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Autore: Shailene_bird    07/02/2024    0 recensioni
Durante un volo intercontinentale Takumi, ormai trentenne, ripensa ai tempi del liceo e al suo rapporto con Asami, una ragazza giapponese che scompare dalla sua vita all'improvviso e di cui nessuno ha più memoria tranne lui stesso. Per scoprire la verità su di lei Takumi, che da sempre sogna di diventare un pianista come suo nonno, compie appena diciottenne un viaggio nel lontano Giappone assieme alla madre e al suo migliore amico Thomas.
Tuttavia, venuto a conoscenza della verità sulla ragazza, la sua vita cambierà completamente e dovrà fare i conti con quello che nel suo mondo ha sempre considerato irreale.
Guardando dal finestrino dell'aereo, diretto laddove anni prima aveva lasciato una parte di sé, e attraverso dei dialoghi con una signora anziana seduta al suo fianco, Takumi rifletterà su quanto ha perso, ricordando un amore che non ha mai dimenticato, le amicizie degli anni giovanili e il rapporto speciale con la madre, alla ricerca del suo posto nel mondo.
NDA
Pubblicherò solo i primi 3 capitoli di questo romanzo per darvi un assaggio della storia. Il resto, se vi andrà di leggerlo, potete trovarlo su Amazon scrivendo Kiss the Rain Sara Manfredi. Grazie di cuore ai lettori!
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 2 

«Com’era la camomilla signore?».
La voce della hostess mi riportò alla realtà, come se mi fossi appena svegliato di soprassalto da un sonno profondo.
«Calda, molto calda», risposi frettolosamente.
«Forse troppo?».
«No, non si preoccupi. Era calda ma davvero buona, grazie».
«Oh, ne sono felice, se ha bisogno...».
«Le faccio un fischio, certo», terminai la frase prima di lei, ricambiando all’ormai consueto occhiolino.
Guardai l’orologio, era passata solo un’ora, ma a me era sembrata un’eternità.
Presi un libro che mi ero portato da casa e cominciai a sfogliare qualche pagina, ma nel giro di pochi minuti finii per appisolarmi.
 
 
La mia mente mi catapultò in una campagna sconosciuta, in mezzo a un campo di grano dove, in lontananza, una ragazza di spalle camminava sfiorando delicatamente le spighe. Il vento soffiava debolmente e nell’aria aleggiava un inconsueto profumo di gelsomino.
Provai ad avanzare verso di lei, ma non mi era possibile. I miei piedi erano pesanti, come se fossero legati al terreno da una corda trasparente. Mi accorsi, inoltre, che più cercavo di avvicinarmi a quella ragazza, più lei si allontanava da me.
Allungai una mano come se volessi afferrarla, mentre le gridavo di aspettarmi, ma dalla mia bocca non uscì una parola.
All’improvviso la persi di vista e rimasi solo. Di colpo il campo di grano si tinse di grigio e venne avvolto da una nebbia spaventosa e un’aria soffocante.
“Grazie, Takumi”. Una voce riecheggiò nella mia testa e di colpo mi svegliai.
 
 
«Tutto bene?», mi chiese la signora seduta di fianco a me.
Ero ancora frastornato da quel sogno che a stento riuscivo a parlare.
«Sì tutto bene, mi scusi per il sobbalzo».
«Non si preoccupi, succede spesso anche a me. Sa, a volte quando dormiamo, è come se il nostro cervello facesse riemergere le nostre paure, insicurezze o brutti ricordi, cose che ancora non siamo pronti ad affrontare o non abbiamo metabolizzato. Cerchi di rilassarsi, potrebbe provare con un po’ di yoga. In questo periodo sta spopolando, sa? Ci pensi».
«Grazie», sorrisi forzatamente poi mi girai verso il finestrino.
 
 
«Mamma, te l’ho già detto, è stato un caso che fossimo entrambi rinchiusi nella stessa stanza. Non cominciare a farmi la paternale. Non ho nessuna ragazza».
«Lupo di mare non mi sembrava la pensasse così».
«Lupo di mare dice anche di aver visto la piovra più grossa della storia dell’uomo quindi non credo sia una fonte attendibile, non credi? Me ne vado in camera».
«Devi cenare prima».
«Non ho molta fame, ho mangiato delle patatine prima».
«Ehi ragazzino, non si va a letto senza cena, mangia questo almeno», esclamò mia madre.
Presi al volo il toast che mi aveva preparato e poi filai dritto nella mia stanza.
Mi infilai le cuffie del walkman alle orecchie e ascoltai qualche brano di musica classica, mentre nella mia mente scorreva l’immagine di Asami che se ne andava dal club di musica.
Ogni nota mi riportava alla mente le nostre parole e la sua voce era ormai entrata nella mia testa come una melodia di sottofondo. Ero arrabbiato e seppur allora non ne capissi il perché, col tempo riuscii a interpretare quel mio stato d’animo. Semplicemente avrei voluto che quella sera fosse durata di più.
Quella notte Asami non mi lasciò andare, il pensiero di rivederla il giorno dopo a scuola non mi fece dormire bene.
 
 
«Ragazzi, mettetevi a sedere. Oggi riprendiamo la lezione della scorsa volta sulle
Metamorfosi di Ovidio».
Andai a sedermi al mio posto dando un’occhiata al banco di Asami, ma lei non era ancora arrivata.
«Prima, però, facciamo l’appello».
La professoressa cominciò a chiamare i nostri nomi uno alla volta, mentre io non aspettavo altro che Asami sbucasse dalla porta.
«Ehi Takumi, l’hai vista la puntata ieri?», disse Tommy al mio fianco dandomi una gomitata.
«Cosa?», dissi.
«Scusi il ritardo, professoressa».
Al suono di quella voce, alzai di scatto lo sguardo. Asami, quella mattina, indossava lo stesso vestito del giorno prima, ma sui capelli teneva un fermaglio blu a forma di rosa.
«Entra pure Asami, vai a sederti».
«Grazie».
Seguii Asami con lo sguardo fino al suo posto, la osservai sistemare l’astuccio sul banco, raccogliere una penna dall’interno e aprire il suo quaderno degli appunti. Lei, però, non si girò a guardarmi.
«Aprite il libro a pagina 125».
«Se il buongiorno si vede dal mattino...», sussurrò Tommy.
Distolsi lo sguardo da Asami e cercai disperatamente di concentrarmi sulla lezione.
La professoressa di letteratura del liceo era sempre pronta a stupirci. Credo fossimo l’unica scuola al mondo a non seguire nel dettaglio il programma ministeriale. Impartiva spesso lezioni su quello che a suo tempo aveva studiato lei e di cui era rimasta affascinata, argomenti che era sicura ci avrebbero insegnato qualcosa.
«Oggi vi parlerò del mito di Piramo e Tisbe, una storia da cui lo stesso Shakespeare ha tratto ispirazione per scrivere Romeo e Giulietta. Noterete, infatti, quanto le due narrazioni siano molto simili. Qualcuno di voi conosce già questo racconto?».
Tutti i miei compagni si guardarono l’un l’altro nella speranza che qualcuno l’avesse letto, ma nessuno rispose eccetto Asami che, dopo un momento di esitazione, alzò la mano.
«Asami, tu lo conosci?», le chiese la professoressa. Lei si limitò ad annuire.
«Che ne dici di raccontarla ai tuoi compagni?». Asami si guardò attorno, poi cominciò a parlare.
«Piramo e Tisbe erano due ragazzi babilonesi che si innamorarono l’un l’altro nonostante le rispettive famiglie non approvassero la loro relazione. Le loro case si trovavano l’una di fianco all’altra e le loro stanze erano divise da un muro. I due col tempo si accorsero che lungo questo muro c’era una piccola fessura grazie alla quale potevano parlarsi, ma che al tempo stesso impediva loro un contatto fisico. Così un giorno, attuarono un piano per fuggire insieme e poter vivere liberamente il loro amore. Si sarebbero incontrati vicino a un albero di gelso, accanto a una fonte d’acqua, dove era stato sepolto Nino, il re di Babilonia. Tisbe uscì prima di Piramo e si diresse verso il gelso, ma non appena arrivò a destinazione scorse in lontananza una leonessa dalle fauci insanguinate, così decise di nascondersi dentro una grotta in attesa che l’animale se ne andasse. Nel farlo, però, perse il velo che le ricopriva le spalle, lo stesso che la leonessa stracciò successivamente sporcandolo di sangue. Così quando Piramo giunse nel luogo prestabilito, scorse la leonessa a distanza e trovò il velo insanguinato. Pensò subito che Tisbe fosse stata uccisa dalla belva e non sopportando il dolore si suicidò infilzandosi con la spada. Il suo sangue schizzò sui frutti e sulla radice del gelso macchiando le bacche di un colore scuro. Tisbe, uscita dalla grotta, si diresse all’albero dove trovò Piramo a terra in fin di vita. Si precipitò verso di lui, riuscendo a guardarlo negli occhi per l’ultima volta prima di vederlo spirare. Dopodiché espresse ai genitori il desiderio di essere sepolta insieme al suo amato, e all’albero di conservare i suoi frutti scuri in ricordo di quella tragedia, poi si uccise con la stessa spada con cui Piramo si era suicidato, così da riunirsi a lui nella morte».
Ero così affascinato dalla storia che raccontò Asami che non distolsi lo sguardo da lei nemmeno per un istante. Ascoltare quelle parole mi fece tornare in mente la sera precedente, quando anche io e Asami ci eravamo sussurrati parole divisi da un muro, proprio come Piramo e Tisbe.
Anche i miei compagni di classe guardarono Asami con ammirazione, come se stessero ascoltando un oracolo magico. Quella mattina, anche loro, conobbero la bellezza e il carisma del gusto alla fragola.
«Molto bene, Asami». Anche la professoressa sembrava essere molto soddisfatta di lei. Glielo leggevo negli occhi.
Asami, di risposta, abbozzò un lieve sorriso. Lei sì che sapeva guardare e ascoltare allo stesso tempo e i suoi voti, infatti, erano sempre stati ottimi.
«Secondo voi, cosa possiamo ricavare da questa storia?», chiese la professoressa.
«Che questi due sono stati proprio sfortunati», disse una mia compagna di classe con un sottile velo di sarcasmo.
«Che il parere dei genitori, a volte, può essere determinante», disse un’altra.
«Che non bisogna trarre conclusioni affrettate», aggiunse Tommy.
«Esatto Tommy, questa è sicuramente una di quelle cose da tenere bene in considerazione», disse la professoressa sorridendo.
«Vedete ragazzi, non ho deciso di parlare di questa tragica storia di amore perché dobbiate prenderla come esempio. Volevo solo mostrarvi quanto sia potente l’amore, ma anche quanto sia in grado di provocare dolore. Piramo e Tisbe si amavano così tanto che l’uno non poteva vivere senza l’altro, ma ragazzi, al di là di come sia il finale di questo racconto, i due protagonisti ci insegnano quanto l’amore abbia la capacità di vedere tutto, anche una crepa sul muro che nessuno per anni aveva mai visto, ma soprattutto quanto non sempre serva parlare. Piramo e Tisbe non si sono detti niente prima di morire, si sono scambiati solo uno sguardo, ma in quello sguardo, in realtà, si sono detti tutto, perché il silenzio non è sinonimo di vuoto, quindi cercate di comprendere anche ciò che inizialmente vi sembra di non capire».
