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Autore: Lady A    20/01/2024    5 recensioni
Dalla storia:
"[…] stanotte, c’è soltanto un uomo cieco che ama disperatamente, senza potere. È un’ombra buia, una creatura disillusa e istintiva. Devo tenerla lontano da lei.
[…] Se davvero conoscerò la morte, non avrò rimostranze verso Dio. Ho amato per tutta la vita Lei, che è una sua creatura. E mai verrò meno a quest’Amore proibito. Neanche se precipitassi nell’Ade, a espiare le mie colpe morali: amare sconfinatamente, senza essere riamato. A Dio dunque dico, uccidi il ragazzo e quest’uomo ancora ubriaco, cosicché io non abbia paura."
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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C’è un assordante odore di silenzio, stanotte. Oltre il cieco battito della pioggia, che non accenna a diminuire e inonda le strade, come fossero un unico fiume sempiterno. Ubriaco, lascio che sia il cavallo a condurmi indietro.
Le tenebre divoreranno a breve anche il mio occhio destro. Non vedrò più la luce. Non potrò più vedere lei, bella quanto Gerusalemme, o un’alba dalle tinte del sole.
Sotto quest’acqua torrenziale, le fiamme dei lampioni sono lucciole imprigionate nel vetro. Si dimenano, potenti quanto chiodi nella carne, o il mio cuore stesso.
L’amore mi è addosso, cieco e irragionevole, intollerabile e urgente. Desidera il suo collo, e il viso d’avorio. E perdersi tra i suoi capelli, la bocca, e la sua pelle tutta. È sacro e dedito, e sacrilego oltremodo, anche con un solo occhio sconfitto.
È spaventosamente difficile valutare le distanze con la spada. Cosa accadrebbe, se dovessi battermi sul serio?
Prego Dio che Oscar non se ne accorga, presa dalla sua fuga da Fersen, e dalla Regina Maria Antonietta che Fersen ama.
Per lei, non sono che uno specchio d’acqua, quieto e marginale.
Sorrido amaramente di tutto quanto. Dei suoi sospetti, capaci di concepirmi ingannevole, infido e ribelle in passato, alle sue spalle. Colpevole di sperare nel Cambiamento di un’Era, di nutrire pensieri miei, d’uguaglianza e libertà di ogni singolo individuo.
 
Sono molto preoccupato.
Correranno momenti difficili per la nobiltà intera.
Li temo, anche se sono soltanto un servo. E a volte – tutte le volte in verità, dovrei solo tacere e annuire, e seguirla come fossi un cagnolino.
Non posso farlo.
Non lo farò.
Proseguirò con le mie riunioni nella chiesetta di periferia, avverandomi di pensieri proibiti e sovversivi, saziandomi di vino e illusioni e dei suoi silenzi distanti, sempre un passo dietro di lei.
A volte vorrei vedesse la realtà; il mio desiderio di preservarla d’ogni male, sempre. Come nell’impersonare il Cavaliere Nero.
C’è stato un tempo da bambini, in cui eravamo l’uno il mondo dell’altro. Adesso quel mondo è spezzato, discosto. Siamo due terre estranee, per quanto affiancate.
Diventerò completamente cieco, e la osserverò come fosse dietro un paravento di rovi, immaginandola rosa purissima e sorgente di monte. La mia fierezza respinge la sua compassione. È forte e cieco più di me, questo mio orgoglio; è il mio granitico scudo a quest’orrore solitario. Assilla nella mente.
Non voglio la tua pietà, ti prego Oscar.
A cosa le servirò più, quando lei stessa riconoscerà questa mia condizione? Perché so che accadrà, presto o tardi.
Compirò un qualche errore – Dio non voglia!, e allora dovrò scostarmi da parte, e farmene carico da solo. Sarei un pazzo egoista se non lo facessi. Eppure non posso, proprio non posso.
Questo dolore che sento, spezza l’argine della ragione. Ha mani intrepide e desideri peggiori. Stringo lo sguardo, annullando ogni altro pensiero. A vuoto.
Io che conosco la lotta di Giacobbe, a cui fu dato il nome Israele.
Ho bevuto davvero troppo stanotte. Il diluvio grida nella mia testa; non vedrei niente neanche se riavessi la vista.
A volte ho vergogna di me stesso. Da lei desidero solo ciò che non posso avere. Ben oltre quell’impulso immorale che danna il mio corpo d’uomo, e fa di me una bestia. Ma lo ammansisco nell’ombra, da sempre, ogni notte. Vorrei baciarla quanto una furia – se potessi, se solo volesse. O anche abbracciarla a me, tenerla stretta e nient’altro. Mi basterebbe, forse. Non profanerei nulla di lei, se non con fantasie inconfessate. Mi appagherei nient’altro che del suo calore e dolcissimo profumo. Dei piccoli sorsi dei suoi respiri, trattenuti contro il mio orecchio. Mi scotterei il cuore delle nostre ombre raccolte vicine, come quando mi ha raggiunto e stretto la mano inquieta, appena ferito all’occhio. O ancora prima. Quando da bambini mi afferrò irreparabilmente l’animo, e mi pretese a sé.
 
