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Autore: Demy77    18/02/2024    2 recensioni
Per questa nuova long a tema Poldark ho deciso di farmi ispirare da un’altra delle mie grandi passioni televisive: la telenovela messicana Cuore Selvaggio, andata in onda in Italia nei primi anni ’90.
La trama in sintesi: Francis Poldark è tra i più ricchi giovani scapoli della Cornovaglia. L’ambizioso padre Charles pianifica il suo matrimonio con la contessina Elizabeth Chynoweth, la cui famiglia, pur di nobili origini, è caduta in disgrazia dopo la morte del capofamiglia Jonathan.
Con Elizabeth, bellissima ma capricciosa e volubile, vive Demelza, sua sorella adottiva, una trovatella che è stata cresciuta dai Chynoweth per volontà del defunto padre di Elizabeth; la ragazza è segretamente innamorata di Francis.
Il cugino di Francis, Ross, diseredato dalla famiglia molti anni prima, ritorna in Cornovaglia dopo aver combattuto nella guerra di indipendenza americana. Conduce una vita sregolata, dedicandosi ad affari poco leciti, trattando con disprezzo le classi sociali più abbienti.
Le strade dei quattro giovani si incroceranno, dando vita a passioni, intrighi, malintesi e ad una inaspettata e travolgente storia d’amore…
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demelza Carne, Elizabeth Chynoweth, Francis Poldark, Ross Poldark
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Demelza uscì rapidamente dalla prigione al seguito di Odgers quasi in trance, come se si fosse trattato di un sogno. Mentre percorrevano le spoglie vie che costeggiavano il carcere le salirono agli occhi copiose lacrime, pensando allo squallore delle condizioni di prigionia di Ross e all’ingiustizia di quanto gli era accaduto. Poco più in là, in uno slargo, l’attendeva Jud con il calesse. La donna si liberò del cappello e dell’ampio abito scuro, sotto il quale celava i suoi vestiti femminili, e restituì gli abiti talari al sacerdote, con l’intesa di ripetere il travestimento la settimana successiva, se non ci fosse stato altro modo di vedere il marito. Ricevute parole di commiato e di conforto dal reverendo Odgers, che la spronava a non perdere la fede, Demelza sedette a cassetta a fianco del servitore, cui riferì in breve l’accaduto, e fecero strada verso Nampara.
La visita di Demelza, intanto, aveva gettato Ross nella disperazione più cupa. Lo consolava pensare che sua moglie si fidava di lui e non lo reputava colpevole, gli aveva dato gioia rivederla, ma ora gli pesava sul cuore il senso di colpa per averla trascinata, suo malgrado, in quella sorte scura. Aveva sempre vissuto da solo, senza dover rendere conto a nessuno ed affrontato le sventure a testa alta. Adesso, invece, si sentiva responsabile di quella donna che era sua secondo le leggi di Dio e degli uomini, e sentiva di aver fallito: non era quella la vita che sognava per loro due. Ross era sempre più convinto di essere nato stato una cattiva stella, e gente come lui non era fatta per avere una famiglia e rendere infelice chi condivideva la sua vita.
Sapeva di essere innocente, certo, ma la gente non lo sapeva e Demelza sarebbe stata bollata come moglie di un delinquente. Se Elizabeth non lo aveva ingannato, avrebbe subito una pesante condanna, sempre che fosse riuscito a sopravvivere in quelle condizioni malsane. E Demelza? Ella era nel fiore della gioventù, ma lo avrebbe aspettato? Forse ora era innamorata e questo sentimento la rendeva determinata come gli era apparsa poco prima, ma con il passare degli anni, con il marito chiuso in prigione, privata della gioia di mettere al mondo un figlio, si sarebbe pentita della sua scelta ed avrebbe maledetto il suo destino …forse si sarebbe davvero chiusa in un convento, scontando anche lei una pena ingiusta.
Ross ripensava anche alle parole di Elizabeth. Non condivideva, naturalmente, la sua proposta di fuga, tuttavia l’idea di un’evasione lo solleticava. Se vi era stata una cospirazione contro di lui, i potenti che avevano usato i loro mezzi per incastrarlo ne avevano necessariamente altrettanti per far sì che si giungesse ad una pena esemplare. Elizabeth aveva parlato di trent’anni, ma vi era la seria probabilità di finire sulla forca per omicidio. Per quanto Pascoe, Dwight Enys e gli altri pochi amici che aveva potessero adoperarsi, era  difficile opporsi a Warleggan, se davvero c’era lui dietro tutto quello. Ross cominciò allora a studiare gli angusti spazi in cui era recluso, il personale, gli orari, le abitudini di quel luogo maledetto, per cercare di scoprire una falla nel meccanismo di custodia che gli consentisse di scappare dal carcere.