Per la prima volta da quando andavo al liceo avevo non solo guardato la professoressa, ma l’avevo anche ascoltata. Mi resi conto che quelle parole mi colpirono più di quanto mi aspettassi. Mi fecero pensare subito ad Asami, forse perché lei era come il silenzio, qualcosa che non si capisce ma che vorremmo comprendere.
Piramo e Tisbe si amarono senza potersi toccare fino in fondo, senza poter vivere il loro amore in libertà e a lungo. Perirono per un’incomprensione, per un amore troppo forte e se non si unirono nella vita lo fecero nella morte.
In quel momento chiesi a me stesso “Amerai mai così tanto qualcuno? Sarai mai amato così?”.
Non seppi rispondermi. Come avrei potuto farlo allora, ero solo un adolescente in cerca di risposte, ma d’istinto guardai Asami e finalmente anche lei fece altrettanto.
Nei giorni successivi io e Asami non ci parlammo mai, ci salutavamo, ma non trovavamo l’occasione di stare insieme.
Quel muro che qualche sera prima ci aveva tenuto separati non c’era più e paradossalmente questo sembrava spaventarci. Come se ad entrambi mancasse il coraggio di fare il primo passo.
Quando arrivò l’ultimo mese di scuola prima delle vacanze estive percepii dentro di me una fredda sensazione di tristezza, come presagio di qualcosa che prima o poi sarebbe accaduto.
Una mattina, durante l’ora di educazione fisica, mi misi a sedere su una panchina nel cortile della scuola con le cuffiette alle orecchie, mentendo al professore riguardo il mio stato di salute. Gli dissi che mi ero fatto male a un ginocchio cadendo dalla bicicletta. Mi sembrò di ripetere la stessa scena vissuta quel giorno nel club di musica, quando avevo semplicemente voglia di stare da solo.
Sulle note della terza canzone dell’album che stavo ascoltando, Kiss the rain, del pianista sudcoreano Yiruma, Asami si sedette accanto a me.
Abbassai il volume della musica fino a sentirne una leggera melodia di sottofondo quasi impercettibile alle orecchie. Prima di rivolgerle la parola volevo godermi il silenzio che aleggiava attorno a noi.
«Asami», farfugliai.
«Ciao, Takumi».
La sua voce era diversa dal solito, ma in quel momento non seppi interpretarla.
«Asami, io...», cominciai a dire.
«Pensavo di essere io quella che non parla molto e invece...», disse lei.
«Mi dispiace Asami, sono solo uno stupido».
«Quindi non sei così loquace come sembri», mi interruppe lei abbozzando un dolce sorriso.
Il mio cuore cominciò a battere più forte.
«Sai Takumi, io avrei un desiderio», disse improvvisamente guardando il cielo.
«Un desiderio dici?», borbottai.
«Esatto».
«E quale sarebbe?».
«Vorrei vedere quelle stelle».
«Le stelle? Quali...», esclamai non capendo.
«Le stelle innamorate».
«Ti riferisci a Vega e Altair?». Asami annuì.
«Mi hai detto che avremmo potute vederle insieme, quindi pensavo che potremmo farlo, se ti va ancora».
«Certo che mi va Asami, ci andremo insieme», dissi imbarazzato.
Asami mi guardò e sorrise dolcemente. I suoi occhi, tuttavia, erano velati di un’emozione differente, a tratti malinconica, come se non potesse godere a pieno di quella notizia. Qualcosa stava cambiando o forse era già cambiato, ma allora non potevo rendermene conto.
«Allora è deciso. Il sette luglio», disse lei tornando a guardare il cielo.
«Sì, il sette luglio».
 
 
«Oh, ma lei è un musicista?».
Al suono di quella domanda retorica staccai gli occhi dal finestrino e guardai la signora seduta di fianco a me che, con uno sguardo, ammiccò allo spartito che tenevo tra le mani.
«Sì, sono un pianista», risposi gentilmente.
«Che bello. Sa, anche mio nipote sta studiando musica».
«Ah sì? E cosa suona?», chiesi educatamente.
«Il basso».
Sentire quella parola mi suscitò un’emozione strana. Era una di quelle parole che inevitabilmente mi riportavano a galla un ricordo, un’immagine, una persona.
«È davvero un bellissimo strumento. Sottovalutato direi, quando invece è di fondamentale importanza, soprattutto se si vuole suonare in una band. Deve essere orgogliosa di suo nipote», risposi.
«E lo sono, mi creda. Posso chiederle il nome del brano che sta studiando?».
«Certo. È una composizione del pianista sudcoreano Yiruma, si intitola Kiss the rain».
Dopo il liceo imparai a suonarla alla perfezione, la eseguivo soprattutto nelle giornate di pioggia, quando il rumore delle gocce d’acqua che battevano sulla strada e quello dei tuoni che rombavano in lontananza, si fondevano alla musica in un alternarsi di suoni complementari. Qualche volta provavo a suonarla quando c’era il sole, ma qualcosa mi bloccava sempre e mi impediva di andare avanti, forse perché per me sarebbe stato come indossare un giubbotto pesante durante la stagione estiva, qualcosa di inadatto, di terribilmente fuori posto.
 
 
La panchina nel giardino di scuola divenne il nostro posto preferito. Io e Asami trascorrevamo le ricreazioni a parlare di qualsiasi cosa. Di strane leggende, di costellazioni, dello spazio cosmico e di quanto il mondo fosse una briciola in mezzo ad un oceano di cose a noi ancora sconosciute. La maggior parte delle domande che ci ponevamo non trovava una riposta soddisfacente, ma in fondo era proprio questo che ci piaceva, perché avevamo modo di rifletterci e di riparlarne il giorno successivo.
Asami era così appassionata e curiosa che restava in silenzio ad ascoltarmi per tutto il tempo che avevamo a disposizione. Mi faceva così tante domande che avrei avuto bisogno di un giorno intero per poterle rispondere e io quel tempo lo desideravo con tutto me stesso, ma purtroppo dovevamo farci bastare le ricreazioni, perché Asami doveva badare a sua nonna e quindi durante il pomeriggio poteva uscire raramente.
«Takumi?».
«Si?».
«Secondo te esistono gli alieni?», mi chiese una mattina.
«Ma che domanda è Asami!», esclamai.
«È una domanda, come tutte le altre che ti ho fatto finora».
«Ma questa è più strana».
«Come vuoi. Io in ogni caso ci credo, secondo me da qualche parte vivono. Magari si nascondono e vengono fuori quando non ce ne accorgiamo. Dopotutto sarò l’unica a credere agli alieni. A forza di farci film o libri la gente non ci crede più. E questo è un loro vantaggio».
«Un loro vantaggio?», chiesi perplesso.
«Esatto. Se non credi a qualcosa non la reputi possibile, no? Sarebbe come vedere una zebra al polo Nord. Chi si aspetta che ci sia? Nessuno, quindi per una zebra sarebbe un vantaggio abitare là. Potrebbe vivere in santa pace».
«Quindi stai dicendo che gli alieni potrebbero abitare dove non ce lo aspettiamo».
«Esattamente».
«Aspetta, perché c’è un posto dove ci aspettiamo che siano?».
«Mhmm, ecco a questo non ho ancora pensato».
«Quindi hai fatto un discorso senza averci riflettuto?».
«In effetti…». Scoppiai a ridere.
«Guarda che sono seria eh».
«Ma certo. Comunque non vorrei dirtelo, ma credo che una zebra morirebbe al polo Nord. Non è abituata a stare al freddo».
«Ma era un esempio Takumi!», esclamò frustrata Asami.
Vederla sbuffare in quel modo mi faceva sorridere, forse perché in tutto quel tempo trascorso tra i banchi di scuola mi ero creato un’immagine di Asami differente da quella reale. Lei era tante cose messe insieme ed io non riuscii mai a comprenderla fino in fondo. Sentivo che c’era sempre qualcosa che mi sfuggiva e ogni giorno mi stupiva in un modo diverso da quello precedente.
Una cosa, però, era certa. Da quando cominciammo a parlare e a stare insieme, eravamo cambiati entrambi, come se in qualche modo ci migliorassimo a vicenda. Forse l’amore è racchiuso proprio in questo.
Pensare di parlare con Asami confidenzialmente mi sembrava così assurdo che a volte temevo da un momento all’altro di svegliarmi e di scoprire che tutto, dalla prima volta al club di musica alle ricreazioni trascorse seduti sulla panchina, fosse una mera illusione.
Mi persi a guardarla per qualche secondo e senza accorgermene sorrisi.
«Stai bene Takumi?».
Non dissi niente, mi limitai ad annuire.
«Mah, comunque se vuoi saperlo, secondo me non esistono», dissi subito dopo facendo una smorfia.
«Tu non credi mai a niente Takumi, sei noioso».
«Non sono noioso, è solo che ragiono sulle cose».
«Come ti pare, tanto io ci credo lo stesso».
I nostri discorsi terminavano sempre col suono della campanella che ci riportava nel mondo reale, quello fatto di libri, professori da ascoltare e sguardi fuggitivi. Sì, perché io e Asami, quando eravamo seduti in classe, capitava spesso che ci guardassimo, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. E quelli sguardi erano intrisi di qualcosa di forte, di nuovo, di diverso dal principio, certamente più vero.
Era una sensazione inspiegabile, ma da quando avevo conosciuto Asami, mi accorgevo sempre più spesso di avere paura. Come se sentissi dentro di me che quella fortuna che avevo avuto di incontrarla, prima o poi fosse destinata a finire. Il mio non era pessimismo, era solo paura di essere troppo felice.
«Sono contenta di averti conosciuto Takumi», disse un giorno Asami.
«Asami...», sussurrai.
«Grazie», mi interruppe lei.
Anche io ero felice di averla conosciuta, ma questo non glielo dissi mai.
Una mattina di primavera, durante la ricreazione, sorpresi Asami accovacciata in giardino, intenta a fissare il terreno.
«Che fai?», chiesi alle sue spalle.
Lei fece uno scatto, si alzò e in quel momento notai sul terreno una piccola buca.
«Mi hai beccata», disse sorridendo imbarazzata.
«Che cosa stai sotterrando?», chiesi incuriosito.
«Ecco, è una cosa che faccio sempre il giorno del mio compleanno».
«Oggi è il tuo compleanno?», esclamai. Lei annuì accennando un sorriso.
Scoprii solo quella mattina che Asami era nata prima di me.
«Non lo sapevo, scusa», dissi sinceramente dispiaciuto.
«Perché ti scusi?».
«Beh, perché non ti ho fatto nemmeno gli auguri o un regalo. Per di più compi diciotto anni, è un traguardo importante, no?».
