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Autore: Shadow writer    19/01/2024    1 recensioni
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui».
In un diario dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa.
Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la caviglia. Quella sera era ancora il mio salvatore.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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PARTE 3
BUDAPEST
 

Capitolo 13. Le feste d'inverno

Nel mio diario – con la copertina lilla in finto velluto, quello con il Colosseo era ormai finito – l’estate di quell’anno è raccontata con brevi appunti di poche righe. Rimasi a Milano fino alla fine di luglio per gli esami e trascorsi tutto il mio tempo curva sui manuali. Il caldo in città mi soffocava, quando camminavo in strada sentivo le piante dei piedi incollate al suolo e faticavo a muovermi in un mondo che pareva precipitato in un forno rovente. Sentivo perennemente la necessità di acqua e il desiderio di nuotare. 
Ricominciai a scrivere con regolarità solo alla fine del semestre successivo.
“Non so se ho passato l’esame di linguistica, ma oggi è sicuramente stata una bellissima giornata” esordiva la pagina del 22 dicembre. Ricordo ancora nitidamente quel giorno. Il preappello di linguistica era stato il mio primo esame da quando mi ero trasferita, avevo cominciato a studiarlo a novembre, tra una lezione e l’altra perché mi avevamo detto che il professore era molto puntiglioso e molto rapido nel sottrarre i punti. 
Una volta consegnato il mio foglio, trovai alcuni compagni di corso fuori dall’aula e mi chiesero se volessi andare a fare aperitivo insieme a loro. Erano le undici di mattina, l’aria era fredda e illuminata da un pallido sole invernale. La città era decorata dagli addobbi natalizi, così scie lucenti scorrevano da un palazzo all’altro mentre enormi fiocchi di neve pendevano sopra alle nostre teste mentre camminavamo verso la piazza del duomo. 
«Com’è andata?» mi si affiancò Eleonora, una ragazza del mio anno che mi aveva presa in simpatia. All’epoca portava i capelli lisci lunghi fino alle spalle e tinti di un castano ramato. Aveva frequentato il liceo in città e quindi si muoveva con disinvoltura tra quelle vie che mi erano sconosciute o tra quei volti poco familiari.
Le dissi che domande mi erano capitate e come avevo risposto.
«Cazzo, anche io avevo l’anafonesi ma non me la ricordavo».
«Non ci pensare, tanto impiegherà una vita a correggerli».
In piazza duomo un cameriere ci fece sedere all’aperto intorno a una stufetta. Le piccole lingue di fuoco guizzavano all’interno di una gabbia metallica. Mi sembrava di essere in un film di Natale, in quella piazza ampia e scenografica, dominata dal marmo della chiesa e della fontana spenta. Intorno a me c’era un gruppo vociante di studenti universitari, l’adrenalina per l’esame ancora mi scorreva in circolo. 
«Hai deciso per Capodanno?» mi domandò Eleonora mentre ci servivano i nostri drink.
«Sì, vado a Trento da una mia amica».
«Ginevra, giusto?»
Sorrisi. «Esatto, e tu?»
Lei scrollò le spalle. «Probabilmente io e Andrea andremo in montagna con una coppia di suoi amici».
«Wow, sembra bello».
Mi guardò attraverso le lenti dei suoi occhiali. «Speriamo».
L’aperitivo durò oltre due ore. Ci portarono così tante cose da mangiare che alla fine divenne un pranzo. Prima di andarmene, salutai Eleonora con un abbraccio.
«Fammi sapere se vieni sul lago durante le vacanze» le dissi.
«Certo».
Mentre camminavo verso la fermata avevo la pancia piena e la testa leggera.
Trascorsi in casa con i miei genitori i giorni che precedevano Natale. Andai a fare la spesa, aiutai mia mamma o mia nonna a cucinare e andai a trovare mio fratello. Fuori dal suo capanno faceva ancora più freddo che a casa mia e dovetti stringermi nella giacca per non congelare. Stefano aveva appeso delle lucine sulla mansarda che fungeva da camera da letto e tutto l’ambiente era illuminato da fasci a colori alterni. All’interno l’ambiente era riscaldato da una piccola stufa a legna ed era così piccolo e caldo che faceva passare ogni desiderio di tornare fuori nell’aria ghiacciata. 
