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Autore: Signorina Granger    23/02/2024    1 recensioni
“Se penso alla mia infanzia, fino ai miei sette anni penso a mia madre che canta vecchie canzoni di Aretha Franklin, Dean Martin o Whitney Houston, amava la musica e amava cantare. Rivedo la tv che avevamo in soggiorno, con Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha che fanno shopping, bevono drink e mangiano cupcakes di Magnolia Bakery… E vedo i libri di Roald Dahl sul mio comodino. Ho letto così tante volte Matilda da far sembrare il volume molto più vecchio di quanto in realtà non sia.”
“Fino ai sette anni ha detto. E dopo?”
“Dopo non ci fu più molta musica a casa.”
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Please don’t take my sunshine away

 

 
I.
– You told me once, dear, you really loved me –

 
 
 
La Dottoressa l’ha invitata ad elencare le prime cose che le vengono in mente quando pensa alla sua infanzia, e nonostante l’apparente banalità la richiesta l’ha messa in difficoltà: cerca di pensarci il mento possibile, a quel lontano periodo della sua vita.
Sprofondata nella poltrona rossa e le lunghe gambe accavallate Niki fissa assorta le assi del parquet del pavimento, frugando nei propri ricordi più vividi alla ricerca di una risposta mentre si tormenta quasi senza accorgersene le dita le une con le altre tenendo i gomiti poggiati sui braccioli.
“Se penso alla mia infanzia, fino ai miei sette anni penso a mia madre che canta vecchie canzoni di Aretha Franklin, Dean Martin o Whitney Houston, amava la musica e amava cantare. Rivedo la tv che avevamo in soggiorno, con Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha che fanno shopping, bevono drink e mangiano cupcakes di Magnolia Bakery… E vedo i libri di Roald Dahl sul mio comodino. Ho letto così tante volte Matilda da far sembrare il volume molto più vecchio di quanto in realtà non sia.”
“Nient’altro?”
Niki smette di tormentarsi le dita, si sforza di intrecciare le mani posate in grembo mentre solleva il mento per ricambiare lo sguardo di Julia e si stringe debolmente nelle spalle prima di continuare a dar voce a tutto ciò che le passa per la mente, per una volta senza rifletterci particolarmente:
“Mia zia che mi prepara sciarpe, guanti e berretti per l’inverno. Le scarpe mi fanno male perché stringono… e poi ci sono i bagel.”
“Bagel?”
Questa volta Julia, forse pensando di aver capito male, sembra sorpresa, abbandona la maschera di placida impassibilità che indossa sempre e per un attimo inarca le sopracciglia brune increspando la fronte con delle rughe d’espressione mentre Niki annuisce, un lievissimo accenno di sorriso sulle labbra mentre pensa a tutti i bagel che ha mangiato da bambina. Poi però pensa a Jerry, e allora smette di sorridere.
Julia mette da parte la sorpresa, torna a sedersi composta sulla poltrona e a guardarla mentre tiene un blocco per appunti aperto sulle ginocchia, ma Niki non aggiunge altro, torna a fissare il pavimento con la mente altrove, e alla fine è a lei che spetta il turno di parola per incalzarla gentilmente inclinando di poco la testa di lato:
“Fino ai sette anni ha detto. E dopo?”
“Dopo non ci fu più molta musica a casa.”
 
 

 
Stato di New York, Long Island, Queens


 
Sua madre amava cantare, cantava in continuazione; cantava quando la radio era accesa, canticchiava quando le spazzolava i capelli prima di andare a dormire, quando spignattava in cucina o quando lavava i piatti indossando dei guanti di plastica colorati per non rovinarsi la pelle olivastra, già in passato urticata dagli agenti chimici dei detersivi. Non le parlava mai in inglese, ma in compenso cantava sempre e solo canzoni statunitensi. Diceva che la musica era forse l’unica cosa che gli americani non avessero rubato e rovinato.
Lei l’inglese lo aveva imparato per bene così, diceva, ascoltando le canzoni e imparando i testi. Quando aveva cinque anni Niki non si era chiesta perché all’improvviso sua madre avesse iniziato ad insistere affinché cantasse insieme a lei e solo molto tempo dopo, ripensando a quei momenti, avrebbe realizzato che probabilmente lo aveva fatto per permetterle di perfezionare la lingua in vista dell’inizio della scuola. Non lo chiese mai, ma sospettò che dietro a quell’idea ci fosse un’altra persona, la donna che viveva al di là del pianerottolo.
Una sera come tante altre Niki sedeva a gambe incrociate sul materasso del grande letto – o almeno lo sembrava ai suoi occhi infantili – dove lei e sua madre dormivano insieme dando le spalle alla donna e permettendole così di spazzolarle i lunghi capelli scuri; mentre districava i nodi con i denti della spazzola canticchiava, anche senza musica ad accompagnarla, e come sempre la bambina iniziò a fissare un punto della parete in cui piccole crepe avevano iniziato a formarsi sull’intonaco ingrigito giocherellando con l’orlo della manica della maglietta del pigiama, rimuginando sulle parole della canzone e su quanto la voce di sua madre suonasse lieve e melodiosa. La sua di certo non sarebbe mai stata altrettanto piacevole da ascoltare.
“Sei brava a cantare.”, mormorò la bambina mentre sua madre, sorridendo, la ringraziava prima di chiederle di ripeterlo per dirlo in inglese. Niki obbedì prima di voltarsi, interrompendo i delicati colpi di spazzola per far sì che i grandi ed innocenti occhi verdi incrociassero quelli scuri della madre.
“Questa canzone sembra triste.”
“Un po’ lo è, chi canta chiede alla persona che ama di non andarsene, perché solo lei sa renderlo felice. Perché lei è la sua luce.”
Maryna si strinse debolmente nelle spalle mentre giocherellava con la spazzola di legno, e il suo sorriso si incrinò leggermente mentre la bambina aggrottava pensosa le sopracciglia, faticando a comprendere quale potesse essere il motivo in grado di indurre qualcuno ad abbandonare le persone care.
“Perché lei va via e spazza via i sogni del signore che canta, se lui la ama?”
“Perché a volte le persone che amiamo non ci corrispondono e ci abbandonano, altrimenti saremmo sempre tutti felici e contenti.”
Sua madre sembrava essere sicura di quello che diceva mentre allungava una mano per accarezzarle la testa e i lisci capelli scuri, ma Niki continuò a non capire quali motivazioni potessero spingere una persona a compiere un gesto simile.
Un’ora dopo, quando sua madre stava già dormendo, Niki rimase sveglia a fissare il soffitto, preda di mille pensieri: c’era quindi la possibilità che qualcuno a cui voleva bene decidesse di abbandonarla per sempre? La bambina si girò sul fianco per osservare il volto della madre, rilassato e più bello di qualsiasi altro avesse mai visto, mentre la Metropolitana passava sfrecciando rumorosamente a meno di un chilometro di distanza. Così come il silenzio assoluto rappresentava un’utopia per quella zona della città la stanza non era mai nemmeno completamente buia, illuminata dalle luci del quartiere e dal pallido bagliore lunare grazie alla finestra che si trovava esattamente sopra al letto di metallo, e Niki studiò l’espressione rilassata della donna che dormiva accanto a lei chiedendosi se, in una delle sue brutte serate, quando sua madre non aveva voglia di cantare, avrebbe potuto finire con l’uscire e non tornare mai più a casa.
 