Asami restò in silenzio a guardarmi e il suo sguardo era così dolce che mi fece venire voglia di abbracciarla, solo che non lo feci.
«Vieni qui», disse. Mi avvicinai a lei.
«Guarda, ti faccio vedere cosa stavo facendo».
Ci accovacciammo entrambi, poi Asami estrasse dalla tasca un sacchettino di carta.
«Chiudi gli occhi», disse.
Sentii qualcosa di leggero ma pungente sulla mia mano, come delle briciole di pane.
«Adesso aprili».
«Che cosa sono? Dei semi?», chiesi non appena guardai la mia mano.
«Sì. Sono semi di elicriso», disse.
«Eli cosa?».
«Elicriso. A volte viene chiamato anche fiore immortale. A me piace chiamarlo il sole d’oro. Sai alla fine il suo nome significa proprio questo. I suoi fiori sono talmente gialli che sembrano risplendere».
«Fiore immortale? Vuol dire che non muore mai?».
«Beh, più o meno. In realtà è perché il fiore dell’elicriso resta bello anche una volta seccato. Credo mi piaccia proprio per questo. Anche col passare del tempo, il fiore dell’elicriso conserva intatta la sua bellezza. Simboleggia infatti l’amore eterno e i ricordi. Non trovi sia bello qualcosa che resti nonostante tutto?».
«Sì, lo è», dissi dandole ragione senza pensarci troppo.
Lei sorrise.
«Adesso dovresti metterli lì dentro», disse indicando la buca.
Posizionai la mano chiusa a pugno sopra il terriccio scavato poi la aprii lasciando cadere i semi.
Asami ricoprì la buca e inumidì il terreno con un po’ d’acqua presa dalla sua bottiglietta termica, poi disse qualcosa in giapponese congiungendo le mani.
«Me ga dete kuremasu youni».[1]
Rimasi per alcuni secondi ad ammirarla in quella posizione, completamente incantato.
«Sai perché mi piacciono le piante Takumi? Perché a loro basta poco per crescere. Un po’ di terra, acqua, i raggi del sole e qualcuno che se ne prenda cura. Anzi, nella maggior parte dei casi riescono a sostenersi da sole. E nonostante non parlino, a me sembra che dicano sempre qualcosa, non so, è come una voce che non riesci a sentire ma sai che c’è. È strano, vero?», disse Asami sorridendo.
«Loro restano nonostante tutto», dissi continuando a guardarla.
«Proprio così. E poi sai quante cose vedono e ascoltano in tutta la loro vita? Pensa che i fiori delle piante sono in grado di captare i suoni e le vibrazioni. Ad esempio riescono a percepire l’arrivo di un’ape così da generare più nettare dolce per nutrirle. E tutto questo lo fanno in assoluto silenzio. È così affascinante».
«Come se intorno a noi accadessero molte più cose di quelle che siamo in grado di vedere», dissi.
«Esatto. Anche se una cosa non la vedi non significa che non esista. Forse semplicemente vediamo solo ciò che conosciamo».
Ragionai sulle sue parole per alcuni secondi, mentre Asami si drizzò in piedi.
«Perché pianti questi semi Asami?», chiesi poi.
«Lo faccio ogni anno il giorno del mio compleanno. Pianto dei semi di elicriso in un posto che per me è stato importante. Mi piace l’idea di lasciare qualcosa che continuerà a risplendere anche dopo anni e di cui altri possano godere».
«Da quanto tempo lo fai?», chiesi.
«Diciamo da molto».
«E dove li hai piantati in tutti questi anni?», chiesi.
«Un po’ ovunque. Li ho piantati anche in Giappone, dove sono cresciuta. Anche se farlo là è stata davvero dura, perché non è un ambiente favorevole agli elicrisi».
«Ho capito».
«Lo trovi stupido, vero?», chiese.
«Assolutamente no, anzi lo trovo originale», dissi sincero. Asami sorrise.
«Bene, adesso bisogna solo sperare che spuntino i primi germogli. Una volta cresciute le prime piantine, il gioco è fatto», disse entusiasta.
«Asami?».
«Si?».
«Vieni al Luna Park con me?».
Lei mi guardò sorpresa. Non si aspettava un invito del genere.
«Domani apriranno il Luna Park di paese, quindi pensavo che potremmo andarci se ti va. Così festeggiamo il tuo compleanno. Faranno anche i fuochi d’artificio».
Asami non disse niente, si limitò ad annuire accennando un dolce sorriso.
L’inaugurazione del Luna Park sarebbe stata alle diciannove. Per l’occasione indossai un paio di jeans, una maglietta sportiva e le Converse nere.
Avevo appuntamento con Asami davanti l’ingresso. Arrivai con qualche minuto di anticipo e l’aspettai appoggiato alla ringhiera del cancello. Ero emozionato all’idea di stare con lei, in fondo era il nostro primo vero appuntamento al di fuori della scuola.
Quando la vidi arrivare in lontananza il mio cuore cominciò a battere più velocemente. Asami quella sera indossava un vestitino rosso a fiori e un fermaglio bianco sui capelli raccolti in uno chignon. Era bellissima, come sempre.
«Ciao Takumi», disse appena mi raggiunse.
«Ciao, Asami», la salutai leggermente imbarazzato.
«Quante luci!», esclamò non appena volse lo sguardo alle giostre del parco.
«Entriamo dai», proposi.
Il Luna Park era molto grande. Su un lato si estendevano piccoli banchetti alternati a furgoni gastronomici dai cui camini sbuffavano continue nuvole di fumo. Vendevano leccornie di ogni tipo, zucchero filato, crêpes alla nutella, panini, gelati. Dall’altra parte, invece, c’erano tutte le attrazioni, su cui si affannavano a divertirsi sciami di persone.
Mentre camminavamo tra un banchetto e l’altro guardavo spesso Asami. Era completamente incantata dalle luci abbaglianti delle giostre che si riflettevano nelle sue iridi rendendole luminose. Era bello guardare la realtà attraverso i suoi occhi. La facevano sembrare migliore.
«Takumi, andiamo a vedere il tramonto!», disse Asami indicando l’orizzonte.
Il cielo si stava tingendo di rosso e guardarlo era come essere inondati da un’aura di magia. Camminammo fino a incontrare una scalinata in pietra che conduceva a un muretto da cui si poteva ammirare il mare. Ci sedemmo con le gambe penzoloni, investiti da quella luce rosea che per un attimo ci catapultò in un’altra dimensione.
Asami guardava il sole e i suoi occhi brillavano di serenità.
«Ti piace il tramonto eh?», dissi.
«A te no?».
Mi voltai verso l’orizzonte.
«Sì, mi piace. Molto».
«Takumi, tu preferisci l’alba o il tramonto?».
«Il tramonto credo. Anche perché l’alba l’avrò vista solo due volte in tutta la mia vita».
«Chissà perché alle persone piace più il tramonto che l’alba, qualcosa che rappresenta la fine della giornata anziché l’inizio. Curioso, vero?».
«Io credo sia perché l’alba la vedono davvero in pochi. Dormono tutti a quell’ora».
«O forse è perché ci piace di più qualcosa che ha breve termine. Come se la caducità fosse motivo di attrazione. Sapendo che qualcosa dura poco o sta per finire, ti concentri al massimo affinché tu possa godere a pieno della sua bellezza. In qualche modo ti appare più affascinante, non credi?».
«Ma anche l’alba dura poco. Forse è solo una questione di colori. Il tramonto ha colori più belli».
«Sì, ma poi quando spunta al mattino il sole resterà con noi tutto il giorno. E poi come fai a dirlo se hai visto l’alba solo due volte?», disse Asami scoppiando a ridere.
«Beh, quelle due volte mi sono bastate a capire che preferisco il tramonto», risposi deciso.
«In ogni caso il tramonto è la prova che la Terra gira intorno al Sole. Guarda come va giù all’orizzonte», disse Asami indicando il mare.
«Durante il giorno non ci facciamo mai caso eh?», aggiunse. Asami restò in silenzio per alcuni secondi.
«Comunque hai ragione Takumi. Non esistono colori migliori se non quelli del tramonto». Poi si zittì e continuò ad ammirare l’orizzonte.
«Non sei convinta, vero?».
«Sai Takumi, anche questo momento è come un tramonto. Tra poco ci alzeremo e andremo a mangiare a qualche banchetto, portandoci dentro la sensazione di aver vissuto qualcosa di unico e la paura di separarcene ce la farà apprezzare ancora di più».
Restai a guardare Asami senza riuscire a formulare una risposta degna della sua affermazione, ma forse è stato meglio così.
Non appena calò il sole il cielo si tinse di un rosso più scuro e un soffio di brezza marina ci investì completamente.
«Andiamo a mangiare?», propose Asami.
«Sì, certo».
Alla fine Asami aveva dannatamente ragione. Quando mi alzai mi accorsi di provare una sensazione strana, come se avessi paura di separarmi da quel muretto. Ero certo, però, che se avessi avuto il potere di bloccare il tempo e noi due in quella situazione, molto probabilmente non l’avrei fatto. In fondo quel tramonto era stato bello perché lo avevamo vissuto. Il tempo scandisce le nostre emozioni, bloccarlo sarebbe come privarle della loro unicità.
Tornammo dentro il Luna Park, immergendoci tra le luci fosforescenti e le urla dei bambini entusiasti. Mangiammo un hot dog farcito con la maionese. Asami si sporcava continuamente la bocca con la salsa ed io non potevo evitare di prenderla in giro. Dopo cena facemmo qualche gioco. Le auto scontro furono quelle più divertenti ma anche le più dolorose. Asami era incredibilmente brava a guidare e finiva sempre per colpirmi per prima. Salimmo anche sulle montagne russe, nonostante avessi un po’ di timore. Asami, al contrario, era elettrizzata e non faceva altro che sghignazzare, soprattutto perché una volta saliti, si rese conto che avevo paura.
«Takumi, apri gli occhi! Altrimenti ti perdi tutto il divertimento!», gridò mentre correvamo sulla giostra.
Quando aprii gli occhi il mio cuore mi balzò sul petto e improvvisamente, come se una scossa elettrica mi avesse colpito, mi sentii più vivo. Asami aveva ragione. A tenere gli occhi chiusi si perde il lato migliore delle cose.
Alla fine salimmo anche sulla ruota panoramica e una volta giunti in cima il panorama era così bello che non trovai le parole giuste per esprimere la sensazione legata a quel momento. Asami si muoveva da un sedile all’altro per ammirare la città da ogni punto di vista, mentre io, seduto serenamente, mi divertivo a guardarla picchiettare la fronte sul vetro della cabina.
«Ma è durato troppo poco!», disse Asami una volta scesi.
«E non l’hai trovato più affascinante?», le chiesi ironico.
«Mmm, stavolta non ne sono sicura. Abbiamo pagato eh», disse polemica mentre io scoppiai a ridere.
Dopo il giro sulla ruota comprammo un gelato. Lei al cioccolato ed io alla fragola.
