Anime & Manga > Yuukoku no Moriarty/Moriarty the Patriot
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Autore: Lacus Clyne    12/02/2024    1 recensioni
Tre anni dopo gli eventi del 1879, Albert James Moriarty non ha ancora ritrovato il senso della normalità. Per colui che ha dato origine alla leggenda del Lord del Crimine, ci sono ancora tasselli da risistemare. E, nella ricerca di quell'ordine, Londra si dimostra ancora una volta difficile, contorta, piena di ombre e disuguaglianze sociali. Per Clara, vittima dei danni collaterali delle azioni dei Moriarty, la ricerca della normalità coincide con quella della giustizia. Durante una notte di fiamme divampanti, le loro strade si incontrano.
"Se la giustizia non esisteva... allora toccava a lei farsene di persona".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albert James Moriarty, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Nel percorrere il salone, Sherlock vide la combriccola impegnata a seguire le spiegazioni di Herder nel mostrare le sue invenzioni. Qualcuno mancava all’appello, ma chi gli interessava non era presente. Nel notare l’assenza del cappotto bianco, soffrì al pensiero di dover lasciare il tepore per affrontare il gelo, ma indossò ugualmente il suo soprabito nero, per poi uscire da una porta laterale. Nel varcare la soglia, si voltò non appena vide Bond, schiena appoggiata al muro e mani in tasca, intenta a osservare il gioco di luci che attraversava il cortile in lontananza. Nell’accorgersi di lui, sgranò gli occhi azzurri. “Sherly?!” esclamò, raddrizzandosi.

“Hai intenzione di rimanere qui a congelare?” chiese, stringendosi nel cappotto.

Bond lo guardò perplessa, poi sorrise con aria maliziosa. “Devo ricordarti la volta che ti sei spogliato per darmi i tuoi vestiti rimanendo in mutande o quella in cui ti sei tuffato nel Tamigi con Will?”

Sherlock non sapeva se essere impressionato o sentirsi a disagio, quindi si appoggiò con la schiena al muro accanto allo stipite opposto della porta. Il fiato gli uscì in uno sbuffo visibile e si limitò a osservare a sua volta i giochi di luce. Pochi istanti e capì cosa ci trovasse. Non aveva mai visto delle luci correre insieme, poi a scatti, poi inseguirsi in percorsi lunghi e tortuosi. Era magnetico. “Herder ne sa una più del diavolo, eh?”

Bond inclinò appena la testa. Sorprenderla nei modi più disparati era da lui, ma raramente l’aveva visto temporeggiare per qualcosa. “Già…” disse tuttavia, tornando a guardare le luci. “Dubito che ci sia qualcuno di più geniale di lui.” aggiunse, con l’intento di punzecchiarlo facendo leva sulla sua proverbiale megalomania. 

Sherlock, invece, non vi dette corda, alzando gli occhi al cielo. Aveva la stessa postura e la stessa espressione di quando, presentandosi a lui in abiti femminili al posto di Moneypenny, durante la missione al Kensington, l’aveva scorto appoggiato al muro, in attesa. Soprabito invernale e sigaretta mancante a parte, ma l’odore del tabacco era sempre lì. Bond gli rivolse uno sguardo nostalgico. Gli aveva detto, in quell’occasione, che la magia di Cenerentola sarebbe durata soltanto per quella notte e così era stato. Dopo aver risolto il caso, Sherlock era andato via e lei aveva fatto ritorno a casa sorbendosi le frecciatine di un redento Moran e i complimenti del maestro Jack. Dopodiché, aveva riposto l’abito azzurro e la parrucca che riproduceva fedelmente i suoi lunghi capelli biondi nell’armadio. Se la parrucca le era tornata utile per ingannare il visconte Simmons, l’abito era rimasto lì, intoccato. 

“Sherly… è tutto a posto?” chiese, con un tono ora sinceramente preoccupato. “C’è qualcosa che devi dirmi, vero? Che ti ha detto tuo fratello?”

Sherlock realizzò di non aver con sé le sigarette. Sempre un passo davanti. Non era mai facile, quando si trattava di Bond. Di Irene. Ogni volta che pensava di raggiungerla, lei sfuggiva. Era stato più semplice, durante la mascherata. Ma quando le maschere cadevano, lui era soltanto un uomo che non aveva idea di come gestire quel sentimento che era nato come semplice incomprensione, poi ammirazione, poi… non sapeva più nemmeno lui stesso come definirlo in un modo che significasse, per lui, dover ammettere qualcosa che aveva sempre rifuggito. Sapeva anche che rivedere quella che John aveva definito la Donna era qualcosa che non avrebbe mai ritenuto possibile e che non era in grado di capire perché ogni qualvolta si avvicinassero, lei finisse con l’allontanarsi. Proprio come le luci del percorso. Correvano insieme, si bloccavano, si inseguivano. Eppure, in un angolo remoto della sua mente, non riusciva a non pensare a quanto fosse orgoglioso del fatto che, in quei tre anni, fosse diventata la punta di diamante del MI6 al punto tale da suscitare la curiosità della stessa Sua Maestà. Più in basso però, nel suo cuore, avvertiva qualcosa di profondamente diverso e sconvolgente. 

“Sherly, dannazione! Ti sei incantato o cosa?”

Battendo le palpebre, si decise a prendere un enorme respiro, poi voltò appena il viso verso Bond. Non aveva idea di che espressione avesse, ma ne vide le guance farsi rosse.