Ero a palazzo Jarjayes da circa un anno. La sorella di mia madre, scrisse alla nonna. Avevo sette anni, allora. Il generale stesso, accordò il permesso di allontanarci per alcuni giorni. Accolsi il pensiero di rivederla con gioia. Commisi così l’incauto, grave errore di mostrarmi felice di quell’assenza con Oscar.
«Allora resta pure con lei André, e non tornare più!» sibilò, con quel suo sguardo azzurro acceso d’ardore, e una smorfia sulle labbra, spintonandomi verso le scale e sfuggendo. Riuscii a non cadere, appigliandomi al corrimano. Le corsi subito dietro, cercando di porre rimedio a quella gelida collera che le feriva il cuore. Si chiuse nelle sue stanze, e non ci fu verso di smuoverla. Quando tentai di parlarle, mi ripeté soltanto di andarmene per sempre. Attesi allora, seduto tristemente dietro la sua porta, tutto il tempo. Non uscì, e rifiutò qualunque pasto. Neanche la nonna arrivò a persuaderla. In parte, fu una fortuna che i Jarjayes non fossero a palazzo. Ero certo che Oscar non avrebbe mai osato tanta ostinazione in presenza di suo padre, non senza subire una dura punizione.
«Madamigella vi prego, non fatemi partire con questo dolore» ripeté più volte la nonna, tentando di aprire la porta. Oscar aveva trovato il modo di barricarsi dentro.
«Uscirò solo quando LUI sarà sparito da qui!» fu la sua secca e irremovibile reazione. Trattenni il respiro, sbarrando gli occhi. Vidi la nonna annuire, rassegnata.
«Sì, forse questa lontananza vi farà bene…» convenne, con un sospiro.
«LUI NON DEVE PIÙ TORNARE!» udii la sua voce soffocata oltre la soglia. Il dolore mi morse spietatamente il cuore. Mi parve di poter raggiungere anche il suo di dolore, d’intuirlo defluire di fianco al mio, per tendergli la mano.
«Nonna!» mi opposi, scuotendo il capo, lo stomaco contratto.
«Vedrai André, al nostro ritorno Madamigella Oscar si sarà senz’altro calmata» mi sussurrò pianissimo, accompagnandomi nella mia stanza, ravvivata dai bagliori delle candele. Due valigie erano disposte ai piedi del letto. Le guardai con disperazione.
«… io non voglio separarmi da Oscar» dissi subito.
«André! Che discorsi sono mai questi!» mi fissò, inarcando le sopracciglia. «Starle accanto è il tuo ruolo. Il tuo ruolo e nient’altro» ribadì con gravità.
«Io le voglio bene» ammisi. La vidi socchiudere le palpebre, per poi tornare a scrutarmi, accigliata.
«André!» mi ammonì ancora, trattenendo appena le mie spalle. «Tu non devi mai dire una cosa del genere, soprattutto davanti a lei. Madamigella Oscar dovrà voler bene ad altri, in un prossimo futuro, come le sue sorelle…» disse, seccamente. «Ricorda che lei un giorno sarà una bellissima ragazza, per quanto possa pensare diversamente il Padrone, e allora non potrai più starle vicino… la vostra amicizia non durerà tutta la vita. Tu sei un servo e lei una nobile! E non dovresti neanche chiamarla per nome… santo cielo!» Non c’era giorno in cui la nonna non ricapitolasse quella ramanzina. Proprio non riuscivo a darle ascolto. Anche se femmina, e nobile, educata per essere un uomo e un soldato, Oscar era mio amico e fratello. E a separarci l’uno dall’altro non erano che i nostri battiti e respiri, e nient’altro.
 
