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Autore: Cladzky    31/01/2024    1 recensioni
Leggendo l'Eneide l'autore si addormenta e finisce in un terribile oltretomba scritto in terzine ma anti-Dantesco, dove non sono i morti a essere puniti, ma i suoi peccati letterari. Il buon Virgilio, come al solito, recupera la sua funzione di guida in questo inferno laico, traghettandolo da un'anima furiosa all'altra, pronta a randellarlo. Un'opera per ridere, ma anche di riflessione interiore e soprattutto di insulti, piena di personaggi storici.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Canto XXV - Ove, seguendo i sette savi, si illustrano le quattro porte e si attraversa la seconda

 

Ragiona, lettore, se tu sei savio e accorto

Quale primo quesito portammo a costoro

Dacché nella pregiata sala trovammo scorto

 

Labor da ben mertare coron d'alloro.

“Chi fu?” Io chiesi “a dipinger cheste mura?

Chi la pianta disegnò e chi fe il lavoro?”

 

“Molti, inver” Qui il re di franca natura

“Che già v'eran le basi dacché io venni

E il capomastro era di Carolingia levatura:

 

Lo stesso armeno dagli alti senni

Che fe ad Aquisgrana il gran palazzo

Svettante da molti e più decenni.

 

I fautori delle mura, il dipinto e l’arazzo

Tu il vedrai tutti di persona. T’affretta.”

Io seguì il maestro, ch’inseguì il gazzo

 

Mantello dei potestà di questa setta.

Era a greca pianta la massima chiesa

E giunti al centro, dove un pulpito svetta

 

(Di porfiro intarsiato e foglia d’or stesa

Su figure in avorio di damnati ad bestia)

Quattro porte ebbi mostrate e ho intesa

 

Che la pria riporta ov’ebbi io molestia.

“Tu sai ch’è dai tempi dell’apostolo Pietro”

Istruì Gildas, che par ricco in modestia

 

Nel suo cencio e la barba lunga un metro

“In tre regioni è feso e lui il vedette

Le prie due eterne, mentre il loco arretro

 

Più tardi fu posto perché Dio concedette

La grazia all’umana fallace semenza.

Seguendo il modello, alle genti maladette,

 

Noi demmo castigo e lunga sentenza

Direttamente proporzionale alla sacra letizia

Che noi elargiamo, più generosi dell’Enza

 

Che in Inverno esonda coll’annata novizia,

A quei che superarno i sette esaminanti.

Quanto dissi è ai transetti, ma la milizia

 

Che ha ardito vivere e divenire santi

Sacrificando il suo essere e il carattere,

Dimenticando interessi, amici e famiglianti,

 

Morendo di nuovo e ricominciando a nascere

Che più non stima ciò che era e di è donde,

Passa per l’abside, ove in eterno ha pascere.

 

Giacché pur noi che siamo alle beate sponde,

Abbiam lieve conforto, dai ricordi assediati

E non uni, tutti, nella Trinità, e laonde

 

Pensiamo e pensando soffriamo i fati

Che ci han separati dal padre onnipotente.”

Così dicendo ei pianse in gaelico, vati

 

Ch’io ripeterei a stento e lascio a voi gente:

 

Ar n-Athair a tha air nèamh,

Gu naomhaichear d'ainm.

Thigeadh do rìoghachd.

Dèanar do thoil air an talamh,

mar a nìthear air nèamh.

 

Discendemmo, com’è d’uso, pel basso regno.

Sicché lunga era la scala io chiesi “Maestro,

Mi par che sian tutti di corpo assai degno

 

Per genti anziani, malati o morir silvestro.”

Ed ei a me “Se tu sapessi com’io li vedo!

Raccapriccio più grave non può il tuo estro

 

Mettere in versi o in prosa. Ma soprassiedo

Che non son Lucano e il macabro spiacque.

Tu li vedi così come’l cor, organ tragedo,

 

Li mette in scena quando sogni chi giacque

Rivivendo l’imprese e ti fai il sembiante

Che mai ebbero in vita ma la fama tacque.”

 

Al fin della scala stette, antistante,

Un portone scuro, in legno da bara.

La parmigiana prese l'anello e vibrante

 

Battè tre volte e tre eco rincara

L'aere stantio, scuro e freddo e denso.

Allor, quell’ante, che cingon la tara

 

Di tutti i peccati, quel coperchio estenso,

Si mosse lento e cigolarno i perni,

Che cento buoi lì muggiscono, penso,

 

Grattando terra inusa da tempi eterni,

Graffiando, come sole il rasoio, al pavimento.

Apparve noi una figura misera degli inferni,

 

Ed io lo credetti essere in eterno tormento

Finché non alzò il viso da terra e il fogo

Cerchiavavi gli occhi e avea lungo il mento

 

Che la testa n’era tutta schiacciata a giogo;

Turbinava le ciglia a giro come antenne.

“Le tue pupille veggono chi fu messo al rogo

 

E or s’arroga il diritto d'aver scotenne

Chi, in suso, mi han guardato in giuso

Dai lor troni che a Dio di rovesciar ritenne.

 

Son io quel che traviò de Botticelli il muso

Lontano dalle palanche dei signori;

Son io quel che bruciò de vanitade l'uso

 

De Florenzia nella gremita piazza dei priori;

Son io che cacciai i Medici e ho mendicato

La giustizia ai cittadini che, a posteriori,

 

Mi rinnegaro e m'han ivi trabuccato.

Scrivi ai fiorentini, che paghino il fio

Della lor cupidigia che han dimostrato:

 

Non hai più potere, infranto è il disio

Di potestar dal Trasimeno al colle romagnola.

Ti ferono serva, oltre che di Dio,

 

Di tutta Italia, vendicando Savonarola.”

 
   
 
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