Per quanto il luogo fosse scarsamente illuminato, ricordando anche il tragitto che aveva fatto la prima volta comprese che l’unica via di fuga era il corridoio. La finestrella che dava luce alla sua cella, ammesso di poter trovare un modo per salire così in alto, era un quadrato largo circa un piede e quindi di superficie insufficiente affinchè una persona passasse al suo interno. Percorso tutto il corridoio si giungeva ad una specie di stanzetta occupata dalle due guardie di turno. Vi era poi una rampa di scale che conduceva al piano superiore, dove si trovavano molte altre guardie e, probabilmente, gli uffici del direttore del carcere. Ross non aveva notizia di qualcuno che, negli anni precedenti, fosse riuscito ad evadere da Bodmin. Se fosse stato condannato alla pena di morte, pensò che sarebbe stato davvero rocambolesco evadere il giorno stesso dell’esecuzione, mentre veniva condotto all’esterno… ma poi pensò che ciò avrebbe richiesto un’organizzazione impeccabile, tenuto conto dello spiegamento di forze di polizia che ci sarebbe stato e della presenza di una folla inferocita, attratta dalla vista del sangue che scorre, che avrebbe riempito le strade; insomma, un piano del genere richiedeva un’accurata programmazione e l’aiuto di un gruppo nutrito di amici fidati, che però Ross sapeva di non poter vantare.
Giorno dopo giorno, però, il prigioniero non abbandonava quell’idea e cercava di sfruttare la sua astuzia ed il suo ingegno puntando verso quell’obiettivo, anziché abbattersi per la sua sorte sventurata e addolorarsi per la solitudine di Demelza. Ross si era accorto che vi erano almeno sette, otto guardie che si alternavano giorno e notte, ma uno solo era l’addetto che serviva il pranzo e la cena. Era un uomo di mezza età, dai capelli completamente grigi e radi, molto corti, con gli occhi chiari sottili come due fessure, forse resi tali anche dall’assuefazione all’oscurità di quel luogo. L’uomo era estremamente taciturno, ma pareva cauto ed attento come un gatto. Quando gli si rivolgeva la parola, rispondeva a monosillabi. Sembrava l’unico del personale che bazzicava nel carcere a non aver perduto un barlume di umanità. Non alzava mai la voce e non si spazientiva; se qualcuno dei detenuti implorava una seconda razione d’acqua, o di pane, o un po’ di minestra in più, egli non rispondeva nulla, perché in effetti non era cosa che dipendesse da lui; ultimato il giro, però, se gli avanzava qualcosa, tornava da quello che gli aveva fatto la richiesta ed in silenzio, quasi furtivamente, gli rovesciava un altro mestolo nella scodella, gli faceva scivolare una fetta di pane in grembo, oppure svuotava la brocca nel suo bicchiere. I detenuti avevano quindi compreso che il suo silenzio non era scortesia ma prudenza ed avevano imparato ad apprezzare il suo come l’unico volto amico lì dentro. Ross era venuto a sapere che l’uomo che distribuiva i viveri si chiamava Philip. Anche se era molto difficile entrare in sintonia con lui e si fermava pochissimo tempo fra le celle, spesso sotto il vigile occhio delle guardie,  Ross riuscì un giorno a dargli da parlare. Gli chiese se viveva da quelle parti e se aveva famiglia. Philip rispose che era di Bodmin e che aveva moglie e tre figli: lavorava lì in carcere da sette anni circa, da quando, a causa della crisi, le miniere avevano cominciato a chiudere. Ross gli disse che anche suo padre e suo nonno erano nati nel mondo delle miniere. Philip rispose che lo sapeva, che aveva sentito il suo cognome, e tutti da quelle parti avevano sentito parlare di Joshua Poldark. Nei giorni successivi Ross cercò di fargli comprendere che si trovava lì per errore, che era innocente: ma in fondo, non era quello che dicevano tutti i prigionieri? Era insolito che qualcuno si professasse colpevole. Non era quella, dunque, la strategia per entrare in confidenza con quell’uomo. Ross si sforzava di mantenere un certo grado di cordialità con lui, vincendo la sua apparente freddezza. Una sera ebbe un’intuizione: il cadavere che era stato trovato nel suo magazzino non poteva certo appartenere ad un uomo che aveva famiglia e che ne avrebbe reclamato la scomparsa. Quale soluzione migliore, per procurarsi un morto, di attingere al carcere, magari ai prigionieri in attesa di esecuzione, così da risparmiare anche il costo del boia? Decise quindi di interrogare Philip, per sapere se qualche prigioniero era sparito improvvisamente poco prima che lui fosse arrestato. L’uomo non rispose subito, ma si strofinò la fronte, come per concentrarsi. Alla sua solita maniera flemmatica, Philip ultimò il giro di consegne di viveri e tornò da Ross, facendo attenzione a non farsi scorgere dai carcerieri.