Il giorno seguente arrivò a separarci. Non piovve, ma io scoprii d’avere lo sguardo umido e il cuore stretto in un nodo indissolubile. Salii nella carrozza con la nonna, e soltanto allora guardai in alto, verso la finestra di Oscar. La sua sottilissima, bionda figura mi fissò un istante, ferma e solenne, per poi svanire come fosse un miraggio di luce.
 
Zia Delphine e suo marito Honoré vivevano nella zona vinicola di Joigny, nella regione della Borgogna, nel quartiere di Saint-Thibault, dalle case a graticcio. Lavoravano i campi per il vino locale. Lei somigliava alla mamma. Aveva il suo stesso odore e calore nello sguardo gentile. Ci accolse felice, preparando per noi dolci alle mele e all’uva passa. Avevo ricordi sbiaditi delle mie cugine, quando ancora vivevano al villaggio di Parigi, accanto al nostro. Erano state portate via entrambe dalla malattia, come mia madre, lasciando indietro nient’altro che vuoto e disperazione.
 
Pensai ad Oscar tutto il tempo. Mi sentivo in colpa con lei. Così contai i giorni e perfino le ore del ritorno. Anche quando dormivo, lei squarciava i veli di quel mondo onirico e mi raggiungeva, che fosse serena o furiosa come l’avevo lasciata.
 
«… l’offerta del signor generale è generosa. André avrà un’istruzione, cibo, vestiti. Ma… non temi che… dopotutto il piccolo conte è una bambina e potrebbe accadere che quando André sarà ragazzo…»
Nel dormiveglia colsi la voce trattenuta della zia, nella stanza accanto. Ascoltai mio malgrado, tenendo gli occhi chiusi.
«Certo che lo temo. Prego Dio ogni giorno che non accada mai. Insegnerò ad André a restare al suo posto, con le buone o le cattive!» riconobbi subito anche quella della nonna.
«André dovrebbe frequentare altri bambini. Il suo mondo non deve ridursi solo alla figlia del Padrone. Se lei sarà il suo solo e unico riferimento… allora sì, che sarà difficile tornare indietro…» Non capii le preoccupazioni di quei loro discorsi. Non immaginai, quanto fossero vicini alla corsa folle che avrebbe in seguito, impugnato il mio cuore a poco a poco nel tempo, senza mai più lasciarlo.
 
Zia Delphine ebbe un malore a ridosso del giorno della nostra partenza. Perse i sensi, di fronte la Porta di Saint-Jean, di ritorno verso casa. Molte persone accorsero attorno a lei. La condussero da noi, tremante come un fiore tra la neve. Soltanto allora, scoprii che aspettava un bambino. Il parto sopraggiunse in largo anticipo, fu detto. La nonna e alcune vicine tentarono di prendere in mano la situazione. A me fu intimato di restare fuori. Osservai a lungo l’imbrunire del cielo, strappato di tanto in tanto da quelle grida.
Il bambino non sopravvisse. Le condizioni della zia si aggravarono per la febbre puerperale. Si protrasse per giorni e non l’abbandonò fino all’ultimo respiro, la mano tesa e stretta in quella dello zio.
In capo a due settimane, un silenzio assoluto occupò a pieno regime quella piccola dimora. La Morte entrò in punta di piedi, ingorda, e spezzò ogni cosa.
 
Nel viaggio di ritorno nella diligenza, la nonna mi tenne abbracciato al petto, pregando tutto il tempo. Non parlammo, se non una volta giunti a palazzo. Lì, trovammo la servitù in fermento.
 
«Candice, cosa succede?» domandò nel vedere il volto inquieto della capocameriera, giungere alle nostre spalle.
«Il piccolo conte è sparita! Che Dio ci salvi!» esclamò, afferrandosi la fronte.
Una spina mi punse il cuore, d’improvviso.
«Santo cielo, vuoi scherzare!» vidi la nonna portare una mano al petto.
«Non l’ho mai vista ribelle e selvaggia come nelle ultime settimane. Oh… dovremo almeno avvisare Madame Jarjayes, è a Versailles per il debutto in società di Madamigella Hortense!» disse, impallidendo.
 
Corsi fuori, guardandomi incessantemente attorno, pieno di paure e incertezze. La cercai in lungo e in largo. La ritrovai dopo molte ore, ad una considerevole distanza da casa. Sedeva in riva al lago, dove soltanto un anno prima avevamo rischiato di annegare.
 