“Sei felice?” domandò, al posto di rispondere. 

“Che… domanda è?” chiese di rimando, incerta. 

“La vita che hai ora… ti rende felice?” 

Il sopracciglio sinistro tremolò e Sherlock affilò lo sguardo. “Beh… non posso dire che non lo sia… insomma, guarda… sono James Bond. L’agente con licenza di uccidere.”

Lui annuì, ripensando alle sue lacrime, la notte in cui si erano congedati. Se non avesse scommesso sul Lord del Crimine, Irene sarebbe morta per mano di Mycroft. E facendolo, Irene era morta ugualmente, dando vita a James Bond. Si chiese se quella fosse davvero la sola strada percorribile, se alla fine, Irene Adler non poteva esistere più. La donna che mai avrebbe potuto dimenticare. La sola che aveva totale controllo sulla sua razionalità tanto da spingerlo persino a mandare in fumo il suo stesso appartamento e a mostrarsi proprio a lei per prima, dopo esser tornato. Non ultimo, quel tarlo che gli arrovellava il cervello al pensiero di lei stretta al suo braccio, della sua espressione inintelligibile… della voglia totalmente irrazionale di stringerla a sé e di prenderne le labbra carnose in un bacio. E poi, quel gesto che aveva fatto quando, prima di scappare dalla residenza Simmons, aveva posato la mano sul ventre fasullo con aria pensierosa… e, durante la cena, il modo in cui i suoi occhi si erano spalancati per un istante mentre Moneypenny annunciava il lieto evento, per poi addolcirsi.

Bond sospirò, notando che Sherlock era completamente chiuso in chissà quali pensieri. A quanto pareva, era di malumore e non aveva intenzione di aprirsi. D’altronde, il fatto che avesse più volte invocato di tornare in America le sembrava già abbastanza penoso. Aveva persino pensato di indossare un abito da donna, quella sera… blu, perché il blu le donava, come lui le aveva detto una volta. Ma negli ultimi tempi, Sherlock sembrava aver deciso di metter da parte qualunque sentimento provasse per lei in favore della risoluzione dei casi che si erano presentati nuovamente alla porta del 221B. Eppure, in quel momento le aveva chiesto se fosse felice. La verità era che era tornata ad esserlo, dopo che lui aveva fatto ritorno. La sola idea le era bastata persino ad esser pronta a mandare al diavolo l’identità che aveva assunto pur di trascorrere del tempo insieme. E non era abbastanza. Distolse lo sguardo, rincantucciandosi nel cappotto. “Io rientro. Effettivamente, c’è troppo freddo.” disse, facendo per rincasare. 

“Irene. Irene Adler.”

Nel sentire il suo nome pronunciato con tono serio e fermo, si bloccò.

“James, Sherlock.” lo corresse, tagliente.

“Per me sei sempre Irene, lo sai.”

Gli occhi azzurri di Bond si fecero lucidi e il suo cuore mancò un battito. “E questo dovrebbe bastarmi, ora?”

“Sei troppo intelligente per chiedermi qualcosa di cui sai già la risposta.”

Bond sbottò, voltandosi di scatto e afferrando Sherlock per la collottola. “Ma voglio sentirlo ugualmente. Da te. Che tu mi dica… una volta per tutte… che cosa provi davvero… Sherlock…” disse e nel mentre, la sua risoluzione si fece sempre più debole, così come la sua presa, nel perdersi negli occhi blu notte dell’uomo che la guardavano come mai. Sherlock tolse le mani dalla tasca, sollevandole fino a posarle sulle sue. Per fermarla. Perché non prendesse freddo. Perché anche soltanto il poterla toccare era la prova che entrambi erano vivi.

“Sei tra gli agenti del MI6 che potranno spostarsi in missione all’estero.” disse e Bond lo guardò con gli occhi sbarrati, incredula. “Cosa?!”

Sherlock strinse la presa. “Se le circostanze lo dovessero richiedere… vorresti farmi da partner?”

“Eh?”

“Sì, insomma… in coppia… come coppia… cioè… aaaaaaah! Maledizione!!” incespicò nelle sue stesse parole, imbarazzato.

“Mi stai chiedendo di… aspetta… non capisco… perché non riesci semplicemente a dire le cose come stanno?!” protestò Bond che, diversamente da lui, capiva fin troppo bene, dal suo modo di fare, che intendeva altro ma, ogni volta, era capace di farla diventare matta. 

“Perché non è facile, Irene! Non è facile…” disse, infine, tornando a guardarla. Nella loro vicinanza, nonostante i capelli corti e l’assenza di trucco, Irene era lì e lo guardava a sua volta, bella, indomita e brutalmente capace di farlo capitolare su una graticola. 

“Quando mai qualcosa per te è stata facile? Tu ami i misteri… le cose complicate…”

Sherlock sospirò, vinto. Persino risolvere il mistero del Lord del Crimine si era infine rivelato meno difficile che capire il cuore e le azioni di quella donna. “E tu sei il mistero più complicato di tutti…” 

Irene sgranò gli occhi, col cuore che aveva preso a batterle forte. Ciononostante, si morse le labbra per non dargliela vinta. “Dillo ancora…” sussurrò, con voce tremante.

