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Autore: _Alcor    20/02/2024    5 recensioni
La fine del mondo è già passata.
Di preciso il mondo di Yuuki Shinomiya è morto insieme a sua sorella, cinque giorni prima. L'assassino è uno dei robot che hanno seminato panico in città nelle ultime due settimane. L'unica cosa che le rimane è trovarne il creatore e ammazzarlo con le sue mani.
Perché se non lo fa… che altro le rimane?
{sorella maggiore con il cuore in pezzi elabora il lutto | lo elabora male, e lo rende un problema per tutti quelli che conosce | companion fic per l’Ottantesima Vittima di Mixxo | minilong}
Genere: Angst, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Chimere'
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Flash over.

[Yuuki Shinomiya]





Artiglio il bracciolo del divano e alzo la testa, la gamba di non so quale dei miei fratelli mi tiene ancorata giù, un’altra mi preme contro il fianco. Odore di fritto vecchio appesta l’aria. Sbatto le palpebre, un velo sfoca la torre di contenitori di alluminio sul tavolino, in cima fazzoletti appallottolati e un paio di posate di plastica minacciano di sbordare giù.

Se mi è andata bene avrò dormito un’ora.

Passo i polpastrelli sulle palpebre gonfie, i punti tirano. Non vedo l’ora di cavarli, mancano solo due giorni.

Al mio fianco, Takane è appiattita contro lo schienale del divano da Kaito, che ha passato le braccia sotto le sue ascelle per stringerla neanche fosse un bambinone con il suo peluche. Si sarà assopito dopo che lei è andata a dormire perché altrimenti sarebbe stato scalciato sul pavimento senza pietà.

Butto la sua gamba giù dal mio grembo e mi alzo, l’orologio digitale sopra la libreria segna le otto. Nessuna traccia del quarto fratello Shinomiya, ma lui sarà stato furbo e sarà salito su a dormire in un letto.

Faccio un paio di cerchi con le spalle, i muscoli indolenziti gridano pietà.

Apro uno dei cassetti sotto gli scaffali, caccio la mano nel casino di fogli e robaccia gettata alla rinfusa lì dentro. Non dubito che papà abbia telecamere ovunque nascoste pure qui dentro, quindi non posso permettermi mosse avventate per ora. Pesco una penna nera dal mucchio e torno al tavolino, un messaggio scritto su uno dei fazzoletti dovrebbe bastare per ora.

Cerco nel mucchio di carta sporca di unto e di ketchup il tovagliolo che ho evitato di usare a colazione, lo stendo e lascio un breve Vado a comprarmi un telefono nuovo, Yuu. Ci poggio la penna sopra.

Takane caccia un lamento sottovoce, tira un colpo di tallone a Kaito che gli prende il ginocchio. L’orso manco trattiene il respiro. Mi alzo e passo loro accanto.

I capelli scuri di Takane sono una matassa spettinata e unticcia, gli angoli degli occhi arrossati tradiscono un paio di lacrime. Dischiude le labbra, ma non ho idea di cosa stia sussurrando. Non sembra un sogno felice.

Sarebbe così facile rubare il loro cellulare e accedere al cloud con le informazioni che mi servono, ma così facendo guadagnerei a malapena un paio d’ore prima che il resto della famiglia intuisca esattamente i miei prossimi movimenti.

«Dovrei mettere la testa a posto per voi, eh.» Le accarezzo la testa, una goccia sfugge alle ciglia di Takane e scivola sul ponte del naso. Ha vent’anni, è poco più piccola di me, non dovrei trattarla come una bambina.

Viene difficile non farlo.

Esco dalla porta d’ingresso, la luce del sole mi abbaglia. Ho dimenticato l’unguento per la palpebra di nuovo, forse me la sto cercando un po’ il rischio di un’infezione.

«Che disastro.»

Imbocco la strada e costeggio la fila di casette bianche tutte uguali; prima dell’incontro con Meg ci vorrà ancora un po’, tanto vale andarsi a comprare un telefono nuovo per davvero.

