dal suo ideale, dalla propria volontà. Molti nel Kaelaand lo chiamavano eroe, vi erano ballate in suo nome e quando sarebbe morto, delle statue ne avrebbero tramandato la memoria.
    Ma sul campo, Kaleb conosceva solo la spada stretta nel pugno, la corazza segnata dai colpi degli avversari e la fatica dei muscoli e dei nervi, i bagliori fugaci di luce nel mezzo della resa, il peso del sangue sugli stivali, le sue grida mentre guidava la carica, spingendo l'esercito passo dopo passo su per il colle. Col pomo della spada ruppe i denti di un hobgoblin, coperto di pelle e ferro, lo mandò a rotolarsi al suolo, tenendosi le zanne con le grinfie grigiastre e lo finì trapassandolo all'altezza dell'addome, strappando l'acciaio dalle viscere e andando oltre, tranciando un braccio sinistro all'altezza del gomito, un arco di sangue seguì la punta della spada prima che la abbattesse di taglio nell'incavo fra il collo e la spalla destra. Il sangue schizzò verso l'alto, il disertore cadde morto ai suoi piedi e avanzò di un passo ancora.
    In quel momento, fu il caso a cambiare il corso della battaglia decisiva per il trono. Una freccia sibilò nell'aria, diretta contro di lui; lo sguardo venne attirato dal brillare della cuspide ad ago e seguendone la traiettoria, vide in alto, in cima al colle, il traditore che si portava un corno alle labbra, un corno bianco e ornato d'oro. Vide allora, Kaleb, come il grosso delle forze lealiste, cinquantamila uomini, fossero tutte in quella conca fra le colline, come re Jandar cavalcasse con i suoi sul fianco sinistro con i rinforzi di cavalleria spingendosi nello schieramento nemico... E capì che la trappola era pronta per scattare.
    «INDIETRO! PORTATE VIA IL RE, RETROCEDERE, TORNIAMO INDIETRO!» agitò il braccio sinistro oltre la testa, ma il clamore degli scudi, delle corazze e delle voci che si levavano dalla brughiera soffocarono il suo grido disperato e sopra la sua testa, udì il suono del corno. A quello, gli fecero eco altri richiami, decine di corni risuonarono oltre la barriera collinare e con una carica tale da fare tremare la pietra, quanti si erano ritirati tornarono all'assalto assieme a truppe fresche, cogliendoli sui fianchi, rinvigorendo la spinta del fronte. Li, Kaleb si tolse l'elmo, digrignando i denti, con i capelli grigio argento ad incorniciargli il volto. I barbari discesero a decine di migliaia seguiti dagli orchi e Kellen Netheridge fece agitare il proprio stendardo, mandando nella mischia la propria guardia scelta. Circondati, offrivano molti bersagli agli arcieri, le aste di frassino si piantavano nelle cotte di maglia, scivolavano contro le piastre e fendevano le carni dei cavalli.
    I destrieri s'imbizzarrirono, levandosi sulle zampe posteriori e caddero di schiena, schiacciando i propri cavalieri, ovunque si voltassero, le orde erano su di loro, facendo strage dell'esercito reale. «ADIAH ,- Kaleb urlò con quanto fiato avesse un corpo, ergendosi sulle gambe - ADIAH, NON ABBANDONARMI ADESSO!» e col nome della Dea della Vittoria sulle labbra, di fece avanti, spingendosi su per il colle, gli occhi puntati alla testa di Kellen. A frapporsi fra lui e il suo obbiettivo non fu un gigante della tundra di Vielheim, non un capo tribù Hobgoblin delle paludi di Marhood e non un orco dell'arcipelago di Nordengard, ma una donna.
    Aveva i lunghi capelli neri lordi di sangue, il corpo tonico e forte coperto appena da una corazza lamellare in due pezzi, con gli stivali che affondavano nel fango rossastro e brandiva una spada lunga nella destra e unl scudo ogivale nella sinistra, dall'umbone in ferro. Per prima cosa, Kaleb fu colto alla sprovvista dalla sua ferale sensualità, poi fu la volta della sua forza. Parò il fendente, sentendo il braccio tremare e dovette schivare un colpo con lo scudo, orlato di ferro. Portò un colpo contro la sua gola, ma la donna si parò dietro al legno e in risposta affondò li dove vi era spazio fra la cotta pettorale e la scarsella.
    Le spade cozzarono l'una contro l'altra in un rapido scambio di colpi, acciaio contro acciaio, con gli uomini che morivano attorno a loro, i pugnali ricurvi del goblin piantati nelle gole che pompavano sangue, il puzzo dell'urina nelle narici. Kaleb fu costretto indietro, la donna balzava e ringhiava come una pantera di montagna, sferrando micidiali fendenti con i suoi artigli. In ultimo, Kaleb mise uno stivale in fallo, scivolò sugli intestini di un cavallo e cadde all'indietro; fu una fortuna, la lama della donna mancò la sua gola e lui poté sferrare un fendente in basso, contro il suo polpaccio.
    Il duro cuoio dello stivale impedì che la donna perdesse la gamba, ma il colpo le ferì la chiara pelle tesa nello sforzo e il sangue scese sino alla forma del piede. Con un ringhio di dolore, la mercenaria cadde sul ginocchio sinistro e tanto bastò perché Kaleb riuscisse a rimettersi in piedi e a disarmarla con un calcio, facendole perdere la presa sulla spada. Ma lo scudo era legato all'avambraccio sinistro con strette fibbie di cuoio e l'orlo lo colpì alla corazza, facendolo i lmcespicare all'indietro e la donna gli fu addosso.
    Rotolarono giù dalla collina, finendo quasi schiacciati dai combattenti. Dall'esterno, le forze di Kellen premevano e uccidevano, dall'interno si levavano le strida di coloro che combattevano per Jarden e il re in persona, in sella e con la spada in lungo menava fendenti ora a destra e ora a sinistra, accompagnato dal suo seguito nella difficile risalita verso la salita. Una lancia dal basso penetrò nella placca pettorale e gli lacerò gli anelli della cotta di maglia; il re sussultò per il dolore e con un urlo affondò la punta della spada nella bocca aperta dell'aggressore, mandandolo a morire vomitando sangue. 
    «Ora BASTA!» Kaleb diede una testata alla donna e raccolto un pesante mazzapicchio dal suolo, lo mulinò contro il suo scudo. L'umbone resse il colpo, ma le assi in legno andarono in pezzi, il corpo di lei venne sollevato in aria e andò a schiantarsi di schiena su di una pila di cadaveri e prima che potesse riprendersi, l'uomo le fu addosso, seduto sui suoi fianchi e con la saga che portava al fianco sinistro si preparò a vibrare il colpo fatale.
    In alto si aprì uno squarcio nel mezzo del pesante velo di nuvole, un raggio luminoso scese in terra, baciando tiepidamente la brughiera e lì, gli occhi azzurri della donna incontrarono quelli ambrati di Kaleb. L'uomo esitò, abbassò il braccio che reggeva la daga, poggiando lo sguardo sulla figura della donna. I capelli scintillavano alla luce del sole, il sudore sul suo corpo scendeva in gocce perlacee lungo le forme abbondanti e toniche, il respiro le alzava e abbassava il petto. «Mi hai sconfitta - sussurrò lei, incredula, con un debole sorriso che le sollevò un angolo della bocca - ora la mia vita ti appartiene». 
    Per qualche momento, il campo di battaglia sparì dalla scena, Kaleb si sollevò stranito e, risposta la lama corta, le tese la destra. Lei guardò le dita offertele e le strinse, rialzandosi a propria volta, col fiato corto, le braccia abbandonate lungo i fianchi. L'urlo di un barbaro a cavallo li riscosse entrambi, la donna lo spinse da una parte e in un veloce movimento raccolse l'umbone dello scudo, sbattendolo sul muso dell'animale, facendolo deviare. Il cavaliere stramazzò al suolo e lei gli saltò sulla schiena, adoperando le proprie lunghe ciocche corvine per strangolarlo, sino a lasciarlo morto a terra, per poi strappargli un orecchio a morsi.
    «Se è così - sussurrò Kaleb raccogliendo da terra il mazzapicchio - allora aiutami a porre fine a questa carneficina, ucciso Kellen, le sue forze andranno in rotta. Dopotutto non sono un esercito, ma teste diverse, ognuna con un proprio corpo». 
    Accadde allora qualcosa che Kellen, nelle trame ordite dalla sua mente, non aveva previsto. Parte dei mercenari che aveva pagato, con la stessa velocità con la quale il vento muta la propria direzione, voltarono le spalle alle truppe lealiste e si avventarono, guidate dalla donna, contro i loro stessi compagni. Fu improvviso, ma lo stesso Jarden non attese una risposta alle proprie domande, ciò che vide fu un'occasione e la accolse con gioia, guidando una nuova carica e aprendosi un varco nelle file del nemico. In prima linea, Kaleb riprese l'ascesa della collina, avanzando spedito fra le pietre e i cespugli, abbattendo gli avversari di slancio, ora con la pesta piatta del mazzapicchio, ora con il rostro in metallo, capace di perforare una corazza a piastre e sviscerare un uomo come si trattasse di un maiale. «PER IL RE, PER IL RE E IL KAELAAND, AVANTI!» sollevando l'arma sopra alla testa, la serrò con due mani, lanciandosi nel cuore dello schieramento nemico, sbriciolando ossa e crani alla stessa maniera.
    La battaglia era perduta, Kellen Netheridge voltò disperato il cavallo e assieme a quanti erano con lui, cercò la salvezza ritirandosi. Con un boato, le truppe di Jarden si lanciarono in avanti, travolsero e massacrarono i barbari e Kaleb afferrò le redini di un cavallo al volo, spingendosi in sella e lanciandosi all'inseguimento, incitando l'animale picchiando sui fianchi. La donna del nord lo imitò, imbracciando una lancia sotto l'ascella destra e portandosi sulla sua scia.
    «KELLEN! È ORA DI FARLA FINITA! VOLTATI E AFFRONTA IL TUO DESTINO, PUOI BIASIMARE SOLO TE STESSO PER TUTTO QUESTO!» ad un cenno del fratello del re, i cavalieri in retroguardia voltarono i destrieri e snudarono le spade, lanciandosi contro di lui, con i raggi del sole che andavano riflettersi sulle componenti metalliche delle loro corazze. Stringendo i denti, Kaleb agitò il mazzapicchio, colpendo il primo all'elmo, sbalzandolo dalla sella. La donna del nord spinse di piatto la punta della lancia sotto alla visiera a becco d'uccello di un altro, trapassandogli la gola da parte a parte e portando mano all'ascia che aveva recuperato prima di saltare a cavallo. 