“C’è stato un uomo che non ho più visto, in effetti. Era nella prima cella sulla destra, era molto malato, nessuno veniva mai a fargli visita, benché fosse qui da un paio d’anni… gli ultimi giorni aveva una tosse spaventosa, sarà stata la tisi forse. Non mi stupirei se fosse morto”.
Ross lo incalzò: quanto tempo prima che lo incarcerassero era sparito quell’uomo? Philip ci pensò e rispose che doveva trattarsi di uno o due giorni prima. Ross gli chiese come si chiamava il detenuto scomparso e di che reato rispondeva. Philip rispose che gli sembrava si chiamasse John; non conosceva il crimine di cui si era macchiato, ma , essendo lì da almeno un paio d’anni, poteva trattarsi forse di bracconaggio.
Per il momento Ross poteva dirsi soddisfatto delle informazioni acquisite: certo, John era un nome molto comune, ma con un po’ di fortuna si poteva risalire alla sua identità e se un detenuto era misteriosamente sparito proprio prima che quel cadavere fosse stato rinvenuto, per lo meno si poteva tentare di far cadere l’accusa di omicidio.
Nel frattempo Harris Pascoe era riuscito a trovare un avvocato per Ross, una persona onesta che non si era lasciata scoraggiare dalla complessità del caso. Si erano messi alla ricerca di prove, ma avevano dovuto scontrarsi con una profonda reticenza. Nessuno sembrava aver visto nulla quella sera, ma la diffidenza di molti e la paura con cui tanti sfuggivano alle domande facevano pensare che vi fossero state minacce a carico di chi parlava. I principali accusatori di Ross erano degli scaricatori di porto che non erano del posto, gente di passaggio che - probabilmente ben pagati - avevano reso le loro testimonianze, raccolte per iscritto dalla polizia; quelli poi erano tornati al loro paese, senza neppure poter essere nuovamente ascoltati dal difensore di Ross.
Poi c’era il cadavere: quello era un fatto, certo, ma possibile che nessuno ne conosceva l’identità e nessuno ne aveva denunciato la scomparsa? Qualcuno vociferava che anche il morto era un compagno di quei due che avevano testimoniato, un forestiero, e per quel motivo nessuno lo conosceva e nessuno era stato in grado di identificarlo.
Seppure con grande fatica, la difesa di Ross segnò il primo punto a favore riuscendo ad ottenere i documenti relativi alle armi sequestrate nel magazzino del capitano Poldark. Ogni fucile recava una sigla, tramite la quale era possibile risalire al luogo di fabbricazione. Effettuate delle minuziose ricerche, il legale riuscì a scoprire che quelle armi provenivano da un fortino nel Kent ed erano state rubate un anno prima; successivamente, però, erano state ritrovate in un covo di malviventi e sequestrate proprio dai gendarmi di Bodmin, come dimostrava un dispaccio che era giunto nel Kent; per tale motivo, trattandosi di armi sotto la custodia della polizia, era impossibile che fossero state oggetto di contrabbando da parte di Ross Poldark. Qualcuno, poi, doveva spiegare come tali armi fossero uscite dalla gendarmeria di Bodmin e finite a Sawle nel magazzino di un privato cittadino… intanto però che l’amico di Pascoe svolgeva le indagini ed effettuava tali scoperte, i Warleggan erano stati molto più rapidi a calendarizzare il processo di Ross, molto prima rispetto all’ordinario. La prima udienza era stata fissata il 15 marzo. Nessuno avrebbe potuto aspettarselo, così presto.  Cary disse a Charles che occorreva giocare d’anticipo, non dare tempo al difensore di Ross di approntare un’efficace difesa. 