 
*

 
Ottobre 1997
 

Quel pomeriggio Niki si stava annoiando: non c’era niente da vedere in tv, aveva già fatto i compiti e non aveva nessuno con cui giocare. La bambina se ne stava stesa sul tappeto del soggiorno dell’appartamento speculare rispetto a quello dove abitava, esattamente dall’altra parte del pianerottolo, tra la tv spenta e un divano blu polvere. La padrona di casa era uscita qualche minuto prima, assicurandole che sarebbe tornata prestissimo e intimandole di non aprire la porta per nessun motivo, e a farle compagnia nell’appartamento vuoto erano rimasti solo il suo pelouche, un beagle ancora senza nome che la bambina stava pettinando passandogli sulla testa color caramello una minuscola spazzola rosa, e la voce di Aretha Franklin amplificata dalla cassa collegata al giradischi.
Niki ormai conosceva a memoria quella canzone, sua zia l’ascoltava quasi sempre quando le faceva visita e trascorreva a casa sua interi pomeriggi o intere serate, e la stava canticchiando a bassa voce tenendo gli occhi verdi puntati sul cagnolino di pezza che si era sistemata sul petto, riflettendo sul nome da affibbiargli, quando finalmente sentì una chiave girare nella serratura e la porta aprirsi cigolando un istante più tardi.
“Ho un regalo per te!”, esclamò la donna bionda che varcò la soglia dell’appartamento, le labbra carnose distese in un sorriso allegro e gli occhi grigi luccicanti mentre si chiudeva la porta alle spalle. Incuriosita ed emozionata – non era solita ricevere molti regali –, Niki drizzò la schiena mettendosi immediatamente a sedere sul pavimento, le gambe lunghe e magre lasciate parzialmente scoperte dalla gonna a ruota del vestitino verde che le era stato cucito proprio dalla sua vicina di casa e gli occhi pieni di incredulità.
“Che cosa?”, domandò mentre abbracciava il suo pelouche senza distogliere lo sguardo dalla donna, che le si avvicinò andandosi a sedere sul divano e mettendosi sulle ginocchia un sacchetto di carta: mai avrebbe pensato, vedendola uscire, che sarebbe tornata con un regalo preso appositamente per lei. Kelly le fece cenno di raggiungerla sul divano e la piccola ospite non se lo fece ripetere due volte, scattando in piedi per poi mettersi a sedere sul soffice cuscino azzurro, infinitamente più comodo del divano che lei e a sua madre avevano dall’altra parte del corridoio, e guardarla con malcelata impazienza.
“Devi imparare a leggere, so che per te non è facile, visto che fino a meno di un anno fa parlavi in inglese a stento, ma lo farai molto più in fretta facendo pratica a casa… Quindi ti ho preso un libro.”
Dalla borsetta di carta Kelly tirò fuori un libro dalla copertina rigida color crema in cima sulla quale spiccava un vistoso titolo scarlatto che la bambina, dopo averlo preso in mano, non tardò a cercare di leggere a voce alta:
“Ma… Matilda.”
Dopo aver parlato Niki sollevò la testa per cercare approvazione nello sguardo della donna, rilassandosi e sorridendo timidamente quando la vide annuire, un braccio che le circondava il corpicino sottile. Kelly allungò poi la mano destra per indicare il disegno riportato al di sotto del titolo: raffigurava una bambina con i capelli lunghi, seduta su uno scatolone e con un libro aperto sulle ginocchia mentre attorno a lei tanti cumuli di libri colorati riempivano lo spazio.
“Parla di una bambina di più o meno sei anni che ama i libri, molto speciale e molto intelligente. Mi ricorda qualcuno, quindi penso che ti piacerà.”
“Possiamo leggerlo insieme, se non ci riesco da sola?”
“Certo zuccherino. Adesso ho da accorciare l’orlo di un vestito dal colore abominevole, ma se vuoi tu inizia pure. Leggi a voce alta, così ti ascolto.”
Niki annuì obbediente mentre guardava la donna che per tutta la vita avrebbe chiamato “Zia” alzarsi e lasciare la stanza che fungeva da cucina e da soggiorno per raggiungere la sua camera da letto, recuperare la macchina da cucire, l’enorme cestino in cui teneva aghi, bottoni e gomitoli colorati di tutte le dimensioni e l’abito la cui gonna avrebbe dovuto accorciare entro il giorno successivo. Quando la vide fare ritorno la bambina aprì il libro soffermando brevemente il proprio sguardo sulla primissima pagina, sul titolo e su un secondo disegno che raffigurava la protagonista della storia, sempre con un volume in mano, per poi girarla e trovarsi davanti l’inizio del primo capitolo.
In mezzo ai capitoli c’erano alcuni disegni, ma le pagine sembravano piene zeppe di parole, osservò preoccupata Niki mentre sfogliava rapidamente il resto del volume, incerta sulla sua capacità di riuscire a leggere un intero libro. Stava per tornare a rivolgersi a Kelly e confidarle i suoi timori, ma quasi le avesse letto nel pensiero la donna, che nel frattempo era andata a sedersi davanti al tavolo della cucina con un abito di raso color pesca sulle ginocchia, la invitò gentilmente a provare ad iniziare senza nemmeno alzare lo sguardo dal filo che stava infilando nell’asola di un ago.
“Non devi leggere un intero libro in un giorno, inizia dalla prima riga e poi vai avanti. Un po’ alla volta.”
Seppur con scarsissima fiducia in se stessa Niki obbedì – la zia era buona con lei e le voleva bene, ma nessuno faceva più paura di lei quando la si contrariava –: iniziò lentamente e maldestramente a leggere a voce alta la prima pagina del libro, interrompendosi e ripetendosi di tanto in tanto quando riscontrava particolare difficoltà con una parola. Ancora non lo sapeva, ma ben presto avrebbe amato quella bambina speciale dimenticata dalla sua famiglia e quella storia più di qualsiasi altra si sarebbe mai trovata a leggere.

 
*
 

Essendo una bambina molto intelligente Niki aveva compreso perché la zia le avesse regalato proprio quel libro non appena era riuscita a leggerlo fino alla fine dopo essersi esercitata con qualche pagina tutte le sere, anche senza zia Kelly, anche quando trascorreva lunghe ore a casa da sola: Matilda come lei non era andata all’asilo perché nessuno si era preso la briga di iscriverla a scuola, e come lei trascorreva a casa da sola buona parte delle sue giornate. Matilda aveva iniziato a leggere per sentirsi un po’ meno sola ed era proprio quella bambina immaginaria a tenerle compagnia, lei e il cagnolino di pezza che aveva in definitiva chiamato Honey proprio grazie all’unico personaggio adulto apprezzabile di tutta la storia, la maestra di Matilda.
Grazie al regalo di zia Kelly e al desiderio di scoprire il finale di quel racconto Niki aveva imparato a leggere fluidamente prima di tutti i suoi compagni di classe: la maestra, Miss Hobbes, l’aveva elogiata, ma la cosa in realtà non l’aveva toccata particolarmente considerando che si era esercitata per ore e ore solo per finire la storia, non per ricevere delle lodi.
Come Matilda anche lei aveva finito il suo primo libro desiderando di leggerne degli altri, ma essendo quello l’unico che possedeva, nonché l’unico presente in casa sua, aveva finito col rileggerlo da capo una seconda volta, ignorando lo stupore che sua madre, che sosteneva di non avere tempo di leggere avendo due lavori e dovendosi occupare di lei, aveva manifestato nel vederla sempre con lo stesso libro aperto in mano. L’unico problema che Niki aveva con quel libro era rappresentato dalla terribile Miss Trunchbull, che la terrorizzava: imparò presto a sua spese a non cimentarsi nella lettura delle parti che coinvolgevano la spaventosa donna prima di andare a dormire, soprattutto quando sua madre faceva molto tardi ed era costretta ad addormentarsi da sola, con Honey stretto tra le braccia e la luce accesa, completamente nascosta sotto le coperte per paura che qualcuno entrasse in casa e la trovasse. Zia Kelly le aveva assicurato che nessuna preside del mondo prendeva le bambine per i codini per farle volare attraverso i cortili, ma per non rischiare Niki aveva giurato che mai più si sarebbe fatta legare i capelli in quel modo per tutta la vita.  
In un freddo sabato pomeriggio autunnale la bambina era sola a casa, distesa scompostamente sul divano con un braccio penzoloni, un piede sullo schienale e lo sguardo puntato sul soffitto mentre cercava qualcosa da fare per intrattenersi e passare il tempo mentre aspettava che sua madre tornasse a casa: aveva guardato la tv, aveva letto, aveva fatto il bagno ad Honey nella vasca, aveva elencato i nomi che i cani che avrebbe avuto da grande avrebbero avuto e aveva ormai completamente esaurito le idee quando, alzandosi dal divano, decise di provare a replicare le straordinarie imprese messe in pratica da Matilda nella storia: del resto era stata proprio la zia a dirle che come la protagonista del suo libro anche lei era una bambina molto intelligente.
Dieci minuti dopo Niki sedeva al tavolo rotondo della cucina con un bicchiere davanti, fissandolo intensamente mentre teneva i gomiti ossuti piantati sulla superficie di legno e i palmi delle mani stretti ai lati del suo viso: stava cercando con tutta se stessa di spostarlo proprio come faceva Matilda, ma per il momento era riuscita solo a farsi venire un principio di mal di testa.
 
Quando mezz’ora dopo il campanello di casa iniziò a suonare all’impazzata Kelly abbandonò il suo caffè sul tavolo e corse ad aprire chiedendosi quale disastro potesse essersi verificato per richiedere con tanta enfasi la sua presenza, e i suoi iniziali dubbi sembrarono trovare conferma quando la sarta si trovò a scrutare dall’alto in basso una bambina sorridente a lei piuttosto familiare:
“Zia, ho rotto un bicchiere!”, la informò allegra Niki mentre si agitava sul posto quasi saltellando, incapace di stare ferma. La donna invece si affrettò a gettare un’occhiata inorridita ai piedi della bimba e ai calzini di lana verdi che lei stessa le aveva confezionato, rilassandosi solo quando non scorse nessuna traccia di sangue:
“Ti sei fatta male? Non fa niente zuccherino, basta che non calpesti i cocci. La mamma ha pulito?”
“La mamma è al lavoro. Ho fatto cadere il bicchiere!”, ripeté la bambina sempre sorridendo, come se si fosse fatta portatrice di una notizia straordinaria. Kelly tuttavia non si unì al suo entusiasmo, aggrottando invece la fronte mentre scrutava seria e con visibile disapprovazione la piccola dirimpettaia:
“È uscita? Perché non me l’ha detto? Non dovresti stare a casa da sola!”
Niki proprio non capiva perché la zia si stesse soffermando sull’aspetto meno importante della sua notizia, del resto per lei stare a casa sola non rappresentava da tempo una novità, ma si affrettò a seguirla quando Kelly uscì di casa e la superò per varcare la soglia della porta di fronte e contemplare personalmente l’entità dei danni causati dalla bambina. Mentre Kelly apriva gli sportelli in basso della cucina per cercare un sacco per l’immondizia e una paletta per raccogliere i pezzi di vetro sparsi sul pavimento Niki indicò l’esito della sua opera sorridendo allegra, sperando che vedendoli la zia avrebbe compreso e si sarebbe congratulata con lei:
“Vedi, ho rotto il bicchiere!”
“Certo che lo vedo, è esattamente per questo che non dovresti stare da sola. I bambini rompono le cose e si fanno male se nessuno li controlla.”, asserì sbuffando torva la donna mentre iniziava a raccogliere i resti del bicchiere aiutandosi con una scopa immaginando al contempo il discorsetto che avrebbe riservato alla vicina non appena Maryna fosse rincasata: da quando si conoscevano, ovvero da quando la ragazza si era trasferita nell’appartamento accanto con una bambina di poche settimane, le aveva già fatto passare fin troppi errori. E il fatto che fosse molto giovane non l’avrebbe scusata in eterno.
“Ma zia, non sei contenta? Ho fatto come Matilda, l’ho spostato senza toccarlo!”
Niki non riusciva a credere alla reazione indifferente della zia, proprio lei che la ascoltava sempre, che le preparava i biscotti e le cuciva i vestiti, che la accompagnava a scuola quasi tutti i giorni, la stessa donna che si stava comportando come se non avesse appena fatto qualcosa di assolutamente straordinario. Kelly però sbuffò e scosse il capo mentre vuotava la paletta piena di cocci all’interno del sacchetto, premurandosi poi di dare un’ultima controllata al pavimento per assicurarsi di non aver lasciato residui di vetro sulle vecchie assi di legno che avevano visto giorni migliori.
“Tesoro, non dire assurdità, è solo un libro. Lo so che lo adori, ma non è altro che un libro, la gente non fa le cose che fa Matilda.”
Eppure ciò che aveva detto non era totalmente vero, Kelly lo sapeva e lo realizzò solo un istante dopo aver parlato, quando si immobilizzò di colpo con sacchetto dell’immondizia e paletta in mano. Lentamente la donna sollevò il mento per posare gli occhi grigi sull’esile figurina della bambina di sei anni, scrutandola brevemente prima di chiederle se fosse assolutamente sicura di non esserselo inventato.
“Non l’ho inventato. Non dico le bugie.”
“Ok. Allora potresti rifarlo con qualcosa che non si rompe, che ne dici? Pensi di riuscirci?”
Dopo una breve esitazione Kelly aprì il cassetto delle posate e posò un cucchiaio al centro del tavolo prima di occupare una delle quattro sedie, incrociando le braccia mentre aspettava che la bambina la imitasse. Niki obbedì e la imitò, troppo cocciuta per tirarsi indietro e determinata a dimostrarle di non aver mentito: la sua non era stata una storiella volta ad attirare l’attenzione, anche se era esattamente ciò che la zia doveva aver pensato.
La bambina sedette di fronte alla donna e come aveva fatto poco prima iniziò a fissare il cucchiaio, cercando di focalizzare sul piccolo oggetto di metallo tutta la sua attenzione per riuscire a spostarlo, anche solo di un paio di centimetri.
 
