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Autore: fiore di pesco    11/01/2024    6 recensioni
In passato, ogni volta che Kim Seh aveva osservato Yiko, aveva avuto la stessa sensazione di trovarsi di fronte ad un sepolcro imbiancato. Una bellissima tomba di alabastro intarsiato. Stupenda a vedersi ma, al suo interno, qualcosa sta marcendo.
Short horror ambientata in Corea del Sud. I capitoli sono brevi, 4 di numero, pubblicazione dal 5 al 14 gennaio.
Genere: Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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, Tre

Yiko aprì gli occhi e lentamente mise a fuoco le mura sporche e a tratti scrostate del vecchio appartamento in cui si trovava. Sarebbero potuti passare cento anni e avrebbe continuato a riconoscere quelle pareti tra mille. Ognuna di quelle crepe e rigonfiamenti nel compensato raccontavano un episodio del suo passato.

Lì, dove il cartongesso mostrava un foro sbocconcellato, suo padre aveva tirato un ombrello contro il capo di sua madre, mancandola di pochi centimetri, per conficcarsi nel muro. Quella volta, le botte che i suoi genitori si erano reciprocamente scambiati erano state tanto plateali che perfino i vicini avevano deciso di intervenire per interrompere la lite.

Era rimasta accovacciata su sé stessa, con le mani sulle orecchie e i gomiti a ripararsi il viso, dentro all’armadio a muro con le ante a persiana dotate di scanalature che non erano in grado di schermare il suono della violenza cui i suoi genitori la rendevano testimone.

Quella volta erano intervenute perfino le forze dell’ordine e suo padre era stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, mentre la madre era stata mandata per tre mesi in una clinica a disintossicarsi. I servizi sociali coreani l’avevano affidata a sua nonna materna per quel lasso di tempo, e quella era stata un’esperienza formativa di enorme importanza per lei.

La nonna faceva l’infermiera presso l’ospedale di Yeongcheon ed era addetta a fare i prelievi e somministrare la chemioterapia e praticare la dialisi. Durante quei mesi, nei giorni in cui non c’era la scuola, andò insieme alla nonna all’ospedale, osservandola lavorare e si era innamorata di quella professione. Avrebbe voluto essere come la nonna, oppure un medico o una laboratorista.

“No, Yiko, tu sei troppo bella per sprecare la tua vita come ho fatto io: sposa un uomo ricco, arriva in alto, dimentica questa vita e sii felice.” Le disse sua nonna il giorno in cui le chiese che scuola avrebbe dovuto fare per fare il suo lavoro.

La sua risposta la aveva ferita, perché in cuor suo sapeva che mai e poi mai avrebbe potuto accettare di vivere sottomessa ad un uomo, non quando…

Il rumore di voci lontane interruppe il flusso dei suoi pensieri.

Il cuore prese a battere velocemente mentre l’inconscio entrava in risonanza con quegli strascichi di conversazioni e le urla ovattate dei litigi tra i suoi genitori. Cercò attonita l’origine di quei suoni con lo sguardo.

Le voci aumentarono d’intensità al punto da evolvere in urla vere e proprie, provenienti a pochi metri o centimetri da lei. Istintivamente indietreggiò verso l’armadio a muro con le ante a persiana dalla vernice scrostata, cercando con le mani la parete alle proprie spalle, fino a toccarla finalmente e a poggiarci contro le scapole, come se fosse tornata bambina e stesse tentando di fuggire ancora una volta a quello spettacolo indegno che adesso non riusciva a vedere, ma solo a sentire.

Un alito freddo soffiò attraverso le fessure dell’anta, muovendole appena una ciocca di capelli come una brezza. Sentì i brividi farsi strada sulle braccia e lentamente si volse verso l’armadio. Un altro rumore si udiva oltre a quelle urla incomprensibili e ovattate.

Le ante dell’armadio presero a vibrare con sempre maggiore intensità e non seppe per quale ragione lo fece, mentre tutto nella sua testa le diceva di scappare, ma in un moto di disperazione aprì l’armadio per affrontare ciò che vi si nascondeva all’interno.

Rimase esterrefatta.

Quella bambina col vestitino azzurro raggomitolata sul fondo del mobile, con le mani sopra alle orecchie e il volto nascosto tra i gomiti e le ginocchia, somigliava incredibilmente nel corpo e nelle movenze alla sé bambina. Non ricordava più il volto che aveva alla sua età, non aveva mai dato grande importanza al suo aspetto da infante, anche perché non si riconosceva affatto in quel viso: per quanto fosse carino, non possedeva ancora il fascino che le occorreva.

Le urla si interruppero bruscamente e un grande silenzio cadde nella stanza, interrotto solo dai singhiozzi della bambina.