«È il tuo secondo inverno qui» commentai, comoda sul piccolo divano. 
Lui sedeva su una poltrona di fronte a me. Aveva accorciato la barba, ma i capelli erano ancora abbastanza lunghi da poterli legare. «Già e quest’anno spero che l’acqua calda funzioni meglio. Ne ho abbastanza di docce fredde».
«Stai diventando vecchio».
Mi guardò storto, poi sorrise. «Temo sia inevitabile».
«Mi ha detto la mamma che vieni al pranzo di Santo Stefano dai nonni»
«Non mi ha lasciato molta scelta»
Lo guardai mentre si grattava la barba e fissava fuori dalla finestra con i suoi occhi chiari.
Qualche giorno più tardi, toccò a me: mia mamma mi costrinse ad accompagnare i suoi genitori alla messa della vigilia perché mio nonno aveva dolori a un piede e mia nonna non si fidava a guidare così tardi, dato che normalmente alle nove già dormiva. Quando arrivai a casa loro, scoprii che era stato ingaggiato anche Riccardo e quindi la mia presenza era solo accessoria, così fui relegata suoi sedili posteriori insieme alla nonna che mi interrogò per tutto il viaggio su come andava all’università.
«È importante studiare» sentenziò poi rivolgendosi anche a mio cugino.
«Ma tu cos’è che puoi fare dopo?» chiese mio nonno, seduto davanti a me. Sapevo che Riccardo stava trattenendo una risata, perché era la ventesima volta che mi rivolgeva quella domanda. Se Medicina gli era chiara come facoltà, Lettere pareva continuamente sfuggirgli.
«Posso insegnare» risposi. «O anche altro, lavorare in ufficio o scrivere».
Mi rispose una risata grassa, quella che precede una battuta. «Anche io posso scrivere, ma non ho neanche finito le scuole medie».
La nonna sbuffò. «Ah, lascialo perdere. Infatti, sa scrivere solo in dialetto, neanche in italiano».
Mio nonno era troppo sordo per sentirla e non replicò.
La chiesa era gremita di persone, Riccardo ci lasciò vicino all’entrata, poi andò a cercare parcheggio. Riuscii a trovare un posto per i miei nonni nella quartultima fila e la nonna schioccò la lingua e borbottò: «Lo avevo detto che partire alle undici e quindici era troppo tardi».
Io rimasi in piedi accanto all’altare laterale e poco dopo ci raggiunse anche Riccardo.
«La nonna soffre perché da qui non può farsi vedere da tutti» gli bisbigliai piegandomi verso di lui.
Soffocò una risata. «Ci farà rimanere per tutto il rinfresco per compensare».
La sua previsione si rivelò azzeccata. I nonni si trattennero a chiacchierare con chiunque capitasse vicino a loro dopo la messa. Erano soprattutto coetanei o figli di coscritti, che si fermavano per scambiare gli auguri e aggiornarsi rispetto all’ultima volta che si erano visti. La nonna era sempre stata un membro attivo della parrocchia e i dolori della vecchiaia la angosciavano soprattutto perché non poteva partecipare così attivamente come una volta. Il suo ambiente ideale era la folla che segue a una messa, in cui si muoveva come un’ape regina tra le sue affaccendate operaie. Conosceva le giuste parole, le giuste reazioni per ogni situazione. Una donna diceva che il figlio era ancora in un brutto momento, e allora lei teneva una mano sul petto e piegava le labbra verso il basso, con le sopracciglia tese nel dolore che condivideva con la donna. Un signore mostrava la foto del nipote neonato e mia nonna allargava gli occhi, il viso rugoso si distendeva e la sua bocca pronunciava qualche parola di speranza per il futuro.
«Vado a prendere da mangiare, vuoi qualcosa?» chiesi a Riccardo.
«E mi lasci qui da solo?».
«Sopravviverai» gli sorrisi.
«Portami del pandoro allora».
«Sarà fatto».
Mi allontanai da loro nella folla radunata fuori dalla chiesa e mi misi in coda per il tè caldo perché stavo cominciando a perdere sensibilità alle mani. Avevo dimenticato i guanti e la temperatura era ormai vicina allo zero. Il respiro mi si condensava davanti agli occhi e poi spariva verso il cielo nero.