«Oscar!» la chiamai, sollevato. Lei alzò il viso e si voltò di scatto, appuntando su di me quel suo sguardo affilato.
«Tu… André!» le sue labbra si schiusero di sorpresa. Mi feci avanti di alcuni passi. Lei chinò il capo, stringendo le palpebre.
«A palazzo sono tutti in pensiero…» dissi, allora. Riaprì lo sguardo d’improvviso, ed ebbe per me occhi di fuoco.
«Avevi detto pochi giorni!» soffiò a denti stretti, fissandomi intensamente, con il mento sollevato, i riccioli lievemente sporchi di terra umida e fili d’erba, e la spada di legno al fianco.
«Mi dispiace. Abbiamo avuto un contrattempo…» sospirai, socchiudendo lo sguardo, senza riuscire ad aggiungere altro.
«Perché sei qui, Oscar?» tornai a fissarla, prendendo un piccolo respiro. Lei esitò un istante.
«… volevo venirti a prendere!» rispose con foga, spiazzandomi di colpo. In un battito di ciglia, si avventò su di me, simile ad un rapace. E incredibilmente, le sue piccole braccia circondarono la mia schiena, senza alcun contegno né etichetta. Sussultai, e l’abbracciai a mia volta, d’istinto. Scoprii il suo petto battere con furia contro il mio. Il suo capo biondo si accostò alla mia fronte, e tutta l’aria attorno, fremette del fitto suono delle sue lacrime scomposte.
«Non andartene più!» sussurrò in tono grave, strattonandomi a lei con forza, piangendo. «… scriverò a tua zia, tu non devi andartene di qui. Non puoi… oh! Io… pensavo tu non tornassi più!» le parole si confusero al sale sulle sue labbra e guance calde, di bambina. «André tu sei mio… amico!» i suoi capelli mi solleticarono il viso e il cuore e l’animo. Mi strinse forte la mia Oscar, quasi a togliermi il fiato, tanto intenso fu quell’abbraccio schietto che mi riversò addosso, d’improvviso. Le lacrime salirono anche al mio sguardo. Di slancio, la circondai di più, e la trattenni a me, sacra e preziosa com’era.
«Non andrò mai più via» sorrisi, e mi sentii davvero travolgere come da un mare blu e infinito, tanto più grande di me, di lei e di quel mondo stesso, che allora noi piegammo in segreto. Liberi d’essere, senza rango né leggi superiori.
 
 
I ricordi mi annientano, stanotte.
Uccidono il bambino e ragazzo in me, illuso e fiducioso.
Il vino è il mio unico conforto.
Non posso rivelare a nessuno la terra bruciata che mi strangola il cuore.
Sono solo, con lei e senza di lei. La nostra amicizia non è che una sottile valanga che non disseta.
Sarei dovuto fuggire tanto tempo prima. Prima del giuramento di darle la mia vita e devozione, prima ancora che Fersen mi rendesse inesistente o quasi al suo sguardo, e prima ancora d’ogni mio respiro.
No, so che non avrei mai potuto, mai davvero! La mia dannazione, il mio castigo eterno è proprio questa volontà stessa d’esisterle accanto, comunque. Fedele al mio Amore, per scelta.
Ma stanotte, c’è soltanto un uomo cieco che ama disperatamente, senza potere. È un’ombra buia, una creatura disillusa e istintiva. Devo tenerla lontano da lei.
 
 
Il cavallo ritrova la via di casa. La pioggia si è placata, il suo tocco è simile a carezze di dita tra i capelli. Mi reggo in piedi, incerto. Rimuovo la sella umida, come gli accumuli di paglia e fieno fresco che qualcuno ha ammassato, carichi d’acqua nelle scuderie. Vedo un po’ meno appannato, ma i miei gesti sono guidati dall’esperienza; sono figli dell’abitudine.
 