“Non temere.” sussurrò inginocchiandosi. “Se ne sono andati, vieni… non c’è più pericolo.”

Porse la mano destra alla fanciulla, come se la stesse porgendo a sé stessa, in un moto di empatia che rare volte aveva sperimentato nella sua vita.

Tentò nuovamente di convincerla con forzata dolcezza. “Non ti succederà niente, andiamo via…”

Gli spasmi della bambina rallentarono e abbassò le braccia che le coprivano il volto, tenendolo ancora coperto alla vista di Yiko. La donna le poggiò cautamente una mano sull’incavo del gomito per aiutarla a tirarsi su, ma quando lo fece la fanciulla mostrò il suo viso completamente privo di connotati.

Un telo di pelle uniforme lo ricopriva.

Lasciò la presa con un urlo, indietreggiando sconvolta.

La bambina si alzò e anche se Yiko non poteva vederne gli occhi, seppe che la stava fissando.

Il senso di oppressione dalle parti dello stomaco si fece più marcato e Yiko comprese che per quanto tutto ciò fosse razionalmente impossibile, era impossibile non provare terrore di fronte a quell’immagine.

In un moto di energia adrenalinica, corse in direzione della porta dell’appartamento, spalancandola con violenza. Un gelo improvviso la fece arrestare, come dimentica che alle sue spalle quella creatura priva di anima la potesse raggiungere.

Una bufera di neve impazzava là dove avrebbe dovuto trovarsi il pianerottolo del condominio. Una distesa bianca sulla quale aleggiavano nubi gonfie e raffiche di vento cariche di nevischio. Gli occhi le dolevano per la forza dell’aria che gli veniva soffiata addosso e d’istinto pensò di tornare dentro. Solo il ricordo di ciò da cui stava fuggendo la fece avanzare di qualche passo, affondando nella neve feroce e rischiando di inciampare.

Guardò alle sue spalle, dove la porta si stava richiudendo, mostrandole la completa assenza delle pareti intorno ad essa. Solo l’uscio chiuso si stagliava nel cuore di quella landa artica, circondato da desolazione e vento implacabile. A stento riuscì a guardarsi attorno e il suo sguardo venne calamitato da una figura distorta dalla foschia.

A meno di venti metri da lei, sua nonna si batteva il petto urlando disperata. Le sue grida a malapena sovrastavano il rumore della bufera. “Perché Yiko, perché?!”

“Yiko, svegliati, Yiko!”

Yiko aprì gli occhi sussultando, stentando a riconoscere il viso di Tiwa, la ragazza che aveva conosciuto al corso di Ikebana poco prima del suo matrimonio con Seung.

“Yiko, come stai? Ti ho sentita urlare dall’altra stanza…” chiese cautamente Tiwa, ritirando la mano che aveva poggiato sulla spalla di Yiko nel tentativo di destarla.

“Io…” farfugliò Yiko, osservando l’ambiente circostante, realizzando solo dopo qualche secondo di trovarsi a sul divano letto a casa di Tiwa, dove si era rifugiata la sera prima, dopo un’intera giornata passata con i detective in casa a metterle sotto sopra la villa in cerca di chissà quale prova. “Sto bene. Ho fatto un brutto sogno.”

“Oh, mi dispiace… hai sognato Seung?” domandò Tiwa con aria innocente, del tutto inconsapevole che la sua domanda sarebbe potuta sembrare indelicata.

Yiko scosse la testa in diniego, decidendo dentro di sé che non avrebbe rivelato cosa aveva sognato.  “Sono ancora turbata per la giornata di ieri… la polizia e tutto il resto.”

“Vuoi parlarmene?”

Tiwa fece intendere di volersi sedere vicino a lei e Yiko spostò le gambe dal divano, mettendosi seduta. “Si sono presentati alla mia porta che non erano ancora le nove del mattino, con quella Kim Seh. Hanno rovesciato cassetti, frugato ovunque, preso le registrazioni delle telecamere esterne… lo studio di Seung è stato ribaltato e hanno preso campioni di ogni spezia o medicina presente in bagno e cucina. Non hanno risparmiato nemmeno la cantina con i vini.”

“Che stronza, quella Kim Seh!” Tiwa corrucciò il viso a fatica, sfidando le leggi non scritte del botulino, agitando l’indice di fronte a sé. “Le donne delle pulizie avranno il loro bel da fare. Per fortuna che adesso possiedi ogni cosa, quella donna si pentirà di averti infastidita.”