Nel sentirla, riconobbe in quel tono lo stesso con cui gli aveva detto addio una volta. Si era voltato altrove, perché non vedesse che in quell’istante, anche lui era commosso. E le aveva detto che si sarebbero rincontrati, se lei fosse stata viva. Lo era. Lo sentiva dai battiti che palpitavano con più forza nei polsi di Irene. E da quel viso che aveva contemplato in foto, poi ogni qualvolta fossero insieme. “Anche se pensi che non sia così… io ti vedo, Irene. E voglio te al mio fianco.” sussurrò, addolcendo la presa intorno alle sue mani, per poi voltare la situazione in suo controllo, provocandole un sobbalzo a quel gesto inaspettato, portandola con le spalle al muro e, come le luci che tornavano a giocare insieme, abbandonarsi a un bacio a lungo agognato da entrambi.

Nessuno di loro due, tuttavia, aveva notato che in alto su quella porta, come sulle altre, pendeva leggermente del vischio, mentre la mezzanotte scoccava, annunciando a tutti il Natale.


 ***


Ritirandosi per la notte, Albert chiese a Clara di seguirlo nella sua stanza. Al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere, il cuore prese a batterle con più forza. D’altronde, non le aveva forse promesso qualcosa di estremamente sconveniente mentre cenavano? 

Da quando era tornato dal colloquio con i suoi fratelli e gli Holmes, mentre lei attendeva con gli altri, incuriosita dalle strane diavolerie di Herder, ma col pensiero a qualunque dialogo stesse intercorrendo nello studio accanto al salone, sembrava finalmente più rilassato e avevano passato il resto del tempo tutti insieme, godendo della serenità del momento. Nel fermarsi davanti alla porta, però, le sembrò esitante.

“È tutto a posto, Albert?” gli chiese, notando che aveva posato la mano sulla maniglia, senza aprire. D’improvviso le venne in mente che, durante le sue scorribande clandestine nella residenza, aveva sentito spesso la servitù commentare che Lord Albert non permetteva a nessuno di metter piede nella sua stanza. Le cameriere più maligne si spingevano a ipotizzare, davanti al suo sguardo freddo e infastidito, che ci nascondesse i pezzenti che andava raccattando durante le uscite in città. Quel pensiero la rattristò, ma provò comunque a rassicurarlo. “Posso dormire nella mia stanza… si sta bene e chiudendo a chiave, posso stare tranquilla.” 

Albert si voltò a guardarla come se avesse detto un’eresia. “Non se ne parla. Tu dormi con me.” 

A quelle parole, pronunciate senza mezzi termini, Clara batté le palpebre, arrossendo, e si limitò ad annuire. Albert abbassò la maniglia e la fece entrare. Una semplice camera spartana, perfettamente ordinata, in cui tutto era al suo posto. Lei si sentì quasi in colpa al pensiero, invece, di quanto caotica fosse diventata la sua stanza, soltanto la notte prima. Su un tavolino, accanto alla finestra, era appoggiato un piccolo scrigno che le ricordò quello in cui aveva riposto le lettere che gli Hargreaves e lo stesso Albert le avevano inviato dopo la sua liberazione. Tempi lontani, eppure vividi come fossero accaduti solo pochi giorni prima. Eppure, ogni cosa era cambiata in un modo che stentava ancora a credere possibile. Clara mosse qualche passo, mentre Albert tolse la giacca nera e la ripose accuratamente nell’armadio, poi la raggiunse. “Posso avere l’onore di un ballo?”

Clara si voltò, vedendo che le aveva teso la mano, mentre l’altra era dietro la schiena, come si conveniva a un cavaliere. “Un ballo? Senza musica?”

“Fidati di me.” le rispose soltanto e Clara sorrise, raccogliendo l’invito. “Sempre…”

Albert le sorrise a sua volta, conducendola in un giro di valzer. Nel riconoscere i passi, Clara chiuse gli occhi, immaginando la musica che li accompagnava. Non aveva mai avuto realmente modo di danzare quel tipo di ballo, ma le piaceva osservare Lord e Lady Hargreaves che, nel privato, ogni tanto si lasciavano andare alle danze, soprattutto in previsione di balli ufficiali. Gli stessi che aveva sognato, qualche volta, consapevole che mai vi avrebbe preso parte. Ma mai era una parola che non le apparteneva più, da quando aveva incontrato l’uomo che aveva messo sottosopra il suo intero mondo, da molto più tempo di quanto potesse immaginare. Quando riaprì gli occhi, Albert l’aveva stretta a sé e le aveva regalato il suo sguardo più dolce, fermando la danza. Non si era resa conto, fino allora, di avere l’affanno. 

“Scusami.” disse. 

“Va tutto bene…” rispose lei, riprendendo il controllo sul suo respiro. Poi, Albert la portò vicino allo specchio rettangolare che faceva mostra su un’alta cassettiera. Guardandosi nel riflesso, Clara ripensò alle fotografie che Herder aveva voluto scattare durante la serata. Sorrise felice, al pensiero di averne potuto far parte e dei ricordi che avrebbe potuto rivedere, un giorno. Istintivamente, però, portò la mano al collo nudo. Il ricordo che le aveva sempre dato tranquillità e forza non c’era più. 

“Quando cerchi conforto e sostegno porti sempre le dita al pendente di tua madre…”

Lo sguardo di Clara si abbassò. “L’avevi notato…”

Albert, invece, annuì. “Ho ricordato qualcosa anch’io. Tua madre lo portava al collo, ma ben nascosto, perché temeva che, nel vederlo, mio fratello… il mio vero fratello, potesse accusarla di averlo sottratto a mia madre.”

Clara si voltò a guardarlo sconvolta. “Cosa?”