Mentre Ross si dibatteva, a sua insaputa, contro i tentacoli di una giustizia corrotta, Elizabeth cercava in tutti i modi di convincere Francis a farsi carico della situazione del cugino, non fosse altro che per il bene di Demelza, che era sempre più disperata e sola. Francis non era mai stato un cuor di leone, le accuse a carico del cugino erano oggettivamente gravi ed infamanti, Charles non faceva che sobillarlo contro il cugino “disonore della famiglia”: il giovane era preso davvero tra due fuochi: era difficile tenere testa a sua moglie, ma suo padre era pur sempre il capofamiglia e non poteva contrariarlo. Demelza, dal canto suo, non aveva neppure tentato di chiedergli aiuto. Intuiva che Charles avesse ordito quella trama nel tentativo di sbarazzarsi di Ross e proteggere il figlio dall’amara verità, dunque lo zio avrebbe impedito con ogni mezzo a Francis di intervenire in favore di Ross. Discutere coi Warleggan era altrettanto inutile. Non aveva confidenza con loro, li conosceva ma di un rapporto molto superficiale, e la sua matrigna non l’avrebbe certo agevolata. Erano mesi che non frequentava la signora Chynoweth, aveva smesso di andarci in quanto ogni volta veniva da lei accolta con freddezza, livore e recriminazioni. Figurarsi ora che Ross era in carcere, quanto rancore e quanto veleno avrebbe potuto riversare su di lei quella donna che non l’aveva mai amata.
L’unica occasione di sfogo per Demelza era la compagnia di Dwight. Il caro amico medico passava tutte le sere da Nampara, prima o dopo cena, la rincuorava con tenerezza, cercava di tenerle su il morale, ed insieme immaginavano vari stratagemmi per salvare Ross. Demelza non era sprovveduta, aveva compreso che vi era la possibilità che Ross fosse condannato alla pena di morte; bisognava però assolutamente evitarlo. Dwight aveva un amico giornalista a Londra e meditava di mandarlo a chiamare per dare risonanza alla vicenda di Ross, in modo da sollecitare un giusto processo dinanzi all’opinione pubblica. Di fronte alla prospettiva di essere messo in cattiva luce nella Capitale – dove poteva addirittura giungere voce al Re di come si amministrava la giustizia in Cornovaglia – magari Cary Warleggan si sarebbe trattenuto dal compiere abusi. La moglie di Ross commentò che era un’ottima idea.
“Potrei tentare anche con un altro mezzo, benché mi ripugni agire così…” – soggiunse il giovane medico.
Dwight spiegò che fra i giudici del Tribunale, oltre al corrotto Warleggan, ve ne erano altri due: Halse e Penvenen. Entrambi erano stati, in alcune occasioni, suoi pazienti; invero, sebbene tradizionalmente essi erano clienti del dottor Choake, quest’ultimo si stava rivelando un borioso affarista che prescriveva cure inutili che giovavano al suo portafoglio, ma non agli ammalati. Sempre più spesso, dunque, anche persone abbienti ricorrevano per consulti al più competente dottor Enys: ciò era avvenuto per Halse ed anche per Penvenen: in realtà non per lui direttamente,  ma per la sua pupilla, la giovane nipote Caroline, una diciottenne di cui il giudice era diventato tutore alla morte dei genitori della ragazza. Miss Caroline era una biondina davvero affascinante, dalla personalità molto forte, a dispetto della giovane età, e non faceva che punzecchiare il dottore ogni volta che si incontravano. Dwight l’aveva visitata perché soffriva di un dolore alla gola, che si era rivelato dovuto alla spina di un pesce ingoiata accidentalmente. Miss Caroline si era sentita imbarazzata ad aver commesso un errore tanto stupido ed aveva trattato il medico con superbia, all’inizio; poi si era scusata con lui e, per farsi perdonare del disturbo arrecatogli - poiché Dwight non aveva voluto essere pagato – gli aveva fatto recapitare un carretto pieno di agrumi per curare lo scorbuto che affliggeva tanta povera gente che ricorreva alle cure di Dwight. Il medico non lo voleva ammettere davanti a Demelza, ma era affascinato da Miss Caroline, la quale a sua volta lo trattava con grande familirità. Dwight era certo che non gli avrebbe negato il suo aiuto, se le avesse fatto presente la questione di Ross. Miss Caroline era infatti anche molto battagliera, odiava le ingiustizie, e certamente avrebbe preso le parti del marito di Demelza. In varie occasioni gli aveva confidato che a causa del lavoro di suo zio era costretta a frequentare ogni settimana i Warleggan e che non sopportava né George né suo zio. Miss Penvenen poteva essere un’alleata in quel frangente, se Demelza lo autorizzava a raccontarle l’accaduto. Tramite lo zio, ed eventualmente il giudice Halse, era possibile perorare un trattamento più benevolo da parte dei magistrati. Dwight sapeva che non era giusto tentare di manovrare la giustizia, ma bisognava cercare di neutralizzare gli abusi di Warleggan. Demelza naturalmente assentì: in quella situazione talmente insolita ogni possibile alleanza era la benvenuta. Dwight rispose che non avrebbe perso tempo e la mattina successiva avrebbe inviato un messaggio a miss Caroline chiedendo di essere ricevuto per illustrarle la faccenda.