    In un sanguinoso turbinio, Kaleb si aprì la strada fa tutti loro, lasciandoli a terra, con graffi sanguinanti sul volto, le ammaccature dell'armatuda aggredivano gli anelli di ferro della cotta e questi superavano la sottoveste, segnandogli a sangue il petto. «Avanti, avanti!» con la fronte imperlata di sudore cavalcò, mentre alle sue spalle la guerriera colpiva di taglio. La lama dell'ascia forse non poteva superare l'acciaio delle piastre, ma la sua forza bastava a farli cadere a terra e quando colpiva gli elmi, li segnava in profondità, arrivando sino al cranio. Con un urlo, Kaleb superò la guardia scelta di Kellen, colpì l'animale si fianchi sino a far sgorgare il sangue e si portò al suo fianco sinistro. Il nemico menò un fendente di spada, Kaleb la deviò col mazzapicchio e, disarmandolo, saltò dalla sella, portandogli un braccio attorno al collo e trascinandolo con sé nella caduta.
    «È FINITA!... È finita!» lo colpì al volto con un pugno, spezzandogli il setto nasale e il sangue sgorgò a fiotti abbondanti, lasciandolo disteso sulla schiena, boccheggiante e con lacrime di umiliazione agli occhi. Quando i cavalieri gli furono dappresso si fermarono, incerti se intervenire, se fuggire... Ma Kaleb sollevò Kellen per la gorgiera metallica, strattonandolo con malagrazia e li guardò, il volto una maschera di sangue rappreso «La guerra - sussurrò - è finita. Il mio re viene a reclamare il suo trofeo». Voltandosi, videro che Jarden giungeva col grosso delle forze, marciando in trionfo in testa alle truppe e gettarono le spade a terra, con i vessilli della ribellione che andarono a insozzarsi di polvere e pietrisco. 

    Al tramonto, Kellen Netheridge venne rinchiuso in una gabbia di ferro all'accampamento, al di qua della brughiera, i prigionieri vennero assicurati a pesanti ceppi di ferro e assicurati a pali in legno conficcati in profondità nel terreno, spogliati delle armi e delle vesti. In quanto a coloro che erano fuggiti, i cavalieri davano loro la caccia e nel mentre, nella tenda reale Kaleb incontrava il suo signore. Solo lui e il re, nessun altro di presente a quell'incontro e la donna, Runa, venne posta nella tenda del conte, guardata a vista e privata delle armi; si agitava inquieta, come una fiera in gabbia, stringendo i denti, camminando avanti e indietro, facendo tintinnare le lamelle in metallo ad ogni movimento, le ciocche corvine che ondeggiavano selvagge. 
    «Mio fratello verrà rinchiuso in un monastero - Jarden sedeva dietro al tavolo da guerra, con ancora l'armatura indosso, una fasciatura attorno alla testa e un sorriso stanco sul volto segnato - mentre i signori ribelli a lui più vicini saranno condannati a morte una volta che torneremo alla capitale... Si parla di una mezza dozzina di nobili e le loro famiglie verranno spogliate dei beni. Questa guerra civile è costata troppo al Kaelaand e non dobbiamo dimenticarci che i nemici sono oltre i confini, ad est... o ad ovest». Unì le mani sotto al mento, gli occhi grigi fissi sulla mappa incisa nel legno, e per un attimo un'ombra si posò sul suo sguardo.
    Più che un re vittorioso, Jarden Netheridge appariva come un uomo stanco. «Vostra Altezza - Kaleb si agitò appena nella tenda, le pesanti stoffe assicurate ai piloni erano ancorate al suolo con picchetti un ferro, i bracieri posti lungo il perimetro gettavano bagliori caldi sugli interni, sui tappeti e sul mobilio semplice, ma di pregiata fattura - se non sono inopportuno... Posso sapere cosa avete deciso per i mercenari del Vielheim?»
    Il re lo guardò con un altro sorriso, portandosi indietro sullo schienale del basso scranno e tamburellò il pollice, l'indice, il medio, l'anulare e il mignolo della mano destra sul tavolo, tenendo la sinistra sul cosciale e umettandosi le labbra. Fuori si udivano i canti, i bagordi dei soldati che bevevano e le grida di piacere delle puttane che avevano seguito l'esercito. Aveva dato ordine che le donne dei clan barbarici fatti prigionieri non venissero toccate e i conti del regno si erano astenuti dal bere per vigilare assieme alla guardia armata personale del re. Ci sarebbero state occasioni per spassarsela, in futuro... Le guerre non sarebbero certo mancate.
    «Se oggi posso ancora fregiarmi del mio titolo, amico mio - disse alla fine facendogli cenno di sedersi - lo devo a te e a lei, che Dethas mi sia testimone, io riconosco un debito quando lo vedo». Dethas, il Dio della Giustizia e dell'Ordine; sentendolo pronunciate il nome del nume, Kaleb avvertì un brivido lungo la schiena e si sedette, allungando gli avambracci sui fregni nel legno e chinò appena il capo. Cosa si aspettava? Cosa voleva? «Tremila barbari si sono rivoltati contro mio fratello nel momento in cui la vittoria ci stava sfuggendo di mano e ora io sono qui e lui langue in gabbia... Non che mi faccia piacere. Tuttavia devo prendere una decisione... E i Conti pretendono che sia quella più assennata». 
    «Runa è una signora della guerra, Sire - Kaleb parlò a bassa voce, passandosi il pollice sulle labbra - è lei che ha accettato il pagamento... Ma le tradizioni valgono più dell'oro: io l'ho sconfitta e lei si è arresa a me... Teoricamente, quindi, ora ho io il controllo della sua tribù. Poteva capitare a chiunque altro? Credo di sì, ma sono stato io».
    «Ed è qui che sorge il problema, Kaleb» Jarden lo guardò serio, alzandosi in piedi e facendogli cenno di restare seduto mentre percorreva ampi passo sui morbidi tappeto stesi sul freddo suolo di quella regione aspra, una regione di transizione fra le fredde lande del nord e le più gentili terre del Kaelaand, con le sue colline erbose, le foreste rigogliose e i fiumi che discendevano dalle montagne nord occidentali. «Fosse stato uno sceriffo, un sergente... O perché no, un soldato semplice non ci sarebbe stato alcun problema! Ma tu sei un Conte, puoi riunire centinaia di uomini, ora decine di migliaia! Gli altri Conti non possono ignorare la cosa... Io non posso... Ne ho già discusso anche con Redwald...». Quel nome pesò come una sentenza, Kaleb scosse piano la testa, passandosi il pollice e l'indice sugli occhi e sorrise incredulo. «Forse non è la via più giusta, ma la nobiltà ha paura... Noi non possiamo permetterci ulteriori divisioni interne». 
    «Redwald vuole Corno del Corvo da sempre - sbottò Kaleb alzandosi in piedi con tanta foga da fare cadere in terra la sedia - non ha mai perdonato che io abbia vinto la Contesa, mi aveva accusato di aver fatto ricorso alla Stregoneria, ho dovuto sopportare un processo e dimostrare di essermi tenuto alle regole! Sono il generale della nostra fanteria, ho tenuto il fronte oggi, ho guidato io i barbari in rivolta, fosse stato lui, magari, avrebbe colto l'occasione per tradirvi! Questo non conta niente? Tutto questo non conta?» si portò una mano al petto, alzando la voce di parola in parola «IO VI HO FATTO RESTARE RE!» 
    Jarden non lo guardò, gli diede le spalle, unendo le mani dietro la schiena e deglutì a vuoto. Il cuore di Kaleb batteva furioso contro il costato, sentiva le mani che gli tremavano, le gambe che si facevano molli, il sudore colargli sugli occhi, la febbre salire per la rabbia che gli stava montando dentro «Lo vedi? Hai confuso il tuo dovere come fosse un'azione straordinaria... Ma non posso negare il debito, come ho detto... Se tu rinunciassi di tua volontà, qui e ora... avrai un sostanzioso premio in denaro, potrai andare dove vorrai, non ti esilierò dal regno e potrai avere anche la donna del nord... ma anche così, resta il problema dei suoi tremila guerrieri. Ma non sono un folle... lascio la questione nelle vostre mani, se troverete una soluzione diplomatica, allora non... Non ci sarà bisogno di riprovevoli decisioni». 
    Kaleb sguainò la spada, ritrovata sul campo dai suoi attendenti e per un attimo, solo per un attimo, si vide ad essere lui a tagliare la testa coronata di Jarden... Ma così sarebbe morto li, coloro che lo avevano aiutato sarebbero stati trucidati e Runa avrebbe avuto una sorte ben peggiore. Gettò la lunga lama in terra, diede le spalle all'uomo che gli doveva tutto e uscì dalla tenda, marciando a spron battuto verso il suo reparto. Ignorò le ovazioni in suo nome, il cibo o le bevande che gli venivano offerte, spinse da parte una donna che si era sollevata le gonne e con una furia ceca entrò nel proprio alloggio, mandando via i soldati di guardia con un secco cenno del capo. «Dobbiamo parlare» le disse, prendendo una brocca di vino per il collo e riempiendo due boccali, battendo poi la brocca sul proprio tavolino, poggiante su tre pregiate zampe di capra in lucido bronzo. 
    Non tralasciò nulla; mettendosi a sedere sulla propria comoda poltroncina parlò col boccale fra le mani, tenendo lo sguardo fisso fra la punta degli stivali d'arme. Le disse della decisione del re di togliergli il titolo, della paura che serpeggiava fra i Conti, anche della velata minaccia dello stesso Jarden di fare sterminare i barbari che si erano rivoltati contro Kallen e della “gentile” concessione di lasciare a lui la libertà di gestire quella situazione. Alla fine butto giù tutto il vino con un solo sorso e rimase in silenzio. «Ho servito il mio re per diciassette anni... Ho guidato le armate di questo regno da prima che lui ereditasse la corona... Ho più di quanta'anni, oltre la metà dei quali passata sotto le armi e ora... Ora mi ritrovo con la minaccia di un cappio attorno al collo». 