La postura rigida di Albert e il suo tono erano quelli di chi combatteva con un ricordo difficile. “Non ho mai avuto un buon rapporto con la mia famiglia d’origine, come sai. Io ero il primogenito del conte Moriarty, membro della Camera dei Lord e, in quanto tale, destinato a ereditare il nome, le ricchezze e la visione distorta di una nobiltà per cui i propri privilegi venivano persino prima della vita umana e i confini dovessero essere sempre ben tenuti a mente. Sin da quand’ero bambino, tutti coloro che mi si sono avvicinati, l’hanno fatto con l’intento di assicurarsi prestigio, indipendentemente dal fatto che, davanti a loro, ci fosse una persona in carne e ossa e non un titolo, fossero essi nobili, borghesi o gente comune. Per questo, la mia stanza era il solo luogo in cui riuscivo a escludere la sensazione di nausea che quelle figure senza volto mi davano. Mi rifugiavo nei libri, cercando in essi l’idea di un mondo migliore… ma la realtà non aveva lieto fine e l’avevo imparato presto. E mio fratello minore era la persona che disprezzavo più di tutti, perché metteva a nudo la mia impotenza.”

“Albert…”

Albert strinse i pugni. “Will ti ha detto il vero quando ti ha raccontato che tua madre è stata praticamente la sola persona ad essere benevola nei loro confronti, ma non sa che una volta, ha cercato di difendere anche me. Nello studio di mio padre troneggiava un’aquila che sembrava ricordarmi, ogni volta che la vedevo, che il più forte divorava il più debole. Una notte, dopo aver assistito impotente al mio ennesimo fallimento, cercai di farla finita.”

Clara portò le mani a soffocare un respiro, al pensiero. Albert sollevò le dita, posandole sulla tempia mimando il gesto di una pistola pronta a far fuoco. “Allora… ero troppo codardo. Ricordo che, mentre piangevo della mia miseria, sentii dei rumori e, temendo che potesse essere il nostro maggiordomo, se non addirittura mio padre, e rimisi la pistola a posto. Quando William si affacciò, stava ridendo. Mi disse che non avevo nemmeno il coraggio di premere il grilletto e che avrebbe detto a nostro padre che l’erede dei Moriarty avrebbe portato alla fine del casato… col senno di poi, non posso che dargliene atto, seppure in un modo diverso da quello che pensava lui. Corsi a fermarlo, prima che potesse andare avanti con un proposito che avrebbe significato non soltanto aggiungere ulteriore vergogna a quel che sentivo, ma punizioni che avrebbero significato impedirmi di tornare ad aiutare chi aveva bisogno. Fu allora che, correndo nel corridoio, fu fermato da una cameriera con gli occhi dal colore della tormalina azzurra e un pendente a forma di rosa scarlatta.”

Gli occhi di Clara si spalancarono lucidi. “Mia madre…” 

“Esattamente. William protestò, intimandole di non toccarlo o l’avrebbe fatta cacciare. Del resto, non aveva problemi a rispondere in maniera arrogante nemmeno a nostra madre, ma la tua fu più risoluta. Ricordo che gli disse che non era ora, per un ragazzino, di rimanere all’erta e che se non fosse tornato nella sua stanza l’avrebbe fatto presente al maestro di matematica che attendevamo per l’indomani. Diversamente da mio fratello, William detestava la materia ma soprattutto, detestava le bacchettate dolorose sui dorsi delle mani che Mr. Hopkins non lesinava. Stizzito e con la promessa di vendicarsi, andò via… e lei, non appena fu lontano, mi rivolse un inchino. Nel farlo, il ciondolo che portava con sé ondeggiò e quel colore mi stupì particolarmente. Non disse nulla, ma si limitò a darmi la buonanotte e a prendere congedo. Seppi soltanto dopo tanto tempo che William l’aveva minacciata. Tuttavia, allora i miei fratelli erano già a palazzo e l’aver trovato dei nuovi passatempi lo distolse dall’andare avanti.”

Clara singhiozzava, incapace di trattenere il pianto nell’ascoltarlo. Albert tornò a guardarla con triste dolcezza, poi si avvicinò allo scrigno e lo aprì, raccogliendo qualcosa. Nel tornare, chiese a Clara di voltarsi e lei lo fece, ripensando al passato. Tutto aveva finalmente un senso. La mamma a un certo punto aveva smesso di portarla a palazzo, perché temeva per sé ed evidentemente, anche per lei. Alzò lo sguardo nello specchio quando sentì le dita di Albert sfiorarle gentilmente il collo nudo, per poi percepire la sensazione di un piccolo peso tra le sue clavicole e un gancetto metallico che si chiudeva. Sconvolta, il suo cuore mancò un battito quando vide la collana di sua madre tornata al suo posto. Albert le posò le mani sulle braccia, guardandola attraverso lo specchio.

“La… collana… come…?”

“Il motivo per cui sapevamo del tuo rapimento. Non sono riuscito a restituirtela per tempo… ma l’importante è che ora sia qui, nell’unico posto in cui merita di stare.”