Tasto il colletto della maglia, le tasche dei pantaloni dove c’è solo il portafoglio, controllo le suole delle scarpe: niente.

Figurati se la cena-colazione sarà bastata a calmarli, mi avranno nascosto qualche localizzatore addosso per non rischiare di perdermi d’occhio. E se non lo trovo, mi toccherà cambiarmi i vestiti di questo passo.

È una soluzione così scontata che l’avranno presa in conto anche loro.

Mi fermo all’incrocio con la via che porta al quartiere commerciale e pesco il portafoglio dalla tasca, frugo tra gli scomparti e tolgo ogni tessera. Un localizzatore-sticker copre la foto sulla carta d’identità, a malapena si vedono ciuffetti di capelli grigi e uno spicchio del mio collo. Sfrego l’unghia contro il bordo nero dell’adesivo: a malapena si arriccia.

«Che bastardi che siete, ragazzi.»

Sottile com’è il circuito che lo fa funzionare, posso sognarmi di strapparlo via con la forza. Si spaccherebbe.

Se succede qualcosa al localizzatore diranno che ho qualcosa da nascondere. Se lascio la mia carta d’identità nella tasca di un passante mi aprirò solo a domande scomode. Se lo getto nel bidone, stessa cosa.

Mi mordo il labbro, mi hanno giocato. Rimetto tutto dentro e caccio il portafoglio in tasca, ho un’oretta per comprare il cellulare e trovare una scusa plausibile al perché passerò dalla vecchia tratta ferroviaria.

Fattibile…

Chi voglio prendere in giro, se voglio lavorare devo far sparire le mie tracce.





Una doppia fila di faretti tappezza i muri della galleria, rischiarano a giorno le traverse spaccate dei binari e gli innumerevoli graffiti colorati arroccati l’uno sopra l’altro. Se non fosse per gli stili differenti, non sarebbe chiaro dove finisce un’opera e ne inizia un’altra.

Lo scricchiolio dei sassi sotto le suole copre i miei respiri, il sacchetto di plastica con il cellulare appena comprato dondola dal polso e rimbalza contro il mio fianco. Meg è una figura sottile con la schiena appoggiata al muro e il viso chino sullo schermo di un telefono, i lembi frastagliati della sciarpa blu elettrico le arrivano alle gambe e coprono parte dei pantaloni striati di nero, rosa fosforescente e azzurro.

Questa donna pare uscita direttamente da un concerto di musica alternativa, eppure è la stessa persona che tiene in mano il flusso di informazioni di tutta la città. Nessuno fa qualcosa senza che lei lo sappia.

Mi fermo a un paio di falcate di distanza, a dividerci c’è una riproduzione stilizzata di un drago che emerge dal profilo di una città. Dalle zanne colano macchie verdastre e gli artigli scavano i grattacieli.

Gli occhi aguzzi di Meg mi squadrano.

Sta aspettando una mia mossa, va bene. «Mi serve il nome del creatore di quegli affari.»

Lo scroscio dell’acqua arriva dal suo telefono, un sorriso sarcastico le piega un angolo della bocca. «Niente fortuna dal bagno?»

Lo sa già, ovviamente. Mi scappa una risata. «Il bagno mi ha schiarito le idee, e so che con te farei prima.»

«Peccato che non ci hai pensato subito.» Si stacca dal muro e fa un passo, lo schermo è una ripresa dall’alto del pontile turistico. Mi vedo gettarmi di schiena nell’acqua, diventare una macchia sbiadita e sparire tra il verde. La registrazione riparte.

Alzo le spalle. «Meglio tardi che mai.»

«Dura la vita da indipendente.»

Una folata porta il profumo della salsedine, le arruffa i ciuffi neri che ricadono sugli occhi elettrici.

Questa non è una conversazione. Sta elencando tutto quello che sa già della mia situazione. Dal mio bagno notturno al fatto che sono stata tagliata dal lavoro per ora, l’ha intuito dalle mie azioni o l’ha saputo direttamente dalla bocca di uno Shinomiya?