    Runa stava poggiata al tavolino, aveva svuotato da sola la brocca e teneva le braccia intrecciate all'altezza del diaframma. Il bagliore delle braci ardenti nei dischi in ferro battuto riverberava fra i suoi capelli, sulla pelle, negli occhi. Osservandola così, Kaleb ebbe un fremito al cuore, un brivido che gli percorse l'anima, toccandogli le corde del cuore. Battè un paio di volte le palpebre, trovandosi nuovamente al caldo, nella taverna del bianco e freddo nord. «Tu hai rinunciato alla guida del clan, lasciando che tornasse oltre le montagne - sussurrò bevendo la propria birra dal boccale, facendo cadere il cappuccio sulle spalle - tu mi hai guidato in questa vita, strappandomi dalla rabbia... Dalla disperazione... E mi hai mostrato un modo migliore per vivere... Mi hai mostrato la libertà». 
    «Non sono i soldi che ti interessano - disse Runa a quel punto, con un velo di malinconia negli occhi - ma il premio a scelta, vero?» Kaleb le sorrise. Da quando avevano viaggiato nelle regioni più selvagge del V, colui che era stato un Conte aveva abbracciato una nuova realtà, legata ad antichi culti e magie ed era cambiato, era cambiato profondamente. Era diventato più di un semplice uomo, più di un semplice guscio di carne e sangue. La Magia pulsava nelle sue vene, il Mana gli faceva battere il cuore. Lo avevano accusato di aver preso la corona del Conte con la Stregoneria... E con la Stregoneria se la sarebbe ripresa.
    «Ti amo, Runa - disse infine - e se mi vorrai seguire un'ultima volta... Io te ne sarò grato». 

    Quella notte fecero l'amore. Nella terza stanza che si apriva sulla sinistra del corridoio al piano di sopra, il secondo. Era un ambiente intimo, con pareti in legno foderate si calde pelli così come il basso letto; vi era una sottile grata nel soffitto che permettava il ricambio dell'aria e un fuoco acceso in una rientranza nel terreno, chiuso sotto un'intelaiatura in ferro battuto per impedire che le scintille volassero dappertutto. Il materasso era un grande sacco riempito con paglia secca e questa scricchiolava e si piegava, gli steli si spezzavano sotto la passione dei due amanti. 
    Stesa sulla schiena, Runa cedeva alla sua parte più femminile e vera, nuda così com'era venuta al mondo, con i seni pieni di voglia, con l'inguine che sedeva di piacere, le cosce strette ai fianchi del suo uomo. Kaleb la contemplava così, dall'alto, bevendo di quella vista, stringendosi al materasso con le dita. I muscoli guizzavano sotto la pelle lucida di sudore, nelle sue iridi si riflettevano le forme forti della guerriera, il petto abbondante e sodo, i capezzoli che si sollevavano come per attirare la sua attenzione, gli addominali che si contraevano e distendevano mentre l'una seguiva il ritmo dell'altro.
    L'amore non era nato subito fra loro; dopo la battaglia, Kaleb non sapeva cosa farne della sua vita, delle sue imprese, della sua storia; fu Runa a decidere per lui e lo trascinò con sé nella vita da cacciatore di taglie, inseguendo i disertori, le bande di banditi, dormendo nelle taverne, all'addiaccio, spostandosi fra le foreste. Di settimana in settimana, la donna gli insegnò tutto un mondo nuovo: accendere un fuoco con frasche e bastoncini di legno, lavorare la pietra per farne uno strumento da lavoro, a riconoscere i segni del tempo e le singole costellazioni in base alle credenze di Valheim. Avrebbe voluto giacere con lui, scaldarlo la notte, pagare il debito contratto con la propria sconfitta, ma per Kaleb quello sarebbe stato poco meno di uno stupro. Non era quel tipo d'uomo, le disse.
    Così, grazie alla libertà di transito concessa da re Jarden, i due viaggiarono sino a Marhood, la terra di paludi, brughiere e boschi aspri dove vivevano goblin, hobgoblin, koboldi e fiere serpeggianti con squame e scaglie. Da lì cavalcarono verso nord, e poi ad ovest, esplorando le terre delle città stato della penisola di Druherdia. Quindi Kaleb visse come un mercenario ora per un signore ora per un altro, combattendo in diverse schermaglie con Runa al proprio fianco. Passò il primo anno, la vita da Conte appariva sbiadita sebbene facesse parte di un passato recente e tornato a Kaelaand, il vagabondo aveva cessato di struggersi per quanto gli era stato sottratto. Con Runa entrò nella Gilda di Guardia, una corporazione riconosciuta in ogni contea e che badava ai mostri e ai pericoli che affollavano la nazione. 
    Passarono altri sei mesi, visitarono il luogo della battaglia, cavalcarono anche presso Corvo del Corno, la città arroccata in una conca formatasi fra un anello di basse montagne, sulle quali le costruzioni e le fortificazioni si inerpicavano in suggestivi torrioni di granito che si levavano sino al cielo. Parteciparono ad una grossa battuta di caccia contro un gruppo di irriducibili partigiani di Kellen, rinchiuso a vita in un monastero e che bramavano di liberarlo. Lo scontro vide due compagini di qualche centinaio di uomini affrontarsi nella piana antistante il monastero, eretto su una collina artificiale e ciò che restava della ribellione venne soffocato nel sangue. Fu quella notte che lui e runa si conobbero carnalmente per la prima volta; forse non fu amore autentico, probabilmente si trattava più di un bisogno assoluto, di un desiderio crescente, ma lei gli si concesse, accettando quell'ideale di sottomissione dovuto alla forza, a quell'istinto bestiale di prevaricazione sulla preda che colse Kaleb. 
    Passò così il secondo anno, condivisero il giaciglio più volte e più le loro avventure si susseguivano, più il legame si rafforzava, divenendo stretto, forte, finanche indissolubile. Viaggiarono a cavallo, a piedi e sulle navi come guardie contro le razzie degli orchi, si spinsero sino ai confini meridionali, scorgendo torri di arenaria e cupole in alabastro per poi tornare sui propri passi. Fu sul finire del terzo anno, in pieno inverno che Kaleb e Runa seguirono le strade che portavano a Vielheim, ma trovarono un qualcosa di diverso, diverso e sinistro ad attenderli.
    I villaggi di frontiera si stavano svuotando, lunghe carovane di profughi si spostavano verso le città della Contea di Corno del Corvo e le stazioni di sosta ospitavano sempre meno viandanti e sempre più soldati, mercenari e altri viandanti della Gilda. «È l'inverno - disse loro un oste, scuotendo pensoso la testa - quest'anno è più rigido... Crudele quasi e c'è qualcosa di sbagliato nell'aria. Troll, viverne... Ci sono creature che vagano dove un tempo non se ne vedevano» e scuotendo nuovamente il capo, tornò a servire i tavoli.  Si mossero allora verso nord, sempre più avanti e durante una notte, trovato riparo in una piccola caverna circondata dalla macchia boscosa di fitte betulle, vennero attaccati da un intero branco di lupi mannari. Ghetti, carovane itineranti o circhi e gabbie erano i luoghi dov'era più facile vedere quegli ibridi, ma con la luna piena in cielo, non meno di due dozzine di licantropi furono loro addosso, coperti con nient'altro che le loro pelli, armati con nulla che  non fossero le loro zanne e i loro artigli artigli.
    La grezza pietra, fredda e dura, premeva in quell'occasione contro la pelle di Runa. Il suo volto era disteso in un'espressione di piacere mista ad un dolce dolore; i seni sudati premevano contro le pareti di quel ferale nido d'amore, la schiena inarcata metteva in luce muscoli forti e definiti, i capelli corvini erano stretti fra le dita di Kaleb, che la possedeva al pari d'un lupo con la sua compagna. Il semplice desiderio, la spinta.passionale si erano trasformati, nelle ultime settimane, in un qualcosa di più intenso, reale e caldo, la vicinanza l'uno con l'altra bastava ad accendere loro fiamme nel cuore e sempre più spesso ricercavano le loro labbra per dei baci che da fugaci si erano fatti via via più intimi, gli abbracci si dilungavano nelle notti dopo il sesso e quando facevano l'amore, questo univa le anime, permettendo loro di assaporare appieno quella nuova scoperta. 
    Erano ancora colti dalla passione che faceva loro vincere il freddo pungente quando le creature furono loro addosso, attirare invero più dall'odore degli umori femminili che dalla promessa di un grottesco banchetto. Qualche pietruzza cadde davanti all'imboccatura della caverna, fece rumoreggiare il tappeto di foglie secche. Kaleb e Runa ebbero appena il tempo di sussultare per la sorpresa che un ammasso di pellicce e zanne rotolò all'ingresso della caverna, la bava colava dalle fauci e gli artigli brillavano vermigli, così come gli occhi. «STAI DIETRO DI ME!» Kaleb si lanciò in avanti, contrastando la bestia di pura forza, sentendo i suoi artigli lacerargli la pelle della schedina e il sangue sgorgare, colare sino alle natiche e alle cosce. Riuscì a sventrarlo con un pugnale, spingendolo all'indietro, ma già il secondo gli avrebbe squarciato la giugulare con i denti se Runa non fosse accorta in suo aiuto e mulinando lo spadone a due mani, pesante e dall'elsa in ferro e osso, colpì il nuovo nemico al cranio, spaccandoglielo in due metà, riversandone le cervella al suolo in una molle pozza grigiastra.
    «Forse dovresti essere tu a stare dietro di me, Kaleb - Runa sorrise feroce, sferrando un fendente verso l'alto, tranciando in due metà un terzo assalitore, dovendone il busto dagli arti inferiori - e guardarmi le spalle, visto che ti piacciono tanto». L'uomo si limitò a sogghignare e, raccolto al volo l'ascia barbuta che aveva comprato durante il viaggio nel nord, si portò accanto a lei. La lama in acciaio tranciò un braccio all'altezza del polso e il colpo di ritorno si conficcò nel ventre della bestia, facendola stridere e cadere al suolo. 
    «Mi spiace davvero per voi - disse deviando un colpo di artigli e colpendo al fianco, ritraendo il braccio e colpendo al costato, sfondanolo e spaccando il cuore del mostro - ma lei è la MIA donna, ritiratevi voi e quei vermi che vi prendono fra le zampe!». Ben presto l'intero branco fu loro addosso, ma lì dove solo una di quelle creature avrebbe gettato nel panico un villaggio intero, quella notte trovarono esseri le cui zanne erano assai più letali. E pure, Runa e Kaleb dovettero fare strage dei licantropi, tranciando zampe e braccia, tagliando teste e spappolare le teste a sedici di loro, retrocedendo nella caverna come possibile, portando colpi dall'alto o dal basso prima che i superstiti decidessero di fuggire, leccandosi le ferite e senza guardarsi indietro. Ma anche nella vittoria, la sorte si rivelò loro avversa.