Clara portò la mano sul ciondolo scarlatto e la sensazione familiare che, per tanti anni, le aveva fatto compagnia, tornò a darle serenità. Sorrise tra le lacrime, poi si voltò verso di lui, che le dette un bacio sulla fronte. “Mi dispiace di averci messo tanto…”

Chiudendo gli occhi nel sentire le labbra di Albert tormentate sulla sua pelle, Clara impose al suo cuore di calmarsi, per poi prendere le sue mani e portarle in corrispondenza del ciondolo. “Grazie…” mormorò soltanto. Sollevò il viso e, mentre intrecciavano le dita, un bacio seguì l’altro ad asciugare le lacrime di Clara e a rammentarle che, oltre a quel ricordo, aveva qualcuno che teneva a lei più di quanto le stessa potesse sapere. 


Nel silenzio della stanza del maggiore dei Moriarty, la sola preclusa a tutti tranne che ai fratelli, di cui conosceva perfettamente la discrezione, dopo un tempo interminabile fatto di trepidazione e venerazione reciproca, persino più intimo della notte precedente, Albert si decise infine a dar seguito alla sua promessa. Tuttavia, quando Clara invocò sollievo dal dolce tormento che era in grado di infliggerle anche soltanto giocando con la lingua, trovandola pronta, Albert si sollevò per esaudirla, ma si fermò non appena la udì gemere nel sentirlo entrare dentro di lei. “A-Albert…?” chiamò, con il nome di lui che le uscì in un ansimo per quel momento di piacere interrotto troppo presto. Riaprì gli occhi, notando che aveva assunto un’espressione grave. Aveva forse sbagliato qualcosa per costringerlo a fermarsi? O forse era stata troppo lasciva e impaziente e questo l’aveva deluso? Non riusciva proprio a capire perché continuasse a guardarla in quel modo e la posizione in cui si trovavano non era certo d’aiuto per riflettere.

“Non pensi… di sposare Albert Hargreaves quando diventerà adulto, vero?” chiese, con un tono indagatore, ma reso roco dall’eccitazione. 

Clara avvampò con incredulità e, inaspettatamente, le venne da ridere. Approfittando di quel momento di distrazione, sentendola più rilassata, Albert si spinse in modo più deciso e la prese del tutto con facilità, lasciandola senza fiato per la deliziosa e improvvisa agonia. Tuttavia, non dette subito seguito al desiderio e appoggiando la fronte contro quella di Clara, entrambi si ritrovarono occhi negli occhi, assaporando un momento di consapevolezza che, nella foga della notte precedente, non avevano contemplato. Per entrambi, fu persino più intimo del piacere stesso a cui si abbandonarono nuovamente poco dopo. Completezza reciproca, assoluta fiducia. Clara strinse a sé Albert non appena le labbra di lui tornarono impetuose sulle sue e prese a muoversi su di lei. E presto, col corpo che rispondeva al ritmo del corpo di lui e l’incapacità di articolare un qualunque pensiero che non contemplasse la beatitudine di quel tormento, non ebbe la possibilità di rispondere alcunché sulla domanda che le aveva posto. Lo fece soltanto dopo tanto, quando l’onda dell’eccitazione e il piacere ebbero lasciato il posto a un più intimo abbraccio, mentre Albert le accarezzava dolcemente la pelle nuda e lei aveva accomodato il viso nell’incavo della sua spalla. 

“Per me… tu sei il solo.”

Albert sorrise socchiudendo gli occhi in preda al languore. “Bene… perché ho la più solenne e battagliera intenzione di trascorrere questa vita interamente con te.”

“E se lo scorderai per i problemi di memoria?” gli fece eco, divertita.

“In tal caso… chiederò alla mia amatissima moglie di ricordarmi di questa notte.”

Clara si tirò su e la rosa scarlatta ondeggiò cangiante nelle luci soffuse della stanza. Albert ne osservò lo scintillio, per poi alzare lo sguardo sulla giovane donna che ne aveva cambiato la vita e della cui vista mai si sarebbe stancato e che lo guardava come mai nessuno l’aveva guardato, offrendogli tutto ciò che desiderava e che gli era stato sempre precluso: amore.


 ***

 

Per William non era ancora giunta l’ora di ritirarsi.

Aveva intrattenuto una lunga chiacchierata con Moran, di cui conosceva l’inquietudine. Non si era mai intromesso in questioni personali e non era nel suo stile farlo. Anzi, se c’era qualcosa che si poteva dire di William James Moriarty era che, pur ben comprendendo i tormenti dell’animo, si teneva lontano dall’intromissione negli affetti dei suoi compagni. Per rispetto, per modo di essere, per una gentilezza innata che lui stesso riteneva non appartenergli. La relazione di Louis e Moneypenny era stata una realizzazione totalmente inaspettata per lui: per la prima volta aveva visto l’uomo che Louis era diventato. Non soltanto il direttore del MI6, di cui era già assolutamente orgoglioso, ma anche qualcuno in grado di dar voce a un sentimento nato contrastato, ma che era diventato, in quei mesi, forte al punto da non temere di esporsi davanti a quel qualcuno che, non sentendosi all’altezza, aveva deciso di rinunciare all’amore. Era stato triste, per William, leggere nell’ostentata ironia di Moran il dolore di aver perso qualcuno che avrebbe potuto renderlo felice. Diversamente da Albert, da Louis… dallo stesso Sherlock, Moran aveva preferito farsi da parte. Ma Louis, che aveva sempre trascorso la sua vita da parte, aveva infine riconosciuto in Moneypenny qualcuno di affine e con lei aveva, da forse più tempo di quanto fosse stato effettivamente in grado di realizzare, trovato un accordo, tanto da aprire se stesso ai sentimenti. E Moran, avendo compreso, aveva deciso di allontanarsi.