Mi spingo nell’ingresso principale. Supero il corridoio, sorreggendomi alle pareti e fermandomi di scatto, appena in tempo. Deglutisco. Intuisco il suo respiro, oltre le porte socchiuse del salone. È sveglia e assorta, seduta davanti al fuoco, con una coperta gettata sulle spalle. Posso immaginarla, anche senza vederla. Dovrei varcare quella dannata soglia per giungere all’ala destra del palazzo, verso la mia stanza.
Ma non voglio incrociarla. Non posso. Non in questo stato, fradicio e ubriaco, cinico e smarrito. Non riuscirei ad essere il silenzioso confidente del suo dolore. Domani sarò suo, nuovamente. Impeccabilmente composto, nella mia insincera placidità. Ragionevole e posato, pronto a qualunque cosa per lei. Ripercorro ancora una volta il corridoio allora, passando per l’anticamera e uscendo per raggiungere le scuderie. Mi intratterrò altrove, stanotte. Il più lontano possibile da lei. Forse, tra i seni, la pelle e il grembo di una donna, da cogliere come fossero grappoli d’uva per la mia bocca d’uomo, impeccabilmente fedele da anni a queste mie catene. Stanotte mi stanno strette. Esultano d’aver ucciso il ragazzo, ma non l’avranno vinta a lungo. Rinverrò in me, allo spuntare del sole, perché non posso vivere senza quest’amore negato, né abbandonarla a sé stessa. Non riuscirei a strapparmi da lei: Venere guerriera e Marte in un unico petto di donna.
 
È buio pesto, e un solo occhio non mi è affatto di aiuto. C’è odore di fumo all’interno. I cavalli sono inquieti. Scalpitano, in contrasto alla docilità di poco prima. Mi volto, ricercandone l’origine. Accade in pochissimi istanti. Le fiamme si sollevano attorno, dal fieno bagnato. L’incendio domina e lacera la notte, quanto un morbo o un’epidemia. Propaga e si espande rapido, a contatto con il legno. Circonda i pilastri e le arcate, avanzando dai foraggi e i filamenti, sino ai posteggi dei cavalli. Mi affretto a condurli all’esterno, il più lontano possibile dal pulsare vivo di quell’inferno. Le prime urla si levano a poco a poco da palazzo. Qualcuno mi richiama indietro. Rientro a recuperare gli altri, recalcitranti e terrorizzati. In poco, il fiato serrato del fuoco assedia e sovrasta l’edificio, quasi a inghiottirlo. Tossisco, stringendo lo sguardo nel denso manto di fumo. Mi oriento, quasi cieco. Gli ultimi cavalli impennano e si spintonano tra loro. Scorgo quello di Oscar, nel mezzo. Tento di condurlo con calma verso di me. Scuote la testa, scalciando fuori di sé, ostinato. Riesco a dirigerli fuori, appena in tempo. Delle travi franano bruscamente dalla volta del soffitto. Le schivo per un soffio, pur con questa vista malridotta. Sprangano il passaggio d’uscita, accatastate le une sulle altre. Mi serrano inesorabilmente dentro. Respiro a fatica, nell’aria rovente in modo intollerabile. Le assi del pavimento e i pannelli retrostanti bruciano, e quasi mi sono addosso. Membri della servitù accorrono a gettare secchiate d’acqua dall’esterno. Mi libero della giacca, il fuoco divampa e l’annienta, correndo verso di me. Ho pochissimi istanti per agire e pensare. Un altro spazio del soffitto cede, rovinosamente. Rotolo al suolo, su di un fianco. Una parte delle scuderie è prossima al crollo. Se davvero conoscerò la morte, non avrò rimostranze verso Dio. Ho amato per tutta la vita Lei, che è una sua creatura. E mai verrò meno a quest’Amore proibito. Neanche se precipitassi nell’Ade, a espiare le mie colpe morali: amare sconfinatamente, senza essere riamato. A Dio dunque dico, uccidi il ragazzo e quest’uomo ancora ubriaco, cosicché io non abbia paura.
 
 
***
 
 
«… i cavalli sono stati messi in salvo, ma André è ancora all’interno!»
 
«Coraggio, portate altra acqua!»
 
«Le scuderie cederanno…»
 
«Chiamate la governante, presto!»
 
 
Voci e passi frenetici strapparono la notte. Si riversarono lungo le scale e il cortile interno principale, fitti quanto un diluvio. Uomini e donne scossero il silenzio, attingendo secchiate d’acqua gli uni dagli altri come fossero bocconi di cibo, spartito di mano in mano. Il vento che si levò, affrettò la carica del fuoco; lo nutrì di una furia impietosa e distruttiva. Oscar fu subito fuori. Inquieta, cercò con lo sguardo André. Non vide altro che fumo, e i violenti scrosci dell’incendio nelle scuderie, prorompere in un canto selvaggio; una lotta feroce che spezzò a giorno le tenebre serrate. D’istinto corse verso di esse, chiamando il nome dell’amico.
 