    Ripresero il viaggio dal mattino successivo; Runa aveva deciso di recarsi al proprio villaggio natale, a meno di sette giorni a piedi di distanza attraverso la natura selvaggia del Vielheim. Le notti in quelle terre erano forse gelide, ma il cielo si sfumava in colori come il verde, il viola e l'azzurro, le onde colorate si muovevano stagliandosi contro il cielo notturno, le stelle e la luna. Il vento soffiava loro contro, agitando le ciocche della donna, provocandole qualche spontaneo e vivace scoppio di risa. Qualche giorno prima si erano fermati nei pressi di un ruscello e qui, Kaleb l'aveva guardata in viso mentre si sciacquava il volto e vi aveva scorgo qualcosa di bellissimo: la felicità, pura e semplice e lui, lui era stato colmato di gioia nel vederla così.
    D'un tratto, mentre avanzavano su un aspro sentiero gettato nel mezzo d'una foresta che scendeva sin dalle montagne alla loro destra, sotto un cielo grigio e che liberava fiocchi di neve come fosse un temporale, Kaleb si fermò. Un dolore straziante lo fece piegare sulle ginocchia, boccheggiò di dolore, stringendosi una mano al petto. «Kaleb? KALEB?» Runa gli fu accanto con pochi passi fulminei, si buttò in terra, osservando con orrore come il suo amato strabuzzasse gli occhi e schiumasse dalla bocca, in preda a violente convulsioni. Con le mani gli ruppe le vesti che portava sul ventre e inorridì, soffocando un grido con le mani premute sulla bocca.
    Sul petto vi era il segno di un morso, poco profondo ma tanto era bastato perché la maledizione dei licantropi lo contagiasse, al pari d'un morbo. Sentì le lacrime sgorgarle dagli occhi mentre Kaleb si dimenava sempre più debolmente, finché non perde i sensi, scottando per le febbri. «Oh dei no, no no no». Runa gli prese la testa fra le mani, poggiandosela sulle cosce e le lacrime caddero sulle guance del suo uomo, con venature violacee che andavano allargandosi dal suo petto come fossero un'empia ragnatela. «Non ti avranno Kaleb... Giuro sui miei dei e sui tuoi che non avranno, mi hai sentito? Non perderai la tua umanità... Andiamo!»
    Non aveva il tempo di prendere dei rami, di tagliarli, di fare delle corde, di sistemare il mantello, non aveva il tempo di dedicare tempo alla fabbricazione di una barella. La mutazione sarebbe stata completa entro due settimane e lei... Lei non sapeva se avesse davvero trovato qualcuno in grado di aiutarlo. Con uno sbuffo se lo caricò sulle spalle, piegandosi appena sotto il suo peso e iniziò ad avanzare, affidando nella neve fresca sino ai polpacci. Un passo dopo l'altro, un passo dopo l'altro, col sibilante vento del nord che le scompigliava i capelli. “Un passo... Dopo l'altro”. 

    Le terre del nord li avvolsero in una morsa glaciale. I fiocchi di neve pungevano come aghi, l'orizzonte era dominato da montagne di nebbia bianca, le sferzate costringevano Runa a serrare le palpebre, avanzando per lunghi tratti alla cieca, incespicando ora a destra e ora a sinistra. Pensava di poter giungere presto al proprio villaggio, a cercare aiuto, ma sul fare del secondo giorno dall'attacco dei lupi mannari il tempo muto violentemente. Nubi grigie e pesanti si allungarono come tetre dita sul cielo; il brillare della neve, delle stalattiti di ghiaccio che pendevano dai rami degli alberi e dei ruggenti corsi d'acqua venne soffocato da una pesante coltre e la tormenta si scatenò violenta, sollevando fitti mulinelli di neve, accecandola.
    Il sudore le si ghiacciava addosso, tremava da capo a piedi con le labbra viola, scossa da brividi di un freddo glaciale, innaturale perfino per il Vielheim, per lei. Runa aveva ventotto inverni alle spalle, ventotto rigide stagioni di pericolo e buio, con le notti estremamente lunghe e i giorni fuggevoli, ma in sua memoria e forse neanche in quella dei più anziani si era visto un inverno del genere. Spostò Kaleb dalle spalle al proprio petto, tenendolo sollevato fra le braccia, avvolgendolo con i mantelli. «Non lasciarmi Kaleb - mormorava di continuo, sforzandosi di scaldarlo, di trasmettergli il proprio valore, per quanto effimero - non lasciarmi adesso, ci siamo quasi, ci siamo quasi amore, ci siamo quasi!»
    Alla fine però il maltempo ebbe il sopravvento, Runa vagò alla cieca, piangendo cristalli di ghiaccio, allo stremo delle forze. La volontà di salvare l'uomo che aveva imparato ad amare più della sua stessa esistenza la spinse si lontano, ma solo nel mezzo della ditta foresta che la sua gente aveva ribattezzato Novgorra. La leggenda voleva che l'antica Regina delle Nevi, che aveva unificato tutto il Vielheim fosse stata sepolta in un glorioso tumulo e che da quel momento, oltre cinquemila anni prima, gli alberi avessero preso a crescere ed espandersi, tanta era l'energia e la forza vitale della regina guerriera che neppure la morte era riuscita a soffocarla del tutto. Forse in quel momento, nella mente di Runa la leggenda sfuggiva al suo significato, ma era un mito... La storia della foresta principale del Vielheim... E a lei serviva per sperare, sperare che le preghiere che levava in continuazione potessero in qualche modo arrivare a muovere compassione nella volontà del cielo, degli dei, del bosco... Di qualcuno...
    Scivolo giù per un dislivello nel terreno. Nel panico, si tenne stretta a Kaleb e il loro peso li fece precipitare per un paio di braccia; sbatterono su un mucchio di frasche ricoperte di neve e giacquero così. Runa aveva i muscoli intirizziti e ghiacciati, strisciò a fatica sino al corpo del suo amato, cingendo i suoi muscoli con le braccia, rannicchiandosi contro il suo petto. «Dormo solo un poco Kaleb... Solo un poco - sussurrò mentre il vento agitava i rami, facendo scricchiolare il legno delle conifere, agitando il sottobosco e sollevando le foglie rosse, amaranto, gialle e arancioni - tu tienimi stretta» ed ebbe'impressione, prima di perdere conoscenza, che lui la abbracciasse, ma prima che potesse accertarsene il sonno la avvolse in spirali seducenti, lasciandola inerme e in balia alla tempesta.
    La foresta di Novgorra si stendeva per decine, centinaia di miglia. Le sue propaggini raggiungevano le montagne, arrampicandosi su per i fianchi roccioso e si stendevano sulle pianure e le vallate, inglobando piccolo villaggi e mapi insediamenti. Branchi di cinghiali, cervi e lupi la popolavano e nelle sue zone più recondite, troll bestiali di caverna, tigri dai denti a sciabola e draghi ciechi di terra avevano tante e congreghe. Gli scoiattoli balzavano di ramo in ramo e gli orsi che non andavano in letargo vagavano sotto pesanti pellicce. Le rovine delle antiche civiltà si sollevavano in radure e in cima a collinette, fra tumuli remoti aggrediti dal tempo e golem, dolmen e menhir. Era come un magnifico labirinto, dove in inverno i raggi di sole giocavano con il ghiaccio che si formava fra i rami e le formazioni rocciose creando riflessi arcobaleno e di notte, fra le fronde si intravedeva l'aurora boreale, con i suoi meravigliosi colori. Aveva una sua bellezza innata, con gli alberi grandi tre volte tanto il normale, dai tronchi enormi e forti, i rami duri come la pietra, le foglie grandi come zampe d'orso. Era in luoghi come questi che si dovevano cercare i miracoli.
    Il miracolo di Runa e Kaleb apparve davanti agli occhi della donna dopo un lungo sonno; la coscienza che aveva minacciato di abbandonarla per sempre le tornò in corpo a poco a poco, assieme alla sensazione del calore del fuoco, al suono della legna che sedeva, allo scoppiettio delle scintille. Sentiva addosso il peso di una coperta, il corpo nudo che giaceva su qualcosa di morbido e caldo; il vento aveva smesso di soffiarle contro il volto, non percepiva più il rumore della corteccia e il sibilo delle correnti d'aria. Batté adagio gli occhi, cogliendo la forma di un focolare a poca distanza da lei e dal focolare, le ombre che proiettava contro lisce pareti in pietra, tondeggianti. 
    Balzò in piedi, come una fiera destata di sorpresa, ma era ancora debole e cadde sulle natiche. Scosse il capo, portandosi la base del palmo destro alla fronte e cercò di mettere ben a fuoco quanto la circondava: sembrava la cupola un pietra di un tumulo, ma era ampia, molto ampia e alta altrettanto. Forse raggiungeva, nella sommità, le quindici braccia di altezza e una trentina di diametro. Vide poi che le pareti non erano lisce, ma segnate da una grande quantità di fregi scolpiti in bassorilievi. C'era narrata, comprese alla fine, l'intera epopea di un popolo antico e scomparso, un popolo che era stato scelto dagli dèi per portare conoscenza su quel mondo, per trasmettere alle razze inferiori la bellezza dell'arte, della musica, della conoscenza... Un popolo che finì però con l'essere la causa della propria distruzione. «Ergemmo la più splendida delle città» disse una voce alle sue spalle, e voltandosi vide un essere alto dieci piedi, coperto da una semplice pelle di montone selvaggio e dalla pelle d'oro puro. I tratti somatici erano come appena accennati nel suo volto perfetto, con gli occhi del colore dello spazio e degli astri. Aveva una lunga coda e affusolata come la sua figura, eppure bastava guardarlo per comprendere che quell'essere... Lui, aveva potere.
    «Attraverso la nostra opera ci convincemmo di essere migliori degli dèi e costoro ci punirono, spingendo le altre razze a muoverci guerra». Nel parlare non la guardò, si mosse verso l'ultima porzione del bassorilievo, che completava la ciclopica narrazione e indicò le scene dell'assedio e della distruzione della città. «La guerra durò mille anni. Dieci delle vostre generazioni ci mossero contro le loro armi e alla fine sfondarono le porte della mia patria e fecero scempio della mia razza. Le nostre donne divennero gioco per il loro piacere, noi fummo trucidati con le stesse arti che avevano trasmesso nel corso dell'era e la mia casa, Kedaetrem nella nostra lingua, venne rasa al suolo, pezzo per pezzo. Una punizione che ci meritammo. Da allora sono passati dieci volte diecimila anni e io sono l'ultimo del Popolo Eletto, l'ultimo degli Ithiri».