William lo osservò andar via, dalla finestra dello studio in cui Mycroft aveva comunicato il destino che sarebbe toccato a tutti loro. Sapeva che la lealtà di Moran sarebbe sempre stata con loro, con lui, ma ne rispettava il bisogno di allontanarsi, fosse anche per il vuoto sollievo di una notte. 

“Liam?” si sentì chiamare, nella stanza rimasta in penombra. Si voltò appena, reclinando la testa. Sherlock, ancora in abiti formali, era sulla porta.

“Le tue sigarette sono qui.” lo informò, indicando un pacchetto semivuoto sul tavolino centrale. 

Sherlock sogghignò, chiudendo la porta alle sue spalle. Non finse nemmeno di essere interessato più al momento che al tabacco. Si stravaccò pigramente sul divano, invitandolo a sedersi. “Ti ricordi Natale di due anni fa?”

William sorrise, prendendo posto sul divano frontale. “Quando cercasti di dar fuoco a entrambi mettendo sul tacchino la salsa al chili piccante che ci aveva portato Billy? Persino mio fratello sarebbe rimasto impressionato.”

Sherlock dovette trattenere una risata per non svegliare chiunque stesse dormendo. “Quello è un dettaglio. Non che tu fossi stato meglio, dato che avevi ben pensato di scolarti l’unica bottiglia di latte.”

“Che, notoriamente, è più utile delle bottiglie d’acqua che avevi prosciugato.” rispose, ridacchiando.

“Aaaaah… che tempi.” osservò un divertito Sherlock, stiracchiandosi. “Se quella sera avessi saputo che oggi saremmo stati qui a festeggiare il Natale con le nostre famiglie, beh… probabilmente avrei osato di più.”

William posò la guancia sulla mano. In quegli anni, trascorsi tra casi, incontri e disavventure domestiche, aveva visto dei lati di Sherlock Holmes che persino Mycroft ignorava. Aveva ragione quando sosteneva che fosse impulsivo e che non riuscisse a comprendere a fondo quel che egli stesso provava, ma proprio in quel suo essere stravagante, eclettico, totalmente menefreghista della morale comune, Sherlock sapeva essere una forza magnetica. Poco importava se questo significava buttarsi da un ponte, rimanere giorno e notte al capezzale di un morto dentro o mostrarsi en plein air senza curarsi delle conseguenze. Sherlock era così: prendere o lasciare. E William, per la prima volta in vita sua, aveva visto in lui qualcuno a cui aspirare. Tuttavia, la sua naturale introversione non gli rendeva le cose facili. 

Allungò il braccio, prendendo una sigaretta. Non aveva più fumato da quando era sopravvissuto. Aveva sempre saputo che il fumo era dannoso e non era mai stato particolarmente avvezzo a farlo, ma era diventata un’abitudine. Come lo era uscire per le strade di Manhattan, sapendo di poterlo fare senza doversi nascondere o peggio, essere costretto ad adottare dei travestimenti anche poco riguardevoli, ma che gli garantivano un senso di sicurezza. 

“Sai, Sherly… penso che se l’avessi saputo prima, avrei finito col farti compagnia.”

Sherlock prese l’accendino dalla tasca, poi una sigaretta per sé e accese per entrambi. “Mh-mh.”

William tirò su e poi buttò fuori, ricacciando malamente un colpo di tosse.

“Non sei più abituato, eh?” domandò Sherlock, porgendogli il posacenere.

“Sembra di no. Quando smetti di fare qualcosa della quale non sei nemmeno troppo convinto, il corpo se ne ricorda e te lo impedisce.” rispose, spegnendo il mozzicone.

“Motivo per cui ti prende il panico all’idea di uscire di casa senza doverti camuffare o spostarti soltanto in carrozza.”

William lo fissò, sconvolto, irrigidendosi, per poi, nel vedere l’espressione tranquilla di Sherlock, appoggiarsi allo schienale del divano. “È tanto evidente?”

Sherlock fece spallucce, lasciando cadere la cenere. “Ti conosco, Liam. E il fatto che tu ti sia affrettato a mettere in chiaro che la fidanzata di tuo fratello sia finalmente presente come persona a sé stante… beh… la trovo più conferma che il fatto di trattenere me e John per prenderti un momento di rivalsa per quello che abbiamo fatto ad Albert.”

A quelle parole, William reclinò la testa sullo schienale, osservando parzialmente il soffitto. “E se non riuscissi più a farlo, Sherly? Se… avessi paura di uscire tra la gente?” confessò, sentendo l’agitazione salire.

Sherlock non rispose subito. Che William fosse tormentato era qualcosa che conosceva fin troppo bene, ma era la prima volta che lo sentiva confidargli di avere paura. Poteva capirlo, dal momento che mostrare il suo volto avrebbe significato dichiarare al mondo che era vivo. E se per lui era stato naturale come risolvere un caso, per William significava abbracciare completamente un nuovo modo di vivere. “Ti ricordi quando abbiamo visto la statua che stanno costruendo sul porto del fiume Hudson, Liam? Non credo tardi più tanto ad essere completata, per cui… sarebbe bello poter tornare a New York per vederla. E… magari sapere se rappresenta la giustizia o la libertà.”

William sorrise. “La libertà. L’America è la libertà.”

Sherlock fece un ultimo tiro, poi spense la sigaretta. “E fino a che sarai diviso tra gli ideali dell’una e dell’altra, tu non sarai mai libero, Liam.” 