Nessuno arriva dal fondo della galleria, i sassi non scricchiolano sotto i passi di qualcuno alle mie spalle. Per lo meno i miei fratelli non sono già pronti a saltarmi addosso.

Meg piega le labbra in un sorriso aguzzo. «Facciamo che oggi il servizio è gratuito perché devi andare a prenderti le effettive informazioni da sola.» Mi lancia una chiavetta usb che prendo al volo. «Se posso permettermi, fatti un giro di alleati. Considerando da dove viene il colpevole, sai già dove andare a parare.»

Me la rigiro tra le mani, ci saranno cartine, routine e altre cose basilari da sapere del posto in cui mi devo infiltrare. «Vuoi anticipare da dove devo recuperarli?»

Meg alza le spalle. «Togli gli assi dalla manica, lì non piacciono i bari.»

Assi dalla manica e bari, sta parlando di una bisca? L’unico posto dove si pratica giochi d’azzardo e potrebbero esserci informazioni simili è il Gamble Night. Il locale creato da mostri da altri mondi.

Premo il palmo sull’occhio ferito e tiro indietro i capelli. Mi sta mandando a rubare da loro, ovvio che le informazioni non se l’è presa da sola, porca puttana. Sono fottuta.

Prendo un respiro, risolviamo un problema per volta. Tiro fuori la carta d’identità e premo sul localizzatore, il flebile suono delle componenti elettroniche che cedono dura un instante.





Lo stridio dei freni mi trapana le orecchie.

L’autobus sobbalza, sbatto la tempia contro il finestrino e finisco proiettata contro il sedile di fronte. Il dolore porta via i rimasugli di sonno, passo la lingua sulle labbra e mi sistemo sullo schienale imbottito.

Una macchia verde acqua atterra accanto a noi, fiamme voraci ne lambiscono la figura umanoide e scaldano il finestrino. Un urlo si alza da più avanti e l’essere soprannaturale spicca un balzo oltre l’autobus, seguito da una fila di uomini armati della Kaiser con le loro armature tecnologiche. Uno di loro si ferma davanti al parabrezza e fa cenno di non muoversi, poggia la mano sul fianco del casco che gli ricopre il viso.

Il fuoco verde atterra su una delle case a schiera; le fiamme attecchiscono sul tetto, si espandono a macchia d’olio.

Uno studente due file più avanti si alza e corre al finestrino opposto, pianta le mani sul vetro. «È un emerso!» Agita il pugno chiuso, abbaia al conducente: «Ohi, nonno! Fai retromarcia!»

Che culo, ci mancava solo il pazzo da un altro mondo per coronare la giornata.

«Devo aspettare le indicazioni!» l’autista gli urla di rimando.

«Ad aspettare ci troviamo una bomba in faccia, io non resto qui.» Marcia fino alle porte. «Fammi uscire!»

«Ma datti una calmata, fuori di qui ti fai ammazzare e basta.»

Qualcuno singhiozza, una nonna stringe la nipote al petto. La bambina le abbraccia il collo e passa gli occhioni sui presenti, quasi non si rendesse conto cosa stia succedendo. Sfrega il viso sul cardigan della donna per sfuggire al mio sguardo.

Sono passati sei mesi dall’inizio di tutto ma i civili non si sono ancora abituati a questa “normalità”.

Faccio i pochi passi che mi dividono dallo studente, un ragazzino biondo e scarno, non ho tanto margine di movimento per non fargli male ma si può fare.

Oltre il parabrezza uomo di latta della Kaiser parla concitato al ricevitore, ma non sta ricevendo notizie positive. Il casinista da un altro mondo è parecchio mobile se non hanno ancora deciso in che direzione mandarci.

Lo studente mi piazza la mano sulla spalla e tenta di spostarmi.

Gli sorrido. «Dai, c’è una bambina. Fatti vedere un po’ più coraggioso.»

«Non voglio farti male, lasciami uscire.»

