Cap. 25: Soldier
Afraid of
what they might lose
Might get scraped or they might get bruised.
You could beg and what's the use
That's why it's called the moment of truth
I'd get it if you need it,
I'll search if you don't see it,
You're thirsty, I'll be rain,
You get hurt, I'll take your pain.
I know you don't believe it,
But I said it and I still mean it,
When you heard what I told you,
When you get worried I'll be your soldier.
(“Soldier” – Gavin Degraw)
Eh, sì, finalmente i
desideri di Mellish e dei suoi compagni stavano per realizzarsi, come nelle
favole più belle tutto stava per finire bene dopo tante sofferenze e ostacoli,
i cattivi venivano puniti, i buoni
premiati e il finale era lieto come nei film… o perlomeno la parte che i
soldatini potevano vedere e conoscere (loro non sapevano niente dei progetti
sull’atomica, di Oppenheimer e di quello che sarebbe avvenuto a Hiroshima e
Nagasaki, erano solo ragazzi che stavano per tornare a casa).
Il 18 aprile, mentre
l’Armata Rossa proseguiva la sua avanzata nel cuore di Berlino, la Compagnia
Charlie raggiunse Versailles e Mellish, ormai guarito sebbene ancora un po’
debole, poté finalmente riabbracciare i suoi amici e il suo Capitano.
“Saltzmann mi ha
detto che sei stato malato e si vede, sei ancora pallido e hai dei cerchi scuri
sotto gli occhi” disse Wade, scrutandolo con fare professionale.
“Ora sto bene, Wade,
non preoccuparti, Josef si è occupato di me per tutto il tempo” rispose il
giovane.
“Non ne dubito”
replicò l’ufficiale medico con un sorrisetto, “ma per stare sul sicuro voglio
che tu venga subito con me in infermeria e ti farò una visita completa. Ormai
la data della partenza per l’America è veramente fissata e non vorrei proprio
che dovessimo rimandare ancora perché tu ti sei ammalato!”
Wade, in realtà, era
preoccupato per le conseguenze che quella malattia, seppure innocua e dovuta
solo a stress e stanchezza, potesse aver avuto sul cuore del ragazzo, ma non
poteva certo dirglielo, Mellish ancora non accettava di essere stato davvero
ferito dalla baionetta. Chissà se, una volta tornato a casa, al sicuro, sarebbe
riuscito ad affrontare quei suoi demoni?
La visita dimostrò
che andava tutto bene, Mellish era solo indebolito a causa dei giorni di febbre
e il cuore non ne aveva risentito più di tanto. Wade, tuttavia, sapeva che
queste cose potevano rimanere silenti per anni e poi venire fuori all’improvviso
e si ripromise di continuare a tenere l’amico sotto controllo, anche grazie
alle premure di Saltzmann che gli sarebbe rimasto sempre accanto e si sarebbe
occupato di lui.
In tanta frenesia,
gioia ed emozione era arrivata però una notizia che aveva colpito i cuori dei
soldati e dei loro superiori, oltre a preoccuparli per le conseguenze
possibili: il Presidente americano Franklin Delano Roosevelt era morto il 12
aprile del 1945 all’improvviso, per un’emorragia cerebrale dovuta probabilmente
alle sue precarie condizioni di salute e alla tensione di tre anni e mezzo di
guerra. Era stato uno dei più importanti presidenti degli Stati Uniti, tanto da
essere rieletto per quattro volte consecutive; aveva migliorato le condizioni
economiche del Paese con leggi e riforme che avevano dato lavoro a tanta gente
e sconfitto la Grande Depressione (il famoso New Deal) e, anche dopo che gli Stati Uniti erano entrati in
guerra, aveva sempre dato prova di ottimismo, calma e capacità di giudizio, il
suo ruolo era stato determinante per la conduzione politico-strategica della
guerra e il consolidamento dell’alleanza con il Regno Unito di Churchill e l’Unione
Sovietica di Stalin. La sua perdita lasciò un senso di vuoto nei soldati, anche
se nessuno di loro lo aveva mai incontrato personalmente, ma in un certo senso
fu come perdere un punto di riferimento importante.
“Il Presidente è
morto prima di vedere la vittoria degli Alleati” mormorò tristemente Mellish,
come al solito uno dei più sensibili, quando ricevette la notizia.