Dieci minuti dopo zia Kelly le aveva messo davanti una tazza di gelato alla vaniglia e la bambina raccoglieva felice generose cucchiaiate di dessert freddo credendo che si trattasse del premio spettatole a seguito della sua miracolosa impresa; la donna, al contrario, rimase a lungo seduta di fronte a lei, fissandola in silenzio mentre cercava di capacitarsi di quanto appena assistito. Non aveva mai sospettato nulla prima di quel giorno, stentava a credere che la bambina che viveva accanto a lei fosse una strega: passava con lei moltissimo tempo e non l’aveva mai vista sfoggiare cenni di magia, anche involontaria. Forse Maryna avrebbe dovuto notare qualcosa di inconsueto nella figlia, ma in fondo la sua vicina era talmente assente dalla vita di Niki che Kelly scartò in fretta l’idea: difficilmente si era accorta di qualcosa, e l’incombenza di spiegare ad entrambe la situazione sarebbe naturalmente ricaduta su di lei.
Quando ebbe finito il gelato Niki stette ad ascoltare ciò che sua zia aveva da dirle: Kelly le spiegò che c’erano altre persone in grado di fare cose straordinarie, cose simili a quella che aveva fatto lei, bambini e anche adulti. Persone che andavano in scuole speciali molto lontane da New York al compimento degli undici anni e che facevano quelle cose straordinarie aiutandosi con delle vere e proprie bacchette magiche simili a quelle delle fate dei film animati.
“Quindi la magia esiste?!”
“Sì bimba.”
“E anche tu fai le magie?!”
Kelly distese le labbra per dar vita ad un tiepido sorriso con cui scosse il capo, spiegando alla bambina di non essere speciale come lo era lei. Ma i suoi genitori, loro che lo erano, e c’erano tantissime cose che sapeva e che poteva spiegarle per farle conoscere il mondo straordinario a cui apparteneva.
La domanda successiva che sorse spontanea nella mente di Niki fu naturalmente rivolta a sua madre, ma di nuovo la zia negò, assicurandole di non averle mai visto fare niente di lontanamente simile allo spostare gli oggetti senza toccarli.
“Quindi si può essere speciali avendo genitori normali?”
“Certo tesoro.” Kelly annuì accennando un sorriso, astenendosi dal sottolineare come fosse possibile anche l’esatto opposto, come era successo a lei, mentre i pensieri di Niki si addentravano verso quel remoto angolo della mente dove molto tempo prima aveva confinato tutte le domande che sua madre non voleva sentire e alle quali non avrebbe mai risposto.
“Magari anche mio padre fa le magie.”, ipotizzò pensosa la bambina sollevando entrambe le sopracciglia mentre Kelly, udite quelle parole, smetteva di sorridere irrigidendo visibilmente la postura delle spalle: era una possibilità che quando aveva visto il cucchiaio muoversi sul tavolo non le era nemmeno venuta in mente di vagliare tanto il padre della bambina rappresentava per lei un’entità inesistente, nemmeno degna di essere presa in considerazione, ma tutto sommato Niki aveva ragione. Per quel poco che ne sapeva sul suo conto poteva anche essere vero.
“Sì. Magari.”
Niki sorrise, e con gran sollievo della donna non chiese altro riguardo al padre, prendendo invece a bombardarla di domande in merito alla fantomatica scuola che aveva citato poco prima: la sua prima preoccupazione fu informarsi in merito alla presenza di un corso di matematica e di una biblioteca in cui poter prendere in prestito i libri, esattamente come faceva Matilda nel suo amato libro.
“Ce li hanno i libri di Roald Dahl?!”
“Onestamente non penso piccola… Ma non preoccuparti, abbiamo tempo. Ti prometto che li avrai tutti, quando partirai.”
 

 
*
 
 
Dicembre 1997

 
Mentre i marciapiedi, le strade e i tetti del Queens venivano ricoperti dal primo strato di fiocchi di neve della stagione Niki sedeva al centro del letto che occupava buona parte della piccola stanza quadrata: le pareti che forse un tempo erano state bianche apparivano sbiadite, ingrigite, il pavimento coperto da assi di legno usurate, e i soli altri mobili presenti oltre al letto addossato alla finestra erano un comodino di legno sul quale era stata sistemata una lampada nera e un enorme armadio che bastava a contenere buona parte degli averi di chi viveva in quella casa. Le uniche note di colore erano rappresentate dal copriletto rosso con disegni bianchi e dal vestitino di flanella verde indossato dalla bambina, che sedeva tenendo le gambe esili incrociate a sorreggere un libro aperto. I lunghi e lisci capelli scuri insistevano a scivolarle davanti al capo chino, costringendola a sistemarseli di continuo dietro alle piccole orecchie per far sì che non la intralciassero nella lettura del suo libro preferito. In realtà, a voler essere precisi, quello era l’unico libro che la bambina possedeva e che avesse mai letto, ma da un mese a quella parte, da quando le era stato regalato, non faceva altro che leggerlo e rileggerlo a profusione.
Niki sapeva leggere molto bene, sì, ma non l’ora, e capì che doveva essere arrivato il momento di cenare quando sentì un forte e fastidioso languore allo stomaco. Voltandosi verso la finestra chiusa alle sue spalle si accorse di quanto fuori fosse buio, e si convinse a chiudere il libro e a scivolare giù dal letto per andare in cerca di qualcosa da mangiare portandolo con sé fuori dalla stanza, scendendo una stretta rampa di gradini un tantino scricchiolanti per giungere nella grande stanza al pian terreno che fungeva da salotto e da cucina. La bambina abbandonò Matilda sul tavolo di legno circolare per aprire il frigo, ritrovandosi a guardare schifata uno spettacolo piuttosto desolante: l’unico scaffale ad essere quasi pieno era quello delle verdure, e alla vista dei broccoli le sembrò di avere un mancamento.
“Bleh, che schifo.”
Le verdure non solo non le piacevano, ma aveva anche il divieto di usare i fornelli quando era a casa da sola, perciò non le rimase che aprire la dispensa nella speranza di trovare qualcosa da sgranocchiare.
Quando appurò che i Doritos e i cracker al formaggio erano finiti la bambina si ripromise di indagare su chi si fosse permesso di mangiare le sue cose mentre chiudeva infastidita lo sportello di legno, guardandosi attorno nella grande stanza vuota e illuminata dal lampadario a soffitto quasi sperando che un enorme piatto di spaghetti con le polpette si materializzasse dal nulla davanti a lei. A cosa serviva essere una strega se non si poteva far comparire il cibo dal nulla?! Era una cosa di cui proprio non riusciva a capacitarsi.
Niki attraversò a piedi nudi la stanza per arrampicarsi sul divano color mattone e sbirciare fuori dalla finestra, sospirando quando appurò che il banco dei bretzel dall’altra parte della strada era chiuso. Persino Jerry l’aveva tradita e abbandonata, non ci si poteva proprio più fidare di nessuno. Non le restò che setacciare la stanza per cercare il listino della pizzeria più vicina, esultando quando lo trovò in un cassetto pieno di cianfrusaglie, in mezzo a delle forbici e a numerosi cavatappi.
La mamma prima di uscire aveva lasciato una banconota da dieci dollari sul tavolo, ma Niki era tanto brava nella lettura quanto ancora penosa con la matematica, e guardò preoccupata i numeri dei prezzi per cercare di capire quali pizze avrebbe potuto prendere e quante.
Dopo dieci minuti di riflessioni e calcoli errati inutili annotati su un foglietto di carta prese il telefono per chiamare e chiedere direttamente ad un adulto: i grandi forse per una volta le sarebbero stati di una qualche utilità.
Dopo aver parlato con una signora e aver appurato di poter ordinare una pizza normale e una con formaggio extra Niki si appostò impaziente vicino alla finestra, lo stomaco che brontolava sempre più forte mentre stringeva il suo beagle di peluche. Aveva esultato alla vista di una moto rossa fermarsi davanti a casa sua e un ragazzo recuperare la più grande fonte di gioia a lei conosciuta: due cartoni bianchi per le pizze. La bimba afferrò i soldi e sfrecciò fuori di casa infilando ai piedi le pantofole troppo grandi di sua madre, sorridendo allegra quando uscì sul pianerottolo e aprì la porta d’ingresso del piccolo palazzo per scendere i gradini malandati e avvicinarsi al fattorino che l’aspettava sul marciapiede.
“Ciao. Grazie!”  Niki gli porse allegra i soldi e il ragazzo la guardò sbigottito, porgendole le pizze prima di guardare accigliato verso le finestre chiuse ma illuminate dell’appartamento di sinistra del pian terreno:
“Ma sei a casa da sola?”
Niki, i cartoni stretti tra le braccia con un po’ di fatica, lo guardò accigliata – come se avesse appena udito un’assurdità – prima di scuotere la testa, seria in volto:
Signore, io ho sei anni, non posso mica stare a casa da sola la sera. Ciao!”
La bimba girò sui tacchi e sfrecciò di nuovo dentro casa prima di dare al fattorino il tempo di chiederle altro, correndo a depositare i cartoni sul tavolo della cucina prima di andare a chiudere entrambe le porte.
Cinque minuti dopo Niki aveva acceso la tv, recuperato il suo amico di pezza dal divano e si era seduta accanto a lui sul pavimento davanti al cartone di pizza al formaggio. Purtroppo a quell’ora non trasmettevano più Sailor Moon, e la bambina fece impazientemente zapping con una fetta di pizza in mano fino a fermarsi davanti ad una delle prime scene di Home Alone. Rincuorata, Niki sorrise mentre addentava la punta della fetta di pizza facendo colare un’enorme quantità di formaggio sul cartone: adorava quel film. Kevin, coi loro destini simili, la faceva sentire sempre un po’ meno sola.
 
