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Autore: _Alcor    13/02/2024    5 recensioni
La fine del mondo è già passata.
Di preciso il mondo di Yuuki Shinomiya è morto insieme a sua sorella, cinque giorni prima. L'assassino è uno dei robot che hanno seminato panico in città nelle ultime due settimane. L'unica cosa che le rimane è trovarne il creatore e ammazzarlo con le sue mani.
Perché se non lo fa… che altro le rimane?
{sorella maggiore con il cuore in pezzi elabora il lutto | lo elabora male, e lo rende un problema per tutti quelli che conosce | companion fic per l’Ottantesima Vittima di Mixxo | minilong}
Genere: Angst, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Chimere'
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Propagazione.

[Yuuki Shinomiya]





Un odore di fumo e agrumi impregna i capelli di mamma, è già tornata al lavoro dopo quello che è successo.

Si stacca. Il mio abbraccio le ha lasciato una macchia umida sulla spalla della giacca bianca, allunga la mano ai miei capelli e passa il pollice su una ciocca bagnata. La frequenza dei suoi respiri si è regolarizzata, qualsiasi pensiero le stesse dando fastidio l’ha rimesso sotto controllo.

Nessuno parla in questa famiglia, si gira intorno alle emozioni degli altri in punta di piedi con la speranza di non pestare nervi scoperti. Il malcapitato si arrangia a rimettere in ordine i suoi problemi da solo.

«Asciugateli.» Mi lascia, preferisco un rimprovero a vederla bloccata così.

Puntello il gomito contro lo schienale della poltroncina e mi sostengo il viso. «Siamo in piena estate, piuttosto me li bagnerei di nuovo.»

«Tu contraddici per il gusto di farlo.» Mamma si lascia cadere di schiena, lo sguardo scivola al file video. «Povera la persona con cui avrai una relazione.»

L’anteprima rappresenta uno stralcio della strada, il file viene da una delle telecamere di sorveglianza dei capannoni Tiamat. Riconosco la viuzza sulla nona e il pontile turistico, raggiungerli di nuovo sarà facile ma dopo cinque giorni la maggior parte delle tracce saranno già sparite.

Altro che obbedire agli ordini, avrei dovuto fregarmene e fare quel che volevo.

Mi stringe la mano, è forte e non ammette fughe. «Yuu, rimani con me.»

«Dove vuoi che vada?» Le faccio l’occhiolino, i punti tirano. «Ho ancora i capelli bagnati.»

«I tuoi pensieri vanno in un posto da cui temo non potrò recuperarti.» L’espressione di mamma emana tanto calore quanto malinconia. «Non voglio perdere una seconda figlia così presto, lo capisci?»

Annuisco.

«Tutte le persone che ho visto con il tuo sguardo, ora sono sottoterra.» Si alza, ma non mi lascia. Passa il pollice dell’altra mano sul sopracciglio tagliato dalla ferita, si ferma prima di sfiorare i punti. «Finché il tuo cuore sanguina, non possiamo lasciarti mettere a rischio.»

Non ci sono vie di fuga o battute per sfuggirle. Incontro i suoi occhi, il meglio che posso fare con lei è farmi vedere sicura. «Non ho intenzione di morire ora.»

«Non è la tua intenzione che conta.» Mi tira un colpetto sulla fronte e lascia andare. «Non quando stai evitando Takane, sembri sul punto di litigare con tuo padre ogni volta che lo vedi e… hai quello sguardo.»

Hanno parlato di me prima che io arrivassi. Strano, mi aspettavo che il loro primo pensiero sarebbe stato risolvere il vuoto lasciato dall’aver perso un operativo specializzato. Perdere tempo con il mio umore è un po’ troppo umano da parte di papà.

Mi mordo l’interno della guancia, negare non servirebbe a nulla in questo contesto. «Non posso prendere bene quello che è successo. Kojo era famiglia.»

«Lo è tuttora, Kojo rimane.»

Ognuno ha bisogno delle proprie fiabe per tirare avanti, ma capirà che l’unico rimasto su questa terra con noi è il suo assassino.