    Tacque, dandole le spalle. Runa ascoltò assorta, come se fosse stata vittima di un qualche incantesimo, poi un pensiero le attraversò la mente e, copertasi con la pelle che l'aveva avvolta nel sonno, stringendola all'altezza della base del collo, parlò. «Con me c'era un uomo... Il mio uomo - aggiunse, sentendo una fitta al petto - è afferrò da una maledizione, ma può ancora essere curato. Se hai slavato me, sicuramente hai visto lui... Dimmi che l'hai portato in salvo! Non mi interessa chi sei o che passato hai, voglio solo sapere se lui sta bene!... Ti prego» rincarò, in un sussurro e abbassando lo sguardo. L'essere dorato la guardò, indugiando sulla sua figura dal basso all'alto e chiuse i suoi quattro, magnifici occhi, facendole un semplice cenno con la mano. 
    Afferrò una lancia lunghissima, che lo superava di due piedi e dalla punta di un argenteo metallo capace di emanare un proprio chiaro bagliore. «Seguimi» disse con una certa dolcezza nella voce «Il tuo amato era qualcuno il cui arrivo attendevo da molto tempo, anche se non sapevo davvero che sarebbe stato lui... Ma appena l'ho visto, ho capito. La sua guarigione è già iniziata». La condusse quindi attraverso lo spoglio spazio, dove stava solo il caldo focolare in una rientranza nel terreno e aprì una pesante porta, alta tanto che l'Ithiri poté passarci sotto con la lancia senza chinarsi e la precedette in un lungo corridoio, ornato stavolta di fregi di natura religiosa. Runa passò accanto a rituali remoti, di natura orgiastica, sacrificale e festaiola e poi attraverso un'altra porta ancora. «Devo chiederti - sussurrò il suo salvatore - di non allarmarti e di non gettarti su di lui, poiché il processo in atto è assai complesso... E io stesso ci sto puntando molto» e quando la vide annuire con risolutezza, aprì il battente verso l'interno.

    La stanza era una gemella di quella che avevano appena lasciato, ma ora davanti alla donna c'erano quattro alte colonne, ognuna posta ai quattro angoli di un altare rettangolare. Kaleb vi era steso sopra, nudo, con le spalle premute sulla lastra di marmo. Era un marmo lucente e perfetto, e Runa vide che le venature della maledizione si erano propagate dal suo corpo, crescendo come radici, stringendo l'altare come fossero rampicanti. Ebbe l'istinto di buttarsi sul suo amante e strapparlo da quel letto di morte, ma si trattenne, pur soffocando un grido straziante. Poi in cima alle quattro colonne, dai fusti in marmo di un nero d'ebano brillarono quattro sfere luminose, pulsarono con forza e fasci di magia volteggiarono nell'aria immobile del tumulo, avvinghiandosi agli arti dell'uomo in agonia. «Il male viene drenato dall'altare - spiegò l'essere in tono solenne, facendo qualche passo in avanti - e nutre l'antica magia che permea questo luogo... Al di sotto del suolo giace il Mana, esso alimenta la magia e l'arcano del mondo... Ma questo in particolare venne posto dal mio popolo quando ormai fummo davanti all'annientamento. Ho cercato e atteso per delle Ere che giungesse un uomo nel quale il Male e l'Amore combattessero per la sua dannazione e salvezza... Poiché il perfetto equilibrio fra le due forze è la chiave per controllare un tale potere. Ora osserva, donna del Nord... Riavrai il tuo uomo, è una promessa». 
    Accadde in quel momento, Kaleb sgranò gli occhi e spalancò la bocca in un muto grido, il bagliore magico si levò dal fondo della sua gola mentre contraeva tutti i muscoli del corpo. Le venatura iniziarono ad annerirsi, andando seccandosi rapidamente. Era come assistere al processo di decadimento delle radici di un albero; pezzetti di carne cadevano sul marmo, trasformandosi in polvere e i globi luminescenti sulle colonne iniziarono a rimpicciolirsi man mano che la loro energia sostituiva la maledizione che stava consumando il cavaliere. «KALEB!» L'urlo di Runa le uscì spontaneo dalla bocca quando le colonne vennero percorse da un violento fremito e il marmo che le componeva si crepò in profondità. Dimentica dell'avviso, si lanciò verso l'altare, lasciando cadere a terra la coperta ma prima che potesse raggiungerlo, ci fu un'esplosione di Mana.
    Una sfera azzurra, verde, dorata e violetta prese forma attorno all'altare e si espande verso l'esterno col fragore di mille tempeste. Runa ebbe appena il tempo di fermarsi e intrecciare le braccia davanti al volto che si sentì sollevare da terra e scagliata verso l'altro, andando a sbattere di schiena contro la parete circolare. L'urto le strappò il fiato dai polmoni e cadde bocconi, con lacrime di dolore che le rigavano le guance. L'esplosione quindi si disperde in decine di spirali luminescenti e queste serpeggiarono nell'aria come scie di comete prima di sollevarsi verso l'alto, abbandonando il tumulo passando attraverso la pietra e poi all'esterno, disperdendosi nei venti del nord. «È compiuto» l'essere dorato abbassò appena il capo e si voltò a guardarla mentre si rialzava; aveva gli occhi umidi e Runa vide con sorpresa che anche lui andava dissolvendosi in polvere dorata e che lo stesso stava accadendo ai due ambienti che li avevano ospitati. Il vento soffiò più forte, aggredendo la struttura e strappandola dalla foresta, facendone piccolo frammenti rocciosi. «Ho atteso centomila anni il giorno del mio commiato da questo mondo... Voi mi avete liberato dal mio tormento e io, io vi ho fatto il dono di un qualcosa che cambierà per sempre questo mondo... Starà a voi decidere cosa farne. Sappiate che sta per arrivare una sfida terribile, un potere antico quanto il mio sta tornando a destarsi e voi, voi dovrete scegliere da parte di chi schierarvi, nella battaglia che si scatenerà... Addio, possano gli dèi guardarvi con benevolenza». 
    Si formò un autentico ciclone che andò sollevandosi verso il cielo, l'intera radura cedette a quella furia, gli alberi s'inclinarono in avanti, zolle di terra si sollevarono assieme alle profonde radici, le foglie stornirono come unl stormo di uccelli che si alzava in volo. Runa corse in avanti, Kaleb si muoveva debolmente sull'altare e rese la mano sinistra verso di lei, con uno spasmo quasi disperato. Le loro dita si strinsero con forza, l'una serrò le braccia attorno al braccio dell'altro e restarono così mentre l'incanto che aveva permeato quel luogo per migliaia di generazioni degli uomini andava svanendo in una furiosa morte che gridava rabbia. Erano entrambi certi che anche loro sarebbero stati scagliati lontano, andando a perire nella caduta ma proprio quando la disperazione era sul punto di coglierli, tutto si fermò, gradualmente. 
    I venti iracondi si placarono, la terra smise di tremare e gli alberi divelti caddero pesantemente al suolo, con sordi fragori. Il legno scricchiolò e si spezzò in decine di schegge, le foglie iniziarono la loro lenta, pigra caduta verso il suolo innevato, ondeggiando ora a destra e ora a sinistra. Da qualche parte sentirono il canto dei fringuelli, il frullare delle ali, il verso di qualche piccolo animale che, spaventato, aveva abbandonato il proprio nido. Persino le nuvole in cielo andarono diradandosi e comparve un sole lontano ma tiepido, con raggi dorati che danzarono nello spettacolo di ghiaccio e neve, dando una nuova bellezza al cuore della foresta di Novgorra. Adagio, Runa e Kaleb si separarono, scendendo a terra, nudi così come nudi furono il primo uomo e la prima donna che gli dei posero nel mondo, prima che gli Ithiri vi giungessero per porre fine a violenze e barbarie si guardarono meravigliati attorno. «Non è stato un sogno - sussurrò Kaleb, incredulo, passandosi le mani sul corpo, contraendo e distendendo le dita, piangendo come se vedesse la meraviglia del mondo per la prima volta - è tutto reale... Tu, tu sei reale» si voltò verso la donna, allungando il palmo della mano contro la sua guancia sinistra, avanzando verso di lei, piegando il gomito e sorridendole fra le lacrime. Vedeva tutta un'aura attorno a lei, un caldo bagliore che gli scaldava i muscoli e il cuore, sciogliendo e spazzando via il freddo che avevano provato per giorni, nelle terre del nord.
    Le loro labbra si incontrarono lente, i corpi di avvicinarono con dolcezza, i seni della donna premettero contro i pettorali dell'uomo, si piegarono morbidamente e un brivido di attesa attraversò entrambi mentre le loro lingue si raggiungevano smaniose, si toccavano, intrecciando un'umida e ardente danza. Si stessero sulla neve, fra i detriti e le pietre che affioravano dal manto nevoso e così Runa lo accolse in sé. Allargò le cosce per accettarlo e Kaleb spinse in lei, l'asta era turgida, il glande gonfio e rosso e nel scivolare dentro le sua carne viva il piacere lo attraversò con la violenza di una fiammata. Fecero l'amore con dolcezza, Runa inarcò le sue nudità, i seni ricaddero abbondanti sul costato, i suoi muscoli sudavano e guardava in volto il suo amato, lasciando che il piacere la facesse gridare a pieni polmoni.
    Il fallo dell'uomo entrò a fondo in lei che si abbandonò di schiena, intrecciando le gambe dietro la sua schiena. Kaleb le strinse una coscia contro il fianco, serrò la presa della mano mancina sul suo seno e si chinò per baciarla, e baciarla finché carne e spirito non furono una cosa sola e quando l'orgasmo li colse, Runa si strinse a lui con forza, gridando la sua estasi mentre sentiva lo sperma del suo uomo che le colmava il ventre, caldo e abbondante, trasmettendole una sensazione tutt'altro che spiacevole al cervello. Non si scambiarono inutili parole, giacquero a lungo in quella radura, arresero che giungesse la notte e osservarono i colori del cielo, con l'aria fredda che stuzzicava le loro membra, penetrava nelle narici e colmava i polmoni. E allora risero, risero perché erano vivi, perché erano forti e perché si amavano. Le parole del loro salvatore svanirono dalla loro memoria, così come lui aveva voluto che accadesse, poiché la scelta, quando si sarebbe presentata, sarebbe dovuta essere pura e istintiva e non condizionata da un criptico avvertimento. Al mattino, dopo aver fat l'amore ancora durante la notte, trovarono i loro vestiti non lontano e, ringraziando una volta di più l'Ithiri si rimisero in cammino. Dove stavano andando? Runa trovò la strada di casa e deciderò di fermarsi per del tempo al suo villaggio. 