«Ti vuoi far ammazzare, lo abbiamo capito.» Che per quel che mi riguarda mi va benissimo, ma se qualcuno ha ricordi precisi di avermi visto in un autobus in direzione per l’uscita della città mi fa comodo. Mi servi vivo. «Siediti.»

Lo studente indica l’incendio in piena regola che si sta mangiando le abitazioni. «Non voglio finire così!» Gli operativi hanno superato le altalene in fiamme dentro uno dei giardini e prendono posizioni.

Una camionetta grigia sfreccia nell’altra corsia e parcheggia poco oltre noi, ne scendono altri uomini di latta della Kaiser coperti da armature tecnologiche da capo a piede, i caschi così grossi che celano persino la forma del mento. Uno si stacca dal gruppo e corre in cima all’autobus, fa ampi gesti delle mani per indicare una traversa a sinistra.

L’autobus torna in moto prima che me ne accorga. Sfreccia avanti e quasi tira sotto i due davanti a noi, dal cielo un lampo rosa taglia l’aria. Saetta addosso alla sagoma in fiamme e lo travolge prima che i soldati possano detonare un solo colpo.

Il motore sgasa, il conducente svolta senza nemmeno rispettare lo stop. Batto una mano sul petto dello studente che è rimasto impalato con gli occhi strabuzzati. «Prego.»

Mi avvicino alla bambina che guarda con apprensione la nonna che è scoppiata a piangere, forse per il sollievo.

«Ho fatto qualcosa di male?» mormora.

La donna scuote la testa, gli orecchini grossi come noci le dondolano avanti e indietro. «Nono, va tutto bene Belle.» Le bacia la fronte. «Scusa la nonna.»

Non dovrei disturbare, ma appoggio la mano sul sedile e porgo un fazzoletto. «Ehi, state bene? Possiamo fare qualcosa per voi?»

La donna accetta il fazzoletto e tampona l’angolo degli occhi, scuote la testa. «Ho solo bisogno di un momento.»

Tiro le labbra in un sorriso di cortesia. «Qual è la vostra fermata?»

La bambina allunga la testa. «Quella del parco degli schermitori, ci saranno i burattini che raccontano la storia di Caelum!» Alza le braccia e quasi pare voler scavalcare la nonna per travolgermi con le sue informazioni. «Li ho visti quando avevo…» Mi mostra tre dita alzate. «Grande così, il pupazzo del linno era enorme! Più della macchina di papà!»

Linno? Sarà un personaggio della fiaba. Ignoro il ciarlare della bambina per un attimo, il parco degli schermitori è una riserva al limitare della città, l’autobus dovrebbe raggiungerlo anche con il cambio di strada forzato.

A quel punto la prossima corsa per Marton sarà entro mezz’oretta. E a me basta una manciata di testimoni che mi abbiano visto aspettarlo, così una volta che i miei fratelli si metteranno a cercarmi andranno in direzione sbagliata per il tempo necessario per infiltrarmi al Gamble Night.

La nonna mette una mano sulla testa di Belle. «Tesoro, non disturbare la signorina.»

«Will.» La correggo, con il nome falso che do solitamente. «In realtà dovrò aspettare anch’io la coincidenza là. Volete fermarvi a bere qualcosa di caldo al chiosco del parco? Offro io.»

«Figurati.»

«Insisto.» Alzo la voce apposta. «E il ragazzone coraggioso là davanti ti recupererà un pugno di caramelle grosso così, Belle. Che ne dici?»

Gli occhioni della bambina si illuminano, lo studente accanto all’autista mi lancia un’occhiata. Sbuffa. «Tutto sommato ci vorrebbero pure a me.»

Un lampo rosato ricopre il cielo di una cupola cristallina per il tempo di un respiro prima di andare in pezzi; non ricordavo che le armi della Kaiser fossero così scenografiche.

La bambina mi tira un lembo della maglia. «Sei una criminale, Will?»

«Isabelle Huang!» la rimprovera la nonna.

Scoppio a ridere.

  
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