«Ciao Margherita, buon Natale» mi salutò la mia vecchia catechista, che stava servendo il tè dal grosso pentolone. «Un bicchiere?»
Annuii, ma una voce maschile aggiunse: «Fai due, grazie».
Il cuore mi precipitò nello stomaco quando riconobbi chi aveva parlato. Al mio fianco era comparso Sam. Portava un elegante cappotto scuro e dal colletto spuntava un dolcevita grigio di lana spessa.
«Quando sei tornato?» chiesi mentre un formicolio mi partiva dal petto e raggiungeva la punta delle mie dita.
«Due giorni fa e i miei mi hanno costretto a venire stasera» mi indicò con un cenno del capo la sua famiglia poco distante. Per la prima volta mi resi conto che suo padre, con quei capelli scuri che andavano ingrigendosi e l’aria severa, non gli assomigliava poi così tanto, mentre aveva preso da sua madre i lineamenti dolci e la chioma castano chiaro. Tra di loro stava sua sorella, piccola e sottile, con i lisci capelli scuri che le arrivavano a metà schiena.
Ci allontanammo dalla fila con i bicchieri di tè tra le mani.
«Come stai?» chiese.
«Bene, molto» risposi con sincerità. Faticavo ad articolare una frase più complessa perché tutte le mie facoltà mentali erano impegnate nello studio attento e puntiglioso del suo viso. Le occhiaie leggere sotto gli occhi, il dente scheggiato, le ciglia dalle punte chiare. «E tu? Come va a Budapest?»
Mi raccontò per un po’ della sua vita all’estero. Viveva in un appartamento con altri ragazzi, ma molti se ne sarebbero andati tra gennaio e febbraio.
«Potresti venire a trovarmi» disse e allungò un braccio, sfiorandomi leggermente con il gomito. «Prima che si riempia di nuovo. I voli non costano niente e abbiamo un divano letto nel salotto, quindi potrei ospitarti».
Annuii, con il cuore in gola e lo ringraziai. Per qualche secondo immaginai come sarebbe stato bello, io e lui nella stessa casa lontani da tutti quelli che conoscevamo, con una città da esplorare. L’irrealizzabilità di quel sogno mi faceva più male che bene, così cercai di scacciarlo in fretta dalla mia mente, anche se nei giorni successivi ci sarei ritornata diverse volte, involontariamente, prima di andare a dormire. Avrei immaginato il suo appartamento a Budapest, immaginavo dirgli “Buonanotte” e guardarlo sparire oltre la porta della sua camera e poi dirgli “Buongiorno” quando lo avrei visto uscire la mattina successiva, ancora assonnato e con pigiama stropicciato. Immaginavo sedere in un bar con lui, solo con noi due, e potergli toccare un braccio o una spalla senza preoccuparmi di cosa avrebbero pensato le persone attorno.
«Quando riparti?» domandai.
«Il tre gennaio. Gli esami iniziano presto là. Fai qualcosa a Capodanno?»
«Vado a Trento da Ginny insieme a Erika».
Pausa di riflessione. Abbassò gli occhi e poi mi guardò attraverso le ciglia. Le sue guance erano arrossate per il freddo, mentre il resto del viso era bianco. «Tutto bene con lei?»
«Certo» risposi e presi un sorso di tè che mi bruciò la gola.
L’ultima volta che avevo visto Sam era stato alcuni mesi prima, ad agosto. Io e Ginny stavamo passeggiando sul lungolago al tramonto, di ritorno da un pomeriggio di shopping. La mattina aveva piovuto e per tutto il giorno l’aria era stata più fresca del solito. Sam veniva dalla direzione opposta rispetto alla nostra e ce lo eravamo trovato davanti, insieme a una ragazza che era esattamente quella che mi sarei aspettata di vedere insieme a lui: alta, magra e splendida, con un caschetto di capelli dorati che incorniciava un viso sottile e aggraziato. Avevamo scambiato un saluto imbarazzato. Ginny ci era chiaramente rimasta male, io pure ma non potevo farlo vedere, e Sam era a disagio nei confronti di entrambe ma non poteva farlo vedere alla sua nuova ragazza. Quando ce li eravamo lasciati alle spalle, io e Ginevra avevamo camminato in silenzio per una decina di minuti.