Quando tornammo immersi tra le giostre del Luna Park, diedi ad Asami il mio regalo di compleanno. Quella sarebbe stata l’ambientazione perfetta.
«Mi scusi, può farci una foto?», dissi ad un passante porgendogli la mia Polaroid nera.
Asami non disse niente, ma sembrava piacevolmente sorpresa. Ci ponemmo l’uno di fianco all’altra, leggermente imbarazzati e con i coni di gelato in una mano, mentre l’uomo ci esortò a sorridere con il consueto “cheese”. In quell’istante Asami mi prese la mano. Io mi voltai a guardarla stupito, mentre sentii in lontananza il rumore dello scatto.
«Ecco la vostra foto ragazzi», disse l’uomo porgendomi l’istantanea.
Asami lasciò la presa, entusiasta all’idea di vedere come fosse venuta la foto.
Aspettammo che i colori emergessero dalla pellicola bianca e dopo una decina di minuti l’immagine divenne ben nitida.
«Sei sempre il solito Takumi», disse Asami scoppiando a ridere.
Nella foto le nostre mani erano strette l’una all’altra, ma se Asami guardava l’obiettivo sorridendo, io guardavo lei con espressione assorta.
Mi grattai la testa imbarazzato poi porsi la foto ad Asami.
«Questa è per te. È il mio regalo di compleanno».
Asami guardò la foto e poi me, e in quel momento rividi nei suoi occhi la stessa espressione di quando le porsi il pacchetto di patatine nel ripostiglio dell’aula di musica. Ma stavolta c’era anche qualcos’altro nel suo sguardo, qualcosa di dolce e incredibilmente effimero. Qualcosa di simile alla consapevolezza di perdere qualcuno.
«Così avrai un ricordo di questa serata, no?», le dissi.
Qualsiasi cosa fosse accaduta nelle nostre vite da quel giorno in poi, in quella foto era racchiuso un momento unico e irripetibile, e tale sarebbe rimasto per sempre. Perché in fondo le foto sono come le piante. Restano nonostante tutto.
«Grazie, Takumi». La sua voce sembrava nascondere una leggera fragilità. Le sorrisi.
«Aspetta, però tu non ne hai una», disse quasi preoccupata.
«Eh già», ridacchiai.
«Questa tienila tu. A me basta averne una con te e basta».
«Cosa? Cioè vuoi avere una foto di me?», dissi grattandomi nervosamente la testa.
Asami prese dalle mie mani la Polaroid, si allontanò di qualche passo e scattò senza preavviso.
«Ma Asami! Non mi hai dato il tempo di mettermi in posa!».
Lei rise divertita poi disse che di una foto di me in bella posa non se ne sarebbe fatta nulla se poi non mi avesse riconosciuto.
«Che intendi dire?», chiesi.
«Se guardo questa foto vedo chi è Takumi. Se ti fossi messo in posa, invece, saresti stato un ragazzo qualunque, come un modello, ma io preferisco le foto spontanee. Anche se non perfette, in realtà sono le migliori, perché ci dicono sempre qualcosa, è come se parlassero».
«Come le piante?», dissi. Asami sorrise e poi rispose.
«Sì, come le piante».
E quella foto di me e Asami continuò a parlare per molto tempo dopo quella sera. La custodivo dentro un cassetto della camera, come a voler proteggere quello che c’era stato fra di noi. La guardavo spesso, soprattutto quando avevo voglia di rivedere Asami e di ricordare i noi di un tempo. Immaginavo come potesse essere diventata, cambiata, cresciuta. Mi chiedevo se guardava ancora i tramonti come allora e se nel farlo qualche volta mi avesse pensato. Io lo facevo, ogni volta. Guardare il tramonto era diventata un’occasione per guardarmi dentro e in quel dentro Asami era sempre presente.
«Tra poco faranno i fuochi d’artificio. Perché non torniamo sul muretto?», proposi.
Asami disse che le andava bene, così ci sedemmo sullo stesso muretto dove un’ora prima avevamo ammirato il crepuscolo. Dal mare soffiava un’aria fresca che profumava di salmastro e anche se faceva leggermente freddo a me non importava, mi bastava stare con lei.
Cominciammo a parlare, a farlo in un modo diverso dal solito, forse più intimo, profondo, certamente piacevole.
«Quando abitavo in Giappone ogni estate io e mia sorella andavamo ad un festival di fuochi d’artificio che si teneva a Tōkyō. Partivamo all’alba con la macchina. Ci portava la nonna. Durante quei viaggi lei ci raccontava le leggende popolari giapponesi. Io e mia sorella eravamo piccole, ma il ricordo di quelle gite in macchina è tatuato dentro di me. E sai qual era la cosa più bella? Aspettare seduti l’uno di fianco all’altra che il primo fuoco d’artificio fosse lanciato in aria. Quell’attesa era la cosa più emozionante».
«Anche adesso lo sei? Emozionata intendo». Asami annuì poi sorrise.
«Un po’ sì. Questo momento mi ricorda la mia infanzia. Sai, c’è una parola in giapponese che descrive proprio questa sensazione. È Natsukashii. Che significa qualcosa tipo “nostalgia felice”, insomma quello che si prova quando ci salta alla mente un ricordo bello del passato. Pensa che questa espressione ha un’origine particolare. Proviene da una parola che allude al desiderio di non staccarsi mai da una cosa o da una persona, poi fu usata per indicare qualcosa di aderente e da una certa epoca in poi prevalse il significato attuale, quello di un attaccamento affettivo a qualcosa o a qualcuno che sta lontano. Quindi si usa soprattutto per i ricordi cari».
«Ma come sai tutte queste cose?», chiesi stupito.
«Colpa della nonna. Lei mi ha insegnato così tante cose che a un certo punto ho dovuto trascriverle su un quaderno per non dimenticarle tutte», disse Asami sorridendo.
«Che strano», dissi.
«Che cosa?».
«Che entrambe le parole, nostalgia e natsu...», cominciai a dire.
«Natsukashii», terminò Asami.
«Ecco quella. Volevo dire che è curioso che abbiano entrambe la stessa iniziale. Ci avevi mai fatto caso?».
«Effettivamente no. Ora che ci penso hanno anche una assonanza simile, non credi? Soprattutto nella parte finale della parola».
«Mmm, ora non esagerare eh», dissi. Asami scoppiò a ridere.
La guardai per un po’ poi tornai a contemplare il mare che lentamente si stava fondendo con il cielo notturno. La brezza marina apriva i polmoni e forse anche le nostre menti.
«Quando ero piccolo anche io guardavo i fuochi d’artificio con la mia famiglia. Mi mettevo a sedere su questo muretto e restavo immobile a guardare il cielo senza mai distogliere lo sguardo. Ho un vago ricordo di mio nonno che mi prendeva sulle spalle. Ero io a chiedergli di farlo. Sai, ero convinto che in quel modo avrei potuto toccare i fuochi d’artificio e anche il cielo», sorrisi a quel pensiero, realizzando che da bambino guardavo il cielo molto più spesso di quanto non facessi da ragazzo.
«Natsukashii eh?», disse Asami.
«Già. Da qualche anno, invece, ci vengo da solo. Prendo la bici, pedalo fino a qui e mi godo lo spettacolo in silenzio, senza distrazioni. Non è affatto male, anzi mi sembra di godermeli di più», dissi.
«Ma il silenzio si può condividere, sai?», disse Asami.
Di colpo sobbalzai al rumore del primo fuoco d’artificio lanciato in aria e Asami non poté evitare di ridere, poi quando vide che stavo per dire qualcosa mi fece gesto di fare silenzio.
«Shh, mi scusi, ma vorrei guardarli in silenzio se non le dispiace», scherzò facendomi l’occhiolino.
Per i dieci minuti successivi guardammo i fuochi d’artificio, rigorosamente in silenzio. E in quel momento dentro di me si fece spazio la sensazione di essere nel posto giusto con la persona giusta.
Lo capisci subito quando accade. Non senti il bisogno di riempire il silenzio con parole inutili e di circostanza, perché sai che quell’apparente vuoto, in realtà, è già riempito da qualcos’altro che non si può vedere. Qualcosa che fa molto più rumore della nostra voce, qualcosa a cui non ho mai saputo dare un nome, ma che sapevo essere presente. Come la voce delle piante di cui parlava tanto Asami, come le emozioni che trapelano da una vecchia foto, come la consapevolezza che lei era diventata qualcosa di più di una semplice amica.
«Adesso devo proprio andare Takumi. Mia nonna mi sta aspettando».
«Certo, ti accompagno alla bici allora».
Uscimmo dal Luna Park l’uno di fianco all’altra. Io con la nostra foto racchiusa in una tasca del pantalone e lei con la foto di me nella sua borsa rossa di pelle, lasciandoci alle spalle la sensazione di aver vissuto qualcosa di unico. Proprio come dopo aver visto un tramonto.
 
 
Una turbolenza mi scosse dal mio viaggio mentale, riportandomi sul sedile di quel volo dalla durata interminabile.
La signora accanto a me si svegliò di soprassalto per lo spavento e devo confessare che la sua reazione in parte mi divertì.
«Tutto bene?», le chiesi gentilmente.
«Accidenti a questi scossoni, ogni volta mi sembra di precipitare, non mi sono ancora abituata».
«Stia tranquilla, le turbolenze non sono poi così pericolose come dicono. Lei viaggia spesso?».
«Sì, per andare a trovare mia sorella. Sa, lei si trasferì in un altro paese quando era ancora molto giovane. Lo fece per amore, anche se io inizialmente non condivisi la sua scelta. Dopo anni, però, ho capito che mi ero sbagliata, che qualsiasi cosa si voglia fare nella vita a un certo punto bisogna farla, perché sennò si trasforma in un rimpianto, no? E sono certa che se lei non fosse partita, se ne sarebbe pentita. Dopotutto sarebbe sempre stata in tempo per tornare a casa».
La signora cominciò a parlare con una confidenza tale che improvvisamente ebbi come la sensazione di conoscerla da molto tempo.
«Credo abbia perfettamente ragione, anche se per certe scelte bisogna ragionarci un po’ prima di intraprenderle».
«Ma come? Un ragazzo giovane come lei è così poco impulsivo? Io alla sua età ero peggio di mia sorella! La criticai, ma in fin dei conti eravamo molto simili, forse la mia era solo paura di vederla allontanare da me».
«In realtà ho quasi trentatré anni», dissi con un lieve sorriso.
«Trentatré anni?! Ma ha questo viso così da bambino!».
«Eh già», risposi grattandomi la testa, come facevo anche da ragazzo quando mi sentivo in imbarazzo.
«Sa, in fondo sono sempre stato così fin da piccolo, un ragazzo che ha bisogno della logica per spiegare tutto ciò che gli succede», dissi.
La signora si voltò a guardarmi.
«È un tipo riflessivo quindi».
«Più che riflessivo mi definirei razionale. Anche se forse vogliano dire la stessa cosa», dissi sorridendo.