 
«Madamigella Oscar, dove andate?»
 
«Restate indietro, è pericoloso!»
 
«Ah, Madame Grandier! Vostro nipote è nelle scuderie! Ha messo in salvo i cavalli ma è rimasto intrappolato dentro»
 
 
 
Oscar procedé incontro alle fiamme. Individuò uno spiraglio; l’incalzare del fuoco la costrinse a retrocedere. In pochi attimi, le travi che sbarravano l’ingresso, furono interamente inghiottite dal rogo.
 
«André!» gridò, con il cuore stretto in gola e il battito trattenuto, quanto il respiro. Passò in rassegna con lo sguardo un qualunque passaggio. «Voi» si rivolse seccamente ai domestici. «Continuate a gettare altra acqua, dobbiamo spegnere l’incendio, CHE COSA ASPETTATE?» intimò, nell’irrevocabile tono di comando, gli occhi azzurri spalancati, e l’ombra accesa delle fiamme riflesse nell’oro dei capelli, dominati dal vento.
 
Una parte del tetto crollò, innalzando cenere e detriti di fuoco. Neanche allora, smise di pronunciare ininterrottamente il nome dell’amico. Il piglio urgente, il timbro concitato come il pulsare del sangue nel petto. Tentò di aggirare il fuoco, forzando una spaccatura tra le travi.
 
«Oscar… cos’hai intenzione di fare?»
 
Si volse indietro, verso la governante.
 
«André è lì dentro!» disse, a denti stretti. L’anziana scosse il capo, con un’espressione straziata.
 
«Oscar non puoi entrare…» gemette, affranta. «Il generale tuo padre non mi perdonerebbe mai se ti accadesse qualcosa» scongiurò, con le lacrime agli occhi e le mani giunte al petto. Oscar la fissò sconcertata, aggrottando la fronte.
 
«Che cosa stai dicendo?» ribatté, serrando i pugni. «Pensi forse che io lascerei morire André?» scattò, guardandola con sdegno e rammarico. In quegli istanti stessi, la fiancata ovest e la copertura, cedettero in un assordante boato. Oscar le voltò le spalle, precipitandosi attorno alle macerie. «C’è bisogno di altra acqua!» esortò, come fosse su un campo di battaglia. La pioggia riprese a cadere, indomita e ostinata quanto lo stesso incendio. L’apprensione accrebbe in lei, di minuto in minuto, come la corsa dei battiti: accecanti e feroci, scandirono l’attesa, uniti ai proiettili d’acqua dal cielo.
 
«André!» pronunciò, fradicia, il respiro trafelato, spingendosi ai margini dell’edificio devastato. Pronta ad entrare a qualunque costo in quell’Inferno.
                                                                                                                                                                     
«Oscar!»
 
Quel richiamo ebbe su di lei la potenza di un colpo di cannone; le strappò per un istante l’anima dal petto, tale fu il sollievo. Riuscì a raggiungerlo. Si chinò accanto a lui, piegato con un ginocchio sull’erba bagnata, a qualche metro dall’incendio. Subito le mani cercarono e afferrarono quelle dell’amico. Lui si rimise in piedi, lanciando un’occhiata in direzione delle alte vetrate delle scuderie.
«È una fortuna che io abbia impersonato per qualche tempo il Cavaliere Nero. Una finestra, una scala, e sono il fuorilegge perfetto» le sorrise brevemente, reggendosi il fianco dolorante, sotto gli incessanti fendenti d’acqua. Oscar resse il braccio di André attorno al proprio collo, come tante altre volte, a ruoli opposti, era stato consuetudine tra loro.
«Entriamo dentro, c’è bisogno di un dottore, ce la fai a muoverti?» una nota d’ansia tradì quella voce da soldato.
«Sto bene, non preoccuparti... Oscar» annuì, quasi trattenendo il fiato. Lei scosse il capo e lo sostenne a sé. Sapeva che era tornato indietro, nelle scuderie. Aveva riconosciuto il suono dei suoi passi nel corridoio. Dove voleva spingersi ancora, a quell’ora della notte? Perché?
Si guardarono senza parlarsi, e per un momento - uno soltanto, davvero, il cuore d’entrambi sovrastò il battere stesso della natura; imperioso, come il canto di spade in un duello.
  
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