    Appresero che l'inverno era mutato per il risveglio di un drago colossale, lontano sui monti più remoti del nord, oltre il regno artico dei giganti e che il battere delle sue ali generava venti tali da mutare il tempo. Una sfida, fu detto loro, che nessuno avrebbe potuto cogliere e che presto le cose sarebbero tornati normali... Per quanto un drago potesse intendere lo scorrere del tempo. Erano eventi che accadevano, nel mondo, eventi sui quali nessuno aveva il controllo e che sfuggivano alla comprensione dei più. A Vielheim ricordavano perché le tradizioni e i miti avevano un valore profondo, erano intrinseche nella loro natura, nelle ossa, nei nervi, nella carne e nel sangue. Nel resto delle terre emerse, invece, disse loro il capo villaggio, il medesimo al quel Runa affidò il controllo dei guerrieri quando scelse di seguire Kaleb e rinunciare al proprio status, si era ciechi alle molte verità di quella loro casa.
    «Non è così come credi - sussurrò allora Kaleb - noi di Kaelaand rammentiamo molto bene, ma abbiamo il nostro modo di intendere i presagi». Erano seduti nella grande sala in legno, su di un notte circondato da un fossato e una palizzata e bevevano idromele da boccali di corno. La sua voce era profonda e risuonò saggia, i suoi occhi brillarono mentre parlò, al pari di un maestro ai suoi allievi «I nostri dei sono diversi dai vostri, ma sappiamo bene che essi ESISTONO, agiscono in questo mondo. Io e Runa siamo testimoni del loro operato, credetemi. Nelle nostre credenze, il risveglio del drago, del Leviatano, è invero solo un messaggio, un avvertimento: il mondo è prossimo ad un grande cambiamento, qualcosa sta per scatenarsi e l'inverno è solo l'inizio... il tempo della spada sta per arrivare. Un Drago, una furia incontenibile non potrebbe essere araldo migliore per annunciare tutto questo. Non avverrà domani, fra una luna o fra un anno... Ma accadrà. Se non volete credere ai miei dei, credete all vostre storie, al Ragnarok... E al lungo inverno che ne annuncia l'arrivo imminente». 

    Le parole di Kaleb risuonarono profetiche alle orecchie degli uomini del Nord e già sul fare del quarto anno dalla battaglia che aveva posto fine alla guerra civile che lacerava il Kaelaand non tardarono a rivelarsi veritiere. Fecero ritorno nel regno in primavera, con un sole più bello e luminoso, i prati tornarono ad essere verdi e rigogliosi, sbocciarono i fiori e le creature migratorie tornarono ai propri nidi, vivacizzando le campagne con canti dalle mille e più voci diverse. Ma vi era un qualcosa che contrastava con la gaiezza della natura che tornava a risplendere: creature oscure strisciarono fuori dalle loro tane in ombra, i membri della Gilda della Guardia iniziarono a muoversi in compagini armate anche di cento avventurieri armati, i cavalieri e i loro gonfaloni si avvistavano sempre più spesso lungo i sentieri più distanti dalle grandi città del regno e le richieste di intervento apparvero come funghi dopo la pioggia. Ci volle un altro anno, un anno durante il quale Kaleb si esercitò a padroneggiare il proprio potere, a comprenderne la natura, leggendo e studiando i testi antichi che trovava nelle biblioteche, mettendosi alla prova nelle missioni di caccia. 
    «Non è normale magia - disse una sera, mentre riposavano in taverna, durante il solstizio d'estate - è qualcosa di più grande... Tutti sanno che la Magia è formata dai quattro sentieri: Terra, Fuoco, Aria e Vento, poiché la magia non può andare oltre ciò che sono gli elementi in natura... Dopotutto il Mana è ciò che alimenta il cambiare delle maree e dei venti... Ma io posso evocare i fulmini del cielo... Non è normale fra di noi, Runa» e se quella prospettiva lo spaventasse o, al contrario, lo eccitasse, la donna non seppe dirlo con certezza. Poi giunse l'inverno del quinto anno di vagabondaggio e Kaleb strappò un pezzo di carta inchiodato ad una teca, un messaggio riportante la firma di Griswold Keppler, redatto secondo la volontà del Conte Redwald di Corno del Corvo... E così il passato bussò alla porta della loro vita e i passi di Kaleb lo riportarono verso quello che era stato il suo dominio.

    Presente, inverno del 1180, ventunesimo anno del regno di Jandar Netheridge, VII del suo nome, re del regno di Kaelaand.

    Lasciarono la taverna che l'alba era inoltrata, quando i venti cessarono di urlare furiosi. Runa portava di traverso sulla schiena uno spadone a doppia presa, con chiodi d'arresto in corno e un'elsa ricavata dal teschio di un pipistrello, grande quanto la sua mano. «La torre di guardia è a mezza giornata di cammino verso nord - Indicò un punto davanti a loro, con un sorriso sulle labbra - era da tempo che non tornavo così vicino a casa... Sarà stupido, ma ho avuto nostalgia di questo passaggio».
    «Ho compreso che noi esseri viventi siamo legati a doppio filo dal luogo che ci ha dato i natali, sia che la cosa ci piaccia o meno... Non è stupido, Runa, è dolce amare la propria patria... Andiamo, nutro un'insana curiosità di sapere che creatura può smuovere lo storico Conte Redwald». Sebbene fosse diventato saggio e potente, sebbene il tempo avesse smetto di esercitare la propria tirannia su di lui, tutto ciò non poteva cancellare lo smacco subito dal re dopo la sconfitta di Kellen Netheridge. Tantomeno, pensò Runa seguendolo dappresso, il disgusto che provava per Redwald. Camminarono in silenzio, fianco a fianco lungo la strada lastricata ricoperta da un sottile strato di brina congelata. La brughiera si stendeva per molte miglia, era il confine naturale fra le due nazioni e già lì se ne intravedevano gli scorci, con il profilarsi di colline più selvagge e ostili, con rocce e arbusti e macchie paludose sparse. 
    Il sentiero secondario andava via via snodandosi in tanti affluenti, dividendosi in stradine tortuose, deviando e serpeggiando. Alberi sparsi puntellavano il paesaggio sempre più diseguale e più avanzavano, più apparivano le tracce della battaglia. Vi erano ancora, a distanza di anni, i segni dell'accampamento fra tende in rovina, barricate ormai consumate e dal legno marcio, pezzi di chiodi di ferro rugginosi e coti abbandonate, oltre che punte di freccia, else spezzate, lance spuntare e cadaveri, cadaveri sepolti dagli elementi. «Costruire una torre di guardia in un posto dove si è versato del sangue - sussurrò Kaleb - Redwald non ha perso la sua lungimiranza» e fu con un piacere perverso che pensò al come lui sarebbe stato ben più assennato da provvedere a ripulire la regione prima di ordinare qualsiasi opera, fosse essa commemorativa, civile o militare. Runa si guardava attorno. Erano passati per quelle contrade un anno prima, ma avevano compito un giro più ampio e rivedere ora quei luoghi le fece uno strano effetto. Dopotutto, pensò, eda lì che ogni cosa era iniziata, fra lei e Kaleb. Se le cose fossero andate diversamente, non avrebbero mai vissuto quelle avventure, mai incontrato l'Ithiri... Non si sarebbero mai amati.
    «Eccola! Riesco a vederla!» si fermò in cima ad una bassa collina, tendendo l'indice destro in avanti. Kaleb si tolse il cappuccio e guardò nella sua direzione, passandosi il pollice sulle labbra. La struttura si sollevava in cima ad un terrapieno, anche se più che una semplice torre era un autentico maschio in pietra, alto forse venti braccia e conto da un muro in pietra, di circa venti piedi. Buttò fuori l'aria in vapore condensato e puntò gli occhi ambrati sul sole, vedendo che aveva iniziato la discesa ad occidente. «Già da qui mette i brividi vero? - Runa parlò con una sorte di ironico nervosismo nella voce e dando un leggero calcio ad un mucchietto di neve - si sente un non so che di sbagliato nell'aria, che non dovrebbe esserci... nemmeno dovrebbe esistere». Suo malgrado rabbrividì; Kaleb le mise una mano sulla spalla sinistra, annuendo e riprese ad avanzare, seguito a ruota dalla donna. Avevano attraversato innumerevoli leghe, affrontato altrettante sfide e insidie e rischiato la morte in una foresta sperduta e insondabile, e ogni cosa, per quanto gli suonasse banale, li aveva portati lì. Ad un passo, pensò, dall'avere la chiave per poter vendicare il torto subito. “Ma è davvero questo che voglio?”
    Più andarono avvicinarsi e più si faceva viscerale la sensazione non sono di essere respinti, ma di essere odiati. L'aria vibrava di maligna elettricità, il sole e il vento sembrava o perdere forza e le distanze parevano dilatarsi. La fortezza di guardia si sollevava come una cupa presenza con i suoi bastioni guardati dal silenzio dei morti. Runa sentì presto le braccia e le gambe farsi pesanti in maniera innaturale e quando erano ormai prossimi al cancello d'ingresso, crollò sulle ginocchia. «Kaleb... Non ce la faccio» disse stringendosi nelle braccia, osservando quel luogo attraverso le ciocche corvine «Non lo so cosa ci sia lì dentro, ma sento che mi sta consumando... Sarei solo un peso per te». Ma così come tempo prima Runa non lo abbandonò, così Kaleb si fermò al suo fianco, stringendole le spalle con un braccio; il potere scaturì dal suo corpo in una fitta ramificazione di viticci di Mana, viticci che si intrecciarono su tutta la figura di Runa, dal volto, ai seni finanche alle gambe e gli stivali. La sensazione di oppressione si dissipò, l'aria fresca tornò a colmarle il ventre e l'ombra venne scacciata dalla sua mente. «Grazie - mormorò con infinita gratitudine - grazie davvero... Io... Sono patetica alle volte, vero?» 