 
Kelly non si era e non si sarebbe mai definita una persona distratta, ma si era brutalmente resa conto di non avere abbastanza uova solo quando aveva ormai già iniziato a preparare i biscotti, i suoi famosissimi e deliziosi cookies che aveva promesso di portare a Jerry il mattino seguente. Profondamente infastidita dalla propria distrazione la donna aveva aperto la porta di casa e aveva attraversato i due metri di pianerottolo buio che la dividevano da quella di fronte per bussare energicamente, un grembiule bianco allacciato in vita e sul retro del collo sopra ad un maglione celeste e i capelli biondi legati alla bell’e meglio sulla nuca.
La donna dovette attendere qualche lungo istante – arco di tempo in cui ebbe anche la curiosa impressione di udire una sorta di cigolio metallico, come se qualcuno all’interno dell’appartamento avesse trascinato qualcosa davanti alla porta – prima di udire la familiare voce di una delle sue due vicine di casa, portandola a distendere le labbra in un sorriso mentre immaginava divertita la bambina stare in punta di piedi davanti allo spioncino e in cima ad una scaletta.
“Ciao bimba. Sono io, posso entrare?”
“La mamma dice che non devo aprire.”, rispose titubante la voce di Niki, soffocata dalla porta chiusa che si frapponeva tra loro, ma Kelly non battè ciglio mentre annuiva, certa che la bambina la stesse guardando attraverso lo spioncino, parlando con il tono più gentile di cui era capace:
“Ok, allora puoi chiedere a lei di aprire?”
Mentre stava in piedi sulla scaletta mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore e Kevin, alle sue spalle, riempiva la sua enorme e bellissima casa di trappole Niki esitò di nuovo, questa volta più a lungo, non sapendo cosa dire. O come dire qualcosa che sapeva non avrebbe fatto piacere sentire alla donna che si trovava fuori dalla porta. Fortunatamente per lei, Kelly lo intuì prima di costringerla a parlare:
“Niki, non sei da sola, vero?” Se le avessero chiesto di descrivere se stessa e il proprio temperamento paziente non sarebbe stato uno degli aggettivi che avrebbe scelto, ma Kelly fece del suo meglio per mantenere controllato il tono della sua voce mentre nella sua mente prendevano vita in rapida successione un gran numero di scenari, tutti con lei e la madre della bambina come protagoniste e tutti che terminavano con lei che inveiva contro la vicina.
Mentre immaginava tecniche di persuasione sufficientemente convincenti ad insegnare alla sua amica a non lasciare a casa da sola la figlia di sei anni, specie di sera, Niki scese a piedi nudi i gradini della scaletta e la spostò dalla porta, decidendosi finalmente ad aprire dopo aver armeggiato con il chiavistello. Quando le due si trovarono finalmente faccia a faccia la bambina abbozzò un sorriso, mento e nasino rivolti all’insù mentre Kelly si scordava della farina, dei biscotti e del buon vecchio Jerry.
“Ti piace la pizza?”
 
“Niki, perché hai preso due pizze? Lo so che è buona, ma non devi mangiarne troppa.”
Nonostante avesse trascorso la giornata certa di passare la serata impastando biscotti con il giradischi acceso Kelly si ritrovò seduta sul pavimento accanto ad una bambina di sei anni e ad un beagle di peluche, una fetta di pizza al formaggio in mano mentre i ladri di Home Alone le prendevano di santa ragione da un bambino alto meno della metà di loro.
“Così la mamma ne mangia quando torna. E così chi porta la pizza non pensa che sono da sola. Ti piace la pizza, Honey?”, domandò Niki rivolgendosi al pupazzo mentre fingeva di imboccarlo con un pezzo di pizza sotto lo sguardo pensoso della vicina, che finì di masticare il boccone pieno di mozzarella e salsa al pomodoro prima di inarcare un sopracciglio, impressionata:
“Ma senti. Sei una signorina sveglia, vero?”
Niki non rispose, continuando ad imboccare Honey mentre Kelly gettava un’occhiata alla televisione accesa, studiando pensosa il film prima di tornare a concentrarsi sulla bambina con uno spiacevole presentimento:
“È una cosa che fai spesso, mangiare la pizza da sola, come fa Kevin? A me lo puoi dire. Sono bravissima a tenere i segreti.”
“No.” Niki scosse il capo senza guardarla, gli occhioni puntati sul cagnolino che ogni notte abbracciava desiderando di svegliarsi e di vederlo prendere vita per avere qualcuno con cui giocare. A mentire per bene avrebbe imparato solo qualche anno più tardi, in parte proprio grazie alla donna che le sedeva accanto.
“No? Da quando hai iniziato la scuola?”, la incalzò la vicina posando la crosta della pizza sul cartone, pronta a far leva sui suoi ottimi e famosi biscotti – in fin dei conti Jerry poteva anche aspettare un altro paio di giorni per gustarli – per estorcerle la verità di bocca. Kelly si riteneva una persona molto persuasiva, ma non ebbe bisogno di sfoderare nessuna delle sue abilità, perché dopo aver “dato da mangiare” ad Honey Niki posò la pizza sul cartone e la guardò con gli enormi occhi verdi che avevano ammaliato la vicina fin dal loro primissimo incontro, quando la bimba a stento parlava una parola di inglese e ancora non sapeva leggere. Niki non rispose, ma sollevò entrambe le mani mostrandole un numero che le fece provare l’insano desiderio di uscire e setacciare tutti i locali del quartiere, trovare la sua vicina e trascinarla a casa tenendola per quella bella chioma fluente.
C’erano tantissime cose che Kelly avrebbe voluto dire, quasi tutte inadatte ad una bambina di prima elementare. Si costrinse quindi a sorridere, a far finta che andasse tutto bene, mentre si dava una ripulita alle mani sporche di farina strofinandosele sul grembiule bianco.
“A te e ad Honey vanno dei biscotti, bimba? I miei biscotti sono magici.”
Più tardi Niki si addormentò sul divano azzurro nell’appartamento di fronte, mentre Kelly rimase sveglia ad aspettare di sentire la porta d’ingresso del palazzo aprirsi al ritorno di Maryna. Quando finalmente rincasò erano quasi le due del mattino e la figlia, dormendo profondamente, non sentì sua zia lasciare l’appartamento, raggiungere la madre e litigare con lei al di là del pianerottolo e delle due porte chiuse.
 