Yiko la osservò in silenzio, riflettendo su quanto Tiwa potesse essere ingenua, senza che niente potesse però filtrare dalla sua espressione. “Se la polizia è venuta a casa mia vuol dire che il caso non è ancora concluso e finché non sarò considerata del tutto innocente, non potrò ereditare nulla.”

“Beh, ma tu sei innocente. Dovrai solo attendere qualche giorno e le cose si sistemeranno. Nel frattempo puoi restare qui per tutto il tempo che vuoi.” Le sorrise giuliva Tiwa.

“Certo, sono innocente. Non avrei mai fatto del male a mio marito, ci amavamo molto.” Yiko abbassò lo sguardo sul tappeto consunto che Tiwa aveva messo nel suo salotto e frenò un’espressione di fastidio alla vista di uno degli angoli leggermente sfilacciato. “Non mi tratterrò, grazie per avermi ospitata questa notte. Ora vorrei andare a fare un giro alla centrale di polizia, per mettere in chiaro due cose.”

 

“Signora Baesin-Nungwa, buongiorno.” La accolse gentilmente nel suo studio il capitano della polizia. “A cosa dobbiamo la sua presenza qui?”

Yiko si accomodò leggiadra sulla poltroncina di fronte alla scrivania del capitano, rispondendo educatamente al saluto. “Ieri mattina i suoi uomini sono giunti a casa mia alle prime ore del giorno e hanno messo a soqquadro il mio appartamento, senza rivelarmi cosa stessero cercando né le reali ragioni dietro a questo spiacevole evento.”

“Capisco, durante una perquisizione non vi è obbligo di spiegare cosa si stia cercando, altrimenti verrebbe lesa la discrezione dell’indagine, però vorrei farle le mie scuse per i modi in cui è stata trattata.” Il capitano si mosse incerto sulla sedia, valutando se fosse il caso di umiliarsi con un piccolo inchino del capo, per manifestare maggiore pentimento. “Niente di personale, ce lo impone la nostra professione.”

“Dunque avete trovato qualcosa che possa giustificare la morte prematura di mio marito?” chiese Yiko, contrita.

“No, Signora. Non è stato trovato nulla di attendibile. Domani stesso chiuderemo il caso e lei potrà accettare l’eredità di suo marito e diventare legittima proprietaria di tutti i beni.”

Dopo qualche altra chiacchiera di circostanza per rabbonirla, Yiko lasciò lo studio e il capitano rimase solo alla sua scrivania, massaggiandosi la fronte con una mano, prima di mettere mano all’interfono. “Per cortesia, mandatemi l’ispettore Park.”

Ci volle meno di un minuto prima che Park facesse capolino dalla porta dell’ufficio del capitano. “Mi ha chiamato, Signore?”

Il capitano gli fece cenno di sedersi e lui ubbidì rigidamente, preparandosi mentalmente ad un rimprovero. Le voci alla centrale correvano veloci: Yiko Baesin era venuta a fare una visita di cortesia, qualsiasi cosa ciò volesse dire.

“Park, tra pochi giorni la Signora Baesin-Nungwa sarà la legittima erede del 60% dei beni della famiglia Nungwa. Sai cosa vuol dire?”

Che ci terrà per le palle… pensò Park, deglutendo a vuoto. “Non le abbiamo mancato di rispetto, Signore, abbiamo fatto solo il nostro lavoro.”

“Se dovesse farci causa e sguinzagliare una decina di avvocati alle nostre calcagna, riterrò te e la consulente Kim Seh Nungwa direttamente responsabili dell’eccesso di zelo e verrete immediatamente licenziati, vi è chiaro il concetto?”

 

Era sera inoltrata e il buio era calato sull’appartamento in periferia di Kim Seh, che accese la sigaretta sul balcone della sua stanza, inspirando con urgenza nel tentativo di esorcizzare l’ansia che si era portata appresso per tutto il pomeriggio dopo che il suo collega, l’ispettore Park, l’aveva messa in guardia sulla reale minaccia che rappresentava una persona come Yiko Baesin.

Non avevano trovato nulla in casa di suo fratello Seung, tutto era esattamente come aveva descritto Yiko nella deposizione la mattina della morte di suo fratello, dieci giorni prima. Non c’erano segni di colluttazione, tracce di sangue, sostanze pericolose, veleni o oggetti che suggerissero un uso erroneo degli stessi. La casa era piena di loro fotografie e i tabulati telefonici non lasciavano sospettare che non si trattasse di una coppia innamorata. Avevano trovato una fotografia del loro matrimonio distrutta sul pavimento dello studio di Seung, ma uno dei detective aveva dimostrato che si fosse staccata dal muro perché il gancetto non aveva sostenuto il peso della cornice. Niente che sottolineasse una rottura volontaria, al massimo una tendenza risparmiatrice ridicola per una persona dalla prestanza finanziaria di suo fratello.