Nel sentirne il tono, William tornò a guardarlo, sconvolto. La libertà, tornato a Londra, significava fare i conti con una giustizia che, pur condonandone i peccati, non li assolveva nel suo animo inquieto, rendendogli impossibile il camminare alla luce del sole senza sentirsi divorato dal peso di tali colpe. E quello era qualcosa che non poteva confidare nemmeno ai suoi fratelli. “Sherly…”

Un sorriso compiaciuto e sornione apparve sul volto del detective. “E comunque, se ti viene da scappare, ricorda che ci sono io ad acchiapparti.”

Catch me if you can, Sherlock, gli aveva chiesto, davanti alla minaccia di Milverton, quando ormai la sua identità di Lord del Crimine era stata esposta. Non riusciva a trovare parole per replicare a ciò che Sherlock gli aveva ricordato. Mycroft gli aveva chiesto di rimanere accanto a lui, consapevole del fatto che si controbilanciassero perfettamente. Uno la nemesi dell’altro. Uno il migliore amico dell’altro. Due facce della stessa medaglia. Eppure, William non riusciva a non pensare che da quando infine, Sherlock l’aveva catturato, offrendogli la possibilità di una nuova vita, non aveva fatto altro che aggrapparsi ad essa con la consapevolezza che lui gli fosse accanto. Fino a che non era stato in grado di affrontare i suoi demoni da solo, William si era fatto forte della presenza di Sherlock, ammaliato dalla luce e dai colori che era in grado di portare nella sua vita. Come quando, seduti su una panchina tra panni stesi sul tetto di un ospedale, gli aveva ricordato che il mondo era una tela da dipingere come voleva. E lui si era fidato. 

Guardò i dorsi delle mani, su cui erano cadute delle lacrime. Piangere era stato per lui un evento più unico che raro, tanto da essere in grado di ricordare perfettamente le occasioni in cui era accaduto. Da bambino, per Louis. Da adulto, proprio davanti all’uomo che lo guardava senza smettere di sorridere e davanti a una ragazzina che gli aveva ricordato quale fosse la sua strada. Sherlock si rialzò, raggiungendolo e poi inginocchiandosi di fronte a lui. Come già era accaduto, ma con tre anni di maturità sulle spalle, qualche modifica nell’aspetto fisico e niente vento a scompigliare i capelli. “Siamo sempre noi, Liam. E siamo a casa, finalmente.”

William annuì. Soltanto con Sherlock e con i suoi fratelli rimaneva a corto di parole o perso nella sua vulnerabilità. “Per questo motivo… che ne dici di fare un giro in città domattina?”

Soppesando la proposta, William scosse infine la testa. Ciononostante, sorrise, asciugando le lacrime. “Non ancora… ma presto.” disse, ottenendo in risposta un sospiro. 

“Sherly, io…”

“Sappi che prendo nota!” rispose entusiasta il detective, scacciando via qualunque sospetto di delusione che William temeva di avergli provocato. Ah… comunque, ho una cosa per te.” aggiunse poi, smanettando nella tasca del tight. “Dov’è?”

William batté la palpebra, stupito, poi si mise a ridere nel vedere la disperazione comparire sul volto di Sherlock. “Non mi hai già fatto abbastanza regali oggi?”

“Infatti questo non è mio. Se lo trovo…” rispose, per poi, con un occhiolino, tirar fuori una chiave. 

“Una… chiave?” osservò perplesso William, seguendolo con lo sguardo mentre andava ad aprire lo sportello di uno stipite nella libreria. 

“Se l’avessi messo nella mia stanza, qualcuno sarebbe andato a curiosare…”

William sorrise nel sentirne il tono annoiato che solitamente utilizzava per parlare delle donne. “A proposito, Sherly, ora che mi ci fai pensare… Bond ha preso bene la notizia? Non ha detto niente per tutto il resto della serata…”

La chiave che Sherlock stava per infilare nella serratura gli scivolò di mano e si voltò di colpo, piccato. Il rossore sulle sue guance era del tutto visibile nonostante la penombra della stanza e William sollevò le sopracciglia, sinceramente sorpreso. “Non mi dire… persino tu…” sospirò poi, al pensiero di una tale evoluzione. “Come la gestirete? Perché passi la tua totale noncuranza della morale pubblica, ma…”

“Non lo so, eh? Non ne ho idea, ma tutto quello che so è che quella donna è capace di farmi impazzire e che, dannazione, non riesco a farne a meno.” si giustificò nel modo più impacciato possibile, per poi raccogliere la chiave e aprire lo sportello. “E comunque… sei responsabile tanto quanto me dal momento che il Lord del Crimine ci ha messi in questa situazione.”

“Mh. Fortunato che non nutriamo l’interesse per la stessa persona…” mormorò, pensando a Louis e Moran.

“Ooooh! Per caso il tuo cuore batte per qualcuno che non conosco, Liam?” chiese Sherlock, con aria curiosamente indagatrice. 

Il cuore di William mancò un battito. “No. Potresti darmi quel regalo e ce ne andiamo a dormire?”

Sogghignando, Sherlock gli portò una scatola bianca con una C sul lato più alto. Sgranò l’occhio sano, nel riconoscere quel simbolo, poi prese la scatola tra le mani. 