 
*
 
 
Settembre 1998
 

La fine dell’estate del ’98 segnò profondamente il corso della vita di Niki, e non certo per una guerra vinta oltreoceano di cui avrebbe scoperto l’esistenza solo qualche anno più tardi, durante le lezioni di storia ad Ilvermorny. No, a tracciare un segno indelebile sulla vita della bambina di ormai sette anni furono un canale televisivo e quattro donne:
“Nooo, sono finiti i cereali!”
Niki agitò con orrore la scatola vuota, quasi sperando che dei cereali comparissero dal nulla. Amareggiata, la bambina sospirò prima di gettare la scatola sul tavolo, tornando ad esaminare la dispensa in cerca di qualcosa con cui fare merenda: doveva sbrigarsi se non voleva perdere l’inizio della puntata. Cinque minuti dopo, avendo fallito nella sua missione, la piccola strega si infilò le minuscole All Stars scarlatte che la zia le aveva regalato per la sua pagella di fine anno e poi corse di sopra per prendere una banconota da cinque dollari dal cumulo di risparmi che aveva nascosto dentro un calzino. Nessun ladro guardava dentro i calzini, glielo aveva assicurato la zia.
Uscì di casa, saltò i gradini che dividevano l’ingresso dal marciapiede e attraversò di corsa la strada dopo essersi fermata a guardare a destra e a sinistra, infine sfrecciò verso il banco dei bagel, del quale si era auto-proclamata la cliente prediletta.
“Jerry, me ne dai uno al formaggio?!”
Quando il venditore scorse una manina che stringeva una banconota spuntare dal nulla oltre il bancone alzò gli occhi azzurri al cielo, sporgendosi in avanti fino a scorgere il visino impaziente di una bambina che ormai conosceva piuttosto bene. Non fu certo una sorpresa visto che ormai si era abituato ad averla tra i piedi di continuo, ma si concesse comunque di sospirare molto rumorosamente:
“Non devi andartene in giro da sola, signorina!” Se avesse ricevuto un dollaro per ogni ammonimento ripetuto a quell’ostinata ragazzina Jerry avrebbe potuto chiudere bottega e non lavorare per un bel po’, ne era completamente persuaso. Magari anche andare finalmente in vacanza in Grecia con sua moglie.
“Ma ho fame, voglio fare merenda. Dai, sbrigati!”
Invece di dar peso al rimprovero Niki prese ad agitarsi freneticamente sul posto continuando a porgergli la banconota, ansiosa di tornare a casa mentre l’uomo si allungava ulteriormente afferrando i bordi del bancone con le mani guantate per poterla scrutare dall’alto in basso, dubbioso:
“Hai pranzato?”
Volevo fare i Mac&Cheese, ma li ho bruciati.”, ammise la bambina con un’indifferente scrollata di spalle, sempre continuando a tenere alta la mano destra e la banconota da cinque dollari mentre Jerry sospirava di nuovo: era sicuro che un giorno o l’altro avrebbe visto il pian terreno dell’edificio di fronte prendere fuoco.
“Come si fa a bruciare un cibo precotto?!”
“Guarda che io ho sette anni! Dai Jerry, dammene uno.”
La voce e l’espressione di Niki si fecero imploranti, e la bambina continuò ad agitare i suoi soldi mentre l’ormai affezionato venditore guardava prima lei e poi la casa dall’altro lato della strada prima di scuotere la testa, come rassegnato: se non altro dandole da mangiare sapeva che non avrebbe cercato di usare i fornelli da sola. E che non avrebbe patito la fame.
“Te lo regalo, tieniti soldi. E adesso voglio vedere che torni a casa e ci resti. Dov’è tua madre?”
“Al negozio. Grazie, devo andare o perdo l’inizio di Sex and The City.”
L’uomo si sporse per poter raggiungere la bambina e porgerle un bagel caldo avvolto da due tovagliolini, e Niki parlò dopo averlo addentato affamata, parlando a bocca piena mentre un sorriso carico d’emozione si faceva largo sulle sue labbra:
“Sex and The City?! Non mi sembra il nome di qualcosa adatto alla tua età.”
La bambina ignorò lo scetticismo di Jerry, limitandosi a stringersi nelle spalle mentre addentava nuovamente la ciambella salata e guardava il venditore con un che di sognante nei grandi occhi verdi:
“Beh, alcune scene non le capisco tanto bene, ma è bellissimo. Ci sono Charlotte, Miranda, Carrie e Samantha, e loro sono grandi e hanno dei vestiti bellissimi. E vivono a Manhattan. E vanno sempre a mangiare fuori e bevono delle cose colorate. Da grande voglio essere come loro.”
“Tua madre lo sa che lo guardi?!”
“Ciao Jerry, grazie!”
Niki eluse la domanda voltandosi e correndo via, udendo l’uomo intimarle di guardare prima di attraversare la strada mentre si allontanava. Salutò frettolosamente la vicina che viveva sopra di lei che stava uscendo per portare a spasso il suo barboncino e poi sfrecciò di nuovo dentro casa per andare a sedersi sul pavimento davanti alla tv accesa, appoggiandosi al divano come era solita fare. Per fortuna aveva fatto in tempo e per 50 minuti poté godersi due puntate del suo nuovo programma preferito. Quando due ore dopo sua madre tornò a casa e le chiese come avesse trascorso il pomeriggio, dichiarò con candore di aver guardato la tv e di aver fatto i compiti estivi di matematica.
Tecnicamente la verità. Che cosa avesse guardato nello specifico, non era necessario farglielo sapere.
Carrie, Miranda, Samantha e Charlotte accompagnarono i suoi pomeriggi dall’inizio della scuola fino all’inverno successivo, quando smisero di trasmettere in seconda visione la prima stagione. Anni e anni dopo, ripensando all’estate del 1998, Niki non avrebbe ricordato altro che la trepidante attesa per i nuovi episodi e i libri di Roald Dahl a farle compagnia, definendo quella che sarebbe stata l’ultima estate spensierata della sua vita. Mentre sedeva sul pavimento guardando sognante lo schermo e seguiva le vicende di quelle donne che vivevano nella sua stessa città, ma che al tempo stesso le sembravano inarrivabili, Niki non immaginava che nel corso dell'inverno successivo la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

 
*

 
Dicembre 1998
 

Nevicava e Niki camminava tenendo la testa china, osservando i suoi stivaletti formare delle orme sul sottile strato di neve che si era poggiato su tutti i marciapiedi e le strade del Queens a partire dalla precedente nottata mentre lo zaino di scuola vuoto le dondolava sulle spalle e piccoli fiocchi si posavano sul suo cappellino di lana. Mancavano dieci giorni a Natale e il freddo era più pungente che mai, tanto che ogni respiro della bambina formava piccole nuvolette di vapore davanti al suo viso; era una fortuna, si ritrovò a constatare Niki mentre gettava un’occhiata alle manopole che le fasciavano le mani, che la zia avesse appena finito di confezionarle ai ferri un nuovo set di guanti, sciarpa e berretto.
Quando si ritrovò finalmente davanti alle porte scorrevoli del supermercato la bambina esitò, in piedi davanti all’ingresso mentre i suoi grandi occhi verdi scrutavano ansiosamente il via vai di gente che entrava e usciva. Non aveva mai messo piede lì dentro da sola, ma in fondo se lo faceva Kevin allora poteva farlo anche lei, perciò si fece coraggio ed entrò, lasciando che un piacevole ed improvviso tepore l’avvolgesse; un istintivo sorriso sollevato le sollevò gli angoli delle labbra quando la bambina percepì l’alzarsi della temperatura, affrettandosi poi a far scivolare lo sguardo sui carrelli. Quelli grandi erano davvero troppo alti e pesanti per lei, ma un’ondata di sollievo la pervase quando ebbe individuato delle pile di carrelli molto più piccoli: erano stati davvero gentili a mettere a disposizione dei carrelli della misura giusta per lei, rifletté felice la bambina mentre ne prendeva uno, iniziando a spingerlo davanti a sé mentre altri clienti le indirizzavano occhiate leggermente stranite.
 
Niki non sapeva chi avesse stabilito la disposizione della Nutella, ma doveva per forza trattarsi di un cretino, stabilì con astio la bambina mentre cercava di prendere un barattolo di Nutella da uno scaffale per lei fin troppo alto: era ovvio che qualche bambino avrebbe cercato di prenderla prima o poi, perché l’avevano messa così in alto? Forse era un complotto orchestrato dai genitori del quartiere, che non volevano che i loro figli abusassero di quella deliziosa crema spalmabile? All’ennesimo saltello a vuoto la bambina sbuffò, sistemandosi le bretelle dello zaino sulle spalle maledicendo il suo essere ancora una bambina. Non aveva intenzione di tornare a casa senza Nutella, ma il tempo passava e si stava facendo tardi: doveva assolutamente tornare a casa il prima possibile. La bambina si guardò attorno cercando qualcuno a cui potesse chiedere di passarle la Nutella, ma trovò la corsia vuota. Stabilito definitivamente che i grandi fossero del tutto inutili Niki tornò a focalizzarsi sull’oggetto del suo desiderio fissando intensamente uno dei barattoli che sfilavano allettanti sulla mensola, concentrandosi solo su quello fin quasi a non sentire più il brusio e lo stridio delle ruote dei carrelli sul pavimento.
Dopo meno di un minuto la bambina vide uno dei barattali disposti in fila sullo scaffale prima tremare leggermente, poi spostarsi verso il bordo e infine galleggiare verso di lei, permettendole di stringerlo tra le piccole mani sfoggiando un largo sorriso. Riposto con cura il prezioso barattolo nel suo carrellino Niki corse verso le casse per pagare, riuscendo a fare lo slalom tra gli altri clienti e a mettersi in fila davanti a molti di loro grazie alla sua ridotta statura.
L’annoiatissima cassiera di mezz’età che agognava più di ogni altra cosa la fine del suo turno fissò con distratta apatia i prodotti man mano che li passava sullo scanner, lasciando per ultima una bottiglia di Vodka da meno di dieci dollari. Chiese al cliente – ogni giorno ne vedeva talmente tanti da non prestare quasi più caso ai loro volti – come preferisse pagare mentre cercava il codice a barre della bottiglia, ottenendo riposta da voce infantile ben diversa da quelle che di norma le si rivolgevano al momento di pagare.
La donna si immobilizzò tenendo la bottiglia a mezz’aria e sbattè le palpebre mentre osservava la bambina che aveva davanti: gli enormi occhi verdi e il berretto e la sciarpa rossi che le avvolgevano quasi completamente il viso la facevano sembrare il personaggio di un cartone animato.
“Tua madre dov’è?”, domandò d’istinto prima di riuscire a trattenersi mentre faceva vagare lo sguardo sulla fila formatasi alle spalle della bambina, che invece oltre a non battere ciglio accennò un sorriso sollevando gli angoli delle labbra:
“Sarebbe proprio una cosa poco carina da dire se io una mamma non ce l’avessi, non trova?”
Un personaggio dei cartoni animati con una fluentissima parlantina, si ritrovò a considerare accigliandosi la donna mentre la guardava con scetticismo. L’inusuale cliente però non si scompose, continuando a guardarla con un sorriso prima di chiederle con adorabile candore se poteva pagare porgendole una banconota da venti dollari.
“Questa non posso vendertela. Ti hanno mandato tuo fratello o tua sorella per prenderla al posto loro?”, domandò la cassiera agitando lievemente la bottiglia di vodka di scarso pregio mentre osservava la bambina inarcando scettica un sopracciglio, certa che fuori dal supermercato si trovasse un qualche adolescente che aveva ben pensato di mandare la propria sorellina a comprargli dell’alcol sperando che ad un’adorabile bambina sola, impietosendosi, l’avrebbero venduto. L’espressione della bambina invece all’improvviso vacillò, come se non avesse idea di che cosa stesse parlando, e scosse la testa sempre continuando a porgerle la banconota tutta spiegazzata.
“No signora. Perché non me la può dare?”
“Perché dubito fortemente che tu abbia compiuto 21 anni.”
La cassiera chiuse la questione riponendo la bottiglia sotto al bancone prima di prendere i soldi, e mentre alle sue spalle gli altri clienti si scambiavano silenziose occhiate perplesse alla bambina non restò che infilare ciò che aveva acquistato nello zaino rosso di scuola, svuotato appositamente per andare al supermercato, prima di uscire delusa dal negozio e incamminarsi verso casa.
Una volta in strada e di nuovo avvolta dall’impietoso gelo newyorkese Niki sfrecciò più rapida che poteva, correndo a perdifiato sul marciapiede coperto di neve finchè non si imbatté in Jerry, che stava facendo la strada al contrario e che si fermò con un sospiro sollevato quando la vide correre verso di lui: quando all’incirca quaranta minuti prima l’aveva vista uscire di casa e le aveva chiesto, gridando dal marciapiede opposto, dove avesse intenzione di andare da sola le aveva assicurato che se non fosse tornata entro mezz’ora sarebbe andato a cercarla personalmente al supermercato.
“Ah, eccoti, stavo venendo a cercarti! Perché stai correndo?”
“Devo andare Jerry, se no mi perdo l’inizio di Sex and The City! Ciao!”
La bambina superò il venditore ambulante salutandolo con un cenno della mano, correndo verso casa per potersi sedere sul pavimento davanti alla tv con una gigantesca fetta di pane e Nutella da gustare.
 