Alla fine, lei aveva sentenziato: «Comunque era strabica» e non ne avevamo più parlato.
«Lo so a cosa stai pensando» mi disse Sam soffiando sul suo bicchiere di tè.
«Ah sì?»
Annuì e mi rivolse un sorrisetto. La sua confidenza mi scaldava più di quello che stavo bevendo.
«Sono single» disse e mi sentii avvampare.
«Non stavo pensando a quello». Non esattamente, almeno.
Lui pareva divertito dal modo in cui avevo negato. I suoi occhi ammiccavano e la bocca era tesa in modo beffardo.
Sbuffai. «Sembra più che altro che ci tenessi tu a metterlo in chiaro».
Svuotò il bicchiere e si allungò per gettarlo nel cestino alla sua sinistra. «È solo che non ci vediamo da tanto tempo» disse tornando al mio fianco. «E l’ultima volta è stato…»
«Imbarazzante?»
«Decisamente» rise.
«Intendi per me, per te, per Ginny o per la tua ragazza?» pronunciare le ultime due parole mi diede una strana sensazione allo stomaco, come se si aggrovigliasse su se stesso, chiudendosi.
«Forse Giada – si chiamava Giada – è stato l’unica che non ha provato imbarazzo. E comunque non era la mia ragazza».
«Oh».
Ancora quel sorrisetto. «Sembri sollevata».
Gli scoccai un’occhiata severa. Stava flirtando con me, me ne rendevo conto, ma non sapevo se il mio cuore potesse reggerlo. Ero ancora arrabbiata con lui per come le cose erano finite nell’estate della maturità. «Non esagerare. Mi sorprende soltanto».
Lui rimase in silenzio, assorto. Una coppia di signori passò vicino a noi e ci salutarono ricordando “quando eravate alti così”, poi si congedarono dopo gli auguri di buone feste.
«Era una compagna dell’università» riprese Sam una volta rimasti soli. «Sapevo di piacerle e durante l’estate aveva cominciato a farsi più insistente, così le avevo detto che potevamo provare».
Si cacciò le mani nelle tasche del cappotto e si studiò con finto interesse le punte delle sue scarpe. Stava evitando il mio sguardo.
«È stato abbastanza deludente. Tutta la relazione, intendo, se così si può chiamare. Non credo sia durata più di tre settimane».
Non risposi. Era a disagio, cosa che non gli capitava molto spesso, e di riflesso mi sentivo a disagio anche io. Mi chiedevo se la soluzione migliore fosse salutarlo e concludere così la conversazione.
«Avevamo parlato di questa cosa io e te» riprese lui prima che potessi decidermi. Rialzò lo sguardo e trovai le sue pupille puntate nelle mie. Sul volto arrossato, le iridi rilucevano di un azzurro brillante. «Forse non te lo ricordi, ti avevo detto che a volte mi era sembrato di sprecare il mio tempo con alcune ragazze».
Serrai le labbra. «Era così terribile?»
«Cosa?»
«Giada».
Scosse il capo. «No, per niente, era una persona molto piacevole. Solo che non era la ragazza giusta per me». I suoi occhi erano tristi.
«Mi dispiace che tu non abbia trovato la ragazza giusta».
«Una volta ci sono andato vicino» disse con un sorriso seducente. Ogni tristezza era svanita dal suo volto.
Non replicai. Ero troppo sensibile nei suoi confronti, così mi chiusi in me stessa. Le sue parole erano vento e io mi sentivo come una costruzione troppo fragile per resistere alle continue raffiche
Qualcuno mi afferrò per un braccio e la nonna gracchiò nel mio orecchio: «Sei pronta ad andare? È così tardi che a malapena mi reggo in piedi».
«Certo, andiamo».
Salutai Sam con un abbraccio e inspirai il suo profumo, mentre il mento sfregava sulla lana del cappotto. «Buone feste, Meg» mi sussurrò in un orecchio. 
«Anche a te» risposi scivolando via dalle sue braccia.
Fui trascinata lontano dalla folla, dove ci stavano aspettando il nonno e Riccardo. Mio cugino mi guardò storto. «Grazie per il pandoro, comunque».
   
 
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