C’era però anche un
altro motivo di preoccupazione per la Compagnia Charlie: il successore di
Roosevelt era il suo vice, Harry Truman, un uomo dal carattere inflessibile e
puntiglioso che non aveva niente in comune con i modi concilianti e aperti di
Roosevelt* e qualcuno, tra cui anche
lo stesso Capitano Miller, temeva che avrebbe potuto ordinare che i soldati
venissero rimpatriati tutti insieme dopo
la fine della guerra, senza alcuna considerazione per ciò che era stato deciso
nei confronti di Ryan e della sua Compagnia. Miller non conosceva affatto il
nuovo Presidente e d’istinto diffidava, tanto era in ansia per la sua squadra e
desideroso di riportare finalmente a casa i suoi soldatini sani e salvi. In
realtà era anche preoccupato per Saltzmann e si chiedeva se questo nuovo
Presidente avrebbe accolto con la stessa disponibilità la richiesta di asilo di
un prigioniero tedesco…
Per fortuna,
comunque, Truman non volle contrastare una decisione che era stata presa mesi
prima dallo stesso Roosevelt e lasciò che Ryan e gli altri della Compagnia
Charlie potessero finalmente imbarcarsi per tornare in patria.
Il giorno tanto
atteso per la partenza arrivò: il 28 aprile del 1945 James Ryan e i soldati
della Compagnia Charlie, insieme al prigioniero
(per modo di dire) Josef Saltzmann, vennero fatti imbarcare a Calais sulla
nave che li avrebbe condotti al porto di Southampton. Il viaggio durò quattro
giorni e, una volta a Southampton, il gruppo poté infine imbarcarsi sulla nave Queen Mary che lo avrebbe portato a New
York.
Lo stato d’animo dei
soldati, dei superiori e di Saltzmann era diverso e questo poteva anche
stupire, ma in realtà il tanto atteso rimpatrio era anche l’occasione, per
alcuni, di ripensamenti, dubbi e paure. Miller e Horvath non avevano
preoccupazioni né timori ed erano semplicemente sollevati, sia perché stavano
tornando a casa, lontani da quella guerra in cui avevano visto e fatto tante
cose che non avrebbero voluto, sia perché adesso sapevano che i loro uomini
sarebbero stati al sicuro, cosa che, per loro, era parte della missione. La
guerra stava per finire, Berlino era stata invasa dalle truppe sovietiche, i
tedeschi erano allo sbando e Hitler si era suicidato nel suo bunker il 30 aprile, proprio mentre
Miller e i suoi stavano viaggiando verso Southampton (notizia che provocò
brindisi e festeggiamenti tra i giovani soldati e anche una grande
soddisfazione per Josef Saltzmann!); la Germania avrebbe firmato la resa
incondizionata qualche giorno dopo e solo il Giappone continuava ancora a
resistere, ma con pochi mezzi e uomini, le forze Alleate ce l’avrebbero fatta
anche senza il loro contributo. Miller e Horvath avevano perduto fin troppi
ragazzi e soffrivano per ognuno di loro, ma il pensiero che almeno Reiben,
Upham, Wade, Jackson e Mellish (oltre, ovviamente, a Ryan) erano su quella nave
e sarebbero tornati a casa risollevava il loro spirito. Wade aveva trovato il
modo di rendersi utile anche durante la traversata e, infatti, trascorreva la
maggior parte del suo tempo nell’infermeria della nave, assistendo e curando i
soldati feriti che venivano rimpatriati perché non più in grado di combattere.
Alcuni di loro, purtroppo, erano veramente in condizioni pietose e non
sarebbero mai più tornati quelli di un tempo…
Durante il terzo
giorno di navigazione sulla Queen Mary,
Miller si trovò ad assistere ad una conversazione molto interessante tra i
giovani che si erano radunati sul ponte e avevano iniziato a parlare di quello
che avrebbero fatto una volta tornati a casa e dei loro progetti per il futuro.
“Io ho deciso di non
tornare a San Diego” dichiarò Wade. “Ovviamente passerò da casa per salutare la
mia famiglia, ma poi non resterò con loro. Voglio cercare di farmi accettare al
Mount Sinai Hospital di New York, è un ospedale didattico all’avanguardia per
almeno dodici specialità mediche ed è questo che voglio fare, essere un vero
dottore, aiutare la gente.”
