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Autore: An13Uta    24/02/2024    0 recensioni
[Umurangi Generation]
Una narrazione romanzata del mio percorso attraverso Umurangi Generation.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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THE METRO






Hanno preso i cadaveri dalle vostre mani come fossero sacchi di concime quando siete arrivati alla stazione.

Con stizza, velocemente, quasi in segreto. Per non farle guardare troppo a lungo dalla gente che aspetta i treni.

Tanto chi vuoi che le guardi.

Ci saranno anche abituati, ormai.


C'è poca gente, tutto sommato. Ti ricordi delle volte dove non si riusciva praticamente a respirare o muoversi anche solo di un millimetro, e bisognava schiacciarsi contro qualsiasi muro possibile per far passare almeno un po' quelli che scendevano dal treno, e poi la calca dove qualcuno immancabilmente finiva col diaframma mezzo spappolato per entrare.

Adesso la metro è completamente ferma.

La città è in lockdown.

Di nuovo.

Avete già avvertito chiunque se ne freghi appena di voi che siete qua giù, quindi non c'è nulla di cui preoccuparsi.

Siete solo voi quattro.


Gli altri o li hanno presi al checkpoint delle UN per chiedergli cose varie ed eventuali (forse per fargli imparare quello che dovranno dire ai giornali, il che potrebbe variare da bugie belle e buone a un racconto mitigato del disastro), o sono sgattaiolati a farsi i cazzi loro in un qualche pertugio. Ne avranno bisogno pure loro, poveracci. Con tutto quello che hanno visto.


Siete stanchi.

Aspettate sulle scale, guardando Pengi che dondola fino ad un soppalchetto di legno e là si blocca, con il suo sguardo strabico, come indeciso su cosa fare adesso che si trova dov'è. Gli altoparlanti fanno partire una playlist di Tariq. Ti senti male.



Il messaggio ti arriva in quel momento: una nuova lista di commissioni. Una boombox e una bomboletta spray, un kiwi, occhiali e trillby (controlli su internet, è un tipo di cappello), tre felci e una panchina, almeno sei manifesti di arruolamento, la parola “calamaro”, e due mascherine. Poi il solito – una cartolina e una foto ai tuoi amici.


Va bene. Va bene, ce la puoi fare. Almeno ti fai un giro.


Lo dici agli altri – state qua tranquilli che torno. E fatemi una posa bella per la vostra foto.



Ci provi, a divertirti, ci provi davvero tanto perché ne hai bisogno; ma raccattare rullini e scattare foto aspettando che passi il lockdown, tra tutta questa gente che aspetta e spera di sopravvivere, ti fa pensare troppo a Otumoetai e a quanto tu non abbia fatto una beneamata minchia di utile.

Non ti conforta l'albero soffocato sulla piattaforma sopra i binari, né i punkabbestia che ballano indavolati attorno a un mangiacassette, né quelli in tuta anti-contagio che controllano i container. Non ti confortano neppure i passeggeri che aspettano ripartano i treni, che fumano, che si disperano sulle panchine, che stanno in fila. Quello che riesci a pensare guardando la bambina con la mascherina è porca puttana, moriremo tutti.



Il drone ti aspetta davanti alla scalinata. Prima di consegnare le foto cerchi gli altri con lo sguardo.

Si sono messi nelle pose più minchione del mondo.


E ridi.


Ridi fino a piegarti in due, fino a tossire, e la prima foto viene mossa perché ridi troppo, e la seconda viene meglio perché gli vuoi bene.



Facciamo una festa, domani, dici.



Accettano.

   
 
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