Il cellulare le vibrò in tasca, ma non volle controllare: era certa che si trattasse di quell’idiota dell’altro fratello, Jung Ji. L’aveva trovato la mattina dell’ispezione sul divano della cognata, ancora stordito dalla sbronza potenzialmente letale che si era preso il giorno del funerale di Seung.

Cretino irresponsabile… pensò caustica, tentando di ignorare il ricordo dell’ansia che l’aveva colta quando entrando in salotto l’aveva visto esanime sul divano. Per un attimo aveva temuto che fosse morto anche lui, e aveva sentito il sangue tornare caldo solo quando l’aveva scosso e quell’imbecille si era svegliato bofonchiando. Non gli aveva mostrato i suoi timori, preferendo invece che vedesse quanto fosse furiosa per la circostanza disonorevole in cui l’aveva beccato.

“Non dirlo a mamma e papà!” aveva biascicato lui tirandosi su, infermo sulle gambe.

Da allora le scriveva incessantemente, preoccupato che lei o qualcuno dei suoi colleghi alla centrale potessero rivelare dove aveva trascorso la notte. Come se a qualcuno degli uomini di Park potesse fregare di rischiare la carriera tradendo il segreto professionale solo per raccontare di aver visto un ubriaco a casa del fratello morto in compagnia della cognata vedova. Ci hai preso per donnicciole pettegole, Jung Ji?!

Fece un altro tiro nervoso, appoggiandosi con i gomiti alla balaustra e osservando il giardino muto sotto di sé. Era davvero molto silenzioso, quella sera. Non si udivano nemmeno gli insetti notturni… colpa dell’inquinamento? Nessuna lucciola, né pipistrelli o falene. Effettivamente, adesso che si stava calmando grazie alla nicotina, si rese conto che faceva freddo per essere una tiepida serata di maggio.

La vibrazione del cellulare mutò e capì che qualcuno le stava telefonando. Prese un’altra boccata di fumo mentre sfilava il cellulare dalla tasca e accettava la videochiamata di sua madre.

“Kim, stai bene?” chiese Lao Mei, contrita in quella che Kim Seh comprese essere la sua camera da letto.

“Sì, mamma. Tu?” disse nascondendo la sigaretta nella mano sinistra dall’obbiettivo, ma venne tradita da uno sbuffo di fumo che uscì dalla sua bocca quando parlò.

“Stai fumando?” chiese contrariata Lao Mei.

“Ti prego mamma… non è giornata.” Rispose Kim Seh abbassando lo sguardo.

Lao Mei strinse le labbra fissando il volto della figlia. “Kim, oggi è il secondo giorno dal funerale di tuo fratello.”

“Lo so.” Rispose Kim Seh, infastidita dall’argomento, domandosi come mai la madre avesse deciso di ricordarglielo.

“So che per tutto questo tempo hai investigato sulla morte di Seung, per questo ti chiedo: sei giunta ad una conclusione? Ritieni che la giustizia terrena possa fare qualcosa per fermare il suo assassino?”

Kim Seh deglutì, tentando di non apparire troppo delusa di fronte a sua madre, l’unica che in segreto le aveva detto di sostenerla e di crederle oltre all’ispettore Park. “No, mamma. Non ho trovato nulla, il tempo scorre veloce e ci è nemico. Ho giocato tutte le mie carte… non… non credo di poter fare più di questo.”

“Va bene, non ti preoccupare.” Dall’alta definizione del suo cellulare Kim Seh poté vedere come gli occhi della madre stessero diventando lucidi. “Confido che giustizia sarà fatta. Buonanotte.”

Lao Mei chiuse la chiamata e Kim Seh tenne in mano lo smartphone, che rimase luminoso per qualche secondo mentre tentava di fare l’ultimo tiro alla sigaretta che aveva ancora in mano.

Fu quando lo schermo divenne scuro che Kim Seh si paralizzò tenendo gli occhi fissi su di esso, la sigaretta ancora accostata alle labbra, il cui fumo risalì dal suo apice fino al suo occhio sinistro, facendolo bruciare terribilmente. Ma lo shock di aver visto il viso di suo fratello Seung riflesso sullo schermo scuro del cellulare, dietro alla propria spalla destra, non era stato un abbaglio di una frazione di secondo.

Kim Seh stette immobile, dimenticandosi di respirare per degli attimi che le parvero ore, guardando gli occhi scavati e dai bagliori rossi di suo fratello che si riflettevano sul vetro che stringeva in mano.

Per voltarsi fece appello ad un coraggio che non credeva di avere.

Dietro di lei non c’era nessuno.

  
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