Evidentemente, le
atrocità viste in guerra e le condizioni di tanti soldati rimasti mutilati o
sfigurati avevano avuto il loro peso nella decisione del sensibile Wade e i
suoi compagni, che lo conoscevano bene, annuirono in silenzio.
“Anch’io stavo
pensando di non tornare a vivere con la mia famiglia” intervenne a sorpresa
Upham. “Cioè, insomma, voglio dire… comunque sia, i primi tempi dovrò comunque
rimanere a New York per aiutare Saltzmann a ottenere asilo politico e poi, se
davvero voglio diventare uno scrittore, penso che sia più facile ottenere una
certa visibilità vivendo a New York piuttosto che a Boston.”
“Penso che sia una
buona idea, caporale. Anzi, sai cosa ti dico? Potremmo anche cercare un
appartamento insieme, così ci divideremo le spese e ci aiuteremo. Che ne dici?”
propose Wade.
Upham accettò con
entusiasmo, al che Mellish iniziò a protestare.
“Ah, ecco, fate gli
accordi tra di voi, e allora noialtri? Anche a me piacerebbe abitare a New York
invece che con la mia famiglia, e stare vicino a voi. Ormai ne abbiamo passate
tante insieme e non riesco a pensare di riprendere la vita che facevo prima… o
di non rivedervi più.”
“Mellish, ma tu non
hai di questi problemi. Non te ne vai forse a convivere con il tuo innamorato tedesco?” rise Reiben. “Potete
trovare anche voi un nido d’amore a
New York, magari accanto all’appartamento di Upham e Wade, visto che comunque
il caporale deve occuparsi anche lui di Saltzmann!”
“Infatti, io e Stan
convivere a New York, noi in nido d’amore insieme” esclamò tutto contento
Josef. “E a me piace vivere accanto a Upham e amico dottore!”
“Hai visto? È già
tutto sistemato!” riprese Reiben.
“Io non parlavo di
queste scemenze, dicevo solo che sarebbe bello trovare il modo di continuare ad
abitare vicini, visto che ormai siamo legati tra noi più che alle nostre stesse
famiglie” tagliò corto Mellish, con un’occhiataccia al fin troppo entusiasta
Saltzmann.
“Anche a me
piacerebbe cambiare vita, ma sicuramente non potrò farlo almeno per qualche
anno” intervenne Ryan. “Ora che i miei fratelli non ci sono più, a mia madre
resto solo io e non posso e non voglio abbandonarla. Dovremo decidere insieme
cosa fare della fattoria, che è ormai troppo grande per noi, ma non penso che
lei sarà disposta a trasferirsi in una città come New York, è nata e cresciuta
a Mansfield in Iowa e vorrà restare nei luoghi che le ricordano momenti più
felici, dove sente vicini mio padre e i miei fratelli. In fondo… beh, anche per
me è così. Venderemo la fattoria e ne acquisteremo una più piccola e poi,
chissà? Magari incontrerò una brava ragazza e metterò su famiglia, la mamma
sarebbe felice di avere dei nipotini.”
“Sei davvero un bravo
ragazzo, Ryan” commento Reiben, in tono sarcastico, ma era il suo modo di
ostentare cinismo perché, in realtà, aveva trovato molto saggia e generosa la
decisione del commilitone. Era semplice, sì, ma non era il bifolco che aveva
temuto di incontrare! “Mi sa proprio che, alla fine, la missione di salvarti e
riportarti a casa è stata davvero la cosa migliore che potessimo fare in quella
dannata guerra.”
Mellish e gli altri
annuirono con convinzione, Jackson però volle dire la sua.
“Sì, Ryan ha preso la
decisione giusta e farà certamente qualcosa di buono nella sua vita, fosse
anche solo creare una famiglia e occuparsi della madre, della futura moglie e
di una bella nidiata di bambini” disse. “Invece io non ho intenzione di seguire
il suo esempio. Certo, come Wade, anch’io tornerò a Hickory Valley, in Tennessee, per salutare
la mia famiglia, ma io non sono destinato a vivere in una fattoria e la mia
famiglia non ha bisogno di me, ho già altri due fratelli. La mia abilità come
cecchino in guerra mi ha fatto capire che cosa davvero Dio vuole da me e perché
mi ha donato questo talento e io non intendo sprecarlo: verrò anch’io a vivere
a New York e cercherò di entrare nell’Accademia del New York Police Department.”