Mi picchietto la gola, lì dove il suo collo è stato tagliato dalla lama. «Terrò la testa sulle spalle e studierò con calma il briefing che papà ha preparato, visto che dovrò portare io a termine quella missione.»

Mamma mi mette una mano sulla spalla. «Non oggi. Va' a imparare il canto delle rose, è un po’ che non ti sento suonare il violino.»

Una marcia funebre per un funerale che non faremo.

«Certo. È una bella canzone, perché no?» Riderei se non avessi la gola stretta in una morsa. «…vado da Gareth a impararla.»

L’implicito è bello chiaro: non fare niente finché non cambi registro. Ma non l’ascolterò questa volta.





Scendo dall’autobus e mi faccio da parte, un paio di studenti con le tracolle sulla spalla spintonano per salire e tornare finalmente a casa. Sono un esercito di panda dalla schiena curva sotto il peso di notti insonni, poracci. La sessione estiva non si ferma neanche per attacchi robot a quanto pare.

Costeggio la banchina e scendo al marciapiede, l’astuccio del violino stretto tra le dita.

Una rete di metallo costeggia l’arco per accedere al quartiere universitario, la struttura bianco-sporco è crollata come se le colonne avessero perso la capacità di reggerla all’improvviso.

Le vetrine di bar e copisterie sono state sostituite di fresco, ma le tracce lasciate dai proiettili e dai colpi di spada termica costellano i muri. Qui c’è stato un disastro, ma sarebbe più facile elencare i posti dove non c’è stato un casino negli ultimi tempi. Mi fermo al semaforo, il borbottio dei motori e l’odore di smog mi culla.

Casa di Gareth è in fondo alla via, vicino al covo degli artisti, c’è da sperare che lo scontro non si sia spinto così lontano e abbia danneggiato altre infrastrutture. Abbasso la manica della giacchetta, sul polso il piccolo pezzo di nastro di carta grigio non si è ancora staccato. Mi serve una botta di fortuna per poter contattare Meg senza che i miei lo sappiano, e questa è l’unica occasione che avrò in tempi brevi.

Fortunatamente, gli unici che potrebbero seguirmi senza farsi notare sono Takane e Takao.

Scatta il verde.

Allungo il passo e rallento solo al murale della Taverna, farfalle dalle ali che sfumano dal nero all’azzurro notte si librano in uno sfondo di balocchi. Tra i dettagli, si può intravedere la figura maschile di un uomo. Mi fermo e lo inquadro con la fotocamera, attendo che si metta a fuoco per scattare.

Alle mie spalle un paio di ragazzetti in bicicletta tagliano la strada fuori dalle strisce, una macchina grigio metallizzata inchioda prima di prenderli sotto. Il conducente agita il braccio con il telefono fuori dal finestrino. Cerco tra gli alberi, tra i riflessi delle finestre ma non c’è niente di sospetto.

Ho fatto bene a non aspettare.

Cammino a passi leggeri verso la mia destinazione, strappo con un colpo deciso il nastro dal polso e lo attacco al lampione davanti al covo degli artisti. «Ora tocca aspettare un messaggio di Meg.»

Al di là della vetrina, il locale è pieno di fazzoletti rossi, gialli e blu. L’animatrice con le braccia cariche di tele passa tra i bambini seduti per terra, imito il suo sorriso entusiasta e mi infilo su per le scale che danno sulla porta dell’appartamento di Gareth.

Suono al campanello. Si offenderà del fatto che non l’ho chiamato in anticipo per avvisare che sarei andata a trovarlo? La spia del citofono si accende di verde.

«Yuu…» Lo sbadiglio gli si incastra a metà in gola. «Che ti è successo alla faccia–»





Le luci di decine di faretti disegnano linee tremolanti nell’acqua e si riflettono sui profili delle navi ormeggiate. Imposto il cellulare in silenzioso, il messaggio da un numero sconosciuto dice solo galleria ferroviaria, nove e trenta. Raro che Meg riutilizzi così presto un luogo di ritrovo.

La notifica di un messaggio rischiara lo schermo. Kaito. Dove sei?

Un gatto rosso si sporge da dietro una delle basse colonne che costeggiano il limitare della banchina. Mi gira intorno alle gambe e accarezza il polpaccio con la coda soffice.