Come di consueto Jerry chiuse il banco un’ora dopo, ripetendo la stessa routine e le stesse azioni ormai meccaniche che ripeteva ogni giorno da più o meno due decenni. Dopo aver svuotato la cassa e aver sigillato la tapparella si aggiustò il berretto di lana verde bottiglia sulla testa con le mani guantate, ma prima di dirigersi come ogni sera verso la fermata della Metropolitana di Sunnyside indugiò sul marciapiede e volse lo sguardo dall’altro lato della strada. La sua cliente preferita era uscita di casa senza che lui nemmeno se ne accorgesse, e l’uomo la vide seduta sui gradini gelidi indossando la stessa sciarpa e lo stesso berretto cremisi che le aveva visto addosso poco prima, quando lo aveva superato di corsa. Dovevano essere opera di Kelly, osservò Jerry mentre si sfiorava il berretto di lana che la donna gli aveva regalato l’anno prima per Natale.
La bambina sembrava immusonita anche dall’altro lato della strada, e Jerry non riuscì a voltarsi, a darle le spalle e a raggiungere la fermata della Metropolitana: attraversò la strada e si stampò un sorriso allegro sulle labbra mentre la raggiungeva, convincendosi di come dovesse esserci qualcosa che non andava quando Niki non gli sorrise di rimando, non gli chiese se gli era avanzato un bagel per lei o non iniziò a raccontargli le vicende delle sue quattro amiche che vivevano tra i lustri di Manhattan, al di là del fiume.
“Che succede? Brutta puntata quella di oggi?” Jerry raggiunse la bambina e sedette accanto a lei sul gradino scheggiato e scricchiolante reprimendo una fastidiosa fitta al ginocchio sinistro, intrecciando le mani rovinate dal freddo e da vecchie ustioni mentre Niki scuoteva il capo scrutando le proprie, avvolte dalle minuscole moffole che la zia le aveva confezionato usando i ferri.
“Non l’ho vista.”
“Perché no? Avevi dei compiti da finire?” Jerry pregò che Maryna fosse stata in grado di aiutarla: di tanto in tanto Niki usciva di casa armata di libro, quaderno e matita e andava a chiedere a lui di aiutarla con i problemi di geometria, e in genere finivano col litigare prima e col riempire le pagine di scarabocchi e segnacci poi, lavori non proprio pregevoli che di certo non venivano particolarmente apprezzati dalla maestra della bambina.
“Mamma si è arrabbiata perché non ho comprato una cosa.”
“Avevi finito i soldi?” Il respiro di Jerry si condensò in una nube di vapore che si disperse nell’aria gelida un istante dopo mentre l’uomo inarcava un sopracciglio, chiedendosi perché non avesse chiesto a lui dei soldi quando si erano incontrati sul marciapiede fuori dal supermercato, ma la bambina scosse la testa senza smettere di tenere la testa china e gli occhi verdi puntati sulle moffole. Iniziava a sentire un gran freddo alle dita dei piedi, ma non aveva nessuna voglia di rientrare in casa, almeno non finchè la zia non fosse tornata dal negozio.
“Che cosa dovevi comprare?”, la incalzò il venditore mentre si grattava la barba di due giorni, guardandola accigliato e con un presentimento che iniziava a farsi sempre più insistente. Del resto Jerry lavorava lì di fronte tutti i giorni, tutto il giorno: vedeva e sentiva cose che non avrebbero dovuto riguardarlo.
“Una cosa che le piace bere. Sembra acqua, ma dice che è acqua solo per adulti. La signora del supermercato ha detto che non me la può dare perché non ho 21 anni.”
Jeremiah Donaldson avrebbe voluto imprecare, alzarsi, entrare in casa della bambina e chiedere a sua madre come le fosse venuto in mente di mandarla a comprarle un superalcolico, ma non lo fece, attenendosi al tacito accordo che lui e Kelly avevano stipulato un paio d’anni prima e che prevedeva nel non sollevare mai determinate questioni quando Niki era a portata d’orecchi. Si costrinse, quindi, a rivolgerle un sorriso rassicurante mentre le posava una mano sulla testa, sul berretto umido a causa dei fiocchi di neve.
“La signora ha ragione, ragazzina. Nessuna persona sana di mente ti venderà mai quella roba… ed è giusto così. In fondo lo sa anche Maryna. Magari era già arrabbiata con qualcun altro, sa anche lei che non è colpa tua. Vedrai che le passerà.”
Niki annuì, poco convinta, e non rispose mentre si studiava la punta dei piedi, strofinando distrattamente la suola dello stivaletto destro sul gradino per ripulirla dai residui di nevischio. Per qualche istante Jerry non seppe cosa dire, finchè non decise di fare appello ad uno dei principali argomenti in grado di meglio catalizzare l’attenzione della bambina: il cibo. Di libri, sfortunatamente, lui ne sapeva ben poco, anche se ormai grazie alla sua piccola cliente conosceva la trama di Matilda a memoria tanto lei ne parlava di continuo.
“Avete qualcosa per cena?”
“La zia ha detto che quando torna fa gli spaghetti.” Niki tornò a guardarlo sorridendo entusiasta e Jerry non riuscì a non imitarla, dandole una gomitata giocosa mentre i suoi pensieri vagavano fino alla madre della bambina, chiedendosi quando era stata l’ultima volta in cui la sua giovanissima cliente aveva fatto menzione di un pasto cucinato dalla sua sempre giovanissima madre.
“Buoni. Con le polpette?” Sul punto di annuire, felice e con lo stomaco che brontolava – non aveva nemmeno mangiato il pane con la Nutella visto che la mamma si era talmente arrabbiata da averla spedita a fare i compiti – l’espressione di Niki mutò all’improvviso e si fece accigliata, come se la domanda di Jerry ne avesse risvegliate altre in lei.
Si possono mangiare anche in altri modi?”
 
 
Quella sera Jerry tornò a casa e mentre si sfilava sciarpa e berretto dando foggio della sua chioma ormai del tutto brizzolata chiese a Lucy, sua moglie, se per caso avesse guardato la puntata di Sex and the City che avevano trasmesso quel pomeriggio. La donna, che stava imburrando una teglia per infornare una torta alla vaniglia, lo aveva guardato stranita trovandosi a metà strada tra il punto di scoppiargli a ridere in faccia o preoccuparsi seriamente per lui. Naturalmente Jerry si era difeso assicurandole di volerlo sapere solo e soltanto per una cliente abituale che gli era parsa particolarmente amareggiata dopo avergli confidato di averla persa.
Il mattino dopo, quando la vide uscire di casa per andare a scuola, Jerry chiamò Niki con un fischio che risuonò persino più forte dei clacson dei taxi di passaggio. Insieme ad un pezzo di torta alla vaniglia le regalò un bagel al prosciutto per pranzo e un resoconto discretamente dettagliato (rifiutandosi categoricamente di parlare di sesso con una bambina di sette anni) sulla puntata del giorno prima: quando ebbe finito di snocciolare le informazioni apprese dalla moglie e che si era persino trascritto per non rischiare di dimenticarsele Jerry esibì un sorriso soddisfatto, fiero di se stesso e in attesa di vedere la bambina sgambettare allegra in direzione della scuola. Niki, invece, apparve sconvolta, portandosi persino una manina davanti alla bocca mentre lo guardava con gli occhi verdi pieni di puro orrore:
“Che cosa?! Mr Big è sposato?! Non è possibile Jerry, lui deve stare con Carrie!”
Naturalmente Jerry non poteva saperlo, ma nemmeno il bagel al prosciutto sarebbe riuscito a darle conforto dopo aver appreso una notizia tanto terribile: Niki si allontanò per raggiungere sua madre, che l’aspettava dall’altro lato della strada con un paio di occhiali scuri a schermarle gli occhi, tenendo il sacchetto di carta in mano e trascinando i piedi, il capo chino e l’aria mogia mentre il venditore la guardava e si grattava la testa chiedendosi accigliato dove avesse sbagliato.