«Mhmm, io credo di no. Può accadere che le due cose non convivano. In fondo si può essere riflessivi e porsi innumerevoli domande, ma poi fare delle scelte impulsive».
Mi voltai d’istinto verso il finestrino.
«C’è stato un periodo della mia vita in cui avevo imparato a non pensare troppo al meccanismo delle cose. Mi lasciavo semplicemente trasportare da quello che potevano trasmettermi. Fu come guardare il mondo per la prima volta», cominciai a dire.
«Poi sono tornato ad essere quello che ero prima. Ho conservato qualcosa di quel periodo, forse l’essenziale per non dimenticarmene, ma oggi mi sembra così lontano quel me stesso che a stento lo riconosco come parte del mio passato».
Mi voltai verso la signora, leggermente stupito dalla mia voglia di parlare a una sconosciuta di ciò che conservavo dentro. Forse perché è più facile aprirsi con qualcuno che non sa niente di te.
«Mi scusi, la sto annoiando con i miei discorsi strampalati», dissi imbarazzato.
«Niente affatto, anzi sono felice che si sia aperto con me. Se posso chiederglielo, perché non ha continuato a guardare il mondo con quegli occhi?».
Rimasi in silenzio per qualche secondo, indeciso su cosa avrei dovuto dire.
«Scusi, forse sono stata troppo invadente», disse lei accorgendosi del mio disagio.
«No, mi scusi lei, è che non saprei davvero come rispondere alla sua domanda».
«Non si preoccupi. Sa, forse non ho bisogno che mi dia una risposta. Credo di aver capito». Guardai la signora e aggrottai le sopracciglia di rimando.
«Se posso dirle la mia, io credo che nonostante certe relazioni non durino per sempre, ciò che impariamo da alcune persone dovrebbe essere conservato dentro di noi, se ci fa stare bene e ci migliora, non crede?».
«Come ha capito che...», cominciai a dire.
«Beh, ho molti anni più di te ragazzo e poi quando impariamo qualcosa nella maggior parte dei casi è qualcun altro a insegnarcela, no? Suppongo che sia stato così anche per lei».
Abbozzai un sorriso.
«Non ci pensi troppo, cerchi di vivere la sua vita pensando a chi vorrebbe essere adesso, non a chi è stato in passato».
Riflettei sulle sue parole per alcuni secondi poi cambiai discorso.
«Sua sorella è felice adesso?».
«Sì, lo è. Beh, all’inizio è stato difficile per lei abbandonare il suo paese, era tutto diverso, straniero, in parte la spaventava, ma dopo alcuni mesi nella casa nuova, assieme al suo attuale marito, ha capito che era lì che doveva stare. Quando le chiedevo se le mancasse casa nostra, lei mi diceva sempre: “Ubi bene ibi patria”, ossia “Dove sto bene, lì è la mia patria”. Ogni tanto è venuta a trovarci e quando lo faceva era molto felice di stare in nostra compagnia, ma la sua vita ormai si trovava altrove, con i suoi affetti, il suo lavoro, le persone che avrebbe conosciuto e tutti i progetti ancora da realizzare. Mia sorella è stata coraggiosa e io la stimo molto per questo. Mi ha insegnato che non è importante il luogo in cui ci troviamo, ma ciò che in quel luogo riusciamo a costruire, prima di tutto noi stessi».
Sorrisi.
«Anche lei sarà felice, ne sono sicura», disse.
Nonostante mi conoscesse da sole due ore, quella signora aveva capito che dentro di me mancava qualcosa da ormai troppo tempo. Certe persone sanno leggerti dentro senza conoscerti a fondo, dopotutto è una capacità innata quella dell’attenzione e non tutti ne sono provvisti.
 
 
La sera del sette luglio ero così emozionato che dimenticai perfino di cenare.
Sapevo che i giapponesi indossassero lo yukata per i festeggiamenti, ma io non ne possedevo uno e quindi mi vestii come un semplice adolescente, con un paio di jeans e una camicia a quadri blu. Mi ricordai però dell’usanza di scrivere su foglietti colorati i nostri desideri e di appenderli poi su canne di bambù. Il pomeriggio ero stato dal fioraio e in cartoleria, e avevo acquistato tutto l’occorrente. Ero certo che Asami ne sarebbe stata felice.
Uscii di casa alle ventuno. Ci saremmo incontrati in cima ad una collinetta vicino casa sua, così da poter osservare le stelle senza il disturbo delle luci urbane. Pedalai a grande velocità, non perché fossi in ritardo, ma solo per scaricare la tensione accumulata durante il pomeriggio. Quando arrivai posai la bici e mi sedetti sull’erba umida a gambe incrociate. Mi persi ad osservare il cielo limpido cosparso di stelle e la città punteggiata di luci che, da quella collina, sembrava essere distante decine di chilometri. Mi piaceva quel posto, aveva un profumo particolare, come di muschio fresco mescolato al rosmarino. Inspirai profondamente cercando di assaporare quell’aroma intriso di attesa e di imprimerlo nella mente. Si dice che gli odori siano più facili da ricordare rispetto a qualcosa che abbiamo visto ed è dannatamente vero. Se chiudessi gli occhi adesso e immaginassi quel momento, sono certo che riuscirei a sentire lo stesso profumo e la stessa tensione e, chissà, forse anche la voce di Asami alle mie spalle.
«Ehi Takumi, scusa il ritardo, ma ho avuto problemi con questo».
Quando mi girai a guardarla, non seppi che dire. Asami indossava uno yukata bianco sullo sfondo ricoperto di piccoli fiori blu simili a fiori di ciliegio che riprendevano il colore del fermaglio appuntato sulla testa. Diversamente da quando andavamo a scuola, aveva raccolto i capelli neri in una chioma vaporosa, dalla quale spuntava un ciuffo che le ricadeva sull’occhio sinistro.
«Asami...», farfugliai.
«Sì, lo so mi sta un po’ largo sui fianchi, ma era di mia sorella quindi...».
«Sei bellissima».
Lei sorrise imbarazzata. Quella fu l’unica volta in cui la sorpresi senza parole e sono felice di averle detto la verità allora, perché Asami quella sera, con lo yukata indosso, aveva la parvenza di una dea.
«Vieni, ho trovato un posto perfetto dove vedere le stelle», dissi mentre le presi la mano senza pensarci troppo. Con la coda degli occhi vidi Asami stupirsi di quel gesto, ma non sembrò infastidita, anzi riuscii a scorgere in lei un lieve sorriso. Dopotutto le nostre mani si erano già intrecciate in un’altra occasione.
Ci sedemmo sopra due asciugamani da mare che avevo portato da casa e quando l’aria si fece più fresca ci coprimmo con un telo di cotone. Il cielo era ancora limpido e le stelle brillavano come fiocchi di neve.
«Takumi, ho portato qualcosa da mangiare», disse Asami, tirando fuori dalla borsa a tracolla un pacchetto rosa.
«Sono onigiri al tonno e maionese, praticamente dei triangoli di riso ripieni. Tieni, assaggiane uno».
Asami mi passò un onigiri a cui diedi subito un morso, curioso di sentirne il sapore.
«Li ho preparati io, spero che ti piacciano», disse guardandomi attentamente come se aspettasse una mia reazione.
«Ma sono buonissimi! Non li avevo mai mangiati sai», esclamai sincero dopo averne dato un morso.
Ricordo ancora oggi il sapore di quelle polpette di riso, croccanti fuori e gustose all’interno. Dopo il liceo ne assaggiai altre in alcuni ristoranti giapponesi, come se cercassi disperatamente lo stesso gusto e la mia fosse una specie di ossessione, ma gli onigiri di Asami non li ritrovai mai più. In quelle occasioni immergermi in un’atmosfera orientale era per me un sollievo, forse perché mi faceva sentire più vicino a lei. Ogni volta che varcavo la soglia di quei locali la immaginavo seduta a un tavolo impegnata a consultare il menù della cena, pronta a segnarsi su un taccuino gli ingredienti di qualche onigiri che lei stessa avrebbe poi cucinato.
«Asami sei davvero una brava cuoca», continuai a dirle mentre masticavo compiaciuto. Lei sorrise soddisfatta.
«Fortuna che hai portato qualcosa da mangiare, non ho nemmeno cenato», aggiunsi. A quelle parole Asami sembrò ancor più contenta.
«Come mai?», chiese poi.
«Oh, niente, è che ho fatto tardi e quindi non sono riuscito a cenare», mentii.
«Sei sempre il solito. Sarai anche razionale, ma dimentichi di fare le cose più importanti», disse Asami sorridendo.
«Eh già».
«Takumi?», fece lei dopo un po’.
«Si?». Mi voltai verso di lei che aveva gli occhi fissi al cielo, come al suo solito.
«Tu ci credi al destino?».
Riflettei sulla sua domanda per qualche secondo, poi mi resi conto di non avere una risposta.
«Non lo so, credo di non averci mai ragionato abbastanza. Tu ci credi?», le chiesi a mia volta. Asami si volse a guardarmi poi rispose in modo deciso, come se non avesse mai avuto dubbi.
«Sì».
La sicurezza che lessi nei suoi occhi mi stupì molto. Asami era sempre certa delle sue parole, non perdeva mai troppo tempo a rispondere a una domanda, lei sapeva cosa dire in ogni situazione. Spesso mi chiedevo se avesse mai dubitato di qualcosa o di qualcuno.
«Credo che certi incontri non si facciano per caso. Alcune persone entrano nella tua vita e ci restano per poco tempo, altre più a lungo, ma tutte loro in qualche modo avevano il compito di lasciarti qualcosa, di insegnarti qualcosa. Come se facessimo parte di una grande sfera al cui interno si intrecciano innumerevoli strade. Sono sicura che, anche prendendo vie diverse, se due persone sono destinate a stare insieme, si rincontreranno sempre, in un modo o nell’altro, come in un cerchio che si chiude», continuò Asami guardando il cielo con occhi velati di serenità.
Osservandola pronunciare quelle parole trovai anche io la mia risposta.
«Perché mi hai fatto questa domanda Asami?», chiesi incuriosito.
«È un segreto», disse lei cucendosi gestualmente le labbra.
«Cosa?», esclamai.
Asami scoppiò a ridere ed io la lasciai fare senza obiettare ulteriormente.
«Adesso guardiamo le stelle?», chiese entusiasta.
«Vega e Altair dovrebbero essere là», dissi indicando un punto nel cielo. Asami mi prese il braccio e lo spostò di qualche centimetro.
«Credo che siano là».
«E tu come fai a saperlo? Avevi detto che non le avevi mai viste».
«Chiamalo intuito», disse Asami abbozzando un sorriso per poi sdraiarsi sul telo. Io feci lo stesso mettendo le mani dietro la testa.
Senza che ce ne accorgessimo respirammo profondamente nello stesso momento, come se volessimo assaporare quell’istante. Per quella coincidenza scoppiammo a ridere.
«Asami posso chiederti una cosa che mi frulla in testa da un po’ di tempo?», dissi subito dopo. Asami si girò verso di me e annuì.