Elizabeth, nel frattempo, smaniava. Doveva assolutamente recarsi un’altra volta in carcere e convincere Ross a fuggire con lei. Era disposta addirittura a vendere una preziosa collana che il marito le aveva donato qualche mese prima, per corrompere qualcuno del carcere. Il piano di fuga, però, era estremamente pericoloso. Da Bodmin, Ross doveva giungere incolume alla zona portuale di Sawle, dove avrebbe trovato ad attenderlo Elizabeth con una barca. Si sarebbero spinti al largo con quella barca, che poi sarebbe stata fatta esplodere, in modo da farli credere morti in mare. In realtà un’altra imbarcazione, sulla quale salire di nascosto, li avrebbe condotti in Francia. Era un piano non solo complicato e di ardua riuscita, ma anche costoso, richiedeva l’impiego di molto denaro per tacitare i complici e procurarsi barche ed esplosivo. In un primo momento Elizabeth aveva ipotizzato di sedurre George Warleggan, che aveva sempre avuto un debole per lei, ma George non avrebbe avuto alcun tornaconto nel favorire la fuga di lei con un altro uomo; inoltre, George era amico di Francis e, a quanto lei ne sapeva, non sopportava un uomo carismatico come Ross, che gli faceva ombra. Né poteva rivolgersi a quella sciocca della sorella, infatuata di Ross, a quanto sembrava, e non disposta a perderlo.
Mentre il processo si avvicinava - ma Elizabeth non lo sapeva ancora - la donna riuscì a sottrarsi al ferreo controllo di Charles Poldark approfittando del fatto che era giorno di paga alla miniera. Al marito disse che doveva recarsi dalla modista, perché con la gravidanza che avanzava i vestiti le sarebbero presto andati stretti. Inutile dire che Francis era al settimo cielo alla notizia che sarebbe diventato padre, e mal comprendeva come suo padre ostentasse invece tanta freddezza al riguardo.
Recatasi dunque al carcere, pagato profumatamente il solito funzionario corrotto, Elizabeth discese nuovamente tra le celle, con un mantello grigio calato sul capo per non farsi riconoscere. Appena vide Ross, ebbe un colpo al cuore: era smagrito, con i capelli unti, la barba di giorni e le occhiaie violacee. Poco ricordava dell’uomo affascinante che l’aveva sedotta sul Lucifero l’anno prima. “Ross!”- mormorò avvicinandosi, e gli chiese subito come stesse. Il giovane era profondamente malinconico e quasi infastidito dalla sua presenza. Elizabeth esordì lamentandosi di come veniva trattata dal suocero, della crudeltà di Charles, dell’ignavia di Francis e della sua frustrazione per non riuscire ad aiutarlo in nessun modo. Sottovoce, gli chiese di avvicinare l’orecchio alle sbarre e gli riferì il piano che aveva pensato per l’evasione. Ross la interruppe, dicendo che non aveva alcun senso discuterne, perché lui non sarebbe mai fuggito insieme a lei. “Preferisci forse marcire qui dentro per trent’anni?” – gli disse stizzita-. “Può darsi mi uccideranno prima – rispose lui - non sai che se mi riconoscono colpevole di omicidio mi aspetta la forca?” “A maggior ragione! Vuoi farti ammazzare da innocente? Io non potrei sopportarlo! Io ti amo, Ross, perché non vuoi capirlo?”. E, nel dire ciò, gli strinse le mani e due lacrime le scivolarono lungo le belle gote. “Elizabeth – replicò Ross in tono più affabile – io non dubito che, a modo tuo, provi dei sentimenti per me, sentimenti che ti ostini a chiamare amore anche se mi hai preferito un altro. Posso anche capire che sei stata spinta a questo matrimonio dalle circostanze, che non ami mio cugino e che questa vita ti renda infelice. Devi però capire che io non ti amo più, amo tua sorella, dunque non potrei mai abbandonarla per fuggire con te….”