“Ho incontrato una ragazzina mentre ero in giro a fare spese. Dal momento che volevo regalare qualcosa alla banda di Baker Street sono finito a girovagare nei grandi magazzini e ho fatto la conoscenza di una certa Helena. Mi ha colpito il suo essere in grado di vedere i colori attraverso le voci della gente. Sinestesia, qualcosa di incredibile persino per me. Mi ha raccontato che circa tre anni fa aveva incontrato qualcuno i cui colori richiamavano il fuoco ardente e che aveva istantaneamente capito per chi fosse il regalo che aveva scelto, per poi accompagnarla a fare shopping… con una conclusione piuttosto movimentata e, in seguito, con il ricongiungimento al suo vero padre.”

William notò che le sue mani stavano tremando, nel reggere quella scatola. “Come sta?”

Sherlock sorrise. “Su, vedi da te.”

Con un sospiro a farsi coraggio, William aprì la scatola, trovandoci un caleidoscopio e un biglietto. Poche parole, per una ragazzina che, nei suoi ricordi, era incredibilmente socievole e loquace, seppur sentendosi fuori posto ovunque fosse. Doveva avere più o meno tredici o quattordici anni, ora. 

Che la tua vita sia sempre ricca di colori. Se dovessi dimenticarne qualcuno, ricorda che l’arcobaleno è la somma delle sfumature di ognuno. Sempre debitrice, Helena Curtis” lesse, ricordando che tipetto peculiare lei fosse, per poi prendere il caleidoscopio. “È impossibile che sappia che sono… vivo.”

Sherlock annuì. “Ma l’ha capito. L’ha visto quando le ho dato modo di realizzare che sapevo a chi si stesse riferendo… e nel farlo, mi ha detto che il colore dell’oceano che vedeva in me, in quel momento, era diventato vibrante e movimentato, il corrispettivo di quello di William James Moriarty. Ha preso il caleidoscopio e il biglietto e dopo mi ha detto che un giorno spera di poterti mostrare i progressi del suo… dono.”

William rimase profondamente stupito nel sentire il racconto di Sherlock. Guardò il caleidoscopio, poi rialzò lo sguardo verso di lui, che sorrise. “Ci sono tante persone a cui hai migliorato la vita, Liam. Per loro puoi camminare a testa alta, nella luce.”

Incapace di replicare ulteriormente, William annuì, avvicinando all’occhio la lente e ruotando il cilindro del caleidoscopio. All’interno, i colori creavano forme geometriche di una complessità e di un fascino comprensibili soltanto a un matematico come lui. Sherlock gli posò la mano sulla spalla, prima di lasciargli godere il suo tempo. Quando William fosse stato pronto, sarebbe stato lui stesso a fare il primo passo. 

***

Salì le scale che portavano al piano superiore sbadigliando apertamente. Avevano fatto di nuovo notte e l’appagamento dato dall’aver risolto le diverse questioni che ne agitavano l’animo era servito come contraltare alla stanchezza che, man mano che raggiungeva il piano superiore, si era impadronita di lui. La dopamina naturale era straordinaria, ma i suoi effetti svanivano presto e Sherlock non vedeva l’ora, finalmente, di poter dormire. Dal momento che era abituato, non si preoccupò del doversi muovere al buio e così, quando entrò nella stanza, si afflosciò sul letto senza troppe remore, affondando la guancia sul cuscino, prima di sentire un peso accanto a sé. “Diamine, Mickey… non dormiamo insieme da quando avevo… cinque anni… e la mamma era esasperata dal fatto che volessi sempre rivincite a scacchi…” protestò con voce assonnata, tirando la coperta. “E fa freddo… se mi viene un raffreddore…” disse sbadigliando “… la colpa è solo tua, fratello… maledetto…” 

Vinto dal sonno, percepì un buon profumo di rose solleticargli le narici. Sorrise abbandonandosi a Morfeo, immaginando che sarebbe stato decisamente meglio se accanto a lui non ci fosse stato quel sasso di Mycroft, ma Irene.

In fondo al corridoio, appollaiati, Miss Hudson e John si guardarono, mordendo dei fazzoletti, una per non ridere istericamente e uno per non piangere per l’incredulità al pensiero di Sherlock Holmes che si intrufolava nella stanza di Bond. Batterono piano il cinque, il tempo di percepire un’inquietante presenza alle loro spalle. Tremando, si voltarono e il rosso cremisi degli occhi di Louis, avvolto in una vestaglia da camera, si fece più luminoso e minaccioso. Non ci fu bisogno nemmeno che dicesse nulla: Miss Hudson e John si fiondarono nelle rispettive camere. Louis sospirò. “Primo e ultimo Natale con questi pazzi.” sentenziò, per poi tornare da Moneypenny, che lo attendeva con assoluta comprensione, tenendo un piccolo carillon con una ballerina tra le mani.

 



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Eccomi qui, a chiudere il cerchio prima dell'epilogo! In realtà volevo pubblicare a San Valentino per gli Adlock, ma poi ho anticipato... 🤭❤️  Io comunque continuo a sperare... per quanto riguarda Helena, la dolcissima e curiosissima ragazzina che potrebbe essere degna pari di William, mi sono rifatta alla novel e alla parte di Remains che è in corso, ma onestamente, non ricordo se anche lei aveva già conosciuto Sherlock o meno... in caso, fa niente, spero renda comunque... e... sembra che nel destino di William ci possa essere una qualche Helena, visto che lei era la prima, poi c'era stata una seconda, ma erano bimbe... ora ci vuole una Helena della sua età, sensei!! 🤭🤭 

Alla prossima con l'epilogo! 🤭❤️

 

  
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