Eravamo molto vicini, a tratti sentivo il suo respiro e questo mi rendeva nervoso, ma al tempo stesso era una sensazione piacevole. La verità è che avrei voluto sentirmi così tutti i giorni.
«Perché guardi sempre il cielo?».
A quella domanda alquanto insolita Asami sorrise, aggrottando le sopracciglia, come se fosse sorpresa.
«Tu non lo fai mai?», chiese.
«Sì, qualche volta, quando ci sono degli eventi particolari».
«Eventi particolari?», ripeté lei confusa.
«Sì, come la notte di San Lorenzo o come quando abbiamo visto i fuochi d’artificio, ma a cose normali non guardo il cielo così spesso come fai tu».
Asami restò in silenzio a guardarmi per qualche secondo prima di rispondere.
«Quindi tu mi osservi, come uno stalker».
«No ti sbagli, è che io...», cominciai a dire grattandomi la testa.
«Ti gratti sempre la testa tu eh? Quando sei imbarazzato».
«Come? Davvero? Cioè no, non è così».
«Lo stai facendo anche adesso», disse soffermando lo sguardo sulla mia testa. Quando mi resi conto che Asami aveva ragione mi zittii, mentre lei scoppiò a ridere.
«Comunque non so come tu faccia», disse lei tornando a guardare l’orizzonte.
«A fare cosa?», chiesi confuso.
«Dico, come fai a non guardare mai il cielo, a non guardare in alto».
Le sue parole mi fecero sentire improvvisamente sbagliato, come se mi fossi appena accorto di aver trascurato qualcosa di importante.
«Io non potrei mai non guardare il cielo. Sarebbe come dimenticarsi di respirare. Quando torno a casa la sera, prima di aprire la porta, mi fermò sulla soglia e lo guardo. È un gesto istintivo, come un bisogno che nasce da dentro».
Gli occhi di Asami esprimevano la loro devozione al firmamento, a qualcosa che esisteva dentro di sé, come se dal cielo le giungesse alle orecchie una voce che solo lei poteva comprendere.
Col passare degli anni capii cosa volesse dire Asami quella sera. Dopo quell’estate cominciai a guardare più spesso il cielo e quello che inizialmente era un gesto sporadico si trasformò presto in un’abitudine, una di quelle di cui non riesci più a fare a meno perché hai capito quanto ti fa stare bene. Non so cosa provasse Asami quando guardava il cielo, ma per me farlo divenne una fuga dalla realtà e mi faceva sentire meno solo. Spesso mi chiedevo come avessi fatto a vivere la mia vita adolescenziale senza alzare mai gli occhi, senza preoccuparmi di cosa ci fosse al di sopra della mia testa.
Chissà invece quante volte Asami avrà pensato alla complessità dell’universo solo guardando in alto, oltre le finestre dell’aula in cui tutte le mattine trascorrevamo il nostro tempo.
«Takumi, tu cosa vorresti fare da grande?», chiese improvvisamente Asami.
«Vorrei diventare un pianista, proprio come mio nonno. Nonostante fossi molto piccolo, ricordo ancora le sue mani che si muovono armonicamente sulla tastiera. Ogni volta mia madre doveva schioccare le dita per riportarmi alla realtà. Guardarlo e ascoltarlo mi incantava in un modo particolare che nemmeno riesco a spiegare a parole. Era qualcosa di incredibilmente ipnotizzante. Spero un giorno di poter essere bravo quanto lui».
Solo in quel momento realizzai che prima di incontrare Asami c’era un’altra persona che riuscivo ad ascoltare e guardare allo stesso tempo, qualcuno che purtroppo non faceva più parte della mia vita. Forse era anche per quello che mi piaceva suonare, perché così avrei continuato a sentire la vicinanza di mio nonno e mi sarei sentito bene come quando mi perdevo ad ascoltarlo. E poi anche io volevo incantare gli altri suonando, proprio come lui aveva fatto con me.
«Sono certa che lo sarai, Takumi», disse Asami guardandomi negli occhi e accennando un dolce sorriso.
Le sue parole quella sera mi confortarono non poco e mi fecero credere ancor di più in quello che sarei potuto diventare. Se Asami pensava che ci sarei riuscito, allora doveva essere così.
«E tu invece?», le chiesi.
«Mi piacerebbe studiare astronomia».
«Astronomia? Dici sul serio?», esclamai sorpreso.
Avrei dovuto capirlo sin dall’inizio, quando mi accorsi che guardava sempre oltre la finestra e sul suo volto si formava un sorriso. Doveva essere per quello che Asami ammirava sempre il cielo.
«Già», disse abbozzando un sorriso.
«Sai, devo confessarti che stare qui con te mi ricorda quando io e mia sorella andavamo a sederci sulla collinetta vicino casa. Allora abitavamo in Giappone. Aspettavamo sempre l’ora del tramonto, era il nostro momento della giornata preferito».
«Ecco perché mi hai chiesto di vedere il tramonto la sera al Luna Park», dissi. Asami sorrise poi annuì.
«Beccata. Beh, io e mia sorella ci perdevamo sempre a guardare l’orizzonte, eravamo come ipnotizzate dalla luce del tramonto. Non potevamo farne a meno e poi da quella collinetta il panorama era bellissimo. Sai, quando guardavo Anami ero felice e pregavo ogni sera affinché il giorno seguente potessimo rivedere lo stesso spettacolo. Avrei voluto che quel momento non finisse mai. Anche Anami era una grandissima appassionata della scienza, ci facevamo un sacco di domande. Le dicevo sempre che mi sarei dedicata allo studio dell’astronomia così avrei potuto raccontarle cosa si trovasse nell’universo. Anami ogni volta mi guardava e col sorriso sulle labbra mi diceva che non vedeva l’ora di ascoltare tutte quelle storie», disse mentre giocava con la sua collana, stringendola di tanto in tanto. La sua voce era calma, pacata, ma celava un sottile velo di malinconia che mi fece venire un groppo in gola, come se potessi percepire le emozioni dietro a quelle intime parole.
«Quella collana è importante per te, vero?», chiesi.
Asami l’aveva sempre al collo, ma solo allora mi resi conto che potesse avere un valore speciale per lei.
La guardò per un secondo poi rispose sorridendo.
«Me la regalò mia sorella quando festeggiammo insieme l’Hanami. È un petalo di ciliegio dentro una goccia di resina. Lo raccolse in quell’occasione, lo conservò e ne fece una collana per me».
«Hanami?», chiesi non sapendo cosa fosse.
«Sì, è l’usanza giapponese di godere della bellezza della fioritura dei ciliegi durante la primavera. Per quell’occasione vengono organizzati addirittura dei pic-nic. È un momento bellissimo, sono certa che ti piacerebbe».
«Perché festeggiate quel momento? È così importante?», chiesi. Asami mi guardò accigliata.
«Beh, certo che è importante. Tu a che cosa pensi quando vedi cadere la neve?».
«Che fa molto freddo?», scherzai.
«Sei sempre il solito, Takumi». Mi grattai la testa.
«Quando cade la neve o un petalo di ciliegio, il tempo è come se si bloccasse di colpo. Si crea un’atmosfera di sospensione in cui ti soffermi a pensare alla caducità delle cose».
«Credo di aver capito. È come il tramonto, dico bene?». Asami annuì con un sorriso sulle labbra.
«Mia sorella adorava l’Hanami e anche io. Mi manca molto».
In quel momento non capii se ad Asami mancasse la sorella oppure ammirare i ciliegi in fiore. Forse entrambe le cose.
Mi voltai a guardarla e mi parve di vederla piangere. Non lo stava facendo letteralmente, ma i suoi occhi erano lucidi, a tratti stanchi, poi si volse verso di me e sorrise, e in quel momento capii che Asami era più forte di qualsiasi altra cosa avessi mai conosciuto nella mia vita. La sua dolce espressione mi fece capire molto di lei. Asami era gentile, solare, curiosa, ma dentro di sé nascondeva qualcosa di freddo, di terribilmente intimo che si sforzava di non mostrare a nessuno.
Non glielo dissi mai esplicitamente ma io mi ero accorto di quell’universo nascosto dietro il suo sguardo, comprensibile solo a chi avesse avuto la capacità di prestare attenzione. Col tempo realizzai che stando con Asami avevo imparato a leggermi dentro, a pensare di più e a parlare in un modo più profondo. La verità è che con lei mi sembrava di poter scalfire più a fondo la superficie delle cose. Mi insegnò a guardare la realtà nei minimi dettagli, a soffermarmi su quelle piccole cose che prima di lei mi apparivano superflue o addirittura inesistenti. Asami cambiò letteralmente il mio modo di vedere il mondo.
Quella sera, seduti su una collinetta un po’ umida, avrei voluto sapere di più di lei e chiederle perché le venisse da piangere quando parlava di sua sorella, ma per l’ennesima volta scelsi il silenzio e le afferrai la mano senza pensarci troppo, poi la guardai negli occhi, come a prometterle che ero lì e che avevo capito i suoi sentimenti.
Lei mi riservò un dolce sorriso, uno di quelli che non ho mai dimenticato.
«Certo che hai le mani proprio calde, Takumi», disse lei sfacciata.
«Eh? Cosa? Ma ti pare il momento di dirmi certe cose?» esclamai. Asami scoppiò a ridere ed io le lasciai frettolosamente la mano.
In quel momento sentii Asami avvicinarsi al mio viso. Il suo respiro sfiorò le mie guance, sulle quali stampò un lieve bacio. Le sue labbra erano morbide e anche dopo essersi staccate continuai a percepire la loro impronta sulla mia pelle.
«Grazie, Takumi».
Di colpo mi irrigidii per quel gesto inaspettato, come uno stupido adolescente che non ha il coraggio di essere intraprendente come tutti gli altri. La sua voce era così calda che di colpo mi sentii bruciare lo stomaco e il cuore cominciò a battere più velocemente.
Mi parve di vedere Asami sorridere con la coda dell’occhio, divertita dalla mia reazione.
«Tu suoni il basso Asami?», le chiesi dopo un po’ di tempo ricordandomi improvvisamente di quella volta nell’aula di musica.
Lei annuì.
«Come mai proprio il basso?».
«Il nostro cervello riesce a riconoscere meglio le frequenze basse da quelle alte. E le note suonate al basso incitano maggiormente chi ascolta a battere il tempo con il piede. Quando ascolti suonare una band quasi ti dimentichi di considerare il bassista, quando in realtà è un elemento fondamentale. È colui che dà il tempo e, seppur tra i vari strumenti è logico ci debba essere un equilibrio, il basso è il filo che li lega tutti insieme e li mantiene in accordo, come una colla, una sorta di guida. Ci sembra di non sentirlo, ma in verità è la prima cosa che percepiamo».
«Quindi lo hai scelto per la sua importanza?».
«L’ho scelto perché credo di assomigliarci un po’».
«In che senso?».
Asami restò qualche secondo in silenzio prima di riprendere a parlare.