Elizabeth staccò le mani da quelle di Ross con un gesto infastidito. “Demelza, sempre Demelza! Quella stracciona figlia di chissà quale donna di malaffare! Ricorda che, se Demelza è quello che è, lo deve solo alla generosità di mio padre! Che cosa ha fatto Demelza per te, per tirarti fuori di qui, a parte frignare, forse? Io sono venuta già due volte, rischiando molto per te, scervellandomi senza tregua per trovare una soluzione per liberarti!”
“Ti sono grato per l’interessamento, ma non dovresti esporti in questo modo. Tu non hai colpa di quanto mi è accaduto: o meglio, abbiamo commesso un errore entrambi, ma io sono l’uomo e non avrei mai dovuto disonorarti.  E’ colpa mia se ora Charles ti tratta con disprezzo, però devi mostrare maturità, stare al fianco di tuo marito in maniera irreprensibile, e dimenticarmi!”- concluse Ross.
La giovane scosse la testa. “Non posso, non posso, perché ti amo disperatamente Ross! Il ricordo dei tuoi baci, delle tue carezze, è come una ferita che mi lacera l’anima! So di essere stata causa della nostra separazione, e non mi do pace! Quello che mi fa più male è pensare che io stessa ti ho spinto fra le braccia di quella santarellina di mia sorella ed ora quei baci e carezze li dai a lei!”. Elizabeth, per una volta, era completamente sincera. Proseguì: “ Lei non ti ama, e mai potrà amarti, così tanto come ti amo io! Demelza non è capace di provare passione, è fredda, timorata di Dio, e sono sicura che menti se affermi che il piacere che provi facendo l’amore con lei è paragonabile a quello di quando stavi con me!”
“Elizabeth, ti scongiuro, questi non sono discorsi da fare in una prigione!” – le disse Ross, intimandole, oltretutto, di tenere la voce bassa, ché notava i suoi compagni di cella con le orecchie tese per captare parte del discorso. La fanciulla lacrimava e singhiozzava, dopo aver messo a nudo il suo cuore. Pareva davvero sul punto di crollare.
“Ascoltami, per l’ultima volta te lo ripeto: noi due ci siamo amati intensamente, abbiamo vissuto dei momenti piacevoli che non intendo rinnegare, ma siamo troppo diversi… non saremmo mai stati felici. Io ti ho dimenticato, è la verità, e devi farlo anche tu. È sciocco da parte tua chiedermi di fare dei paragoni; non conta neppure se mi ami più tu di Demelza: importa solo ciò che sento io. Io amo tua sorella, è l’unica donna della mia vita, non posso stare senza di lei… preferirei mille volte morire che vivere sapendo di averle mancato di rispetto, o di darle un dolore… per questo non potrei mai fuggire con te, neppure se fosse l’unica via per recuperare la mia libertà”.
Udite quelle parole, accompagnate da uno sguardo talmente nostalgico da far tremare il cuore, Elizabeth comprese che era davvero finita: nessun argomento sarebbe servito a smuovere Ross dai suoi propositi. Si asciugò le lacrime con furia cieca e gli voltò le spalle, senza neppure salutarlo.
Ross sospirò. Provato com’era, non era stato facile affrontare quell’argomento con Elizabeth. Effettivamente rievocare i momenti trascorsi insieme gli faceva male, perché l’aveva amata profondamente; ma quel sentimento impallidiva di fronte all’amore che provava per Demelza. Lo rendeva così felice! Era nato tutto in maniera inaspettata, ma Ross sentiva che sarebbe stato capace di dare la vita per lei.