Un altro messaggio, sempre Kaito. Oi, non fare la testa di cazzo.

Blocco il cellulare e lo caccio in tasca. Passo indice e medio sul musetto del ruffiano rosso. «Tu sei troppo abituato agli esseri umani.»

La base operativa della Kaiser si erge a una manciata di isolati di distanza. Gli edifici arroccati uno sull’altro sembrano incurvarsi sopra il resto della città per giudicarla con i loro centinaia di occhietti luminosi.

Un miagolio rompe la quiete, il ruffiano si struscia contro la gamba di nuovo e fa le fusa. Trattengo l’istinto di rimproverarlo. «Non ho niente questa volta. Che mi hai preso, per Takane?»

Sbatte le palpebre e si stiracchia. Giusto, colpa mia che mi ci metto a parlare come se volesse capirmi: i gatti fanno quello che pare a loro.

Mi avvio verso i capannoni della Tiamat, lo sguardo del micio mi rimane puntato addosso mentre seguo la curva della banchina. Sulla destra si apre un’ampia via delimitata da edifici grigi, in lontananza reti metalliche di un paio di metri delimitano la zona che è stata danneggiata dallo scontro tra Kojo e il robot.

Sul tetto del capannone una figura longilinea si muove, con tutta probabilità si tratta del mercenario assunto per tenere al sicuro i macchinari da eventuali nuovi attacchi. Fino a cinque giorni fa solo una guardia notturna faceva le ronde e non era nemmeno armata.

Anche se Kojo avesse implorato aiuto, non c’era nessuno che avrebbe potuto salvarla. Mando giù il boccone amaro, sono qui per trovare un indizio sul bastardo che l’ha uccisa o per poter capire cos’ha pensato nei suoi ultimi momenti.

Tiro fuori una torcia e punto il fascio di luce sul muro del capannone alla ricerca della telecamera di sicurezza che ha registrato i suoi ultimi momenti. Passo all’asfalto, lo scorro fino al bordo. Non c’è traccia di sangue, deve essere già stato lavato via o sparito con i lavori di riparazione.

Piazzo i piedi sul limitare del pontile, la schiena alla distesa infinita del mare e gli occhi al capannone. Non va bene, non è la prospettiva giusta. Mi inginocchio e chiudo gli occhi.

La figura del robot mi sovrasta, alto e slanciato, le centinaia di aghi di cui è composto vibrano a ogni momento e riempiono il silenzio di un ronzio. La spada – quella che mi ha tagliato il collo – brucia di bianco.

La paura quasi non la sento. Ho le ossa a pezzi per le botte subite, non sto crollando in un sonno agitato solo perché l’adrenalina e la voglia di riscatto mi mordono.

Non ci sono soccorsi che mi potrebbero salvare.

Dischiudo gli occhi e getto un’occhiata alle acque che lambiscono il pontile, la tomba dove Kojo è stata gettata ed è sparita.

Mi trema il respiro.

Il mercenario in cima al capannone è sparito, starà continuando a fare il suo lavoro. Mi lascio cadere di schiena.

L’acqua mi accoglie con uno scroscio, è tiepida e mi infradicia i vestiti. Nel cielo, la via delle lacrime – le duecentomila stelle apparse all’improvviso dopo il disastro della vicina Marton – brillano più delle luci intense della città.

Le onde mi lambiscono i fianchi, mi attaccano i capelli alla guancia. Se voglio vedere davvero le ultime cose che Kojo ha visto… mi lascio sprofondare, l’acqua salata mi entra negli occhi e li appanna. La superficie del mare è confusa.

Trattengo il fiato.

Chissà che sensazione dà l’acqua salata in una ferita aperta.

Ferita che avrebbe perso sangue, tinto la visuale di rosso. Accenno un sorriso amaro, per quanto mi possa sforzare, non potrò mai capire come si è sentita Kojo prima di morire. L’unica cosa che mi è rimasta è davvero trovare il robot che l’ha uccisa e smantellarlo con le mie mani, poi sarà il turno del suo creatore.