 
*

 
“D’accordo Niki. Lo ripeto per l’ultima volta.”
Kelly e Niki erano bloccate in una sorta di stallo alla messicana da più o meno venti minuti: la bambina sedeva al tavolo della cucina, accanto alla finestra chiusa, con davanti quaderno, libro di matematica, astuccio e un gran numero di gomme per cancellare e matite sparse dappertutto. La donna invece, che pur di aiutarla a fare i compiti aveva messo in pausa l’abito di seta che avrebbe dovuto rammendare per una facoltosa cliente, stava in piedi tenendo entrambi i palmi piantati sul tavolo, ciocche di capelli biondi che sfuggite alla coda di cavallo le erano scivolate oltre le spalle incorniciandole il volto serio.
“So che sei una bambina sveglia, molto sveglia, so che lo sai.”
Niki non rispose, limitandosi a tenere il mento sollevato per ricambiare fermamente lo sguardo della donna, i cui occhi grigi apparivano fiammeggianti. La mano destra di Kelly scivolò sul tavolo per andare ad indicare la pagina del libro aperta, proseguendo senza interrompere il contatto visivo con la bambina più ostinata che avesse mai incontrato in tutta la sua vita:
Kevin compra 25 mele, sua madre ne usa 15. Quante mele restano a Kevin?”
Non ha senso!” La voce decisa della bambina esplose nuovamente nella stanza che, come nell’appartamento accanto, faceva sia da soggiorno che da cucina, e Kelly ancora una volta dovette reprimere il desiderio di colpire più e più volte la superficie del tavolo con la propria fronte. Che cosa avesse fatto di male per meritarsi di passare di nuovo l’inferno dei compiti di matematica proprio non riusciva a spiegarselo.
“Sì che ha senso, devi risolverlo!”, replicò Kelly indicando il libro con un po’ più di enfasi del necessario, ormai al limite della pazienza mentre Niki, come a non voler sentir ragioni, scuoteva il capo con fermezza:
“Non ha senso! Perché un bambino dovrebbe comprare 25 mele? Le mele fanno schifo! I bambini odiano le mele! Io voglio i biscotti!”
“Forse sua madre, suo padre o la vicina esaurita che dovrebbe finire di sistemare un abito deve fare delle torte di mela! Non è importante Niki, è importante il calcolo, devi sottrarre!”
“Io odio le torte di mele! Voglio il tiramisù!”
“Te lo sogni finchè non finisci! Metti in colonna!”
Kelly raddrizzò la schiena e incrociò le braccia sotto al seno, assumendo più o meno la stessa posizione intimidatoria con cui suo padre, quando non era in missione in qualche angolo del globo, la costringeva a fare i compiti esattamente come lei stessa stava facendo in quel momento. Niki tuttavia, esattamente come la sé bambina, non sembrò particolarmente impressionata e continuò imperterrita a guardarla torva.
La donna allora non vide altra soluzione: doveva ricorrere ai modi più estremi. Si voltò, raggiunse il bancone della cucina e quando tornò mise un piatto da portata pieno di cookies fatti in casa sotto al naso della piccola vicina:
“Li vedi questi? Li darò alla Signora McGinty, se non finisci i problemi.”
Finalmente la sua tattica sembrò funzionare, perché la sicurezza di Niki improvvisamente vacillò: la bambina ammutolì, sgranò inorridita gli occhioni color giada e il suo viso si fece improvvisamente scarlatto mentre, furiosa e punta sul vivo, agitava il libro di matematica.
Questi problemi non hanno senso!”
“Buona fortuna cocca, la vita è piena di problemi che non hanno senso apparente, facci l’abitudine!”
 
Mezz’ora dopo la tempesta era stata placata, i compiti di matematica archiviati e una parte di cookies mangiati, anche se Kelly dovette convincere la bambina a tenerne da parte almeno qualcuno per potarli a scuola il giorno seguente. La donna sedeva al tavolo della cucina liberato da libri e matite, sostituiti da una pesante macchina da cucire Singer, mentre Niki, esattamente come faceva a casa sua, guardava Sailor Moon seduta sul tappeto davanti alla tv, un biscotto in mano e tutta la sua attenzione rivolta sullo schermo.
Compiti o non compiti quei pomeriggi, nel corso di uno dei quali avrebbe anche imparato a giocare a poker, sarebbero stati i migliori di tutta la sua infanzia.

 
*

 
Sua madre amava cantare, ma non cantava più poi così spesso; quando la sera rincasava non sempre la radio era accesa, e non le spazzolava sempre i capelli prima di andare a dormire. A volte tornava troppo tardi, a volte non tornava affatto. C’erano sere in cui non aveva voglia di cucinare, e c’erano piatti e bicchieri sporchi che restavano nel lavello per uno o due giorni interi, fino a quando Niki, per bere del succo d’arancia, non decise di provare a lavare un bicchiere e un piatto sistemando la sua scaletta davanti al lavabo e infilando un paio di guanti di lattice gialli troppo grandi. Alla fine aveva spanto acqua su buona parte del tappeto e del pavimento, ma almeno i piatti erano puliti, e si era preparata una fetta di pane farcita da burro d’arachidi e marmellata sentendosi soddisfatta del suo operato.
Nel corso dei suoi primi due anni di scuola Niki, settimana dopo settimana, mese dopo mese, iniziò ad avere l’impressione che sua madre avesse iniziato ad amare qualcosa più della musica e del canto. Certo adorava ancora Whitney Houston, tanto da sedersi sul divano acanto a lei per guardare The Bodyguard ogni qualvolta in cui lo trasmettevano in tv e da alzare il volume della radio quando veniva trasmessa una sua canzone, ma la bellissima e melodiosa voce di sua madre non vibrava più così spesso tra le pareti dell’appartamento.
Quando non lavorava servendo ai tavoli a sua madre piaceva uscire la sera, anche se Niki non riusciva a capire perché non potesse andare insieme a lei. E soprattutto le piaceva bere quella specie di acqua per adulti che lei non poteva toccare. Non che ci tenesse, naturalmente: una mattina, mentre sua madre dormiva dopo essere rincasata dopo che lei si era già addormentata, era scesa in cucina per fare colazione e aveva trovato la bottiglia lasciata incustodita sul tavolo. Non era riuscita a trattenere la curiosità, a non svitare il tappo per annusarne il contenuto, e non le era piaciuto per niente, esattamente come il suo olfatto non gradiva l’odore che talvolta sua madre si portava appresso quando tornava a casa crollando vestita sul letto.
Il succo d’arancia era sicuramente molto più buono di quella strana acqua. Perché a sua madre piacesse tanto Niki non riusciva a spiegarselo.
 
Un mattino di dicembre fu proprio quella specie di acqua per adulti a far litigare sua madre e sua zia. Quel giovedì Niki era sgusciata fuori dal letto tremando nel pigiama di flanella cucitole dalla stessa Kelly – che da mesi non faceva che confezionarle abiti nuovi lamentando la sua crescita vertiginosa –, si era vestita in bagno e aveva fatto colazione bevendo il succo e spalmando del formaggio sulla metà di un bagel che Jerry le aveva regalato la sera prima. Jerry diceva che non si poteva vivere di bagel, ma Niki non era affatto d’accordo: erano buoni e non dovevano nemmeno essere cucinati. Avrebbe potuto mangiarli per tutta la vita.
La bambina aveva già infilato piumino, berretto e sciarpa quando era tornata al piano superiore per svegliare la madre, scrollandola leggermente per le spalle e chiamandola per chiederle di alzarsi e accompagnarla a scuola. Spesso faticava per costringerla ad alzarsi dal letto – probabilmente a sua madre piaceva dormire più che a lei –, ma quel mattino dopo non aver ripetutamente ottenuto risposta la bambina si allarmò: corse giù dalle scale e fuori di casa, andando a bussare freneticamente alla porta di fronte. La zia stava per uscire a sua volta ed indossava già sciarpa e cappotto quando le aprì chiedendole confusa e allarmata per quale motivo fosse così agitata, ma quando Niki la informò di come sua madre “stesse male” Kelly non reagì con la stessa concitazione della bambina. Dopo una breve esitazione la donna la superò, attraversando il pianerottolo fino ad entrare in casa attraverso la porta aperta e buttare malamente la borsa sul divano. Sembrava arrabbiata più che preoccupata, ma Niki non ne fu del tutto sicura mentre la seguiva su per le scale: a volte non era molto brava a capire cosa sentivano le altre persone.
Quando giunse sulla soglia della camera Niki scorse sua zia impegnata nella medesima operazione che l’aveva coinvolta fino a poco prima, anche se con molto più vigore: scrollare sua madre intimandole di alzarsi. Quando Maryna si limitò a mormorare qualcosa che la bambina non riuscì a comprendere prima di rigirarsi sul fianco Kelly si raddrizzò, studiando la vicina di casa tenendo le braccia rigide e distese lungo i fianchi. Niki era felice di aver sentito sua madre dire qualcosa, significava che non stava poi così male, ma non aveva mai visto sua zia tanto arrabbiata: dopo una breve esitazione la donna girò sui tacchi e lasciò furente la stanza, scendendo pesantemente i gradini scricchiolanti delle scale mentre la bambina restava immobile, appiattita sulla soglia e i pensieri in tumulto non sapendo cosa fare. Maryna era ancora immobile, avvolta dal piumone rosso e bianco che permetteva di scorgere solo i suoi arruffati e lunghi capelli scuri, e Niki stava per chiamare a gran voce la zia per chiederle cosa dovesse fare quando la sentì risalire.
Dapprima sollevata, Niki accennò un sorriso quando vide la donna rientrare a grandi passi nella stanza, superandola per piazzarsi di fronte al letto di metallo. La vide scostare con gesti bruschi le coperte, ma invece di aiutare Maryna ad alzarsi fece l’ultima cosa che Niki si sarebbe aspettata: la bambina non si accorse della bottiglia che Kelly aveva portato con sé dalla cucina finchè non la vide rovesciarsi impietosamente sulla testa e sul corpo longilineo di Maryna, che strillò e si mise a sedere di scatto sul materasso fradicio. I suoi capelli, Niki non l’avrebbe mai scordato, avrebbero puzzato di alcol per quasi due giorni interi.
“Alzati Maryna.”
Una volta la zia le aveva detto che suo nonno e suo padre erano stati dei militari, e ne aveva anche sposato uno, anche se quel marito Niki non lo aveva e non l’avrebbe mai incontrato. Eppure, mentre la guardava abbassare la bottiglia vuota e fissare impassibile sua madre stringendo le labbra, Niki pensò che lei stessa avrebbe potuto tranquillamente incutere un gran timore ad un intero reggimento.
“Che cazzo stai facendo?!”, domandò sgomenta Maryna mentre si passava una mano sulla fronte, levandosi l’alcol dal viso mentre la maglietta zuppa del pigiama le si appiattiva al corpo. Mentre Niki seguiva la scena attonita – non tanto a causa dello stato in cui versava sua madre, quanto più per lo sconcerto causato dal vedere le due donne infuriarsi l’una con l’altra –  Kelly si chinò leggermente verso il letto per mostrarle la bottiglia vuota, facendola oscillare davanti al viso dell’amica prima di sbatterla con veemenza sul comodino.
“Non sei più una ragazzina Maryna, perciò alzati da questo cazzo di letto. Tua figlia ti guarda.”
Entrambe volsero lo sguardo su di lei, Kelly ancora visibilmente furente e Maryna, invece, improvvisamente contrita, come se solo guardandola in piedi sulla soglia si fosse ricordata della sua presenza nella stanza, o nell’intera casa, ma anche se avesse avuto intenzione di dire qualcosa la vicina la precedette facendo un cenno alla bambina per invitarla a uscire dalla stanza:
“Ti accompagno io a scuola. Scendi, esci e aspettami da Jerry. Devo parlare con tua madre.”
Maryna sembrò sul punto di voler intimare all’amica di non dire alla bambina cosa fare, ma le parole le si bloccarono in gola e cambiò idea mentre chinava il capo, difficile dire se per mortificazione o rimorso; Niki, ancora scossa dalla scena cui aveva appena assistito, si limitò a mormorare impietrita di non avere il pranzo senza muoversi, restando in piedi davanti alla porta aperta sotto lo sguardo cupo di Kelly mentre sua madre, invece, continuava a tenere il capo chino.
“Chiedilo a Jerry, pagherò più tardi.”
Kelly si mosse verso la porta e la bambina indietreggiò d’istinto uscendo dalla stanza, facendo rimbalzare un’ultima volta gli occhi verdi sui volti delle due donne, così drammaticamente diverse nell’aspetto quanto nel carattere, prima che la zia chiudesse la porta tagliandola fuori da una conversazione che non avrebbe dovuto ascoltare.
 