    «Il giorno in cui dovessi pensare una cosa del genere di te - disse Kaleb, prendendole il mento fra due dita - allora saprei di essere impazzito e dovrei buttarmi da una torre per fare ammenda... e poi non è colpa tua. Persino ora sento il Mana che trema dava rina questa soglia. Non so cosa ci sia dall'altra parte, ma è potente». 
    «Allora sarà meglio farla fuori, non credi?» Runa ritrovò la propria spavalderia e portando una mano all'elsa dello spadone, lo staccò dai ganci magnetici che ne sostenevano la barra trasversale dell'elsa e avanzò a testa alta, con i capelli smossi dal vento. Una volta di più, Kaleb ricordò perché l'amasse tanto intensamente; la donna era fiera e indomita e persino nella debolezza il suo spirito sapeva risollevarsi. Troppe volte gli aveva salvato la vita e contro ogni previsione aveva scelto di restare accanto a lui anche quella volta, quando lo sapevano entrambi che l'unica cosa a spingerlo li dentro non sarebbero stata di certo il pensiero dei soldi. Avanzò a sua volta e passarono sotto all'arco d'ingresso, mettendo piede nella corte interna. Alle loro spalle, la grata metallica si abbassò con uno schianto metallico e un vento crudele rise di scherno fra le feritoie e le merlature sulla sommità delle mura. 
    Il portone d'accesso al maschio si spalancò, i doppi battenti picchiarono sonoramente contro le pareti interne e con passo lento e cadenzato, con indosso una lunga cappa vermiglia dalle spalline rigide, in ossa e curve verso l'interno, con le mani scheletriche e dagli artigli lucido, con occhi di un nero d'ebano e capelli del colore della cenere. Con alti stivali in pelle lucida e anelli blasfemi alle dita, con una collana di opali attorno al collo magro e pallido e le labbra sottili sotto al naso adunco, Keppler uscì dalla trappola che aveva a lungo preparato, e sorrise loro in maniera crudele. «E così, nel modo e nel tempo in cui avevo previsto, l'eroe del regno e la sua puttana del nord sono venuti da me! Devo essere sincero Kaleb, sono rimasto oltremodo dispiaciuto quando re Jarden non si è preso la sua testa, dopo la sconfitta di suo fratello! Avevo sperato che accadesse! Ma gli dèi sono capricciosi» fece una smorfia e agitò le spalle, guardandolo con vivo disgusto, dall'alto al basso «Avevo preventivato di provocare la tua morte in battaglia, ma il mio padrone mi ha detto che ci avrebbe pensato il caso, e invece sei sopravvissuto. Quindi ho pensato di tenderti un agguato sulla strada, ma ancora una volta, mi sono state tirate le redini. Quando poi sei scomparso a Vielheim ho gioito, credendo che finalmente i miei Lupi Mannari ti avessero fatto a pezzi... ammetto li ho mandati da te senza avvertire il mio padrone... ma ancora sei sopravvissuto. E cosa scopro quindi? Che era un piano ben architettato da lui, affinché tu prendessi il potere antico rimasto in questo mondo creando la condizione che ti permettesse di entrarne in possesso... Sono stato uno stolto a dubitare del suo potere e della sua saggezza. Ma ora eccoti qui, e tutto ciò che devo fare è annientarti e strapparti il potere che hai sottratto!» 
    Come finì di parlare spalancò le braccia, sollevandole verso il cielo e dalla sua figura si propagò una densa aura mefitica, verdastra e lattiginosa che si diffuse in tutta la corte centrale. Con un ringhio Kaleb mosse lesto il braccio destro, un dardo di fulmini esplose dall'aria che aveva davanti e venne scagliato in avanti, sfogliando e brillando. Keppler rispose prontamente, l'aria che generava formò una parete di fiamme verdastre che disgregò l'incantesimo e Rise, rise malignamente mentre dalla nebbia prendevano forma esseri abietti, abomini e aborti partoriti dai più abissali recessi dell'arte negromantica. Erano coperti di grezzo ferro, con la carne cadente, arti umani fuse a lame di acciaio, con occhi sporgenti e bocche sparse per tutti gli arti. Ciondolavano da una parte e dall'altra, con molteplici lingue che riversavano sulla neve una bava giallastra e maleodorante. «Hai visto il potere di cui disponiamo? Quando si sono resi conto di quello che potevamo realizzare, il tuo caro fratello, Redwald e il tuo re si sono piegato davanti al mio padrone! Ora egli è pronto a fare la sua guerra a coloro che era addietro annientarono la sua stirpe... E voi sarete dei perfetti capri da sacrificare sul suo altare!»
    L'urlo di guerra si levò dalle labbra di Runa! La donna si mosse feroce, brandendo lo spadone; l'acciaio temprato recise un arto all'altezza della spalla, il sangue esplose dal moncherino con un tumore viscido e vomitevole e con un secondo colpo, decapitò il primo di quegli esseri. La testa si sollevò dal collo reciso assieme al sangue e andò a schiantarsi al suolo, aprendosi come un melone maturo. Un attimo dopo, un fulmine lo trasformò in cenere e la polvere si sollevò con l'aria. Kaleb piantò le mani nel terreno, allargando le dita e lanciò un grido collerico e dal terreno si sollevarono colonne di fiamme e fulmini, la neve si sciolse e le aberrazioni vennero spazzate via man mano che si stringevano. «Ahahaha, niente male, uomo - lo canzonò Keppler, passandosi il pollice e l'indice sul mento a punta ,con un luccichio di bramosia negli occhi - ma non basterà certo a fermare il grande piano che si è messo in modo!» e con un volteggio del mantello scarlatto, sparì dalla loro vista.
    Al suo posto, da sotto terra emerse un'altra creatura, il pavé d'ingresso venne scagliato verso l'alto quando il pugno lo squarciò, fecero capolino due corna caprine, poi una testa bovina e un torso umano. Con un atroce muggito, il demone evocato levò una poderosa ascia a lama gemella, picchiando gli zoccoli in terra. «Kaleb, trova lo stregone!» Runa lo superò con un balzo audace, calando lo spadone a piene mani. Il suo avversario fu rapido e menò un fendente con l'ascia, ma la donna resse all'urto e rispose, costringendolo anzi ad arretrare con un furioso assalto. «Non ci ho capito molto... Ma sono certa che ce l'abbia particolarmente con te!» Gli rivolse un sorriso feroce, facendo brillare i denti limati. Il colpo successivo la spinse lontano, girò su sé stessa e atterrò sulle gambe, fendendo l'aria con la spada. «VAI!». Kaleb guardò un'ultima volta lei, poi il demone che la caricava con le corna e annuì, dandole le spalle.
    «RUNA... Quando lo avrò ucciso tu... SPOSAMI!» e si lanciò nel maschio, circondandosi di sfere di fiamme, con i suoi passi che lo portarono lontano dal micidiale duello. Stavolta fu il secondo portone a chiudersi alle sue spalle e come fece qualche metro di corsa, l'ambiente si rischiarò e Keppler apparve all'estremità opposta. Allora Kaleb si fermò e levò lo sguardo: il maschio era solo apparenza, in realtà l'intero spazio era vuoto con un soffitto alto e remoto. Era come essere nella navata di una cattedrale sconsacrata dagli dèi, con ombre e sussurri maligni annidati in ogni suo angolo. Fronteggiò il suo avversario, gettandosi alle spalle la pelliccia d'orso e facendo tintinnare la cotta di maglia che portava sotto alle vesti. «Quindi era questo il motivo dietro la ribellione di Kellen?»
    «Esatto! Il buon principe si era rifiutato di accettare l'inevitabile, fuggì da palazzo prima che io riuscissi a muovere contro di lui e in poco tempo riuscì a mettere su una ribellione su basta scala! Quel giorno, quel giorno non fosse stato per te avrebbe anche vinto, annientando, forse per sempre, i piani del mio padrone! Ma tu, tu sei stato una pedina ancora prima di prendere parte a questo gioco!» lo indicò con un dito scheletrico, sghignazzando sadicamente e tossendo sangue, guardandolo negli occhi. «Ma ora Kellen langue in prigione, il mio Padrone vuole giocare personalmente con lui e quanto a te... Ora morirai, e io donerò il tuo potere al mio signore così che Lui possa risollevarsi ed erigere una nuova Kedaetrem! Ed essa sarà il simbolo dell'oblio della vecchia Era e l'inizio della Nuova!»
    «No - ringhiò Kaleb stringendo i denti, con un'esplosione di fiamme e fulmini che si propagarono dal suo corpo - non se ti uccido prima io!»

    All'esterno, il demone caprino sferrava fulminei colpi! Nonostante la sua stazza, alto quindici piedi, riusciva a muoversi con sorprendente agilità e la forza disumana di Runa bastava appena per sopportarne i colpi. La sua spada, forgiata nel Nord riusciva a esistere a quella prova, e le scintille brillavano quando le armi entravano in contatto. Un poderoso colpo di zoccolo allo sterno la mandò a sbattere contro il muro perimetrale, rimbalzò a terra e sputò sangue, stringendo i denti e la presa sull'arma. «Avanti figlio di puttana, fa del tuo peggio...» soffiò irata, e quello la caricò lanciando un feroce belato. Runa non lo schivò, gli andò addosso caricando il fendente da dietro le spalle e sferrò il colpo. 
    Lo spostamento d'aria spazzò la neve al suolo, con un verso di sorpresa il demone si ritrovò impossibilitato ad andare avanti; Runa aveva inchiodato i piedi al suolo, buttandosi con tutto il proprio peso e la propria forza sulla spada e ringhiava come una bestia. «Se permetti, penso proprio che ti farò a pezzi! Quell'idiota del mio uomo mi ha fatto la proposta, non posso davvero farmi ammazzare da un pezzo di merda come te!» e con due colpi in rapida successione gli tranciò il corno sinistro. Il sangue eruttò dalla ferita, la creatura stridette di dolore e incespicò all'indietro e Runa prese l'occasione per colpirlo ancora, al petto. Ma la pelle era spessa, i muscoli possenti e riuscì solo a ferirlo superficialmente. Così facendo espose il fianco destro e venne centrata da un violento pugno. Sentì delle costole cedere e spezzarsi e fu un miracolo se non bucarono i polmoni, provocandole un'emorragia interna. Rotolò invece per dei metri per terra, sollevando il busto, in preda al dolore. 