Attendo con la bocca chiusa sott’acqua finché il peso sui polmoni non diventa insopportabile. Do un colpo di fianchi e corro verso la superficie.

Spacco l’acqua.





Entro nel vialetto di una delle case secondarie, di quelle dove non teniamo nemmeno equipaggiamento di riserva. Il posto serve più che altro per quando qualcuno ha bisogno di crollare e farsi una dormita, ma non ha le forze di trascinare le ossa stanche fino alla base.

Ho smesso di grondare acqua da tempo, ma lascio ancora a terra le occasionali goccioline.

Le prime luci dell’alba stanno schiarendo il cielo, tiro fuori le chiavi dalla tasca ed esito. Da sotto la porta arriva la luce debole dell’entrata, qualcuno è dentro e ha lasciato giusto quella lampadina accesa.

Uno degli altri ha usato recentemente l’appartamento? La posizione è compromessa? Passo in rassegna gli impegni recenti della famiglia, ma mamma lavora come al solito e papà non passa mai di qui, l’unico che potrebbe fare un errore del genere è quell’orso di Kaito.

Premo la lingua contro il palato. Non c’è traccia di scasso, la porta non è stata sfondata, manomessa e le finestre esterne sembrano al loro posto. Non ho la forza per fare il giro della casa, tirerò un colpo nel naso a chiunque sia dentro e poi lo lascerò fuori da qui.

Potrei perfino scomodare la polizia di Yrff per questo, alla fine sono una cittadina anch’io. Qualcosa di utile dovranno farlo.

Infilo la chiave nella toppa e giro, la luce dell’entrata mi acceca. Un lenzuolo copre metà terreno, appoggiato alla porta che dà sul salotto c’è l’orso, la schiena al muro e gli occhi chiusi. Potrei chiamare la polizia comunque, sono in tempo per evitarlo.

Tiro dritto verso la scala.

«Piantala.»

Mi blocco. «Cosa?»

Kaito stende le gambe e caccia uno sbadiglio che mette in mostra le tonsille. «Tornare a casa dopo un’escursione marittima notturna non è ciò che ti fa passare inosservata.»

«Stavo riflettendo su come recuperare il corpo,» replico, piccata. «Vorrei seppellirla prima che diventi gonfia d’acqua.»

«Trova la sua stella nel cielo e falla finita, a Kojo non frega niente se è un cadavere ora.»

«Sei un fratello maggiore terribile.»

«Almeno io non faccio preoccupare Takane.» Si tira su e molla la coperta a terra. «Quando è schiattato quel tuo amico hai fatto la stessa storia.»

«Non mi sono buttata in acqua a cercarlo.»

«Gli è crollato un edificio in testa, grazie al cazzo, Yuu! Se non sei pronta a vedere la gente morire, dovresti–»

«Hai visto la registrazione, no? Devo spiegarti cosa non mi piace in quella morte?» Sbatto il pugno a martello contro il muro, il dolore è immediato e mi risale il braccio. «Ha continuato a pensare alla missione prima di essere sgozzata. Poteva mollare il manufatto di papà e fuggire.» Mi si stringe la gola. L’intero punto non è vivere un altro giorno? «Sono arrabbiata con lei.»

«Allora perché sembri sul punto di piangere?»

Il velo sugli occhi cade, una lacrima che si perde nelle gocce che ho lasciato a terra. Segue un’altra, e un’altra ancora. Bagnano i punti, la ferita brucia. «Senti.» Ho ancora controllo della mia voce. «Le lacrime di frustrazione sono contemplate.»

Kaito annuisce, neanche troppo sorpreso. «Ordino il take-out?»

«Voglio mangiare pesce.»

«Fritto misto sia. Prendo anche le patatine. Chiamo gli altri due per cena?»

Colazione. Annuisco. Se posso convincerli che ho sto bene mi lasceranno in pace in tempo per l’incontro con Meg oggi. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, il mio viaggetto notturno l’ha fritto.

Sospiro, non me la sono resa per niente facile.

«Pronto?» Kaito ha il suo all’orecchio, la voce calda ed energica. «Sì, vorrei ordinare cinque fritti misti e…»

Quattro.

Dovresti ordinare per quattro.

  
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