 
“Mamma e la zia hanno litigato.”, asserì malinconicamente Niki poco dopo, quando dopo essere scesa in strada raggiunse Jerry e il gradevole aroma dei bagel caldi. C’era ormai qualcosa di profondamente rassicurante e familiare in quel profumo, una sorta di traccia mnemonica e affettiva, un’associazione inconscia che l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita: quando stringeva tra le mani un bagel avvolto da un fazzolettino Niki sapeva che tutto sommato le cose non sarebbero andate poi così male. Tutto si poteva aggiustare, era solito ripeterle bonariamente Jerry quando le porgeva una ciambella salata, farcita o meno, prima di chiederle di confidargli che cosa l’affliggesse, una pratica che anche se nessuno dei due ancora lo immaginava sarebbe rimasta invariata per tutto il corso dei dieci anni a venire.
“Non ti devi preoccupare, tua madre e Kelly sono molto amiche, e gli amici litigano. Succede, poi si fa pace e non ci pensa più.” L’uomo allungò alla bambina il sacchetto di carta che conteneva il suo pranzo ancora fumante, ma Niki non reagì con lo stesso entusiasmo di sempre, limitandosi ad annuire mentre si fissava le punte degli stivaletti ormai usurati. Da qualche tempo le facevano anche male, forse avrebbe avuto bisogno di scarpe più grandi, ma ancora non aveva avuto il coraggio di confidarlo a zia Kelly, né tantomeno a sua madre.
“Tu non litighi mai con qualche amico?”
Invece di rispondere Niki sollevò la testa per ricambiare lo sguardo di Jerry, incapace di dirgli quanta fatica facesse a farsi degli amici a scuola: non era facile per lei parlare con persone che non conosceva. A volte era difficile persino guardarle negli occhi.
“Tu sei mio amico, Jerry?”
“Certo. Pensi forse che io regali bagel a destra e a sinistra a tutti? Se lo facessi non comprerei più da mangiare.” Jerry si strinse nelle spalle, ma la sua risposta non sembrò soddisfare la bambina, che aggrottò la fronte resa solo parzialmente visibile dal berretto di lana che si era calata sulla testa prima di uscire di casa:
“Ma a te non serve comprare da mangiare, tu vendi cose da mangiare.”
Jerry reagì scoppiando a ridere, e Niki non fu certa di aver capito per quale motivo: non le sembrava di aver detto niente di divertente. Alle volte i grandi le davano della “bambina simpatica”, ma spesso e volentieri non riusciva proprio a comprenderne il perché.
 

 
*

 
Febbraio 1999
 

L’8 febbraio 1999 era iniziato come un lunedì simile a tanti altri: al suono della sveglia una bambina nel Queens era scivolata fuori dal letto, era andata a vestirsi e aveva svegliato sua madre, che quel mattino le era sembrata di ottimo umore, segno che quella sarebbe stata una giornata buona. Maryna l’aveva persino accompagnata a scuola, e anche se si era scordata di prepararle il pranzo Niki non ci aveva dato troppo peso: la sua non era e non sarebbe mai stata una personalità incline a credere nei miracoli.
Mentre salutava la sua bellissima madre prima di entrare a scuola Niki non aveva potuto fare a meno di osservare, ancora una volta, quando diversa lei fosse dalle madri di quasi tutti i suoi compagni. Non era solo per l’accento, il quartiere era pieno di stranieri che parlavano le lingue più disparate, e non era nemmeno solo per la sfolgorante bellezza di Maryna, una bellezza che catalizzava ogni sguardo su di lei quando varcava la soglia di una stanza. No, Maryna era diversa anche perché sembrava molto più giovane delle madri dei suoi compagni di scuola.
Nel corso della sua prima infanzia Niki aveva imparato a catalogare come “normali” moltissimi aspetti della sua vita che, qualche anno dopo, avrebbe compreso non esserlo affatto. Non essendo andata all’asilo, mondo di cui aveva appreso l’esistenza solo nel corso del suo primo giorno di scuola, quando Miss Hobbes aveva fatto riferimento a ciò che i bambini probabilmente “avevano già imparato l’anno prima”, Niki aveva sempre pensato che anche le altre madri fossero come la sua. Adulte, sì, ma molto giovani.
Quelle, invece, non lo erano. Non era brava a definire le età dei grandi – Jerry aveva sputato un sorso d’acqua quando aveva azzardato ad ipotizzare la sua, dandogli 60 anni, e zia Kelly, che di anni ne aveva 38, aveva rischiato lo svenimento quando l’affezionata bambina le aveva chiesto se ne avesse già compiuti 45 – ma persino al suo sguardo infantile appariva chiaro quanto sua madre fosse molto più giovane delle altre. E lo sapevano anche loro, a giudicare dai commenti che facevano, anche davanti ai loro stessi figli, che poi non tardavano a riportarli alla compagna di classe.
Sua madre era diversa dalle altre, Niki ne era sicura. Non era sicura del perché, perché non tutte le mamme erano giovani come lei, o perché lei non le preparasse il pranzo e la cena tutti i giorni come le altre mamme facevano, ma in fondo andava bene così: anche lei era un po’ diversa dagli altri bambini, dopotutto.
L’8 febbraio 1999 sembrava un lunedì come tutti gli altri: andò a scuola, seguì le lezioni, a matematica si annoiò, pranzò con quel che era rimasto dell’ultimo bagel che Jerry le aveva regalato sedendosi in un angolo del cortile, Matilda aperto sulle ginocchia.
Nel pomeriggio, finite le lezioni, uscì da scuola con lo zaino rosso sulle spalle e si incamminò in tutta calma, lasciando che i suoi compagni la superassero mentre fluivano di corsa fuori dal cancello cercando genitori, nonni o babysitter. Non perse tempo per cercare la madre con lo sguardo, era passato quasi un anno dall’ultima volta in cui Maryna si era fatta vedere all’uscita della scuola, e si diresse verso casa stringendo le bretelle dello zaino con le mani fasciate dalle moffole rosse, i piedi costretti dagli stivaletti troppo piccoli che le dolevano praticamente ad ogni passo.
Quando giunse in prossimità di casa alzò istintivamente lo sguardo dal marciapiede per gettare un’occhiata in direzione del banco di Jerry, studiando i ragazzini di passaggio che, usciti da scuola come lei, erano riusciti ad estorcere ai genitori i soldi per comprare un bagel per merenda. La bambina si fermò davanti ai gradini che l’avrebbero condotta all’interno del suo palazzo tenendo gli occhi verdi puntati sugli altri ragazzini del vicinato e su Jerry, che quando la vide le rivolse il suo consueto e caloroso sorriso.
Niki ricambiò il sorriso, agitò la mano destra in segno di saluto e poi si voltò verso la facciata del palazzo dando le spalle a Jerry, inconsapevolmente diretta verso il momento che avrebbe completamente cambiato la sua vita. La giornata era iniziata come un lunedì come tanti altri, anzi, sua madre l’aveva persino accompagnata a scuola, sembrava che quel lunedì dovesse rivelarsi una buona giornata, ma mentre saliva i gradini Niki ancora non sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui sarebbe tornata a casa avendo come principali preoccupazioni i compiti di matematica e la puntata successiva di Sailor Moon da guardare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il titolo della Raccolta riprende i versi conclusivi della canzone You Are My Sunshine di Jimmie Davis e Charles Mitchel e lo stesso fa il titolo di questa prima OS.
Riprendendo il discorso che ho fatto un paio di settimane fa in Quando la casa brucia il passato di Niki è molto significativo per capire il personaggio e in una qualche misura anche per la trama di Only Murders in the Building, perciò ho deciso di trattarla separatamente dividendola in alcune parti, a partire dai suoi primi anni di vita. Naturalmente non è fondamentale leggere nulla di ciò che scriverò a parte e farò menzione agli elementi rilevanti per la trama anche in OMITB, tutto quello che pubblicherò separatamente sono solo contenuti “aggiuntivi” e di approfondimento, perché Niki e alcune tematiche lo meritano.
Questa OS è relativamente leggera avendo come protagonista una Niki molto piccola che ancora non si rende del tutto conto di ciò che la circonda e di non condurre affatto una vita “normale”, ma non sarà lo stesso per le prossime, che saranno sensibilmente più pesanti. In generale credo che la lettura di questa raccolta non sia adatta a tutti data l’elevata presenza di Trigger Warning, ma provvederò a segnalarli nel seguito di questa prima parte.
Che altro dire, se avete letto sapete cosa – parzialmente – si cela dietro allo smisurato amore che Niki prova verso i bagel, penso che un vecchio amico sia fiero di lei ogni volta in cui ne mangia uno🤍
Grazie a chi si è preso la briga di leggere!
Signorina Granger
   
 
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