Canto XXV - Ove, seguendo i sette savi, si illustrano le quattro porte e si attraversa la seconda
Ragiona, lettore, se tu sei savio e accorto
Quale primo quesito portammo a costoro
Dacché nella pregiata sala trovammo scorto
Labor da ben mertare coron d'alloro.
“Chi fu?” Io chiesi “a dipinger cheste mura?
Chi la pianta disegnò e chi fe il lavoro?”
“Molti, inver” Qui il re di franca natura
“Che già v'eran le basi dacché io venni
E il capomastro era di Carolingia levatura:
Lo stesso armeno dagli alti senni
Che fe ad Aquisgrana il gran palazzo
Svettante da molti e più decenni.
I fautori delle mura, il dipinto e l’arazzo
Tu il vedrai tutti di persona. T’affretta.”
Io seguì il maestro, ch’inseguì il gazzo
Mantello dei potestà di questa setta.
Era a greca pianta la massima chiesa
E giunti al centro, dove un pulpito svetta
(Di porfiro intarsiato e foglia d’or stesa
Su figure in avorio di damnati ad bestia)
Quattro porte ebbi mostrate e ho intesa
Che la pria riporta ov’ebbi io molestia.
“Tu sai ch’è dai tempi dell’apostolo Pietro”
Istruì Gildas, che par ricco in modestia
Nel suo cencio e la barba lunga un metro
“In tre regioni è feso e lui il vedette
Le prie due eterne, mentre il loco arretro
Più tardi fu posto perché Dio concedette
La grazia all’umana fallace semenza.
Seguendo il modello, alle genti maladette,
Noi demmo castigo e lunga sentenza
Direttamente proporzionale alla sacra letizia
Che noi elargiamo, più generosi dell’Enza
Che in Inverno esonda coll’annata novizia,
A quei che superarno i sette esaminanti.
Quanto dissi è ai transetti, ma la milizia
Che ha ardito vivere e divenire santi
Sacrificando il suo essere e il carattere,
Dimenticando interessi, amici e famiglianti,
Morendo di nuovo e ricominciando a nascere
Che più non stima ciò che era e di è donde,
Passa per l’abside, ove in eterno ha pascere.
Giacché pur noi che siamo alle beate sponde,
Abbiam lieve conforto, dai ricordi assediati
E non uni, tutti, nella Trinità, e laonde
Pensiamo e pensando soffriamo i fati
Che ci han separati dal padre onnipotente.”
Così dicendo ei pianse in gaelico, vati
Ch’io ripeterei a stento e lascio a voi gente:
Ar n-Athair a tha air nèamh,
Gu naomhaichear d'ainm.
Thigeadh do rìoghachd.
Dèanar do thoil air an talamh,
mar a nìthear air nèamh.
Discendemmo, com’è d’uso, pel basso regno.
Sicché lunga era la scala io chiesi “Maestro,
Mi par che sian tutti di corpo assai degno
Per genti anziani, malati o morir silvestro.”
Ed ei a me “Se tu sapessi com’io li vedo!
Raccapriccio più grave non può il tuo estro
Mettere in versi o in prosa. Ma soprassiedo
Che non son Lucano e il macabro spiacque.
Tu li vedi così come’l cor, organ tragedo,
Li mette in scena quando sogni chi giacque
Rivivendo l’imprese e ti fai il sembiante
Che mai ebbero in vita ma la fama tacque.”
Al fin della scala stette, antistante,
Un portone scuro, in legno da bara.
La parmigiana prese l'anello e vibrante
Battè tre volte e tre eco rincara
L'aere stantio, scuro e freddo e denso.
Allor, quell’ante, che cingon la tara
Di tutti i peccati, quel coperchio estenso,
Si mosse lento e cigolarno i perni,
Che cento buoi lì muggiscono, penso,
Grattando terra inusa da tempi eterni,
Graffiando, come sole il rasoio, al pavimento.
Apparve noi una figura misera degli inferni,
Ed io lo credetti essere in eterno tormento
Finché non alzò il viso da terra e il fogo
Cerchiavavi gli occhi e avea lungo il mento
Che la testa n’era tutta schiacciata a giogo;
Turbinava le ciglia a giro come antenne.
“Le tue pupille veggono chi fu messo al rogo
E or s’arroga il diritto d'aver scotenne
Chi, in suso, mi han guardato in giuso
Dai lor troni che a Dio di rovesciar ritenne.
Son io quel che traviò de Botticelli il muso
Lontano dalle palanche dei signori;
Son io quel che bruciò de vanitade l'uso
De Florenzia nella gremita piazza dei priori;
Son io che cacciai i Medici e ho mendicato
La giustizia ai cittadini che, a posteriori,
Mi rinnegaro e m'han ivi trabuccato.
Scrivi ai fiorentini, che paghino il fio
Della lor cupidigia che han dimostrato:
Non hai più potere, infranto è il disio
Di potestar dal Trasimeno al colle romagnola.
Ti ferono serva, oltre che di Dio,
Di tutta Italia, vendicando Savonarola.”