    Il demone si fece subito sotto, portando un colpo in verticale e Runa poté solo scansarlo, osservando la lama che penetrava a fondo nel pavimento in pietra e poi diverte buttarsi di schiena, quando l'ascia gli ronzò ad un soffio dalla punta del naso. Frustrata tornò alla carica, scambiando cinque forti fendenti con il suo avversario. Sentì i muscoli delle braccia dolere, le tremavano le gambe e aveva la vista annebbiata. Il colpo che ricevette non la tagliò in due solo perché lo parò in tempo con la spada, ma la lama le lacerò la pelle del fianco e tre dita di carne, facendola urlare di dolore. Con uno schianto, la sua arma andò in pezzi e le rimase in mano solo l'elsa con appena il ricasso e i chiodi d'arresto. Il suo avversario rise crudele, stringendole le tre dita della mano sinistra attorno al collo e levandola da terra. Runa lo vide leccarsi la bocca irta di zanne e da sotto il vello fitto e nero che gli ricopriva l'inguine sino agli zoccoli lucido qualcosa si mosse, gonfiandosi. 
    «Piuttosto che farmi violentare da una bestia del tuo calibro - ringhiò - preferisco prendere da una forca!» le labbra però le stavano diventando blu, perdeva ossigeno, la vista andava facendosi sempre più labile... Ma poi accadde qualcosa, alle spalle del demone il maschio tremò violentemente, dalle ampie vetrate esplosero fasci di energia magica, le pareti vennero spaccate verso l'esterno. Fu un autentico miracolo del cielo! Un pezzo di pietra volò preciso contro di loro, andando a spezzarsi sulle spalle del mostro. Questo ruggì di dolore, cadendo sulle ginocchia; Runa rovinò a terra e con le ultime energie che le restavano, contrattaccò. Afferrò la spada per l'elsa e con un grido, colpì con i denti d'arresto i suoi due grandi occhi, mandandoli il poltiglia.
    La bestia si levò sulle zampe, entrambe gli arti superiori al volo. Neanche la donna avrebbe potuto spiegare come ci riuscì, ma allungò leani attorno all'asta dell'ascia bipenne e con uno sforzo che avrebbe stroncato il cuore di un toro adulto, riuscì non solo a sollevarla, ma a sferrare un fendente che sarebbe stato in grado di recidere il forte collo di un drago! L'acciaio della lama penetrò all'altezza del ventre, si conficcò nei suoi intestini e li rimase, mentre sangue e viscere colavano fuori dalla tremenda ferita. Distrutta dallo sforzo, Runa fece qualche passo indietro e cadde di schiena, osservando ansante il cielo e gli scoppi di Mana che brillavano come esplosioni del cielo. Il demone caprino, ridotto ad una massa di carne morente stramazzò in un tonfo flaccido, tenendosi le budella fra le mani e spirò così, non più che una gigantesca carcassa, retaggio di una magia scomparsa centomila anni prima, una magia occulta e perversa che mai avrebbe dovuto essere ridestata.
    «Ka-leb» il nome le uscì dalle labbra assieme ad un rantolo e un grumo di sangue; si erse sulle braccia, levando lo sguardo esausto. Il torrione era franato per due terzi, restava solo l'angolo rivolto a nord-ovest e in mezzo alle macerie, i due maghi si scontravano ancora. I fulmini e le fiamme verdastre entrarono più volte in contatto, gli stregoni compivano salti inumani da un pietrone all'altro, scagliando sfere fiammeggianti in una continua esplosione. Kaleb fremeva di rabbia, quando tendeva le dita, le saette viola e blu balenavano nell'aria, Keppler rispondeva con le sue arti malefiche e l'impatto fra i poteri generava esplosioni e luci che in natura sarebbero state impossibili. 
    Poi, avvolgendosi nelle sue fiamme, Keppler mutò forma, ergendosi sul suo nobile avversario sotto le sembianze di un colossale scheletro, velato da una cappa cucita con decine di volti umani in agonia e sollevò una falce d'ossa e ferro al di sopra del capo, coronato da spine d'oro inzaccherate di sangue. «Osserva, Kaleb! Questo è il potere offertomi dal mio Padrone! Che speranze hai tu, o la tua donna! Lei ha sconfitto a stento una delle sue creature, ammirevole, ma inutile! Così come inutile è la tua battaglia!» il Lich strinse l'asta della falce con entrambe le mani, le maniche ricaddero mostrando le ossa delle braccia e dal cielo si ammassarono nuvole che annunciavano una catastrofe. «Te ne do la possibilità, l'unica! Unisciti a noi! Questo mondo non era pensato per gli uomini, gli orchi, gli Hobgoblin o i dannati elfi dell'Est! Insieme noi lo restituiremo ai suoi legittimi padroni e stermineremo coloro che Ere orsono li tradirono per ordine degli stolti dei!»
    Ma Kaleb, davanti a quel bivio non esitò, neanche per un attimo venne tentato dalla promessa di un potere superiore. «KEPPLER! - urlò a pieni polmoni, levandosi dal suolo, con gli occhi che mandavano possenti saette, al pari delle braccia e delle gambe - NON VI È NULLA CHE TU POSSA OFFRIRMI! E TUTTAVIA DI UNA COSA DEVO RINGRAZIARTI! NON FOSSE STATO PER TE, MAI AVREI CONOSCIUTO RUNA E MI SAREI INNAMORATO! TU PARLI DI POTERE... MA IO HO GIÀ TUTTO CIÒ CHE UN UOMO POSSA DESIDERARE: L'AMORE DELLA SUA DONNA! E ORA... SPARISCI DALLA MIA VISTA, DEMONIO!» e con un'esplosione tale che il suo eco giunse flebile sino a Corno del Corvo, scagliò il suo incantesimo. Griswold Keppler si scagliò contro di lui, bruciava di collera e sferrò il più poderoso dei colpi con la sua falce. Dal cielo caddero sfere di fuoco verdi lambite da fiamme colore sangue, ma tale era la passione che alimentava Kaleb che questi riuscì a intessere un incantesimo di straordinaria potenza!
    Una rete di fulmini protesse lui e la sua donna dall'attacco del nemico, saette guizzarono verso il cielo, annullando la caduta dei globi fiammeggianti e in una luce che rischiarò la notte incombente, una spada balenò nella mano di Kaleb, una spada che egli brandì così come poteva essere brandito l'amore, l'amore per la sua donna da una parte e l'odio per il suo nemico dall'altra. Ed egli riuscì in quell'equilibrio a richiamare la spada antica degli Ithiri, una spada che in origine era stata il simbolo della loro grandezza e nella conoscenza che essi gli avevano trasmesso con la magia, Kaleb ne trovò il nome, e quel nome, Kaleb urlò a pieni polmoni. «EXCALIBUR!».
    Così, contro l'incarnazione di un rancore a lungo sepolto ma mai dimenticato del tutto, brillò la lama in oro zecchino, dall'elsa in argento e finemente decorata con fregi e minuziose iscrizioni. I fulmini formarono tutta un'armatura di un acciaio formidabile attorno alla figura di Kaleb e con un fendente tale da tagliare in due il maschio, mandò in mille e uno frammenti la falce del Lich e calò dall'alto, conficcando la punta e la lama tutta nella sua fronte. Le ossa cedettero di schianto, fasci dorati si allargarono dalla ferita fatale, la creatura lanciò un lungo, stridente lamento e con un'esplosione di luce dorata, l'oro degli Ithiri, la sua anima venne annientata, e il male che la teneva insieme dissipato così come il vento della primavera allontanava il gelo dell'inverno.
    La notte riprese il suo posto nel mondo, le stelle e la luna brillarono nuovamente e adagio adagio, l'aurora boreale iniziò a splendere e a danzare. Kaleb vide la sua armatura e la spada sparire davanti ai suoi occhi, e non a torto! Esse erano un qualcosa che rispondevano soltanto alla presenza di ciò che erano state create per combattere... Non se ne sarebbe mai potuto servire per combattere una battaglia che non sarebbe stata quella contro il suo nemico finale, o i suoi diretti seguaci. Excalibur, la spada che fu del re degli Ithiri e, secondo la leggenda, della regina Novgorra e che andò perduta dopo la sua morte. Arrancò fuori dalle rovine e sotto una nuova nevicata, delicata e dolce, vide Runa che avanzava verso di lui, sofferente ma felice. Guardandola, provò una grande pace nel suo cuore e da qualche parte, forse in una città lontana, una bella canzone animò la sala comune di una taverna. Una canzone d'amore che parlava di due anime indomite, legate non tanto dal destino o il volere degli dèi, ma dal coraggio, dall'amore, dalla loro forza di opporsi alle avversità del fato.

    «E adesso?» Kaleb si voltò a guardarla. Era l'alba, e stavano camminando verso sud; Runa si era fascista le ferite con brandelli del proprio mantello e si portava dietro la schiena l'elsa della spada spezzata. Lui si fermò in cima ad una collina, osservando la luce del nuovo giorno irrorare il mondo come una pioggia d'oro e calda, che dava la vita alle cose dopo un lungo sonno, lungo e inquieto. «Hai i poteri di un dio, amore mio... Quale sarà il modo migliore per metterli all'opera?»
    «Keppler ha detto che Redwald fa parte del complotto ai danni di questo mondo, e così il re. Allora io strapperò la Conte al suo Conte e libererò Kellen... fatto questo, muoverò contro Jarden. Dopotutto l'ha scritto lo stesso Keppler» e con un sorriso mostrò la testa del demone caprino che si trascinavano dietro e sorrise, un sorriso astuto, ma allegro, privo di malizia «Si può chiedere un premio a scelta... Io chiederò la Contesa». E Rise, rise e la strinse con un braccio, riprendendo ad avanzare. C'era un conte da uccidere, un principe da salvare, un re da spodestare... E il mondo da salvare. Erano appena usciti da una battaglia e stavano per tuffarsi in una guerra tale che non se ne vedevano di simili da decine di migliaia di anni. Ma Kaleb e Runa si amavano e sarebbe stato a quell'amore che si sarebbero aggrappati, affrontando a testa alta quanto li avrebbe attesi alla fine del sentiero.
    «Ma prima - disse Kaleb - prima di fare tutto questo... Voglio sposarti» e la prese in braccio, ridendo del suo sorriso e la baciò sulle labbra. Che il padrone di Keppler si facesse avanti, aveva dalla sua la mafia più potente che potesse esistere, tale che nemmeno gli dèi potevano contrastarla, e quella magia portava il nome della sua amata e il profumo dei suoi capelli.

   
 
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