«Beh, mi piace l’idea che qualcosa che sta sempre in disparte abbia in realtà la capacità di tenere assieme tutto ciò che lo circonda. E che lo faccia in silenzio. Mi piace che qualcosa di apparentemente trascurabile sia al contrario così importante. Lo trovo affascinante», bofonchiò imbarazzata senza rispondere direttamente alla mia domanda.
«Quindi il basso è sottovaluto. È questo che vuoi dire». Asami scoppiò a ridere.
«Se vuoi riassumerla così...».
Sul momento non ci ragionai troppo, ma Asami aveva ragione. Lei era esattamente come il basso. Nessuno si era mai accorto a sufficienza di lei, ma bastava conoscerla davvero per rendersi conto di quanto la sua visione delle cose fosse importante per capire meglio la realtà che ci circonda.
«Comunque adesso dovremmo esprimere il nostro desiderio, sai», bofonchiai cambiando argomento.
Mi alzai e rovistai nella busta che avevo portato da casa alla ricerca dei foglietti di carta e delle canne di bambù. Quando mi voltai verso Asami per darle il biglietto su cui scrivere il suo desiderio era sorpresa, mi guardò e sorrise.
«Ti sei ricordato della tradizione giapponese!», esclamò. Le sorrisi.
«Avanti, secondo me dovresti scrivere “Vorrei diventare un’astronoma”!», scherzai.
«Ehi, guarda che posso diventarlo anche senza il desiderio eh», rispose lei fingendo di essersi offesa.
Diedi un pennarello ad Asami che si mise a sedere in ginocchio a causa del suo kimono un po’ scomodo ed io feci altrettanto.
Quando presi in mano la penna, però, mi accorsi di non sapere cosa desiderare. Era difficile scegliere una cosa sola, perché facendolo le avrei dato più importanza di tutto il resto. Mi guardai attorno come se potessi afferrare la risposta giusta, poi guardai Asami che era concentrata nella sua scrittura. Mi persi ad osservarla per qualche secondo come in uno stato di trance e fu allora che capii cosa desiderassi davvero.
Non voglio dimenticare tutto questo”.
Fu ciò che scrissi su quel foglietto azzurro. Un desiderio stupido dopotutto, perché nessuno desidera ricordare qualcosa nel momento in cui la sta vivendo. Io, invece, temevo che il tempo avrebbe cancellato ogni dettaglio, perché in fondo lo fa sempre. Trascorsi gli anni ti rendi conto che quelle immagini che in origine erano vivide svaniscono lentamente, come lavate da una pioggia incessante che, goccia dopo goccia, erode quel ricordo caro. Ti impegni con tutte le forze affinché ciò non accada, ma la verità è che ogni momento è unico e non tornerà mai più come quando lo si è vissuto, nemmeno nella nostra mente.
«Ma come l’hai scritto?», esclamai vedendo degli strani disegni sul suo foglietto.
«In kanji giapponesi come faccio sempre con mia nonna, mi ha insegnato lei a disegnarli nel modo giusto. Sai, ogni tratto del kanji ha la sua importanza, spesso sono piccoli elementi che creano un insieme. Guarda, ti faccio vedere».
Asami cominciò a disegnare su un foglietto di carta che era avanzato ed io mi affacciai per sbirciare.
«Vedi questo? Cosa ti sembra?».
«Mmm, assomiglia ad un abete».
«Esatto e infatti questo è il kanji di albero, si pronuncia ki». Asami disegnò poi lo stesso kanji di fianco al primo.
«Questo invece è hayashi, bosco».
Infine ne disegnò uno sopra i primi due.
«E questo è mori, foresta».
Da quell’esempio capii cosa avesse voluto dire Asami poco prima. Piccoli elementi possano formare un insieme, come singoli gesti possono creare un’azione.
«Wow, forte!», esclamai interessato. Asami sorrise divertita.
«Ma quindi cosa hai scritto?», chiesi infine.
«E chi lo sa, i desideri devono restare segreti, no?».
La guardai risentito scuotendo la testa, consapevole che anche pregandola non me l’avrebbe mai detto.
«Questa poi! E allora tu non potrai leggere il mio».
«Beh, è scritto in italiano quindi posso leggerlo». La fulminai con lo sguardo.
«Tranquillo, so mantenere un segreto eh», aggiunse facendomi l’occhiolino.
«Non pensarci nemmeno, non lo leggerai», dissi piegando subito il foglietto.
«Certo che sei proprio buffo, Takumi. Quando ti arrabbi ti si corruga tutta questa parte del viso, lo sapevi?», disse Asami toccandomi la fronte.
La fulminai di nuovo e lei stavolta si mise a ridere.
Trascorremmo il tempo prima della mezzanotte a legare i biglietti alle canne di bambù, ansiosi di vedere le stelle Vega e Altair.
Quando Asami legò il suo biglietto alla pianta pronunciò qualcosa in giapponese con le mani giunte in atto di preghiera.
La sua voce risuonò nell’aria fresca di quella sera come il suono di una dolce ninna nanna, l’unica melodia in quel posto isolato dal mondo.
«Quello è il tuo desiderio?», dissi ammiccando al suo biglietto.
Asami annuì sorridendomi come se fosse imbarazzata per essere stata scoperta, ma io non potevo di certo comprendere le sue parole.
Quando arrivò la mezzanotte ci preparammo a guardare le stelle. Avevo letto qualcosa su alcuni libri custoditi nella biblioteca della nostra scuola riguardo l’osservazione del cosiddetto Triangolo estivo, così da non trovarmi impreparato per quella sera speciale.
«Guarda là Asami, ho trovato Vega!», esclamai indicando un punto nel cielo sopra di noi.
Lei alzò di scatto la testa, assumendo uno sguardo vigile, poi quando individuò la stella i suoi occhi sembrarono brillare di una luce nuova.
«Poco più in basso, se fai attenzione vedi anche Altair», aggiunsi.
Asami restò in silenzio, estasiata da quella visione, ed io invece di guardare le stelle mi persi a osservare lei che ammirava il cielo ipnotizzata.
«Orihime e Hikoboshi sono insieme ora», disse Asami sorridendo.
«Beh, in realtà, è mezzanotte, quindi teoricamente è già l’otto luglio». Asami non disse niente, si voltò verso di me e mi fulminò con lo sguardo.
«Dai scherzavo!», dissi sorridendo.
Asami mi ignorò e continuò a guardare le stelle.
«Un po’ come noi eh?», dissi subito dopo per rimediare. Asami mi guardò confusa.
«Orihime e Hikoboshi dico. Magari adesso, come hai detto tu, stanno parlando di cosa hanno fatto per tutto il tempo trascorso lontani l’uno dall’altra».
«Ma noi non siamo stati lontani come loro».
«No, hai ragione, però stiamo insieme».
Asami mi guardò di sbieco, poi accennò un sorrisetto malizioso.
«Cioè, non intendevo insieme in quel senso, io...», balbettai toccandomi la testa come al mio solito.
«Certo che non cambierai mai eh, Takumi».
«Eh già».
«Tu che cosa mi diresti?», chiese poi guardandomi.
«Intendi dopo un anno nel caso non ci vedessimo? Beh, ma non credo possa accadere, no?».
«Ipotizziamo che accada invece. Che cosa mi diresti dopo tanto tempo?». Nei suoi occhi e nella sua voce scorsi il dannato bisogno di ricevere una risposta, una qualunque risposta che la facesse stare meglio, perché la sua non era affatto una domanda casuale.
Mi presi qualche secondo per rifletterci poi trovai il coraggio di darle quella risposta.
«Io...troverei il modo di vederti in ogni caso, non farei passare così tanto tempo».
Asami restò in silenzio a guardarmi e la sua espressione mi fece capire che era rimasta sorpresa dalla risposta che le avevo dato. Tuttavia i suoi occhi celavano un sottile velo di malinconia.
«Perché mi fai questa domanda Asami? Pensi che non ci rivedremo più dopo il liceo?».
«Beh chissà, magari diventerai un pianista famoso e non avrai più tempo di vedermi».
«No tranquilla, manterrò i piedi ben saldi a terra».
«Me lo prometti?», disse alzando il mignolo della mano.
«Che troverò il modo di vederti? Certo, promesso», dissi incrociandolo con il mio.
Ma certe promesse sono come un banco di nuvole. All’inizio le vedi chiaramente, poi si formano venti forti ad alta quota e lentamente svaniscono del tutto e tu non puoi fare niente per mantenerle al loro posto.
«Sai cosa ho scoperto l’altro giorno Takumi?», disse improvvisamente Asami.
«Spara».
«Che stanno per lanciare un satellite nello spazio. Si chiama Keo e avrà al suo interno una capsula del tempo dove ogni persona della Terra potrà lasciare un messaggio personale. Questo satellite viaggerà per 50.000 anni per poi tornare nell’atmosfera terrestre. E chi ci sarà allora potrà leggere quei messaggi. Non trovi che sia incredibile una cosa del genere? Lasciare un messaggio ai posteri, qualcosa che resti anche se la razza umana non dovesse esserci più», esclamò Asami entusiasta.
Non riuscivo a capire perché Asami fosse così ossessionata dalle cose che permangono. Nelle sue parole trapelava sempre l’ammirazione per qualcosa che si adatta ai mutamenti e che nel farlo conserva il ricordo di ciò che è stato prima.
«Ma come può una capsula del tempo contenere i messaggi di tutti i terrestri? Siamo sette miliardi di persone se non di più», chiesi incuriosito.
«Li memorizzeranno su dvd vetrosi resistenti alle radiazioni. Oltre ai messaggi lasceranno anche altre cose che permetteranno a chi le raccoglierà di capire come fosse l’umanità oggi. Come un campione di aria, uno d’acqua marina e uno di terra, e persino una goccia di sangue umano! Poi credo anche un orologio astronomico».
«Wow, davvero geniale e quindi lo spediranno a breve?», chiesi.
«Credo proprio di sì, a meno che non ritardino il lancio. Tu che cosa scriveresti Takumi?».
«Ecco, io...non saprei davvero, è difficile dirlo senza pensarci a fondo, ma scommetto che tu hai le idee ben chiare».
«Più o meno. Credo che scriverei il mio punto di vista», cominciò a dire Asami.
«Il tuo punto di vista? Su cosa?», chiesi confuso.
«Beh, su tante cose. Sulle persone ad esempio e su quanto abbia imparato che il tempo non è solo un fattore che puoi calcolare, ma è molto di più e spenderlo con qualcuno è qualcosa di importante che non va mai dato per scontato. Alla fine scriverei anche tutte le cose belle che puoi vedere sulla Terra, cosicché i posteri possano immaginarsi come fosse stata un tempo». La guardai rapito dalle sue parole.
«Tu Takumi credi che ci sarà sempre qualcuno tra così tanti anni?», chiese dopo alcuni secondi.
«Francamente non credo. Noi esseri umani non apprezziamo molto ciò che abbiamo, quindi dubito che tutto quello che conosciamo e vediamo adesso possa sopravvivere fino ad allora».