“Vuoi fare il
poliziotto? Beh, devo dire che ti ci vedo bene” commentò Mellish. “E
sicuramente sarai sempre il primo classificato al poligono di tiro!”
Tutti risero, ma
Jackson era serio. Evidentemente aveva riflettuto molto sul suo futuro e,
religioso com’era, aveva pensato che la sua bravura nello sparare fosse una
capacità che Dio gli aveva dato affinché proteggesse la brava gente e
catturasse i criminali.
“Quindi ci
ritroveremo quasi tutti a vivere a New York” esclamò Mellish, felice. “Potremmo
davvero aiutarci a vicenda e affittare un paio di appartamenti per stare
insieme e dividere le spese. Ve l’ho detto, ormai siete voi la mia famiglia e
io… io non avrei sopportato di separarmi da voi!”
A quel punto il
Capitano Miller decise di intervenire.
“Non volevo origliare
i vostri discorsi, ma ho sentito qualcosa e mi sono fermato ad ascoltarvi
perché mi avete veramente commosso” ammise. “Vi ho conosciuti come ragazzini,
poco più che adolescenti, a parte Wade, un po’ sbruffoni e superficiali, ma ora
vi sento parlare da veri uomini che sanno fare le scelte giuste e indirizzare
la loro vita per il bene di tutti. Sono molto orgoglioso di voi e proprio per
questo voglio aiutarvi: resterò per qualche tempo insieme a voi a New York per
appoggiarvi e consigliarvi e tornerò dalla mia famiglia solo quando sarò sicuro
che tutti voi avete una casa e un lavoro. Il mio sostegno servirà sia a
Saltzmann per ottenere presto asilo politico, sia per Jackson per essere
ammesso all’Accademia di Polizia e, magari, un aiuto farà comodo anche a
qualcun altro…”
Miller pensava
principalmente alla famiglia di Mellish, che di sicuro non avrebbe visto di
buon occhio il fatto che il ragazzo andasse a vivere a New York con gli amici e
un tedesco, anche se era stato
proprio quell’uomo a salvargli la vita! Avrebbe dovuto parlare lui con i suoi
genitori e immaginava che non sarebbe stato affatto facile.
“Ma… signore, non è
giusto, lei ha già fatto tanto per noi, la sua famiglia la aspetta” disse
Upham.
“Ho scritto a mia
moglie nei giorni scorsi e lei è d’accordo con me” rispose il Capitano. “La mia
missione con voi non è ancora finita: vi sto riportando sani e salvi in
America, ma voglio anche darvi le basi per un futuro pieno e felice. Siete
comunque i miei ragazzi, lo sarete sempre.”
“Insomma non c’è
proprio modo di liberarci di lei, eh, signore?” scherzò Reiben, ma aveva la
voce strana e gli occhi lucidi.
Mellish era
apertamente commosso.
“Grazie, signore, io…
io ho sempre pensato che avrei voluto che mio padre fosse come lei e adesso…
adesso…” gli si spezzò la voce e non riuscì a continuare. Saltzmann gli
circondò le spalle con un braccio e lo strinse a sé, con uno sguardo di intesa
e un sorriso di gratitudine verso Miller.
Il futuro sembrava
davvero ormai a portata di mano per la Compagnia Charlie, Ryan e Josef: il
peggio era passato e ora restava da costruire una vita nuova, basata sull’amicizia
e la solidarietà.
Fine capitolo venticinquesimo
* Non so abbastanza di Storia Americana per dare giudizi
veri e propri sui due Presidenti, mi baso su notizie che ho preso su libri ed
enciclopedie e, devo ammettere, anche sulla naturale antipatia che ho avuto
verso Truman guardando il film Oppenheimer!
Tuttavia da diverse fonti è venuto fuori che Franklin D. Roosevelt è
considerato tuttora uno dei migliori Presidenti USA, mentre Truman viene
ricordato, oltre che per la decisione di usare la bomba atomica (decisione che,
si dice, il Generale Eisenhower non avrebbe affatto condiviso), principalmente
per la sua diffidenza e chiusura verso l’Unione Sovietica che provocò l’inizio
della Guerra Fredda e un clima da caccia
alle streghe negli USA per il continuo sospetto di infiltrati comunisti.