In carrozza, di ritorno verso Trenwith, Elizabeth diede libero sfogo al suo pianto. Aveva perso, e Demelza aveva vinto, non c’era altro da aggiungere. Poteva urlare, distruggere oggetti, arrabbiarsi, ma la realtà non sarebbe mutata: aveva perso Ross per sempre. Eppure, miglio dopo miglio, maturava in lei una convinzione: non aveva bisogno di Ross accanto, l’amore era una truffa, un inganno, serviva solo a rendere gli individui deboli e sofferenti. Giurò a se stessa che non avrebbe più versato una lacrima per lui.
Al rientro, ad attenderla all’ingresso c’era la sagoma massiccia del suocero, a braccia conserte e con lo sguardo corrucciato.
“Dove sei stata?” – la interrogò con malagrazia.
“Dalla mia modista” – fu la secca risposta.
Charles le sbarrò il passo parandosi dinanzi e l’afferrò per un polso, trascinandola nello studio tra improperi biascicati.
“Maledetta bugiarda – la apostrofò una volta che la porta fu chiusa a chiave – non sei andata dalla modista a Truro! Ti ho fatta seguire, sei andata a Bodmin!”
“Ebbene sì – gli disse di rimando, con aria di sfida - sono stata in prigione a trovare vostro nipote!”
Prima che la mano di Charles, già levata in alto e pronta a colpire, la toccasse Elizabeth specificò: “Sono andata a trovare Ross per dirgli che aspetto un figlio da mio marito e che fra noi non può esserci nient’altro. Ve l’ho detto, è stato lui a sedurmi, io ho stupidamente ceduto alle sue lusinghe perché a quel tempo ero immatura, sola e disperata… non sapevo che Francis mi avrebbe di lì a poco chiesto in moglie, altrimenti mai avrei… e comunque, da quando sono sposata, Ross non mi ha sfiorato con un dito. Dovete credermi!”
Il suocero fece per interromperla: “Tu sei solo una ipocrita sgualdrina e non credo ad una sola parola di ciò che…”
“Per dimostrarvi che non m’importa più nulla di Ross, ma solo di vostro figlio e del bambino che porto in grembo, voglio chiedervi una cosa. Esiste la possibilità che Ross sia condannato a morte? Voi mi avevate parlato di trent’anni di carcere…”
Charles meditò sulla risposta da dare. Per l’omicidio la pena era quella capitale, ma lui era pur sempre un buon cristiano e non voleva macchiarsi la coscienza facendo assassinare il nipote, sapendolo innocente. Per questa ragione si era accordato con Warleggan per una condanna esemplare, escludendo però la forca.
Balbettò qualcosa, dicendo che non conosceva bene la legge, ma che opinava che il carcere a vita fosse una pena sufficiente, perché Ross era pur sempre un Poldark e la condanna a morte sarebbe stata disonorevole per tutto il casato.
“Eppure – disse Elizabeth, mentre un lampo sinistro le attraversava lo sguardo – se è vero quello che mi avete detto, cioè che voi non avete nulla a che fare con l’arresto e le incolpazioni di Ross, avete in famiglia un omicida, ed è giusto che egli riceva la punizione che normalmente si commina agli assassini.
Come vi dicevo poco fa, per dimostrarvi che di Ross non mi importa nulla, visto che siete amico di Cary Warleggan, vi invito a chiedergli che gli venga applicata la pena più severa. Così nulla potrà trapelare di quell’assurdo legame che ci ha uniti, in ogni caso cessato da tempo, e Francis, io e voi dormiremo sonni tranquilli. Se lo amassi non vi chiederei mai una cosa simile, vi sembra?”
Il vecchio strabuzzò gli occhi. Se sua nuora stava mentendo, aveva un ammirevole sangue freddo. D’altra parte, non poteva confessarle che c’era proprio lui dietro le quinte dell’incriminazione e che Ross non aveva commesso alcun omicidio. Ciò che proponeva Elizabeth non era assurdo, per quanto immorale. Un Ross morto non avrebbe più potuto nuocere agli interessi dei Poldark, patrimoniali e non. Forse, sogghignò lo zio, se Ross non era ancora un assassino, si poteva creare la situazione affinchè lo diventasse davvero… e, a quel punto, nessuno lo avrebbe salvato dalla forca.

 
  
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