«Perché ancora non l’abbiamo perso. Ci accorgiamo di quanto sia veramente importante una cosa nel momento in cui non la si ha più. È strano, vero? È come se la presenza si facesse sentire nell’assenza».
Anche quella frase non era casuale. Asami doveva sapere bene quanto fosse doloroso perdere qualcosa che si ha amato a fondo. Lo si percepiva nelle sue parole e nella sua espressione assorta che era così.
«Comunque pensavo che potrei trascrivere anche la mia ricetta speciale degli onigiri. Così anche fra 50.000 anni potranno prepararli e mangiarli».
«Hai una ricetta speciale degli onigiri?», chiesi sorpreso.
«Esatto».
«Ma sono quelli che ho mangiato prima?».
«No, per la ricetta speciale dovrai aspettare un po’. Non ci si arriva col primo assaggio. Devo prepararti».
«In che senso?», sorrisi divertito.
«Beh, nel senso che non si può mangiare la torta di mele se prima non hai assaggiato le mele, no?».
Rimasi qualche secondo in silenzio, confuso dalle sue parole.
Chissà perché per Asami era così importante rispettare una tabella di marcia. Che importava se avessi mangiato la torta di mele prima ancora di aver mai mangiato le mele. Spesso mi sono chiesto che sapore avessero quegli onigiri speciali, ma l’unico modo per scoprirlo sarebbe stato aspettare 50.000 anni.
«Certo che sei strana eh Asami?». Lei sorrise.
«Comunque tornando al discorso di prima. E se davvero nessuno potesse leggere i nostri messaggi fra 50.000 anni? Se non ci fossero più destinatari?», dissi.
«Beh, sarebbe decisamente triste, però a me piace anche solo l’idea che le nostre parole viaggino per così tanti anni nello spazio. Sarebbe come continuare a vivere per sempre, non credi?».
Da quella sera non è cambiato poi molto. Ancora oggi non saprei cosa scrivere. In fondo che cosa ci può essere di comprensibile anche fra 50.000 anni, cos’è che durerà per sempre nonostante tutto?
«Eh già», dissi banalmente.
Non seppi mai se Asami scrisse davvero il suo messaggio, ma sentivo che lo aveva fatto, che il suo desiderio di volare nello spazio per tutti quegli anni prima o poi si sarebbe concretizzato. Forse è anche per questo che dopo il liceo guardavo spesso il cielo, perché le parole di Asami erano là da qualche parte.
 
 
«Ma pensa», disse la signora di fianco a me.
Mi voltai verso di lei incuriosito dalla sua esclamazione. Stava leggendo il giornale.
«Senti questa ragazzo» e cominciò a leggere un articolo.
«Dopo quindici anni il satellite Keo sarà lanciato nello spazio. Conterrà una capsula del tempo con tutti i messaggi dei terrestri e viaggerà per 50.000 anni, momento in cui rientrerà nella nostra atmosfera. Chi ancora non avesse scritto il proprio messaggio è ancora in tempo per farlo. Basterà visitare il sito web www.keo.org dove sono indicate tutte le istruzioni».
Mi voltai di scatto verso la signora e diedi un’occhiata alla pagina del giornale. C’era il disegno di un satellite nello spazio e guardandolo non potei evitare di pensare ad Asami. Quella notizia mi sconvolse non poco, era come aver riportato alla luce una mummia di 3000 anni che a contatto con l’aria finisce per sgretolarsi. Ed io mi sentivo esattamente così. Fragile, come qualcosa che è stato a lungo tempo nascosto agli occhi della gente e di colpo viene riportato alla vita.
«Ha detto Keo?», farfugliai.
«Sì, si chiama così. Certo che ne inventano al giorno d’oggi di cose eh». Annuii accennando un sorriso.
Scoprii solo allora che il satellite di cui mi parlò Asami in realtà non era mai partito. Forse ero ancora in tempo per scrivere il mio messaggio eterno.
«Lei che cosa scriverebbe?», chiesi voltandomi verso la signora.
«Uhm, probabilmente una poesia. Ci sono parole che potrebbero essere comprese anche fra
50.000 anni».
«E sa già quale scriverebbe?».
«C’è una poesia di Bertolt Brecht che recita così.
Se durassimo in eterno Tutto cambierebbe Dato che siamo mortali
Molto rimane come prima. La trovo dannatamente vera».
«Vorrebbe dire che fra 50.000 anni le cose rimarranno come ora?».
«Se non cambiamo il nostro modo di vedere, le cose rimarranno le stesse anche fra 50.000 anni. Non siamo eterni, la caducità fa parte del nostro essere e spesso l’uomo, tenendo conto di questo, compie delle azioni che gli permettono di stare bene egoisticamente nel momento in cui vive, senza pensare al futuro, perché tanto in quel futuro non ci sarà. Se invece l’uomo sapesse di durare per sempre non credi che si prenderebbe maggior cura del mondo in cui vive? Forse starebbe più attento. Questa poesia Brecht l’ha scritta durante la Seconda guerra mondiale, proprio per criticare le terribili azioni che venivano compiute in quel momento, ma dopotutto può essere applicata in qualsiasi momento. Chissà, magari anche fra 50.000 anni potrà essere d’ispirazione per qualcuno».
«È un’appassionata di letteratura quindi», dissi.
«Mia sorella ha insegnato letteratura al liceo, quindi molte cose le ho imparate da lei. Ma devo ammettere che sono una persona molto curiosa e la curiosità è fame di conoscenza, no?». Mi limitai ad annuire pensando a quanto quella signora di fianco a me riuscisse a farsi guardare e ascoltare allo stesso tempo, una qualità che raramente avevo incontrato nella mia vita fino ad allora.
«È la sorella che sta andando a trovare?», chiesi.
«No, siamo tre sorelle in realtà. La sorella che ha insegnato era la più piccola delle tre. Io sono la maggiore. Tu invece? Sei figlio unico?».
«Sì», risposi.
«Oh beh, più regali di natale per te, no?».
Sorrisi poi tornai a guardare il finestrino e notai in lontananza una tempesta in arrivo.
 
 
Io e Asami trascorremmo un po’ di tempo in silenzio, guardando il cielo stellato e respirando l’aria fresca di quella collinetta umida. Seduto accanto a lei, quella sera, capii che forma avesse la felicità e credo sia stato allora che mi resi conto di essermi innamorato di Asami. Ad oggi non so confermarlo con precisione perché quando ci si innamora di qualcuno, a distanza di tempo, ci si dimentica sempre il momento esatto in cui accade.
Improvvisamente mi assalì di nuovo la paura di perdere ciò che avevo vissuto fino a quel momento. Ripensai alle parole di Asami quando mi parlò del tramonto e di quanto siano uniche le cose che viviamo. E quella sera mi sembrò proprio così, qualcosa che non avrei più rivissuto.
Di colpo provai nostalgia, nostalgia di un momento che stavo ancora vivendo.
Ero consapevole di quanto fosse paradossale, ma ero certo che esistesse anche una nostalgia del presente, forse perché nel momento in cui lo si vive, esso è già passato.
Mi persi a guardare il viso di Asami e la sua espressione assorta, che in quei minuti non riuscii a decifrare.
«È ora di andare eh Takumi?», disse lei alzandosi da terra.
«Se vuoi possiamo restare un altro po’».
Asami abbassò lo sguardo e accennò un sorriso poi tornò a guardarmi.
«Devo proprio andare Takumi, non posso più restare».
Asami cambiò espressione, come se si fosse appena ricordata qualcosa di importante. Si avvicinò, fermandosi a pochi centimetri dal mio viso.
Un soffio di vento improvviso le scompigliò i capelli e un dolce profumo agrumato giunse al mio naso in un modo prepotente ma piacevole. Il mio cuore cominciò a battere più forte, come se sapesse già quello che stava per succedere, come se il mio corpo fosse sentore di un futuro prossimo.
«Takumi, io avrei un ultimo desiderio».
«Un ultimo desiderio, perché ultimo...».
Asami si alzò in punta di piedi e mi diede un leggero bacio sulle labbra, come se avesse timore di andare più a fondo. Quella fu l’unica volta in cui percepii in lei un po’ di insicurezza. I miei occhi non ebbero il tempo di chiudersi, di assaporare le sue labbra e quell’istante, che Asami era già lontana da me.
«Asami, perché stai piangendo?».
Dalle sue guance iniziarono a scendere delle lacrime e nello stesso istante cominciò a piovere. L’aria si fece di colpo strana, come se su quella collinetta aleggiasse un’atmosfera sospesa. D’un tratto ebbi come la sensazione di non trovarmi veramente lì con lei.
Mi avvicinai ad Asami per prenderle la mano, mentre cercava di asciugarsi le lacrime con la manica dello yukata.
«Asami...», farfugliai.
Lei mi guardò intensamente. Le sue mani erano fredde.
«Non ti scorderai di questa sera, vero?», disse dolcemente.
«Certo che no, come potrei».
Asami si tolse il nastro dai capelli per chiuderlo nel palmo della mia mano.
«Voglio che lo tieni con te, così non dimenticherai».
La guardai confuso, frastornato dalle sue parole, da quella sensazione che qualcosa di indesiderato stesse per accadere. Restai in silenzio.
«Adesso devo andare, Takumi».
Asami non voleva andarsene quella sera, glielo lessi negli occhi.
«Ci vediamo domani, no?», dissi in cerca di una conferma.
Lei guardò la mia mano che teneva ancora la sua, poi la staccò sfiorandola lentamente come se volesse assorbirne la consistenza e portarla via con sé per sempre.
«Sì».
Quel sì peccava di insicurezza, aveva la parvenza di una grossa bugia, ma ero certo che il mio corpo si fosse sbagliato, che in fondo non poteva essere vera quella sensazione di abbandono che stavo provando.
«Grazie, Takumi», disse mentre si allontanava.
Le sue parole risuonavano nell’aria e le labbra si sforzavano di sorridere. La guardai sfumare via come quella volta al club di musica quando di spalle si diresse verso la porta d’uscita.
«Asami!», gridai.
Lei si voltò lentamente, mentre la pioggia cominciò a precipitare più forte ed io ero ormai bagno fradicio.
«Ci rivedremo, vero?», bisbigliai sottovoce senza che potesse sentirmi.
Asami disse qualcosa ma non riuscii a decifrare il suo labiale poi sorrise e riprese lentamente il suo cammino, mentre le lacrime continuavano a scenderle sulle guance.
Rimasi solo sotto la pioggia che mi bagnava senza farlo veramente. Era come trovarsi in una dimensione surreale che ti confonde le idee e i cinque sensi. L’unica cosa che il mio corpo percepiva era il freddo.
Quando la sua figura sparì in lontananza un piccolo vuoto si fece largo dentro di me.  Trascorsi alcuni minuti chissà dove, poi tornai a casa con quella sensazione che si prova quando si percepisce che una situazione si è fatta più tesa, ma non si riesce a comprenderne la motivazione.
Dopo quella sera non rividi più Asami e questo era sintomo che il mio corpo non si era affatto sbagliato.
 
[1] Letteralmente “Che tu possa venire fuori”.
   
 
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